Archive pour octobre, 2015

Greek Icon of All Saints

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Publié dans:immagini sacre |on 30 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI – OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO (2013)

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SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI

OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Cimitero del Verano

Venerdì, 1° novembre 2013

A quest’ora, prima del tramonto, in questo cimitero ci raccogliamo e pensiamo al nostro futuro, pensiamo a tutti quelli che se ne sono andati, che ci hanno preceduto nella vita e sono nel Signore. E’ tanto bella quella visione del Cielo che abbiamo sentito nella prima Lettura: il Signore Dio, la bellezza, la bontà, la verità, la tenerezza, l’amore pieno. Ci aspetta tutto questo. Quelli che ci hanno preceduto e sono morti nel Signore sono là. Essi proclamano che sono stati salvati non per le loro opere – hanno fatto anche opere buone – ma sono stati salvati dal Signore: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello» (Ap 7, 10). È Lui che ci salva, è Lui che alla fine della nostra vita ci porta per mano come un papà, proprio in quel Cielo dove sono i nostri antenati. Uno degli anziani fa una domanda: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?» (v.13). Chi sono questi giusti, questi santi che sono in Cielo? La risposta: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello» (v.14). Possiamo entrare nel Cielo soltanto grazie al sangue dell’Agnello, grazie al sangue di Cristo. È proprio il sangue di Cristo che ci ha giustificati, che ci ha aperto le porte del Cielo. E se oggi ricordiamo questi nostri fratelli e sorelle che ci hanno preceduto nella vita e sono in Cielo, è perché essi sono stati lavati dal sangue di Cristo. Questa è la nostra speranza: la speranza del sangue di Cristo! Una speranza che non delude. Se camminiamo nella vita con il Signore, Lui non delude mai! Abbiamo sentito nella seconda Lettura quello che l’Apostolo Giovanni diceva ai suoi discepoli: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce. … Siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è» (1 Gv 3,1-2). Vedere Dio, essere simili a Dio: questa è la nostra speranza. E oggi, proprio nel giorno dei Santi e prima del giorno dei Morti, è necessario pensare un po’ alla speranza: questa speranza che ci accompagna nella vita. I primi cristiani dipingevano la speranza con un’ancora, come se la vita fosse l’ancora gettata nella riva del Cielo e tutti noi incamminati verso quella riva, aggrappati alla corda dell’ancora. Questa è  una bella immagine della speranza: avere il cuore ancorato là dove sono i nostri antenati, dove sono i Santi, dove è Gesù, dove è Dio. Questa è la speranza che non delude; oggi e domani sono giorni di speranza. La speranza è un po’ come il lievito, che ti fa allargare l’anima; ci sono momenti difficili nella vita, ma con la speranza l’anima va avanti e guarda a ciò che ci aspetta. Oggi è un giorno di speranza. I nostri fratelli e sorelle sono alla presenza di Dio e anche noi saremo lì, per pura grazia del Signore, se cammineremo sulla strada di Gesù. Conclude l’Apostolo Giovanni: «Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso» (v.3). Anche la speranza ci purifica, ci alleggerisce; questa purificazione nella speranza in Gesù Cristo ci fa andare in fretta, prontamente. In questo pre-tramonto d’oggi, ognuno di noi può pensare al tramonto della sua vita: “Come sarà il mio tramonto?”. Tutti noi avremo un tramonto, tutti! Lo guardo con speranza? Lo guardo con quella gioia di essere accolto dal Signore? Questo è un pensiero cristiano, che ci da pace. Oggi è un giorno di gioia, ma di una gioia serena, tranquilla, della gioia della pace. Pensiamo al tramonto di tanti fratelli e sorelle che ci hanno preceduto, pensiamo al nostro tramonto, quando verrà. E pensiamo al nostro cuore e domandiamoci: “Dove è ancorato il mio cuore?”. Se non fosse ancorato bene, ancoriamolo là, in quella riva, sapendo che la speranza non delude perché il Signore Gesù non delude.  

OMELIA – 1 NOVEMBRE 2015 | 31A DOMENICA: TUTTISANTI – TEMPO ORDINARIO B

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OMELIA – 1 NOVEMBRE 2015 | 31A DOMENICA: TUTTISANTI – TEMPO ORDINARIO B

« Quelli che sono vestiti di bianco, chi sono e donde vengono? » La festa di oggi sembra fatta proprio a misura per ciascuno di noi: non intendiamo, infatti, celebrare qualche grandiosa figura di santo, che ci intimidisce con la sua statura gigantesca, per le opere ardite da lui compiute o per i prodigi che Dio ha operato per mezzo di lui. Si pensi a san Paolo, a san Pietro, a san Benedetto, a san Francesco, a san Giovanni Bosco, a don Orione, a Massimiliano Kolbe, o a Padre Pio, e a tantissimi altri che non finiremmo di elencare Questi hanno già la loro festa nel calendario: tutti li conoscono, li amano, li pregano, si affidano a loro come intercessori presso Dio.

I santi nostri « fratelli » Oggi invece la Chiesa intende celebrare il ricordo di una « moltitudine immensa, che nessuno può contare », come ci dirà tra poco l’Apocalisse (7,9), di cristiani di ieri e di oggi, vicini e lontani, che hanno servito fedelmente il Signore Gesù, vivendo lo spirito delle « beatitudini » nella trama della vita di ogni giorno, con semplicità, umiltà e perseveranza: padri e madri di famiglia, operai, professionisti, giovani, religiosi e religiose, ammalati, sofferenti, gente che molte volte non ha contato nulla nella vita. Tutti questi nostri fratelli nella fede, che già godono la visione di Dio, noi oggi ricordiamo nella preghiera, sentendoli vicini ai nostri bisogni e alle nostre necessità. Essi ci lanciano un appello ed una esortazione: alla santità appunto, che non consiste in cose straordinarie, o nel rifuggire dalle situazioni normali della vita, ma nel fare la volontà di Dio in ogni situazione della nostra esistenza. E a questo ci chiama semplicemente il nostro battesimo, per mezzo del quale siamo « rinati » a vita nuova in Cristo: la santità è precisamente lo sviluppo coerente e doveroso del nostro battesimo. Tutto questo ci ricordano gli infiniti santi che celebriamo oggi, molti dei quali sono passati accanto a noi: amici, parenti, conoscenti, forse nostro padre o nostra madre o i nostri figli. La festa di oggi, perciò, è l’esaltazione di quell’articolo di fede che recitiamo al termine del Credo e che forse talora ci sembra così lontano dalla nostra vita: « Credo… la comunione dei santi », mentre fa parte viva della nostra esperienza cristiana. E nella « comunione dei santi » ci scambiamo tutto: la santità dei nostri fratelli viene ad arricchire la nostra vita, stimola i nostri propositi, ci trascina verso l’alto; la nostra situazione di militanza terrena e di fragilità, molte volte anche di peccato, viene presa a cuore, quasi fatta propria da loro, perché anche noi approdiamo, dopo tanti rischi, al porto della salvezza eterna. È quanto cantiamo nel prefazio odierno: « Oggi ci dài la gioia di contemplare la città del cielo, la santa Gerusalemme che è nostra madre, dove l’assemblea festosa dei nostri fratelli glorifica in eterno il tuo nome. Verso la patria comune noi, pellegrini sulla terra, affrettiamo nella speranza il nostro cammino, lieti per la sorte gloriosa di questi membri eletti della Chiesa, che ci hai dato come amici e modelli di vita ».

« Poi udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo » Le varie letture bibliche illuminano, da vari punti di vista, la natura, le caratteristiche, le vie, la sorgente della santità. In questo senso mi sembra assai interessante la prima lettura, ripresa dall’Apocalisse, in cui san Giovanni, con il suo solito linguaggio immaginifico-simbolico, prima di descriverci la rottura del settimo sigillo (8,11), che preannuncia ed attua il grande « giudizio » di Dio sulla storia, ci presenta una scena quasi di « catalogazione » degli eletti, cioè di coloro che hanno accettato di lasciarsi « sigillare » da Dio per la salvezza. In realtà, non si tratta tanto di una « numerazione » o di una « conta », quanto di una « garanzia » che Dio « proteggerà » da ogni male coloro che a lui si affidano. « Dopo ciò vidi un angelo che saliva dall’oriente e aveva il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso il potere di devastare la terra e il mare: « Non devastate né la terra, né il mare, né le piante, finché non abbiamo impresso il sigillo del nostro Dio sulla fronte dei suoi servi ». Poi udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila, segnati da ogni tribù dei figli d’Israele… Dopo ciò apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e portavano palme nelle mani. E gridavano a gran voce: « La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello »… » (Ap 7,2-4.9-10). Stupisce in questa scena la quantità e l’universalità dei salvati. Essi provengono sia da Israele, rappresentato qui dai « centoquarantaquattromila segnati », cioè dodicimila per ogni tribù; sia dal mondo pagano: « una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua » (v. 9). Segno, questo, che per Iddio non ci sono barriere e che la sua salvezza è offerta a tutti senza distinzione.

« La salvezza appartiene al nostro Dio » Un’altra cosa qui da osservare è che non tanto gli uomini conquistano da sé la loro salvezza, quanto è Iddio che li salva nella gratuità del suo amore. Lo dicono gli stessi eletti: « La salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello » (v. 10; cf v. 12). Dio, però, non concede a prezzo facile la sua salvezza! È il senso della risposta alla domanda di uno dei vegliardi, che aveva chiesto chi fossero e « donde » venissero tutte quelle persone: « Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello » (v. 14). La « grande tribolazione », oltre che a indicare forse qualche ben precisa persecuzione (di Nerone o di Domiziano), allude a tutte le prove che la fedeltà al Vangelo immancabilmente porta con sé. Anche le « vesti candide », rese tali perché intrise nel « sangue dell’Agnello », rimandano alla passione, alla lotta, alla sofferenza che non sono un « accidens » nella vita dei cristiani, ma ne costituiscono la trama giornaliera, se vogliono essere fedeli al loro Signore.

« Carissimi, fin d’ora siamo figli di Dio » La seconda lettura ci offre un orizzonte più rasserenante. È ancora san Giovanni, che ci parla nella sua prima lettera e ci rimanda alla vera « sorgente » di tutta la santità, o piccola o grande, che noi possiamo realizzare nella nostra vita, cioè « l’amore di Dio », che talmente ci ama fino a generarci come suoi « figli ». L’amore più grande che si può realizzare fra gli uomini è quello che si esprime nel « generare » alla vita un figlio. È quello che Dio ha fatto per noi. « Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui… » (1 Gv 3,1-3). L’apostolo per primo è sorpreso davanti al « grande amore » che Dio ci ha dimostrato generandoci come suoi « figli ». Quasi per fugare la perplessità di qualcuno davanti ad un annuncio tanto alto, egli ribadisce: « E lo siamo realmente! » (v. 1). Il nostro rapporto « filiale » con Dio non è solo simbolico, ma « reale », tocca cioè il nostro stesso essere: c’è dunque qualcosa in noi che ci rende diversi da chi non ha la fede e non è stato « rigenerato » in Cristo. Però questo ci impegna anche ad una autentica santità: non si può appartenere alla « famiglia » di Dio, senza vivere degnamente questa nuova situazione di vita. È quanto l’apostolo dice al termine di questo brano: « Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso come egli è puro » (v. 3). Proprio perché la nostra filialità tocca il nostro essere, deve tradursi in coerente agire morale: la santità delle nostre azioni è necessariamente esigita dalla nostra « ontologia » cristiana. Tanto più che i traguardi ultimi della nostra assimilazione a Dio non sono stati ancora raggiunti: « Fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è » (v. 2). In attesa di quello che « saremo », dobbiamo fin dal presente renderci sempre più « simili » al Padre. La santità cristiana, in concreto, è proprio questo sforzo di « rassomiglianza » sempre più a Dio, seguendo fedelmente il suo Figlio nella sua vita e nell’ideale altissimo che egli ci propone nel suo Vangelo. Tanto più saremo « figli » quanto più imiteremo il « Figlio »!

Il paradossale annunzio delle « beatitudini » E così siamo arrivati alla sublime pagina di Vangelo, che propone alla nostra riflessione le « beatitudini », che sono il contrassegno più autentico della santità cristiana. Esse fanno da contrappunto a tutta la struttura liturgica. Infatti le troviamo come ritornello al salmo responsoriale e vengono di nuovo proclamate nell’antifona alla comunione. Quella che ritorna più frequentemente è la sesta: « Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio » (Mt 5,8), forse perché meglio delle altre esprime la situazione in cui si trovano oggi i santi, che già « contemplano » il volto di Dio « così come egli è » (1 Gv 3,2). Nell’impossibilità di commentarle tutte, vorrei prima dire qualcosa sul significato delle « beatitudini » in genere e poi fermarmi sulla quinta (« Beati i misericordiosi… »), perché mi sembra estremamente attuale. Prima di tutto, che senso hanno le « beatitudini »? Esse sono la proclamazione di una particolare presenza e benevolenza di Dio verso certe persone che si trovano in situazioni, o creano delle situazioni in cui, secondo la valutazione corrente, beatitudine o felicità non potrebbero trovarsi. Si pensi, ad esempio, all’ultima beatitudine: « Beati i perseguitati per causa della giustizia… Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia… » (vv. 10-12). Qui è evidente il paradosso: come ci si può sentire « felici » in mezzo alla persecuzione, alla calunnia, agli insulti? Non è questo un controsenso? Oppure si pensi alla seconda: « Beati gli afflitti, perché saranno consolati » (v. 4). Ma non è proprio il fatto di essere « afflitti » che contrasta con la « beatitudine », almeno come più comunemente si interpreta? Che cosa dire poi della prima: « Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli » (v. 3)? E non è forse vero che tutti ritengono che la « ricchezza » sia fonte di felicità?

Le beatitudini come segno della « conversione » del cuore Cristo, invece, capovolge i valori correnti e proclama che Dio è presente proprio là dove non si ha o non si ama la ricchezza, dove si piange, dove si soffre, dove c’è ingiustizia e persecuzione. In tal modo non ci sono più situazioni « maledette » nella vita, o persone infelici. Il « regno di Dio » irrompe dovunque, e il povero e l’afflitto possono entrarvi, mentre il ricco e colui che è sazio ne viene messo fuori. Questo però suppone un cambiamento interiore, una « conversione », o « metànoia », per esprimerci con il Vangelo: quando il povero non ha più terrore o tristezza della sua povertà, e non si crea un animo da ricco agognando anche lui di possedere quello che possiedono gli altri; quando colui che è « afflitto », non si ripiega su se stesso e magari guarda a chi è più afflitto di lui riacquistando così serenità alla sua vita, vuol dire che il povero, l’afflitto, il perseguitato, ecc., hanno scoperto che più che l’avere è l’essere che conta, più che possedere il potere è avere amore che conta, e così di seguito. Quando si arriva a scoprire questo, è « il regno di Dio » che ha fatto irruzione nel nostro cuore. E allora si è « felici », perché ci accorgiamo che Dio ci ama, ha cura di noi, anche se gli altri ci disprezzano o si dimenticano di noi. È evidente perciò che la « beatitudine » evangelica è un « dono » assolutamente gratuito di Dio: là dove la troviamo vuol dire che egli ha trasformato il cuore dell’uomo, lo ha « convertito ». Si pensi a san Francesco, che scopre la ricchezza nella povertà, o ai martiri cristiani di tutti i tempi che perdonano ai loro persecutori. Però, nello stesso tempo, è una conquista faticosa che ciascuno di noi deve fare, dando sempre più spazio all’iniziativa di Dio nel proprio cuore.

« Beati i misericordiosi… » A questo punto possiamo capire le altezze a cui ci chiama la quinta beatitudine: « Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia » (v. 7), che ritroviamo solo in san Matteo. La « misericordia » è un attributo tipico di Dio, come egli stesso si è qualificato, passando, avvolto nella nube, davanti a Mosè: « Il Signore, il Signore, Dio misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato… » (Es 34,6-7). Orbene, Gesù ci insegna che questa qualità di Dio deve diventare anche la nostra, quale conseguenza di quello stile di « imitazione » filiale, di cui abbiamo precedentemente parlato. Proprio in un contesto di amore, che si estende persino al perdono dei nemici, nel seguito del discorso della montagna Gesù dirà: « Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste » (5,48), il quale appunto « fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti » (v. 45). È questo stile di « misericordia », cioè di benevolenza e di accoglienza verso tutti, soprattutto verso i più bisognosi di amore, che sono le persone più emarginate e gli stessi nostri « nemici », che forse soffrono per la loro stessa cattiveria o durezza di cuore, che noi cristiani dobbiamo imparare ad attuare nella nostra vita. Non è forse per questa via che passa la « riconciliazione » di noi verso gli altri e di tutti gli uomini fra di loro? È attraverso i piccoli atti di amore, di perdono, di comprensione di tutti i giorni, che potremo ristabilire la concordia nel mondo.

« …perché troveranno misericordia » È quanto ci ricorda il papa Giovanni Paolo II in una sua Enciclica molto significativa: « Se tutte le beatitudini del discorso della montagna indicano la via della conversione e del cambiamento della vita, quella che riguarda i misericordiosi è, a tale proposito, particolarmente eloquente. L’uomo giunge all’amore misericordioso di Dio, alla sua misericordia, in quanto egli stesso interiormente si trasforma nello spirito di tale amore verso il prossimo. Questo processo autenticamente evangelico non è soltanto una svolta spirituale realizzata una volta per sempre, ma è tutto uno stile di vita, una caratteristica essenziale e continua della vocazione cristiana. Esso consiste nella costante scoperta e nella perseverante attuazione dell’amore come forma unificante e insieme elevante, nonostante tutte le difficoltà di natura psicologica e sociale; si tratta, infatti, di un amore misericordioso che, per sua essenza, è amore creatore. L’amore misericordioso, nei rapporto reciproci tra gli uomini, non è mai un atto o un processo unilaterale. Perfino nei casi, in cui tutto sembrerebbe indicare che soltanto una parte sia quella che dona ed offre, e l’altra quella che soltanto riceve e prende (ad esempio, nel caso del medico che cura, del maestro che insegna, dei genitori che mantengono ed educano i figli, del benefattore che soccorre i bisognosi), in verità, tuttavia, anche colui che dona viene sempre beneficato. In ogni caso, anche questi può facilmente ritrovarsi nella posizione di colui che riceve, che ottiene un benefizio, che prova l’amore misericordioso, che si trova ad essere oggetto di misericordia ». È così che facendo misericordia, otterremo anche noi misericordia, già qui sulla terra: ce la ritroviamo nei gesti stessi di amore che facciamo agli altri. È proprio vero che con il Vangelo dobbiamo sempre incominciare da capo! « In quanto parole il Vangelo ha 1900 anni; come effettualità pratica ha sempre da nascere. Milioni di milioni di uomini hanno detto di essere cristiani; ma noi abbiamo tutto il diritto di aspettare l’apparizione del primo autentico popolo cristiano » (Giovanni Papini). La festa di tutti i santi sta a dirci che questo popolo c’è; però abbraccia tutto l’arco della storia. Per parte nostra, con il loro aiuto, anche noi vogliamo farne parte.

Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 30 octobre, 2015 |1 Commentaire »

Chapel of Saint Ananias, Damascus, Syria,

Chapel of Saint Ananias, Damascus, Syria, dans immagini sacre chapel

http://www.historytoday.com/philip-jenkins/forgotten-christian-world

Publié dans:immagini sacre |on 29 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

ATTI DEGLI APOSTOLI 4,32-7,60

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/4-Atti_La_Prima_Comunita.html

ATTI DEGLI APOSTOLI 4,32-7,60

LA VITA DELLA PRIMA COMUNITA’

Gesù aveva indicato come prima tappa della testimonianza la città di Gerusalemme e Luca ne ha già parlato a lungo, ma non è ancora entrato nel pieno della vita concreta della comunità. Sì, ne ha fatto una breve descrizione in 2,42-47, un brano che abbiamo giudicato troppo idilliaco: la perfezione non s’improvvisa. Ora però la comunità è maturata e si trova perseguitata. In questo contesto, come vive la sua vita cristiana? Luca descrive due quadri (4,32-35 e 5,12-16) nei quali vengono ripresi e approfonditi i temi del primo (2,42-47). In essi si parla dell’attività degli Apostoli, della vita di comunione dei cristiani, e di un sempre più crescente favore popolare. Si continua pure a parlare di Pietro, ma anche di tutti gli altri Apostoli. Con loro siamo di fronte ai veri garanti storici della vita di Gesù, a contatto diretto con la Tradizione Apostolica. Gli Apostoli sono travolti dalla persecuzione, ma nulla e nessuno li ferma nella loro testimonianza. Ad un certo punto si parla della comunità che si ristruttura con l’elezione di sette diaconi, tra cui spicca Stefano di cui si narra il martirio. Ce n’è a sufficienza per mettere le nostre comunità a confronto con la prima e per sentire il bisogno di rimotivare la fede e di renderla sempre più coraggiosa, attiva, audace e soprattutto caratterizzarla da un profondo senso comunitario e missionario. Ma perché tutto ciò s’incida davvero in noi, lasciamoci guidare nella meditazione dalla preghiera che i discepoli innalzarono a Dio dopo la liberazione di Pietro e Giovanni dal carcere: “O Signore, concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta franchezza la tua Parola. Stendi la mano perché si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù”. Dopo aver pregato, il luogo in cui erano tremò e tutti furono pieni di Spirito Santo e annunziavano la Parola di Dio con franchezza. È questo che noi ora costateremo in continuità e lo vedremo sublimato nella passione di Stefano che morì nell’anno 36, a circa sei anni dalla Pasqua del Signore. Fraternità e amicizia (4,32-35) Il titolo offre uno sguardo panoramico di come vive quella prima comunità. La prima frase è incisiva: “La moltitudine dei credenti aveva un cuore solo e un’anima sola” (v. 32a), un’espressione che ne richiama un’altra notissima: «Amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima» (Dt 6,5). L’amore con cui si ama Dio è lo stesso con cui i credenti si amano a vicenda. È un amore in cui viene assorbita la totalità della persona: cuore e anima. Questo dà la possibilità di vivere totalmente rivolti agli altri e di realizzare quanto segue nel testo: “… e nessuno diceva sua proprietà quello che gli apparteneva, ma ogni cosa era fra loro in comune” (v. 32b). “Tra gli amici, infatti, le cose sono in comune, perché l’amicizia si manifesta nella comunione” (Aristotele). Ma come avviene questa comunione? Lo dicono i vv. 34-35: “Nessuno tra loro era bisognoso, perché quanti (parola che sarà poi ridimensionata) possedevano campi o case le vendevano, portavano l’importo di ciò che era stato venduto e lo deponevano ai piedi degli Apostoli e poi veniva distribuito secondo il bisogno di ciascuno”. Qui costatiamo come una vera comunione annulla le differenze sociali ed è logico che sia così. Infatti, se io vedo un mio fratello più bisognoso di me non sono in comunione con lui se non condivido quello che ho. Di qui una prima domanda: “Come nasce questa necessità?”. Nasce dall’ascolto della predicazione apostolica che rende testimonianza della Risurrezione di Gesù e che suscita “un amore generoso verso tutti” (v. 33). Così traduce Fabris nel modo più facile ed espressivo una frase che si potrebbe anche tradurre in modi diversi. Ma vi è una seconda domanda: “Era obbligatorio fare questo o era una scelta personale e libera? Luca risponde con due esempi. Innanzi tutto ci parla di un certo Giuseppe, soprannominato dagli Apostoli Barnaba, che significa “figlio della consolazione” (v. 36). Se lo hanno soprannominato così, significa che era una persona pronta all’aiuto degli altri e perciò non ci meraviglia quello che ha fatto. “Essendo padrone di un campo, lo vendette e ne consegnò l’importo deponendolo ai piedi degli Apostoli” (v. 37). Si spogliò di tutto e si diede all’apostolato. Lo ritroveremo ancora e sempre in atteggiamento d’aiuto. Non così invece si sono comportati Anania e la moglie Saffira. Anche loro hanno venduto un podere, ma poi insieme hanno deciso di consegnarne solo una parte come se fosse tutto il ricavato dalla vendita. Pietro si accorse che non erano sinceri e che stavano ingannando la comunità. Perciò disse: “Anania, perché mai satana si è impossessato del tuo cuore e hai mentito allo Spirito Santo? Prima di vendere il tuo podere non era forse tua proprietà e una volta venduto, il ricavato non era sempre a tua disposizione? Tu non hai mentito agli uomini, ma a Dio”. Innanzi tutto è chiaro che la condivisione è una scelta libera, è un’azione che deve nascere da un senso di vera comunione. Il loro gesto invece non è stato un gesto di comunione, come quello di Zaccheo che ha dato solo la metà di quello che aveva, meritandosi da Gesù la frase: «Oggi la salvezza è entrata in questa casa» (Lc 19,9). Il loro gesto fu pura apparenza e il rimprovero di Pietro assai duro: “Voi avete mentito allo Spirito Santo, a Dio, che santifica con la sua presenza la comunità; avete leso la santità della Chiesa. La loro non purezza di cuore, cioè la loro mancanza di lealtà, di sincerità, di rettitudine e il loro morboso attaccamento al denaro sono l’opposto dall’essere un cuore solo e un’anima sola e perciò si escludono da se stessi dalla comunità. Il fatto è che di fronte al rimprovero di Pietro caddero morti. “E un grande timore si diffuse in tutta la Chiesa”. Si tratta di un “timore reverenziale” che dà alla comunità il senso della presenza di Dio e del suo Spirito, fonte vera di comunione. Ogni comunità cristiana sa che per essere “un cuore solo e un’anima sola” i poveri debbono contare in essa. Non si tratta di fare l’elemosina, ma di condividere come fratelli.

Apostoli e discepoli insieme (5,12-15) Contempliamo questo indimenticabile quadro della prima comunità: “Molti miracoli e prodigi avvenivano fra il popolo per mezzo degli Apostoli. Tutti erano soliti stare insieme e concordi nel portico di Salomone. E nessuno degli altri osava associarsi a loro, ma il popolo li esaltava. E più che mai Dio aggiungeva (traduciamo così un passivo) credenti nel Signore (= nel Cristo Risorto), una moltitudine di uomini e donne” (vv. 12-14). La comunità qui appare in tutta la sua bellezza e la sua unità: Apostoli e discepoli insieme e concordi e, allo stesso tempo, si presenta come un gruppo giudaico ben separato dagli altri e in continua crescita. Questa realtà è tutta opera di Dio che opera prodigi per mezzo degli Apostoli e che suscita la fede in molti altri. Il loro inserimento nella tradizione ebraica è evidente. Si riuniscono, infatti, nel Tempio, il luogo più sacro del giudaismo e partecipano alle preghiere prescritte a tutti gli Ebrei. Nei versetti 15-16 Luca evidenzia Pietro e continuerà a farlo anche in seguito. È Pietro che più degli altri opera prodigi tanto che la gente porta i suoi ammalati e li depone dove pensavano che passasse affinché almeno la sua ombra toccasse qualcuno di loro. L’ombra era vista come continuazione della persona con tutti i suoi poteri. Questa immagine della comunità è quella che più sottolinea il favore e l’entusiasmo del popolo e questo non poteva non irritare i detentori del potere.

Gli Apostoli davanti al Sinedrio (5,17-42) “Allora il sommo sacerdote reagì e con lui tutti gli appartenenti al gruppo dei sadducei, fece arrestare gli Apostoli e li gettò nel carcere pubblico. Ma durante la notte l’angelo del Signore aprì le porte della prigione, li fece uscire e ordinò loro di ritornare nel Tempio e di annunciare tutt’intero il messaggio della vita”. È fantastica questa opposizione: alla reazione del sommo sacerdote c’è la controreazione di Dio. Infatti, l’antica espressione “l’angelo del Signore” indica l’efficace e potente presenza di Dio, che comanda agli Apostoli di ritornare nel Tempio e di predicare “il messaggio della vita”, cioè la Risurrezione di Gesù fonte di vita per chi l’accoglie. Quando al mattino si riunì il Sinedrio rimasero tutti perplessi sapendo dagli inviati al carcere che dentro non c’erano gli Apostoli. Non sapevano cosa fare, ma poi arrivò uno a dire che erano nel Tempio e che insegnavano. Li mandarono a prendere e quando li ebbero davanti il sommo sacerdote disse loro: “Non vi avevamo proibito di non insegnare più nel nome di «costui»? Ed ecco avete riempito Gerusalemme della vostra dottrina e volete far ricadere su di noi il sangue di quell’uomo” (v. 32). Non osa pronunciare il nome di Gesù. Ma lo fa Pietro, le cui parole cercano di coinvolgere i sinedriti. Inizia dicendo: “Bisogna ubbidire a Dio piuttosto che agli uomini”, poi continua: “Il Dio dei nostri padri (mio e vostro) ha risuscitato Gesù che voi avete fatto giustiziare appendendolo alla croce. Ebbene Dio lo ha innalzato alla sua destra facendolo guida e salvatore per concedere a Israele (e voi siete parte di Israele come noi) la possibilità di convertirsi e di ottenere il perdono dei peccati. È di questi fatti che siamo testimoni noi e lo Spirito Santo che Dio ci ha dato” (vv. 29-32). È fantastico come Pietro con poche e incisive parole riassuma il Kerigma primitivo, cioè il primo annuncio cristiano invitando anche il Sinedrio alla conversione. Non l’hanno ascoltato, anzi si esasperarono ancor di più e volevano farli uccidere. Ma si alzò un uomo saggio del partito dei farisei e disse loro: “Se questo movimento è di origine umana si distruggerà da solo, ma se è da Dio, correte il pericolo di combattere contro Dio” (v. 38). Lo ascoltarono, anche se decisi a continuare la persecuzione. Comunque, prima di rilasciarli, li fecero flagellare. Ed essi uscirono dal Sinedrio contenti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù e continuarono nel Tempio e nelle case ad annunciare che Gesù è il Messia.

Una comunità da ristrutturare (6.1-7) Gli Apostoli sono oramai travolti dall’entusiasmo dell’annuncio, ma ci sono anche i concreti problemi comunitari. Si accorsero che non potevano più pensare a tutto e che il loro compito fondamentale era quello dell’annuncio. Così di fronte al malcontento degli Ellenisti (giudei di lingua greca) verso gli Ebrei (di lingua ebraica) perché venivano trascurate le loro vedove nell’assistenza quotidiana, “i Dodici convocarono l’assemblea dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi trascuriamo la Parola di Dio per il servizio delle mense»”. Perciò proposero di eleggere sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza per questo incarico. L’assemblea elesse “Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas e Nicola e li presentarono agli Apostoli che, dopo aver pregato, imposero loro le mani”, segno del dono dello Spirito. Nessun compito, infatti, può essere affidato nella comunità cristiana senza questo rito, perché è lo Spirito che guida ogni apostolato. La nota che Luca aggiunge a questo evento dice che l’organizzazione della comunità in compiti diversi aumenta l’efficacia della sua missione. Lo dimostra quanto segue: “La Parola di Dio si diffondeva e aumentava grandemente il numero dei discepoli a Gerusalemme; anche un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede”.

Processo e martirio di Stefano (6,8-7,60) Luca, ha già fatto risaltare il nome di Stefano nella lista dei sette, ora lo presenta non solo dedito al servizio delle mense, ma anche fortemente impegnato nel ministero della Parola. Nessuno dei suoi avversari “riusciva a resistere alla sapienza e allo spirito con cui egli parlava” (6,10). Perciò sobillarono il popolo e lo condussero davanti al Sinedrio dove falsi testimoni dichiararono: “Lo abbiamo udito affermare che Gesù il Nazareno distruggerà questo luogo (= il Tempio) e sovvertirà i costumi tramandateci da Mosè. Tutti quelli che sedevano nel Sinedrio lo fissavano e videro il suo volto come quello di un angelo” (6,14-15). Il sommo sacerdote gli concesse la parola e Stefano diede inizio a un lungo discorso di accusa contro i suoi giudici che, continuando a “resistere allo Spirito Santo”, non fanno che ripetere il peccato dei loro antenati. Non possiamo soffermarci sull’intero discorso, il più lungo e più bello degli Atti; ci limitiamo a evidenziare un aspetto assai significativo. Chi ascolta Stefano si accorge che egli pensa a Gesù rifiutato dal suo popolo e poi costituito da Dio salvatore di Israele. Forse proprio per questo cita due casi simili nell’antica storia d’Israele. Giuseppe, figlio di Giacobbe, è stato rifiutato e venduto dai suoi fratelli, ma Dio era con lui e in Egitto lo rese salvatore di coloro che l’avevano rifiutato. Mosè è stato rifiutato dal suo popolo: “Chi ti ha costituito giudice su di noi?”. Ma Dio, nella terra di Madian, gli parlò dal roveto ardente e lo elesse salvatore del suo popolo. Ma poi, pensando al continuo rifiuto degli inviati di Dio, attacca i suoi giudici dicendo: “Gente testarda… Quale dei profeti i vostri padri non hanno rifiutato e perseguitato? Essi uccisero quelli che preannuciavano la venuta del «Giusto» del quale ora voi siete divenuti traditori e uccisori. Voi che avete ricevuto la Legge per mano degli angeli e non l’avete osservata” (7,52-53). Non l’avesse mai detto. Si infuriarono contro Stefano che, fissando il cielo, concluse il suo discorso dicendo: “Ecco, io contemplo i cieli aperti e il Figlio dell’uomo che sta alla destra di Dio”, cioè: Gesù è davvero risorto e Dio lo ha esaltato alla sua destra. Si turarono le orecchie, si scagliarono su di lui e lo trascinarono fuori dalla città, come Gesù (vedi Eb 13,12). Deposero i loro mantelli ai piedi di un giovane, chiamato Saulo e si misero a lapidare Stefano il quale pregava e diceva: “Signore Gesù, accogli il mio Spirito”, e poi, piegate le ginocchia urlò forte: “Signore, non imputare loro questo peccato”. Morì come Gesù, che, innalzato sulla croce, disse: “Padre, perdonali, non sanno quello che fanno” (Lc 23,34); e prima di spirare disse: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito” (Lc 23,46). Stefano è il discepolo che annuncia Gesù con la sua stessa vita, il vero testimone. E con la sua morte egli dice tutta la sua fedeltà al Dio dei padri.

Preghiamo Guarda, o Dio nostro Padre, le difficoltà che oggi incontriamo nell’annuncio e lascia che io ti rivolga a nome di tutte le comunità la preghiera che la prima comunità, travolta dalla persecuzione, ti ha rivolto: “Concedi ai tuoi servi di annunziare con tutta franchezza la tua Parola. Stendi la tua mano perché anche oggi si compiano guarigioni, miracoli e prodigi nel nome del tuo santo servo Gesù. Ed effondi su di noi la pienezza della Spirito Santo perché solo con la sua forza possiamo camminare nella storia con Gesù, tuo Figlio”. Amen!  Mario Galizzi sdb

SAN PAOLO – L’APOSTOLO DELLE GENTI, FEDELE A GESÙ CRISTO

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SAN PAOLO -  L’APOSTOLO DELLE GENTI, FEDELE A GESÙ CRISTO

(è un po’ lungo, ma interessante, alcuni riferimenti storici messi in rilievo)

S’intende qui affiancare agli avvenimenti accaduti tra il 34 e il 70, secondo la cronologia tradizionale, quali risultano dalla “Storia dei Vangeli”, quelli desumibili dalla biografia di san Paolo storicamente accertata, in particolare da Marta Sordi, che è stata docente di Storia romana e greca presso l’Università Cattolica di Milano ed è scomparsa il 5 aprile del 2009. Contemporaneamente si mostreranno le correzioni cronologiche necessarie a ristabilire la continuità dei fatti storici, risolvendo pure quei problemi di storia della Chiesa e di storia romana che sembrano un vero enigma. Gli eventi della vita di san Paolo lumeggiano in modo particolare la simpatia del mondo romano per il Cristianesimo nascente prima della svolta Neroniana, si pongono in continuità con l’opera di Teofilo presso Tiberio, spiegano la diffusione del Cristianesimo a Roma e poi in tutto l’Impero a partire dalle case romane (le chiese domestiche) tramite la conversione del paterfamilias o della domina con neutralità benevola del paterfamilias. Ancora oggi, come nell’antica Roma imperiale, la fede del paterfamilias e/o della domina (la moglie/madre) distinguono le famiglie cristiane da quelle non cristiane, con ripercussioni incalcolabili sui figli.   1 – La vita e la missione di San Paolo Nacque a Tarso, in Cilicia. Gli fu posto nome Saulo, che si dice Saulos in greco, Saul in ebraico, come il primo re di Israele. Ma il suo nome «era anche Paolo», dal latino, come è ricordato in At 13,9, ed egli cominciò a usarlo quando incontrò il proconsole Sergio Paolo a Cipro. La sua famiglia era della più rigorosa setta dei farisei. Ma possedeva anche la cittadinanza romana, ciò che appare insolito per i farisei, fortemente insofferenti alla dominazione romana sulla Palestina. Si suppone che sia nato nell’8 d.C., perché era detto “giovane” nel 34, quando era presente alla lapidazione di Stefano. Saulo crebbe a Gerusalemme e frequentò la scuola del sacerdote Gamaliele (At 22,3; 5,34), probabilmente fino alla scuola superiore, come era normale per i farisei. Quindi lo incontriamo al momento in cui avviene il martirio del diacono Stefano, facilmente riconducibile all’anno 34. Luca riferisce tutti i particolari di questo fatto, perché era presente a Gerusalemme già durante la vita pubblica di Gesù. Nella città lavorava come medico del Tempio e contribuì attivamente alla missione del Signore. Si deve qui introdurre una nota cronologica. Dall’1 al 34 d.C. il conto degli anni, che ci è stato tramandato dagli storici romani, fila liscio, ma dal 34 al 40 occorre inserire 3 anni in più andati « persi » durante il regno di Tiberio, come ci conferma proprio San Paolo nella lettera ai Galati (1,18; 2,1). I fatti riguardanti gli inizi della Chiesa si svolgono giusto a cavallo di questa lacuna cronologica. Ad esempio, grazie alla correzione della cronologia tradizionale, reintegrando i 3 anni « persi » da Tiberio, è possibile la conciliazione di alcuni dati cronologici riguardanti la vita di san Pietro. La tradizione vanta un settennato di Pietro in Antiochia e pone l’inizio di questo al quarto anno dai fatti della Passione. Ciò significa che il settennio ha inizio dal 37, ritenendo correttamente i fatti della Passione avvenuti nel 33; senza la correzione ciò appariva problematico perché, sempre secondo la tradizione, nel 42 Pietro era già a Roma. Se però collochiamo l’andata di Pietro a Roma nel 45 (42), i dati della tradizione potrebbero bene inserirsi in questo quadro cronologico. In seguito Pietro tornò a Gerusalemme e subì nel 47 (44) la persecuzione di Erode Agrippa, venendo arrestato, poi miracolosamente liberato, sicché poté tornare a Roma nel medesimo anno. È dunque necessario spostare avanti di 3 anni tutti gli avvenimenti, non astronomici, compresi tra il 37 e il 238. Le date sono di una certa qual importanza per stabilire su base logica la probabile verità di un avvenimento, o la improbabilità dello stesso, nel suo riferimento temporale. D’ora in poi useremo questa datazione e metteremo tra parentesi quella tradizionale. La cronologia riguardante san Paolo si ricava a partire dall’anno in cui Gallione era proconsole in Grecia (Acaia). Durante gli scavi archeologici al Tempio di Apollo a Delfi, nel 1892-1903, furono trovati alcuni frammenti di un’iscrizione su pietra. Vi si può leggere che l’imperatore Claudio, nella sua 26ª proclamazione imperiale, prende provvedimenti in favore di Delfi, dopo essere stato informato dall’amico proconsole Gallione del degrado in cui versa la città. La 26ª proclamazione imperiale di Claudio avvenne nella prima metà dell’anno 55 (52) (lo si ricava dal confronto tra un’iscrizione rinvenuta nella Caria, esaminata in Bull. Corr. Hell. 11,1887, pp. 306-308, un’iscrizione latina sull’acquedotto dell’Acqua Claudia alla Porta Maggiore di Roma e una notizia di Frontino nel De acquaeductu urbis Romae, 13 ss.). Si può ben ritenere che Gallione fosse all’inizio del suo mandato proconsolare e intendesse provvedere personalmente a ridare gloria al tempio di Apollo di Delfi. La carica proconsolare durava un anno, da primavera a primavera, per cui è ragionevole dedurre che Gallione l’abbia rivestita nel 55-56 (52-53). Quindi ebbe a difendere Paolo dalla gente di Corinto nell’anno 55 (52). Paolo era a Corinto da un anno e mezzo e prima aveva percorso varie città fino in Macedonia, per cui il Concilio di Gerusalemme risale al 52 (49). Infatti Paolo si era incontrato con gli apostoli a Gerusalemme, per il primo Concilio. Al momento di quell’incontro erano passati, come leggiamo nella lettera ai Galati, 3 + 14 anni dalla sua conversione. È arduo includere i 3 anni nei 14, mentre i conti tornano se aggiungiamo proprio quei 3 anni che Tiberio ha « perduto ». Se torniamo indietro di 17 anni a partire dal 52 (49), troviamo che l’anno della conversione di Saulo è stato realmente il 35 d.C., appena due anni dopo l’ascensione di Gesù Cristo al cielo. La conversione avvenne mentre il giovane si recava a Damasco per individuare i cristiani della città, denunciarli e farli imprigionare. Gesù parlò a Saulo in una luce che lo rese cieco per tre giorni, finché a Damasco incontrò un discepolo di nome Anania, dal quale ricevette il battesimo. Rimase là alcuni giorni insieme ai discepoli della città (At 9,19). Poi si dedicò a predicare nelle sinagoghe dei dintorni. Nella lettera ai Galati dice «in Arabia» (= territorio a sud di Damasco, regno dei Nabatei, con capitale Petra), senza precisare il motivo, i luoghi, il tempo trascorso e i risultati. In seguito tornò a Damasco, dove i Giudei fecero in complotto per sopprimerlo. Anche le guardie del governatore di Areta, re di Petra, vigilavano in favore dei Giudei. Ma i discepoli lo calarono dalle mura della città in una cesta ed egli andò a Gerusalemme, «dopo tre anni» dalla conversione, cioè nel 38 (35), «per consultare Cefa (Pietro)» (Gal 1,18). Che la fuga da Damasco sia avvenuta intorno a questa data è reso plausibile dal riferimento al re Areta di 2 Cor 11,32-34. Questo personaggio sarebbe il nabateo Areta IV, che poté esercitare un controllo, almeno parziale, della città damascena, peraltro inglobata nella provincia romana di Siria, solo per il periodo precedente la morte di Tiberio, cioè prima del 40 (37). Areta aveva vinto una battaglia contro Erode Antipa e aveva occupato la regione. La battaglia si era svolta dopo la morte di Giovanni Battista (32 d.C.), dopo la morte di Filippo, nel 33 d.C., ma anche, sicuramente, dopo il primo intervento di Vitellio nel 36 e prima che Vitellio insediasse Teofilo come sommo sacerdote a Gerusalemme, nel 40 (37), quando morì Tiberio (G. Flavio, Antichità Giudaiche, XVIII,106-124). Areta IV regnò dall’8 a.C al 43 (40) d.C. A Gerusalemme i cristiani lo accolsero inizialmente con sospetto, sapendo che era stato un loro persecutore (At 9,26-30). Il cugino Barnaba, che era ebreo e cristiano, si fece garante per lui e, da quel momento, divenne suo collaboratore. Così Saulo poté predicare nelle sinagoghe della città santa. Ma a un certo punto i Giudei volevano ucciderlo e i discepoli lo fecero partire per Tarso. Nella sua patria rimase dal 38 (35) al 46 (43) dedicandosi però, presumubilmente, alla predicazione nei dintorni, in Siria e Cilicia (Gal 1,21). Intanto i discepoli fuggiti da Gerusalemme, per la persecuzione iniziata con il martirio di Stefano, diedero origine a una vivace comunità ad Antiochia di Siria. Qui per la prima volta furono detti «cristiani». La tradizione cristiana ha conservato memoria di una grotta, detta di San Pietro, nella quale si sarebbe riunita questa Chiesa. Anche Barnaba era stato inviato dalla Chiesa di Gerusalemme ad Antiochia di Siria. In Atti 11,25-26 va a cercare Saulo nella vicina Tarso per farne un suo collaboratore e lo conduce ad Antiochia, che è la principale metropoli del medio-oriente. Qui Paolo rimane per alcuni anni. Dopo « un anno intero », Paolo e Barnaba si recarono a Gerusalemme (At 11,27-30; 12,21-25). Occasione del viaggio fu una colletta della chiesa di Antiochia per la chiesa di Gerusalemme in vista di una carestia che era stata predetta da un cristiano di nome Agabo. Dopo aver portato le offerte della colletta tornarono ad Antiochia conducendo con loro Marco e Luca, che in questa parte del suo libro non nomina se stesso. Ritornarono ad Antiochia dopo la morte di Erode Agrippa I, avvenuta nel 47 (44). Autori extra-cristiani ricordano la prolungata carestia in Palestina in quel periodo.   Prima missione – anni 48-52 (45-49) Era l’anno 48 (45); Saulo e Barnaba, con Marco e Luca, partirono da Antiochia per la prima missione. Notiamo subito che, se leggiamo le Lettere di san Paolo tenendo presente il quadro storico, comprendiamo meglio anche alcuni aspetti dei Vangeli, perché l’Apostolo delle Genti si riferiva costantemente «a ciò che è scritto» (1 Cor 4,6). Predicava il Vangelo che aveva ricevuto per rivelazione da Gesù stesso, ma lo rendeva più preciso consultando ciò che avevano scritto Luca e gli altri evangelisti. Applicava i Vangeli, già scritti, alle situazioni concrete. Si fermarono a Cipro, dove era proconsole Sergio Paolo, che si convertì a Gesù Cristo. Da questo momento Saulo, il cui nome «era anche Paolo» iniziò a usare il secondo nome, di origine latina. Poi i missionari passarono attraverso Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe in Licaonia. Quindi tornarono ad Antiochia di Siria. Paolo, 17 anni dopo la sua conversione, Barnaba e gli apostoli si ritrovarono a Gerusalemme per il primo Concilio Ecumenico, nell’anno 52 (49). Qui fu deciso di non imporre ai Gentili convertiti l’intera Legge di Mosè.   Seconda missione – anni 52-55 (49-52) Da questo momento iniziò il secondo viaggio missionario di Paolo, nelle comunità già presenti a Derbe e Listra. Lo Spirito Santo impedì  ai missionari di andare nella provincia dell’Asia minore e in Bitinia, per cui scesero a Troade, poi passarono in Macedonia, a Tessalonica e Berea, ad Atene e infine a Corinto. Qui Paolo rimase un anno e mezzo e trovò il proconsole Giunio Gallione che lo difese da un tumulto causato dai Giudei. Era l’anno 55 (52). È questo il periodo in cui Paolo detta le due Lettere ai Tessalonicesi, dopo essere stato impedito da satana di tornare a Tessalonica e dallo Spirito Santo di predicare nelle località in cui si trovavano le sette Chiese dell’Apocalisse. Nella prima lettera raccomanda che la si legga a tutti i fratelli, ossia a tutte le Chiese; nella seconda dice che autenticherà ogni lettera con i saluti e la sua calligrafia nello scriverli. Dobbiamo ricordare che quasi mai egli scriveva le lettere «di suo pugno» e ciò ha dato ingiustamente adito al sospetto che alcune di esse non siano autentiche. Queste due lettere preludono all’Apocalisse, profezia fondata sulla rivelazione di Gesù Cristo che si conclude con l’attesa del suo ritorno, all’improvviso come un ladro per chi non veglia e non lo attende. Ecco che cosa significa «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). Con i Tessalonicesi i missionari ne avevano ragionato, concludendo che non sarebbe stato un ritorno imminente, e l’Apocalisse elenca tutto ciò che il Figlio di Dio aveva profetizzato. Nell’Apocalisse, cap. 8, versetti 10-11, leggiamo: « E il terzo angelo suonò: cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia e cadde su un terzo dei fiumi e sulle sorgenti delle acque; il nome della stella si pronuncia: l’Assenzio; un terzo delle acque è diventato come assenzio; molti degli uomini sono morti a causa delle acque, perché sono divenute amare ». Le diverse immagini si possono interpretare in questo modo: « Uscì dalla Gerusalemme santa un grande predicatore, Paolo, ardente di Spirito Santo come una torcia, e percorse un terzo delle regioni interne e lontane dal Mare; il nome del predicatore si pronuncia: l’Apsinto, che ha il doppio significato di Assenzio e di Trace, perché Paolo si è spinto a evangelizzare fino alla Tracia; un terzo delle popolazioni delle regioni interne è diventato come assenzio; molti degli uomini ebrei di quei luoghi hanno creduto nel Cristo a causa di quelli che hanno ascoltato Paolo, conquistati dalla sua dottrina ». In 2 Ts 2,7 conosciamo l’opera svolta da Teofilo. Potrebbe risalire alla permanenza di Paolo a Corinto anche la Lettera agli Ebrei, non scritta direttamente da lui, ma forse da Apollo, giudeo di Alessandria collaboratore dell’Apostolo. In essa è celebrato Gesù, l’unico sommo ed eterno sacerdote della Nuova Alleanza. Il sacerdote che ben ci comprende, per aver patito sulla croce. Se leggiamo anche questa lettera in relazione alle due Lettere ai Tessalonicesi e all’Apocalisse, la scopriamo molto concreta, anzi gli insegnamenti, che ci appaiono a prima vista sublimi, si rivelano molto utili anche nell’apostolato di oggi. Poteva essere indirizzata a più comunità di Ebrei, come quella di Gerusalemme, quelle dell’Asia minore (Ap 2,10: alcuni Ebrei cristiani messi in prigione a Smirne), di Antiochia. In Eb 13,7.17 sono nominati «i vostri capi», più di uno come le comunità. Ecco perché mancherebbe un indirizzo preciso. Appena arrivato nella città di Corinto, Paolo aveva incontrato alcuni Ebrei (Aquila e Priscilla) venuti dall’Italia in seguito all’ordine di espulsione di Claudio (At 18,2; Eb 13,24). Quando successivamente partì da Corinto, passò a salutare diverse comunità, compresa quella di Gerusalemme, prima di tornare ad Antiochia (At 18,5.22; Eb 13,23). Dopo ciò si imbarcò verso Antiochia ma fece sosta a Efeso. In tutti questi viaggi c’era anche Luca. Nel viaggio per mare tra Efeso e Cesarea si incontra l’isola di Patmos e qui Luca si è probabilmente incontrato con Giovanni e gli ha suggerito l’idea dell’Apocalisse.  A questo proposito, dobbiamo far notare che l’espressione « per rivelazione » (= δι’ αποκαλυψεως), usata da san Paolo per la prima volta nella lettera ai Galati, è successiva a quest’incontro di Luca con Giovanni a Patmos. La troviamo in Rm 2,5; 8,19; 16,25; 1 Cor 14,6.26.30; Gal 1,12; 2,2; Ef 1,17; 3,3. L’Apocalisse di Giovanni fu realizzata, poco dopo l’incontro a Patmos, da uno scriba di Gamla, città-fortezza che si stendeva sul fianco meridionale di una collina rocciosa sul Golan, 8 chilometri a nord est del Lago di Galilea. Notiamo che Matteo conclude il suo Vangelo con la visita, che non è precisamente un’apparizione sul luogo, di Gesù risorto ad alcuni che erano su un monte insieme agli Undici (Mt 28,16-20). San Paolo ricorda che Gesù apparve «a più di cinquecento fratelli insieme» (1 Cor 15,6), che perciò dovevano già essere uniti da qualche motivo, prima di conoscere Gesù. Infatti, nei quaranta giorni delle apparizioni, il gruppo stesso più vicino a Gesù faceva fatica a trovarsi insieme. Il motivo che teneva uniti quei fratelli poteva essere il fatto di appartenere a una città particolarmente unita e isolata, quale appunto Gamla. Da qui erano partiti gli «uomini» che avrebbero voluto «rapire» Gesù «per farlo re», dopo che aveva moltiplicato i pani e i pesci (Gv 6,14-15). Poi, nei viaggi di Paolo, si nota che in una delle Chiese dell’Apocalisse collegate a Gamla, quella di Efeso, non era presente una comunità cristiana in città. Ma la comunità « giovannea » di Efeso viveva probabilmente, come a Gamla, su una collina fuori città. Ci sono notizie e dati archeologici che lo confermano.   Terza missione – da aprile del 55 fino alla Pentecoste del 58 (52-55)  Per il terzo viaggio missionario, Paolo andò a Efeso e poi attraversò le regioni dell’altopiano, compresa la Galazia. Si inserisce in questo contesto la Prima lettera ai Corinzi. 1 Cor 4,6: «…impariate a stare a ciò che è scritto (riguardo a Gesù Cristo)…». a) Paolo attribuisce importanza fondamentale allo scritto, rispetto alla sua predicazione a voce. b) C’erano già testimonianze scritte, i quattro Vangeli, giuridicamente più valide della trasmissione a voce, sulla vita e l’opera di Gesù Cristo. Paolo trasmetteva ciò che aveva ricevuto: era scritto e giuridicamente valido (1Cor 15,3). 1 Cor 12,4-31: «Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito». I carismi sono distribuiti dallo Spirito Santo nei battezzati (e cresimati) e basta fare attenzione a quello che lo Spirito opera in ciascun fedele, perché anche oggi tutti, nella Chiesa, possano riceverne beneficio. Quindi tornò a Efeso. Qui rimase per almeno 2 anni e 3 mesi. Forse proprio a Efeso gli giunse notizia che i « superapostoli » (che nell’Apocalisse sono chiamati Nicolaiti, « che si dicono apostoli e non lo sono », « che appartengono alla sinagoga di satana », il « drago », il « serpente antico ») stavano predicando anche nella Galazia un falso Vangelo, come avevano già fatto nelle Chiese nominate nell’Apocalisse. Da qui la Lettera ai Galati. La giustificazione, ossia l’adesione al Dio di Israele e Dio unico, avviene per tutti, Ebrei e Gentili, attraverso la fede e non per le opere della Legge. Questo non significa che non occorrano le opere della fede, ma che non sono necessarie la circoncisione e altre osservanze, richieste da Mosè ma non contenute nella promessa fatta in precedenza da Dio ad Abramo. In conrrispondenza di ciò, notiamo che anche nell’Apocalisse, dopo i centoquarantaquattro mila segnati delle tribù di Israele, viene una folla immensa «di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,9-10), che accolgono con palme il Regno di Dio e dell’Agnello (Gv 12,13). Poi passò in Macedonia. Durante questo soggiorno in Macedonia, pieno di tribolazioni, inviò la Seconda Lettera ai Corinzi, preoccupato com’era che i « superapostoli » non li facessero deviare dal Vangelo. In questa lettera (13,1) e in altre (1 Tm 5,19; Eb 10,28) troviamo l’espressione «sulla parola di due o tre testimoni», che incontriamo per la prima volta nel Vangelo secondo Matteo (18,16). Era probabilmente una formula usata dagli Ebrei nelle questioni legali, ma stabilisce anche un legame tra il Vangelo di Matteo e l’opera di San Paolo. Infatti questo Vangelo è la Nuova Legge, sancita da Gesù Cristo per gli Ebrei e per i Gentili, mentre Paolo, nelle sue lettere, mostra più volte che è necessario superare la Legge antica È un segno che il Vangelo di Matteo era già diffuso nell’impero romano. Tornò in Grecia, dove trascorse più di 3 mesi. In una sosta durante il viaggio di ritorno dalla Grecia venne scritta, per mano di Terzo, la Lettera ai Romani. Il fondamento di quanto è scritto nella lettera è ciò che leggiamo in Rm 1,3-4: «riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, certificato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore». Il tutto è di una concretezza rigidamente argomentata. Con questa attenzione si dovrebbe rivedere la traduzione di alcuni passi, per poterne riscoprire il valore pratico. – Predestinazione (Rm 8,29-30; Ef 1,11): non c’è niente di fatalistico in questa dottrina. Semplicemente Paolo vuole ricordare che dall’eternità anche i Gentili sono stati predestinati dal Dio di Israele alla salvezza, perciò chi è fedele a Dio non deve ostacolare il suo disegno eterno. Quindi andò a Mileto, tornò a Efeso e da qui, per nave, arrivò insieme a Luca a Cesarea e infine a Gerusalemme, all’incirca nei giorni della Pentecoste giudaica dell’anno 58 (55). Qui i Giudei, sapendo che Paolo aveva convertito molti Gentili, a Gesù Cristo e al Dio di Israele, ma che non aveva loro imposto la Legge di Mosè, lo accusarono di predicare contro il popolo ebreo, contro la Legge e contro il Tempio, anzi di aver introdotto nel Tempio il pagano Trofimo di Efeso.   L’arresto e l’appello a Cesare- anno 58 (55) La gente lo prese e voleva ucciderlo, cosicché il tribuno della città, avvertito, lo fece arrestare. Da Gerusalemme fu inviato a Cesarea, a causa dei tumulti che si continuavano a riaccendere contro di lui. Sembrerebbero state scritte durante questa prigionia la Lettera ai Colossesi e la Lettera agli Efesini (o ai Laodicesi). Ef 4,15: «Vivendo la verità nella carità». Paolo fu quindi giudicato da Felice, procuratore di Giudea. Questi, terminati i due anni del suo mandato, se ne andò e fu sostituito da Festo. Ma andandosene lasciò Paolo in prigione. Felice era stato inviato come procuratore della Giudea da Claudio, mentre stava compiendosi il dodicesimo anno del suo regno (Giuseppe F., A.G., XX,137-138), ossia nell’anno 56 (53) e ora correva l’anno 58 (55). Festo dunque giudicò di nuovo Paolo e lo fece anche il re Agrippa II, ma l’Apostolo delle Genti si dichiarò cittadino romano e si appellò a Cesare, che era in quel momento Nerone.   A Roma- anni 59-61 o 62 (56-58 o 59)  Fu allora trasferito via mare a Roma. La nave partì nel tardo autunno del 58 (55) e, a causa di una tempesta nelle acque di Creta, fece naufragio presso Malta. Si salvarono tutti e il viaggio riprese tre mesi dopo, all’inizio della primavera del 59 (56). Approdarono a Siracusa, poi a Reggio Calabria, a Pozzuoli e giunsero a Roma accolti dai fratelli cristiani. A Roma fu concesso a Paolo di abitare per conto proprio con un soldato di guardia. Trascorse così due anni interi e poté accogliere tutti quelli che venivano a lui. Nella Lettera ai Filippesi dice: «Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del Vangelo, al punto che in tutto il pretorio e dovunque si sa che sono in catene per Cristo» e il comandante dei pretoriani era Afranio Burro. Dobbiamo annoverare tra i visitatori anche Lucio Anneo Seneca, che ha in seguito intrattenuto con Paolo un carteggio in 12 lettere. L’epistolario ne comprende 14, ma due sono sicuramente false. Alcune di queste lettere sono datate con i consoli suffecti e con i consoli ordinari del 61 (58) e del 62 (59).   In Spagna? Infine il martirio- anni 62-70 (59-67) Negli anni seguenti, fino al 70 (67) a cui si fa risalire il martirio per decapitazione, Paolo può essere stato in Spagna (Rm 15,24.28) e forse anche in Dalmazia (Tt 3,12). Durante i viaggi successivi alla prima prigionia a Roma Paolo scrisse la Prima Lettera a Timoteo. 1 Tm 2,5: Gesù Cristo unico mediatore tra Dio e gli uomini. L’uomo Gesù è l’unico che ha storicamente e concretamente messo in comunicazione il mondo degli uomini con Dio Creatore e con il Cielo. Ciò non riguarda precisamente la preghiera, perché Dio accetta l’intercessione di tutti i suoi amici, compresi i nostri defunti. Successivamente scrisse la Lettera a Tito. Tt 3,12: «Quando ti avrò mandato Àrtema o Tìchico, cerca di venire subito da me a Nicòpoli, perché ho deciso di passare l’inverno colà». San Paolo fissa l’appuntamento per l’inverno a Nicopoli, che sembra identificarsi con una città dell’Epiro, l’odierna Albania. La città potrebbe essere stata chiamata così per celebrare la vittoria di Azio; in realtà molte città antiche portavano quel nome, celebrativo di una vittoria, ma in zone così differenti, che quella dell’Epiro sembra la più logica. Questo attesterebbe l’apostolato di san Paolo in Dalmazia, insieme aTito. Intanto Nerone aveva fatto uccidere la madre Agrippina nel 62 (59) e Afranio Burro nel 65 (62). Quindi aveva  iniziato a perseguitare i cristiani nell’anno 67 (64), dopo un incendio di Roma che gli storici latini attribuiscono alla volontà dell’imperatore stesso. Anche Seneca, nel 68 (65), fu costretto a togliersi la vita. Paolo, prigioniero a Roma per la seconda volta, scrisse la Lettera a Filemone. Appena precedente il martirio di san Paolo, nel 70 (67), sarebbe la Seconda Lettera a Timoteo, in cui egli dice: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Solo Luca è con me» (2 Tm 4,6-7.11). In quest’ultima lettera, (2 Tm 4,13) Paolo chiede a Timoteo di portargli «i rotoli e soprattutto le « membrànai »». Di che testi si trattava? Non certo dell’Antico Testamento, che Paolo poteva trovare in ogni sinagoga, ma dei Vangeli, già scritti ma non tutti pubblicati, e di sue annotazioni personali. Secondo la tradizione cristiana Paolo morì durante la persecuzione di Nerone, decapitato presso le Aquæ Salviæ. San Girolamo, verso fine IV secolo, precisa che fu decapitato a Roma e fu sepolto lungo la via Ostiense nel 37° anno dopo la passione, nel 14º anno di Nerone, due anni dopo la morte di Seneca. Il 37° anno dopo la passione di Gesù Cristo è da situare nel 70 d.C., mentre il 14° anno di Nerone (considerandolo non intero) dovrebbe essere, secondo il calcolo tradizionale, il 67 d.C. Questo è un ulteriore indizio che conferma la cronologia sopra esposta. Alle Aquæ Salviæ, in seguito fu edificata l’Abbazia delle Tre Fontane, mentre sul luogo del sepolcro è stata costruita la Basilica di San Paolo fuori le mura. Per secoli il sepolcro era stato rimasto nascosto sotto al pavimento della basilica. Lavori archeologici svolti tra il 2002 e il 2006 sotto la guida di Giorgio Filippi lo hanno riportato alla luce. Il 29 giugno 2009, nella cerimonia ecumenica conclusiva dell’anno paolino, papa Benedetto XVI ha annunciato i risultati della prima ricognizione canonica effettuata all’interno del sarcofago di San Paolo. In particolare, il sommo pontefice ha riferito che «Nel sarcofago, che non è mai stato aperto in tanti secoli, è stata praticata una piccolissima perforazione per produrre una speciale sonda mediante la quale sono state rilevate tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato di oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino. È stata anche rilevata la presenza di grani di incenso rosso e di sostanze proteiche e calcaree. …Piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14 da parte di esperti ignari della loro provenienza, sono risultati appartenere a persona vissuta tra il I e il II secolo. Ciò sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo Paolo. Tutto questo riempie il nostro animo di profonda emozione».   2 – L’impedimento di Nerone Dio diede a Nerone la facoltà di mettere in subbuglio la nazione ebraica, sconvolgendo l’ordine sociale e l’aspetto stesso della Palestina, e di mettere in contrasto insanabile Ebrei e Cristiani. Gli permise infatti di perseguitare i cristiani e di mettere in disparte Teofilo. Gli permise, con questo, di far perdere quasi del tutto le tracce dell’origine dei Vangeli e dell’Apocalisse, con la conseguenza che il loro stesso significato risultasse sconvolto. Dobbiamo anche notare che l’Islam nacque, cinque secoli e mezzo dopo, in seguito a questo contrasto tra Ebrei e Cristiani e per la presenza di eresie che laceravano la cristianità. In pratica questa religione ha occupato le lacune lasciate da Ebrei e Cristiani nel panorama del Regno di Dio. Nei nostri tempi Maria, con le apparizioni il giorno 13 di sei mesi nel 1917, in particolare l’ultima del 13 ottobre, anniversario dell’inizio dell’impero di Nerone, ci  indica la soluzione per i contrasti. È ora di superare l’impedimento, causato da Nerone e permesso dalla Provvidenza, al Regno di Dio nel mondo. Il Regno di Dio e la Chiesa, che lo rappresenta nel mondo, si distinguono decisamente dai regni del mondo. Ma l’odio o l’indifferenza verso la Chiesa non è un aspetto necessario. All’inizio i discepoli di Gesù «godevano la simpatia di tutto il popolo» (Ap 2,47) e i contrasti sono nati soprattutto sotto Nerone e durano tutt’ora allo stesso modo.   3 – Paolo, Luca, Matteo  È però opportuno notare la criticità di una concezione che vede san Paolo erede del Vangelo di Luca, come qui sosteniamo, mentre tradizionalmente si sostiene la derivazione del vangelo di Luca da san Paolo. La posta in gioco è grande. Noi sosteniamo che il Vangelo di Luca riporta le parole autentiche di Gesù, e da queste san Paolo deduce il superamento della Legge mosaica, mentre l’attuale Vangelo di Matteo è un rifacimento delle parole di Gesù, una variatio, a scopo editoriale, anche se tendenzialmente favorevole a un cristianesimo giudaizzante. Da parte di alcuni si sostiene invece che l’attuale vangelo di Matteo è quello originario, mentre quello di Luca sarebbe una versione filo-romana, priva cioè degli elementi filo-giudaici, dovuta all’influenza di san Paolo. Questi, di iniziativa sua, anche se appoggiata a rivelazioni, avrebbe predicato un cristianesimo filo-romano avulso dalla sua origine giudaica, in opposizione agli apostoli, che, fedeli alle origini giudaiche, sarebbero stati antiromani. Non ci sfugge dunque che una corretta ricostruzione della vicenda di san Paolo non può non avere ripercussioni sulla validità della tesi sulla derivazione del Vangelo di Luca da quello originario di Matteo, in aramaico, e che, se noi riusciamo a dimostrare che gli oppositori di san Paolo (il quale, per noi, si basa sul vangelo di Luca) non sono i giudeo-cristiani (i quali, secondo alcuni, si basano sul vangelo di Matteo) ma gli ebrei che non hanno accettato Gesù Cristo, la potenziale antitesi Luca – Matteo, che viene spesso usata per scardinare il Vangelo, non avrebbe più senso. Ragioniamo un momento sui dati a nostra disposizione. Il Prologo antimarcionita, (sec. II-III) dice: «Luca, un siro di Antiochia, di professione medico, discepolo degli apostoli, più tardi segui Paolo fino alla morte. Servì senza biasimo il Signore, non prese moglie né ebbe figli. Mori all’età di 84 anni in Beozia pieno di Spirito Santo. Essendo già stati scritti i Vangeli di Matteo in Giudea e di Marco in Italia, mosso allo Spirito Santo scrisse questo Vangelo nelle regioni dell’Acaia… ». In realtà si tratta della pubblicazione dei Vangeli, in particolare del Vangelo di Luca, rimasto fino a quel tempo in mano a lui e a Teofilo (nominato in una lettera dell’epistolario Seneca – Paolo), in attesa di un’eventuale possibilità di ripresentare in Senato una legge che riconoscesse Gesù Cristo come un dio, così che fosse lecito venerarlo nell’impero romano. Sosteniamo che il Vangelo di Luca riporta le parole che Gesù ha detto e le azioni che Gesù ha fatto, quali risultavano dalla cronaca aramaica di Matteo e da informazioni acquisite da lui stesso. Sono i « rifacitori » di Matteo, che semmai hanno introdotto nell’attuale Vangelo di Matteo gli elementi tipicamente filo-giudaici che non erano nella parole di Gesù. Che bisogno c’è di immaginare un intervento miracoloso per rendere possibile che Paolo suggerisse a Luca i particolari della vita del Signore, quando possiamo stabilire che Luca era presente a Gerusalemme durante i fatti ed è stato testimone di gran parte di essi? E in seguito, negli Atti degli Apostoli scrive solo avvenimenti che ha potuto seguire direttamente o da vicino. San Paolo, rifacendosi al vangelo di Luca e alle sue visioni, conferma che la missione autentica di Gesù comprende l’offerta della salvezza anche ai pagani (non più mediante la circoncisione, ma mediante il battesimo), e quindi il superamento della Legge mosaica. Non è quindi san Paolo che altera l’insegnamento di Gesù, ma possono essere stati i « rifacitori » di Matteo a non essere stati compresi, in quanto possono aver suggerito agli ebrei, destinatari del Vangelo di Matteo, o meglio, alla parte di essi di tendenza antiromana, l’idea che il superamento della legge mosaica fosse un’invenzione di san Paolo per conciliarsi le simpatie dei Romani, e non un elemento essenziale del messaggio di Gesù. Concretamente san Paolo deve all’evangelista Luca la grandezza della sua missione, per il fatto di essere sempre stato fedele a Gesù Cristo storico. Nei Vangeli ci sono sempre le autentiche parole di Gesù, ma non necessariamente tutte. Lo ammette anche Giovanni nelle due conclusioni del Vangelo che porta il suo nome: « Molti altri segni fece Gesù di fronte ai suoi discepoli, ma non sono scritti in questo libro » e: « Vi sono ancora molte altre cose che Gesù ha compiuto ». E non si esclude che esistano altri insegnamenti di Gesù risorto dati « per apocalisse (= δι’ αποκαλυψεως) » come e avvenuto per san Paolo. Del resto proprio gli apostoli che avevano conosciuto Gesù « secondo la carne » hanno autenticato l’insegnamento di Paolo, che non aveva conosciuto Gesù nel loro stesso modo, ma ciononostante lo hanno considerato equivalente. Che taluni discepoli degli apostoli, senza loro mandato, possano aver contestato a Paolo il titolo di apostolo, in nome di una arbitraria restrizione di questa qualifica a quelli che avevano seguito Gesù nella vita terrena, si evince da alcuni passi delle Lettere. Ma non prova nulla circa una possibile antitesi tra gli apostoli e Paolo. Anzi, autentici apostoli sono anche i cinquecento e più fratelli ai quali è apparso il Risorto, senza che da questa « investitura » siano nati problemi, a quanto sembra, con il gruppo dei Dodici. Se Gesù è Dio, non è illogico pensare che possa aver continuato il suo insegnamento, per mezzo dello Spirito Santo, anche dopo morto. Il che appare francamente inconcepibile, se Gesù fosse stato un rivoluzionario zelota, giustiziato per attività sovversiva antiromana.   4 – Pietro e Paolo   Abbiamo segnalato la possibile collocazione del settennato di Pietro ad Antiochia tra il 37 (35) e il 44 (41), con la conseguenza che l’andata a Roma nel 45 (42) sia stata una breve parentesi dopo questo settennato, sebbene sia importante perché vi fondò la comunità romana, e non abbia relazione con la persecuzione di Erode Agrippa del 47 (44), seguita dalla seconda andata a Roma, probabilmente definitiva anche se intercalata da viaggi come quello a Gerusalemme per il Concilio. 1) la data indicata da Eusebio (42 d.C., 45 secondo il computo corretto) potrebbe corrispondere alla data indicata dagli Atti degli Apostoli (12,17) in cui Pietro, liberato dalla prigionia di Erode Agrippa I, « se ne andò in un altro luogo », in quanto gli Atti non forniscono riferimenti per i pochi avvenimenti raccontati relativamente a questo periodo. 2) Agrippa fu re della Giudea dal 44 (41) al 47 (44). 3) All’anno 45/46 (42/43) risale anche la conversione a una « superstitio externa », che è sicuramente il Cristianesimo, di una donna di famiglia senatoria, Pomponia Grecina (Tacito, Ann. XIII, 32). 4) In seguito a questo primo viaggio a Roma, ricordiamo però che Pietro chiese a Marco di scrivere quello che aveva cominciato a raccontare senza una traccia scritta. Così dovettero tornare a Gerusalemme ambedue, Marco per poter rileggere gli altri tre Vangeli, Pietro per fornire all’evangelista le proprie testimonianze sui fatti. 5) È inoltre improbabile che Pietro, se fosse stato  imprigionato da Agrippa nel 45 (42), sia tornato a Gerusalemme di nuovo mentre Agrippa era vivo. 6) Si deve perciò ritenere che Pietro si sia recato a Roma una prima volta, non testimoniata dagli Atti, nel 45 (42) e una seconda volta nel 47 (44) (At 12,17). 7) Il martirio di Pietro avvenne il 13 ottobre del 67 (64), secondo la ricostruzione dell’archeologa Margherita Guarducci. Riteniamo fondamentale l’esatta cronologia dei soggiorni di Pietro a Gerusalemme (4 anni), ad Antiochia (7 anni) e a Roma (20 anni) per le implicazione sull’esercizio del Primato e sulla collocazione della Sede apostolica contro i sostenitori di un cristianesimo primitivo senza Primato e senza Sede, ma irrimediabilmente diviso tra giacobiti, giovannei, petrini e paolini. Sorprende che nel Nuovo Testamento non venga mai fatto accenno alla presenza di Pietro a Roma e che questa notizia ci pervenga solo da scritti successivi. Nella Prima lettera di Pietro (5,13) troviamo un enigmatico accenno: «Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio». Non sembra, però, che Pietro avesse bisogno di nascondere Roma sotto il simbolo « Babilonia », perché per 35 anni i Romani si mantennero favorevoli al Cristianesimo. È più probabile che questi saluti da Babilonia, la città orientale dove risiedeva da secoli una comunità ebraica, e da Marco, che era vicino a Pietro, siano stati raccomandati a Pietro separatamente l’uno dall’altro, mentre si trovava, ad esempio, a Gerusalemme per il primo Concilio Ecumenico, e che egli li abbia trasmessi simultaneamente «ai fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadòcia, nell’Asia e nella Bitinia» (1Pt 1,1) «per mezzo di Silvano» (5,12) collaboratore di Paolo. Babilonia non era un simbolo, altrimenti lo doveva essere di Gerusalemme, come risulta dall’Apocalisse. Si può invece notare che Pietro e Paolo si scambiavano liberamente i collaboratori, perciò erano costantemente in contatto tra loro, anche se non lo dicono. È bene inoltre ricordare che San Paolo era continuamente attento all’opera di tutti gli Apostoli. Si informava pure di quello che andavano compiendo i «più di cinquecento fratelli» (1 Cor 15,3) di Gamla. Se non lo teniamo sempre presente, comprendiamo poco l’opera di Paolo stesso. Può essere utile far notare che nella prima comunità romana fondata da Pietro non sembra ci siano stati conflitti sulla circoncisione e sulla reciproca frequentazione tra convertiti dal giudaismo e convertiti dal paganesimo, i quali si riunivano in case di privati (Rm, 16) e rimanevano estranei alla vita della comunità giudaica. Un documento del IV secolo precisa che i Romani «susceperunt fidem Christi, ritu licet iudaico». Ciò ricorda che anche a Roma, all’inizio, la fedeltà a Cristo e alla legge ebraica non erano in conflitto e che non fu certo Paolo, al suo arrivo, a provocare il conflitto, in quanto egli si attenne fedelmente alle parole del Signore risorto: «Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma”» (At 23, 11).   5 – Ragionamenti sul ritorno di Gesù   Gesù Cristo, nei giorni precedenti la sua passione e morte, pronunciò la profezia sulla distruzione del Tempio, sulla fine di Gerusalemme e sul Regno di Dio, con frasi apocalittiche (Lc 21,5-36). Nelle apparizioni dopo la risurrezione parlò ancora «delle cose del Regno di Dio» (At 1,3) e si può ritenere che abbia continuato a usare espressioni apocalittiche. I discepoli cercarono di interpretarle. Per noi è inevitabile confrontare i diversi testi del Nuovo Testamento per capire a quali conclusioni si era pervenuti nella Chiesa. Erano conclusioni piuttosto concrete, fondate su simboli che Gesù aveva usato. Che cosa si doveva attendere, presto? Sotto l’imperatore successore di Claudio, storicamente Nerone, messo in disparte Teofilo, ci sarebbe stata una grande sofferenza per gli Ebrei, per mettere alla prova tutto il mondo. Sarebbe stata distrutta Gerusalemme, per cui Roma non avrebbe più potuto servirsene per pervertire la vita sociale degli Ebrei. Le Genti avrebbero visto Gesù Cristo tornare sulle nubi del cielo, dopo lo sconvolgimento del « sole », della « luna » e delle « stelle », per regnare mille anni nel mondo. Gli eletti di Cristo, già morti con lui (prima morte), avrebbero partecipato a una prima risurrezione (reale, ma soltanto per gli eletti fedeli a Cristo) per regnare con lui mille anni. In tale periodo il « diavolo », che corrisponde a un gruppo di persone credenti nel Dio di Israele ma non fedeli a Gesù Cristo, sarebbe stato incatenato per mille anni. Dopo mille anni il « diavolo » sarebbe stato lasciato libero di agire per un po’ di tempo. In seguito, mentre Gesù Cristo avrebbe continuato a regnare nel mondo in modo meno evidente, un fuoco dal cielo avrebbe vinto « il diavolo » e l’avrebbe chiuso per sempre nell’abisso e ci sarebbe stato un giudizio universale. La prospettiva successiva era « la nuova città santa Gerusalemme », che sarebbe durata « secoli di secoli ». Non è chiaro se dopo « secoli di secoli » ci sarebbe stata la seconda risurrezione, per tutti, o se questa avrebbe dovuto essere dopo i mille anni. I Vangeli però dicono che Gesù Cristo tornerà alla conclusione dei secoli e allora ci sarà il giudizio finale. Dal nostro punto di vista, venti secoli dopo, possiamo constatare come si sono avverate storicamente alcune profezie del Cristo Re: – distruzione di Gerusalemme nel 73 (70); – persecuzione dei Cristiani fino al 313 (non era prevista in modo distinto); – circa mille anni (313-1303) di prestigio, anche politico, della Chiesa, corrispondente a un autentico regno di Cristo, che ha edificato una civiltà mai vista prima; – nel 1303, il Papa viene umiliato dal re di Francia, Filippo il Bello (Oltraggio o « Schiaffo » di Anagni); il 13 ottobre 1307 (1250° anniversario di Nerone imperatore) arresto dei Templari per ordine dello stesso re di Francia, per impossessarsi dei mezzi che essi impiegavano per le opere della Chiesa contro il male; di conseguenza forte limitazione della presenza attiva e caritativa della Chiesa nella società civile; – da allora, anche oggi, assistiamo all’offensiva del « diavolo » contro i Cristiani; – ora dobbiamo attendere forse, simbolicamente, la « seconda risurrezione », ma certamente la « seconda morte », in Cristo, di coloro che non avevano creduto in lui e, infine, la « nuova città santa Gerusalemme ».   Raffaele Licordari, con la collaborazione di Giovanni Conforti Aggiornato il 15 giugno 2015  

The Descent of the Holy Spirit

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Publié dans:immagini sacre |on 28 octobre, 2015 |Pas de commentaires »
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