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PERCHÉ NON CAPISCO LA BIBBIA? (LETTERE PAOLINE, ALTRE LETTERE, VANGELI)

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Giuseppe Guarino

PERCHÉ NON CAPISCO LA BIBBIA? (LETTERE PAOLINE, ALTRE LETTERE, VANGELI)

L’argomento del quale mi accingo a discutere è molto delicato. Ed è anche un problema molto serio. Capire o non capire il contenuto delle Sacre Scritture, il senso del loro messaggio, può infatti fare la differenza nella vita di un essere umano.
Scriveva l’apostolo Paolo a Timoteo: « … fin da bambino hai avuto conoscenza delle sacre Scritture, le quali possono darti la sapienza che conduce alla salvezza mediante la fede in Cristo Gesù. » (2 Timoteo 3:15)
La Bibbia è un libro storico, narrativo, persino poetico di indubbio valore letterario ed anche storico, ma è soprattutto la Parola di Dio, attraverso di lei Dio si rivela all’uomo, parla all’uomo.
Proseguiva così Paolo nella sua esortazione al suo caro Timoteo: « Ogni Scrittura è ispirata da Dio e utile a insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia, perché l’uomo di Dio sia completo e ben preparato per ogni opera buona. » (2 Timoteo 3:16-17)
Ero appena un ragazzo quando mi venne regalata la prima Bibbia, mi parlarono di Gesù e di questo meraviglioso libro che ha Dio ha donato all’umanità quale testimonianza della Verità. Da allora sono passati oltre trent’anni e non credo di essermi mai dedicato ad altro nella vita con altrettanta costanza e passione come lo studio della Parola di Dio.
Ero un adolescente quando lessi di Salomone e di come Dio aveva esaudito la sua preghiera di renderlo saggio (leggi se vuoi il brano). Allo stesso modo, come quel re antico, io, allora ragazzo, chiesi a Dio di darmi saggezza per capire la sua Parola. Oggi Lo ringrazio per il suo dono, perché è mia convinzione che la relativa facilità con la quale riesco ad avvicinarmi alla lettura ed allo studio della Bibbia non sia per una qualche mia facoltà o per mia intelligenza, ma sia veramente un dono di Dio, datomi in risposta alla mia preghiera specifica. Allo stesso modo, per completare il mio accenno di testimonianza, dirò che in questi molti anni di fede, ho potuto constatare in prima persona la verità del passo della Bibbia che dice: « Ma cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia e tutte queste cose (i beni materiali) vi saranno sopraggiunte. » (Matteo 6:33 Nuova Diodati)
Mi capita spesso, con una certa regolarità, di sentirmi dire da alcune persone (oneste, sincere di cuore) anche con un livello di istruzione medio – alto, che non riescono a capire la Bibbia. Ma come può accadere questo? E, soprattutto, perché accade?

Cerchiamo di capirlo.
Leggiamo cosa accadeva nei vangeli quando Gesù parlava alle folle.
Ad un certo punto del suo ministero, Gesù fa un’affermazione tanto significativa quanto sorprendente: « Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. » (Matteo 11:25). Continuando a leggere il vangelo di Matteo vediamo che il Signore insegna al popolo sotto forma di parabole. Addirittura leggiamo: « Tutte queste cose disse Gesù in parabole alle folle e senza parabole non diceva loro nulla. » (Matteo 13:34).
La Bibbia non dice nulla della reazione della gente alle parole di Gesù, ma ci dice dei discepoli. « Allora Gesù, lasciate le folle, tornò a casa; e i suoi discepoli gli si avvicinarono, dicendo: « Spiegaci la parabola delle zizzanie nel campo. » (Matteo 13:36)
Gesù spiega ai suoi discepoli il senso delle parabole dette in pubblico ed aggiunge altri insegnamenti privati alla fine dei quali, come farebbe ogni bravo insegnante, chiede apertamente: « Avete capito tutte queste cose? » Essi risposero: « Sì »" (Matteo 13:51)
Qual era la differenza fra le folle che tornavano a casa interrogandosi sul senso delle parole di Gesù, forse, come diciamo a Catania, più confusi che persuasi, e i discepoli? La semplice chiave per la comprensione delle parole di Gesù era andare da lui e chiedergli di spiegare il senso di quello che aveva detto – semplice; persino ovvio, no? Come ogni maestro che merita questo nome, anche Gesù non si è mai tirato indietro davanti a chi gli poneva delle domande o gli chiedeva delle spiegazioni.

La semplice chiave di lettura per la comprensione della Bibbia è chiedere a Dio di farci comprendere la Sua Parola!
E questo ci riporta alle parole di Gesù considerate poco fa: « Io ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e agli intelligenti, e le hai rivelate ai piccoli. » (Matteo 11:25). La comprensione della Parola di Dio non è possibile per via di sapienza o di intelligenza umana, ma è Dio che si rivela e che ci fa comprendere la Sacra Scrittura!
Adesso metto alla prova il lettore, quanto realmente forte sia il suo desiderio di comprendere, esaminando un discorso un po’ più complesso ma stimolante fatto dall’apostolo Paolo nella sua epistola ai Corinzi. Citerò a saltare da 1 Corinzi, capitolo 1 e 2, che invito poi il lettore a leggere per intero egli stesso per conto suo.
« Poiché la predicazione della croce è pazzia per quelli che periscono, ma per noi, che veniamo salvati, è la potenza di Dio; infatti sta scritto: « Io farò perire la sapienza dei saggi e annienterò l’intelligenza degli intelligenti ». Dov’è il sapiente? Dov’è lo scriba? Dov’è il contestatore di questo secolo? Non ha forse Dio reso pazza la sapienza di questo mondo? Poiché il mondo non ha conosciuto Dio mediante la propria sapienza, è piaciuto a Dio, nella sua sapienza, di salvare i credenti con la pazzia della predicazione. »
Non è forse vero che secondo i canoni di questo mondo, la crocefissione di Cristo appare come una sconfitta? Eppure è lì che la vittoria sul peccato e sulla morte cominciano e che la nostra salvezza diventa possibile. La sapienza umana non può conoscere Dio, le sue vie, i suoi piani, e per questo Paolo parla addirittura di follia del messaggio cristiano: perché tale appare secondo i canoni della logica umana e comune.
« I Giudei infatti chiedono miracoli e i Greci cercano sapienza »
Non è lo stesso anche oggi? Oggi potremmo sostituire il termine « giudei » con « religiosi ». Vi sono infatti molti « religiosi » che sono in cerca di miracoli per credere. Allo stesso modo vi sono persone che vorrebbero che la scienza o la filosofia ci spiegassero il senso della nostra fede in Cristo, il che è impossibile, perché la sapienza di Dio è talmente lontana dalla sapienza umana da diventare per l’uomo appunto follia!
Ma Paolo ribadisce: « ma noi predichiamo Cristo crocifisso, che per i Giudei è scandalo, e per gli stranieri (i non giudei) pazzia. »
Ed è bellissimo l’appunto dell’apostolo: « la pazzia di Dio è più saggia degli uomini e la debolezza di Dio è più forte degli uomini. »
Paolo conclude così il suo ragionamento: « Ma com’è scritto: « Le cose che occhio non vide, e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell’uomo, sono quelle che Dio ha preparate per coloro che lo amano ». A noi Dio le ha rivelate per mezzo dello Spirito, perché lo Spirito scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Infatti, chi, tra gli uomini, conosce le cose dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così nessuno conosce le cose di Dio se non lo Spirito di Dio. Ora noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito che viene da Dio, per conoscere le cose che Dio ci ha donate; e noi ne parliamo non con parole insegnate dalla sapienza umana, ma insegnate dallo Spirito, adattando parole spirituali a cose spirituali. Ma l’uomo naturale non riceve le cose dello Spirito di Dio, perché esse sono pazzia per lui; e non le può conoscere, perché devono essere giudicate spiritualmente. »
L’uomo « naturale » di cui parla il brano è l’essere umano che non conosce Dio e che non vuole conoscerlo. Ed è qui che fa il suo ingresso un altro personaggio, un altro insegnante, un altro rivelatore, come Gesù, della Parola di Dio: lo Spirito Santo. Se lo Spirito Santo non ci insegna e non ci rivela le cose di Dio, per quanto sapienti, intelligenti, istruiti, colti, possiamo essere, non riusciremo a comprendere le verità spirituali di cui parla la Bibbia.
Ma perché è importante il ruolo dello Spirito Santo?
Intanto direi subito, perché è proprio lo Spirito Santo che ha ispirato le Scritture, rendendole Parola di Dio. « Infatti nessuna profezia venne mai dalla volontà dell’uomo, ma degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo Spirito Santo » (2 Pietro 1:21)
Aggiungerei anche che è Gesù che, poco prima di tornare al Padre, ci ha detto che avrebbe lasciato allo Spirito Santo il compito che era stato suo durante il suo ministero terreno, di insegnarci e farci comprendere l’insegnamento della Parola di Dio.
Disse Gesù: « La parola che voi udite non è mia, ma è del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose, stando ancora con voi; ma il Consolatore, lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel mio nome, vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto. » (Giovanni 14:24-26).
Ecco quindi che lo stesso Gesù annuncia che il ruolo che lui aveva avuto con i suoi discepoli, l’avrebbe trasmesso allo Spirito Santo, il quale sarebbe stato inviato da Dio dopo la sua resurrezione ed ascensione. (Vedi libro degli Atti capitolo 1 e seguenti).
Non facciamoci abbindolare da alcuni che insegnano il contrario, lo Spirito Santo non è prerogativa di pochi, ma riguarda ogni vero credente che ha posto la propria fede in Cristo, ricevendolo come personale salvatore. Non ci facciamo poi prendere dalla pigrizia preferendo credere a chi vuole usurpare il posto dello Spirito di Dio e deferisce ad un’organizzazione o ad una gerarchia il monopolio della comprensione della Parola di Dio.
La comprensione della Parola di Dio è un privilegio ed un diritto di ogni credente, perché in ognuno che crede in Cristo dimora lo Spirito Santo.

Scrive l’apostolo Paolo nella stupenda epistola agli efesini: « In lui voi pure, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza, e avendo creduto in lui, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso » (Efesini 1:13)

Cosa fare quindi è chiaro:

- ascoltare la parola della verità, il vangelo, la buona notizia, della nostra salvezza cioè che Gesù Cristo « è stato dato (è morto sulla croce) a causa delle nostre offese ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione » (Romani 4:25). « Questa è la parola della fede che noi annunziamo; perché, se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato. » (Romani 10:8-9)

Cosa accade è semplice:

- avendo creduto in Cristo siamo figli di Dio. « ma a tutti quelli che l’hanno ricevuto egli ha dato il diritto di diventar figli di Dio: a quelli, cioè, che credono nel suo nome » (Giovanni 1:12).

Se siamo figli di Dio, Dio è nostro Padre e dimora in noi tramite lo Spirito Santo. « In lui voi pure, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza, e avendo creduto in lui, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è pegno della nostra eredità fino alla piena redenzione di quelli che Dio si è acquistati a lode della sua gloria. » (Efesini 1:13-14)

Tramite la fede in Gesù Cristo, « l’uomo naturale » di cui parlava Paolo ai Corinzi diviene « uomo spirituale », il cui spirito riceve vita per opera dello Spirito di Dio. Quest’uomo spirituale, guidato dallo Spirito Santo dimorante in lui, può servire Dio, comprende la sua Parola, vive cercando naturalmente di piacere a Dio obbedendo i Suoi insegnamenti.

Dio « ci ha salvati non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia, mediante il bagno della rigenerazione e del rinnovamento dello Spirito Santo, che egli ha sparso abbondantemente su di noi per mezzo di Cristo Gesù, nostro Salvatore. » (Tito 3:5-6)

Adesso che lo Spirito di Dio dimora in noi, la Parola di Dio diviene comprensibile, ma non secondo dei metodi comuni di comprensione o conoscenza. Conoscere e capire la Bibbia non significa accumulare delle nozioni, fare cultura, erudirsi in principi filosofici. La Parola di Dio compresa diviene una meravigliosa realtà interiore. « Questo è il patto che farò con loro dopo quei giorni, dice il Signore, metterò le mie leggi nei loro cuori e le scriverò nelle loro menti » (Ebrei 10:16). Leggeremo la Bibbia e il nostro cuore ci testimonierà che quello che leggiamo è Verità, mentre lo Spirito Santo ci illuminerà facendoci comprendere la volontà di Dio.

Queste cose riguardano altri, non me – diranno alcuni. Altri avranno vari tipi di obiezioni da opporre. La realtà invece è semplice – ed è per questo che è così facile per i piccoli, come diceva Gesù: basta riporre la propria fede in Dio, che non ci delude mai. Gesù ci ha infatti assicurato: « Se voi, dunque, che siete malvagi, sapete dare buoni doni ai vostri figli, quanto più il Padre celeste donerà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono! » (Luca 11:13)

Se chiediamo a Dio di illuminarci e farci davvero comprendere la sua Parola, apriremo la Bibbia e sentiremo la voce dello Spirito Santo, dolce e comprensibile, che parla ai nostri cuori con l’unico scopo di ricondurci alla comunione col nostro Padre Celeste.

 

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(1 Re 3:5-14)
« A Gabaon, il SIGNORE apparve di notte, in sogno, a Salomone. Dio gli disse: « Chiedi ciò che vuoi che io ti conceda ». Salomone rispose: « Tu hai trattato con gran benevolenza il tuo servo Davide, mio padre, perché egli agiva davanti a te con fedeltà, con giustizia, con rettitudine di cuore a tuo riguardo; tu gli hai conservato questa grande benevolenza e gli hai dato un figlio che siede sul trono di lui, come oggi avviene. Ora, o SIGNORE, mio Dio, tu hai fatto regnare me, tuo servo, al posto di Davide mio padre, e io sono giovane, e non so come comportarmi. Io, tuo servo, sono in mezzo al popolo che tu hai scelto, popolo numeroso, che non può essere contato né calcolato, tanto è grande. Dà dunque al tuo servo un cuore intelligente perché io possa amministrare la giustizia per il tuo popolo e discernere il bene dal male; perché chi mai potrebbe amministrare la giustizia per questo tuo popolo che è così numeroso? » Piacque al SIGNORE che Salomone gli avesse fatto una tale richiesta. E Dio gli disse: « Poiché tu hai domandato questo, e non hai chiesto per te lunga vita, né ricchezze, né la morte dei tuoi nemici, ma hai chiesto intelligenza per poter discernere ciò che è giusto, ecco, io faccio come tu hai detto; e ti do un cuore saggio e intelligente: nessuno è stato simile a te nel passato, e nessuno sarà simile a te in futuro. Oltre a questo io ti do quello che non mi hai domandato: ricchezze e gloria; tanto che non vi sarà durante tutta la tua vita nessun re che possa esserti paragonato. Se cammini nelle mie vie, osservando le mie leggi e i miei comandamenti, come fece Davide tuo padre, io prolungherò i tuoi giorni ».

 

PRIMA LETTERA DI PIETRO 3,18-33 – CRISTO TRIONFA PER MEZZO DELLA SOFFERENZA

http://www.ilcristiano.it/2010/ott10/libri_bibbia.htm

PRIMA LETTERA DI PIETRO 3,18-33 – CRISTO TRIONFA PER MEZZO DELLA SOFFERENZA

Incoraggiamento per il pellegrini

La conoscenza della sofferenze affrontate da Cristo per compiere l’opera di salvezza per l’umanità e, soprattutto, la conoscenza del suo trionfo sulla morte dovevano costituire un forte motivo di incoraggiamento per i cristiani del primo secolo, nel loro tormentato pellegrinaggio terreno, quotidianamente esposto a persecuzione e prove. Ma incoraggiano anche noi, “pellegrini” del ventunesimo secolo.

Introduzione
Il nostro brano (1P 3:18-22) si apre con una frase incredibilmente ricca di significato. Partendo dal fatto che molti dei suoi lettori erano chiamati a soffrire per il nome di Cristo, l’apostolo li incoraggia con l’esempio della sofferenza del loro Signore. Ma, nel parlarne, riassume, in termini indimenticabili, sia il motivo della morte di Cristo sia ciò che essa ha prodotto. Ecco la frase:
“Anche Cristo ha sofferto una volta per i peccati, lui giusto per gli ingiusti, per condurci a Dio” (v. 18a).
Il brano si chiude con un riferimento all’ascensione di Cristo e alla sua posizione attuale:
“Gesù Cristo… asceso al cielo, sta alla destra di Dio, dove angeli, principati e potenze gli sono sottoposti”.
Fra queste due dichiarazioni Pietro mette in relazione con la risurrezione trionfale di Cristo le seguenti cose: gli angeli che si ribellarono al tempo di Noè, il diluvio e il battesimo (vv. 18b-21). Per la sua brevità questo brano risulta di difficile interpretazione. Allo stesso tempo il fatto che l’apostolo considera il diluvio una pietra miliare nell’amministrazione divina della storia (si veda 2P 3:5-6; cfr. 2:4-5), aiuta a comprendere la sua scelta di servirsi di alcuni fatti inerenti a quest’evento come analogici dell’esperienza dei suoi lettori.
Il valore della sofferenza di Cristo (v. 18a)
Nel secondo discorso di Pietro riportato nel libro degli Atti, Pietro parla di Gesù come il Messia Servo venuto per soffrire (At 3:18, 26; cfr. 4:27). Nel nostro brano egli spiega il perché di tale sofferenza, ponendo l’enfasi innanzitutto sulla sua unicità:
“Cristo una volta…”.
Ne seguono delle parole che ne descrivono lo scopo: “per i peccati ha sofferto”.
Il valore unico e permanente della sua sofferenza trovò eco in un evento concomitante con la sua morte sulla croce.
Ecco come l’apostolo Matteo lo descrive:
“Ed ecco, la cortina del tempio si squarciò in due, da cima a fondo…” (Mt 27:51).
Quest’evento indicò in modo figurativo l’obiettivo che era stato raggiunto con la morte di Cristo. Per usare una frase di Paolo, il Messia Servo “ha cancellato il documento a noi ostile, i cui comandamenti ci condannavano, e l’ha tolto di mezzo, inchiodandolo sulla croce” (Cl 2:14).
A rendere necessario il sacrificio unico di Cristo erano sia la giustizia di Dio sia il suo amore che l’ha indotto a provvedere a soddisfare la propria giustizia per mezzo dell’incarnazione del Figlio che si è sostituto all’umanità peccatrice, “lui giusto per gli ingiusti”, come aveva predetto il profeta Isaia (53:11).
Alla luce del valore unico, sufficiente e permanente del sacrificio del Figlio di Dio incarnato, ogni pretesa di offrire a Dio ulteriori sacrifici per espiare i peccati evidenzia una mancanza di comprensione del valore di questo suo sacrificio. Dal momento che Cristo è morto al nostro posto, noi non dobbiamo più morire per i nostri peccati!
L’unica cosa che dobbiamo fare, per “fare le opere di Dio” (Gv 6:28-29), è di credere in Gesù, che ha compiuto l’opera che il Padre gli aveva affidato (Gv 17:4).
La frase termina con le parole: “…per condurci a Dio”, facendo comprendere che il sacrificio di Cristo rende Dio propizio nei nostri confronti. Quando noi ci presentiamo al Padre nel nome di Cristo, Dio Padre ci riceve come persone ubbidienti in quanto rivestiti della giustizia di colui che ha ubbidito al Padre per conto nostro (Ro 5:19). In altre parole, la morte di Cristo ha effettuato la riconciliazione fra Dio tre volte santo e l’uomo peccatore.
Chi si affida al Salvatore non è più distante da Dio e non ha bisogno di altri mediatori umani per avvicinarsi a Dio quando prega o adora il Dio vivente e vero.

Il trionfo di Cristo (vv. 18b, 22)
Sempre come esempio del valore che la sofferenza ingiusta possa rappresentare nella vita dei pellegrini cristiani, Pietro descrive l’esito della sofferenza di Cristo. Ecco le sue parole:
“Messo a morte nella carne ma vivificato nello spirito… essendo passato attraverso il cielo, Egli è alla destra di Dio, essendogli sottoposti angeli, principati e potenze” (vv. 18b, 22).
Come, nella sua morte Gesù ha trionfato sul peccato che aveva separato l’umanità da Dio, così nella sua risurrezione ha trionfato sulla morte stessa per poi ascendere in cielo e prendere il posto che gli spetta alla destra del Padre da dove regna supremo sopra ogni altra autorità. Ricordarsene può essere di grande incoraggiamento per i cristiani pellegrini che affrontano vari tipi di persecuzione e ingiustizia, in quanto partecipano nel trionfo di Cristo, loro sostituto.
Prima di considerare il resto del brano è importante notare il parallelismo e il contrasto fra “carne” e “spirito” nella seconda parte del v. 18. Gesù fu “messo a morte quanto alla carne” e fu “vivificato quanto allo spirito”, quale premessa della sua posizione attuale di supremazia nell’universo (si veda anche Mt 28:18). Il soggetto indicato dal verbo “vivificare” (zoopoietheis) non può essere altro che la sua risurrezione, in quanto il verbo presuppone che ciò che viene vivificato sia passato per lo stato di morte. In altre parole non può riferirsi all’esistenza spirituale di Gesù durante il periodo che va dalla sua morte alla sua risurrezione.
Come previsto per il corpo di risurrezione di “quelli che sono di Cristo” (1Co 15:22-23, 42-46), il verbo zoopoieo è usato da Pietro per descrivere la risurrezione in un nuovo tipo di corpo, compatibile con la sfera “spirituale” (gr. en pneumati), esattamente come il corpo di “carne” aveva reso il Figlio di Dio partecipe della vita sulla terra, per poter morire come nostro sostituto.

La proclamazione trionfale di Cristo (vv. 19-20)
La parte centrale di questo brano inizia con la locuzione “in esso” (gr. en ho). Tale pronome relativo corrisponde, quanto a numero e genere, alle parole “in spirito” (gr. en pneumati, v. 18b), quindi fa riferimento allo stato di risurrezione di Cristo.
Prendendo sul serio questo dettaglio grammaticale, il ventaglio di possibili interpretazioni di questi versetti si riduce notevolmente. Infatti gli interpreti che, basandosi sull’uso del pronome relativo altrove nella lettera (si veda 1:6; 2:12; 3.16; 4:4) attribuiscono a questa locuzione il senso generico di “nel periodo che passava fra la morte e la risurrezione di Cristo”, trascurano il fatto che qui, a differenza degli altri casi citati, esiste una precisa corrispondenza grammaticale.
In pratica l’interpretazione che attribuisce alla locuzione il senso generico di “nel periodo che passava fra la morte e la risurrezione di Cristo”, si ispira più al testo del Credo Apostolico, nella versione del 390 d. C., secondo cui Gesù “fu crocifisso, morì e fu sepolto, discese all’inferno, il terzo giorno risorse dai morti…”, che non al testo della 1Pietro.
Questa serie di eventi fa comprendere che Gesù avrebbe fatto il suo annuncio agli “spiriti trattenuti in carcere” dopo la sua morte e prima della sua risurrezione e, per farlo, avrebbe dovuto visitare l’inferno. Ma il testo di un Credo dovrebbe basarsi sul testo biblico e non vice versa. L’idea che Cristo sia sceso nell’inferno dopo la sua morte è una deduzione da brani quali Romani 10:7, Efesini 4:8-9 e dal riferimento a “morti” in 1Pietro 4:6, però nessuno di questi brani richiede una simile interpretazione. D’altra parte la dichiarazione di Gesù al ladrone sulla croce: “oggi sarai con me in paradiso” (Lu 23:43) nonché le sue parole: “Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio” (Lu 23:46), sembrano escludere tale ipotesi.
Secondo Grudem i versetti 19-20 insegnerebbero che Cristo aveva predicato agli spiriti ora tenuti in carcere tramite Noè mentre questi costruiva l’arca. Anche quest’interpretazione ignora sostanzialmente la corrispondenza grammaticale fra il pronome relativo “in esso” (v. 19) e l’ultima frase del v. 18, secondo cui a predicare fosse il Cristo risorto.
Inoltre, quest’interpretazione presuppone che gli “spiriti” a cui si fa riferimento nel v. 19 siano quelli degli uomini che erano ribelli al tempo di Noè. Ma in questo caso sarebbe stato più naturale scrivere “gli spiriti trattenuti in carcere di coloro che una volta furono ribelli” e non già “gli spiriti trattenuti in carcere che una volta furono ribelli”. Prese alla lettera le parole di Pietro sembrano indicare esseri spirituali.
Secondo una terza interpretazione, “gli spiriti trattenuti in carcere che una volta furono ribelli” nel periodo in cui Noè stava preparando l’arca, sono da identificare con degli angeli ribelli che tentarono di far scomparire la discendenza che faceva capo a Set, che temeva Dio (Ge 4:26). Avrebbero corrotto queste persone o simulandosi esseri umani e avendo rapporti sessuali con i discendenti di Set, per compromettere spiritualmente la loro prole, oppure inducendo le persone che discendevano da Set e che temevano Dio a sposare i discendenti profani di Caino (cfr. Ge 6:1-3; 2 P 2:4-5).
Pietro stesso conferma che angeli ribelli furono coinvolti nel peccato che provocò il giudizio del diluvio (2P 2:4-5). Se, come credo, questa è l’interpretazione giusta, le parole “in esso andò anche a predicare” si riferirebbero a un annuncio fatto da Cristo, della sua definitiva vittoria, a questi angeli.
Tali angeli sarebbero da identificare con “i principati e potenze” su cui Cristo aveva trionfato “per mezzo della croce” (Cl 2:15). Il Cristo risorto avrebbe fatto quest’annuncio mentre attraversava i cieli nella sua ascesa alla destra di Dio, da dove esercita un potere assoluto sopra di loro (1P 3:22; Eb 2:14-15; 4:14; 1 Co 2:6-8).

Battesimo e risurrezione di Gesù Cristo (vv. 20-21)
Dopo la menzione dell’annuncio fatto da Cristo ai “spiriti trattenuti in carcere”, Pietro inserisce una parentesi in cui parla delle persone che scamparono al giudizio divino che cadde sull’umanità indotta a peccare al tempo di Noè.
Il soggetto in questi versetti è la salvezza di alcune persone dal diluvio, una circostanza che Pietro considera analogica con la salvezza di cui sono eredi i suoi lettori.
Un dettaglio del v. 20 suggerisce che il motivo di questo accostamento sia il contesto di persecuzione in cui queste persone erano chiamate a vivere. Mi riferisco alla precisazione che nell’arca “poche anime, cioè otto, furono salvate…”. In modo simile i lettori della prima lettera erano una minoranza nel mondo pagano e quindi costretti a vivere “come forestieri dispersi” spesso incompresi e trattati ingiustamente (1:1). Le otto anime salvate dal diluvio e i primi lettori della 1Pietro avevano in comune anche l’esperienza di essere in qualche modo “salvate attraverso l’acqua”.
Nel caso dei lettori della 1Pietro, l’immersione (gr. baptisma) in acqua corrispondeva al momento in cui avevano confessato la loro fede in Gesù Cristo come il loro Salvatore e Signore (cfr. Mr 16:15-16; At 2:38; 10:43-48). Pertanto, come non era stata l’acqua in sé a salvare Noè e la sua famiglia, bensì l’arca costruita in obbedienza alla Parola di Dio, così il battesimo, comandato da Cristo, non era stato la causa efficace della salvezza dei pellegrini cristiani a cui Pietro scriveva; lo era stato il trionfo di Cristo sul peccato e sulla morte.
Infatti Pietro precisa:
“… battesimo (che non è l’eliminazione di sporcizia dal corpo, ma la richiesta di una buona coscienza verso Dio). Esso ora salva anche voi, mediante la risurrezione di Gesù Cristo”.
Infatti “se con la bocca avrai confessato Gesù come Signore e avrai creduto con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvato” (Ro 10:9).
In definitiva la nostra giustificazione e la nostra salvezza eterna sono rese possibili dalla risurrezione del Salvatore, ovvero l’esito trionfale della sua morte vicaria (si veda Ro 4:25; 1 Co 15:12-23).
Pietro invita i suoi lettori a riflettere sul fatto che il loro battesimo faceva riferimento al trionfo di Cristo, che dopo aver sofferto una volta sola per i peccati, era stato totale. La sua risurrezione aveva dato inizio alla nuova creazione. Quindi non dovevano scoraggiarsi quando si trovavano a soffrire per la giustizia o come cristiani; anzi dovevano “glorificare Cristo come Signore” nei loro cuori (v. 15), sapendo che i nemici di Dio sono stati informati della sua vittoria e ora Cristo “sta alla destra di Dio, dove angeli, principati e potenze gli sono sottoposti” (v. 22).

Per la riflessione personale e lo studio di gruppo
1. Quante verità apprendiamo da 1Pietro 3:18?
2. L’interpretazione di 1Pietro 3:19-21 proposta sopra tiene presenti i diversi contesti del brano, in particolare quello grammaticale, quello del contesto storico in cui vivevano i primi lettori e quello rievocato di Genesi 6-9. A proposito di questo ultimo, c’è da notare che Pietro attribuisce valore storico al diluvio. In quali altri brani delle lettere di Pietro l’apostolo prende le distanze dalla categoria di miti, quando tratta eventi di carattere soprannaturale?

Rinaldo Diprose
(Assemblea di Roma, Borgata Finocchio)

QUANDO L’INIZIO FA CORTOCIRCUITO CON LA FINE, AD ANDARE A FUOCO SIAMO NOI (Lettere di San Paolo, Apocalisse)

http://www.tempidifraternita.it/archivio/bodratoweb/bodrato13.htm

QUANDO L’INIZIO FA CORTOCIRCUITO CON LA FINE, AD ANDARE A FUOCO SIAMO NOI

Si consiglia di leggere questo articolo tenendo presenti i sequenti passi biblici: Romani 5, 12- 21 e 8, 18-27; I Corinti 15, 20-28; Filippesi, 2, 5-11; Colossesi 1, 15-20; Apocalisse, cap. 21-22.

Proprio perché comincia coi racconti dell’origine e termina con le immagini di una rivelazione (apocalisse), che adombrano la conclusione ultima, la Bibbia non può non contenere pagine che tentano un incontro tra questi suoi due estremi. L’inizio preordina in qualche modo la fine e la fine inevitabilmente rimanda alle grandi attese e ai fondamentali valori dell’inizio. Lo abbiamo chiarito in termini generali in uno dei nostri primi interventi, ma qui ora dobbiamo tornarci con maggiore attenzione. Infatti la ripresa neotestamentaria del tema delle origini si caratterizza proprio per lo stretto rapporto posto tra primo e ultimo nell’interpretazione della figura di Gesù, anzi quasi traforma la loro potenziale relazione in una sorta di cortocircuito cristologico.
Tutto ciò solleva un’infinità di questioni esegetiche e teologiche tutt’altro che semplici, come abbiamo visto durante la rilettura del prologo del Vangelo di Giovanni. Se in Gesù si incontrano, infatti, l’originaria potenza creatrice del Verbo, quella storico-rivelatrice dello Spirito e, in ultimo, la realizzazione escatologica della pienezza in Dio della creazione e della storia, Gesù è la sintesi del tutto, la verità di Dio e la verità dell’uomo, il compimento che riassume in sè ogni altro essere e ogni altra attesa, ma, come Crocefisso-Risorto, ne è anche la radicale problematizzazione.
L’esegesi tipologica come strumento neotestamentario di lettura e di scrittura biblica
Tutti sappiamo che le pagine che compongono il Nuovo Testamento nascono dal bisogno di tradurre in annuncio e in testimonianza scritta la fede cristologica dei primi seguaci di Gesù. Potremmo anche tentare di articolare in tempi e livelli diversi le tappe che hanno portato alla professione esplicita di tale fede, per meglio comprendere che essa non forma un blocco unico e non corrisponde, sic et cimpliciter, alla predicazione di Gesù. Ma questo ci condurrebbe lontano. Ci basti qui tenere presente il fatto che tutto il Nuovo Testamento è frutto di una riflessione sull’esperienza del proprio incontro, diretto o indiretto, col Nazareno che, per tradursi in scritto teologicamente orientato e orientante, in cristologia appunto, si vale di una profonda rilettura dell’Antico Testamento, di una sua continua rivisitazione per mezzo di citazioni esplicite e implicite, di rimandi e rielaborazioni. In sostanza si potrebbe quasi dire che i libri cristiani della Bibbia nascono come ricucitura di quelli ebraici intorno alla figura di Gesù di Nazaret detto il Cristo.
Anche questa è una caratteristica della Bibbia, quella di essere un libro che mette in scena la propria stesura, che tematizza ed esplicita la propria natura aperta, capace di continui aggiornamenti e completamenti. Per di più dovuti ad una lettura che si fa scrittura, che genera pagine nuove, degne di diventare compagne delle antiche e sorgente di altre infinite riletture e riscritture.
E’ così che hanno operato Paolo, Giovanni e le loro scuole, che ha operato l’autore della lettera agli Ebrei e quello dell’Apocalisse. Quando hanno cercato di dare corpo teologico e forma letteraria e simbolica alla propria convinzione di fede che Gesù era il Cristo, hanno evocato i temi teologici, le forme letterarie, i simboli portanti della fede veterotestamentaria, hanno utilizzato le grandi figure della Scrittura per convogliarle e raccoglierle intorno alla persona del loro eroe. Hanno dato vita ad una straordinaria operazione esegetico-creativa che va sotto il nome di tipologia.
Ce lo documenta con straordinaria chiarezza Earle Ellis nel suo studio sull’uso de L’antico Testamento nel primo cristianesino (Brescia, 1999). « L’esegesi tipologica era già stata impiegata nel giudaismo, ma per il cristianesimo primitivo essa divenne la chiave fondamentale per l’interpretazione scritturistica della figura e della missione di Gesù. » Essa si basa, infatti, sulla convinzione che gli eventi cristiani della salvezza si spiegano come realizzazione di analoghi eventi testimoniati dalla storia passata di Israele. Considera questi ultimi come anticipazioni e figure, come tipi o antitipi del Cristo. Tratta anzi a sua volta il Cristo stesso come prefigurazione e anticipazione, come tipo profetico del compimento futuro dell’intero processo redentivo (p. 141).
Ora, in generale, nel Nuovo Testamento la tipologia si presenta come tipologia della creazione e tipologia dell’alleanza. La prima presenta Adamo come « tipo di colui che doveva venire » (Rom 5, 14) e Gesù come nuovo Adamo, capace di rovesciarne l’umano destino di morte in destino di vita (I Cor 15, 22). La seconda fa di Gesù il nuovo Mosè e degli eventi dell’Esodo dei « tipi » della nuova alleanza, dei « tipi » che « vennero messi per scritto quale ammonimento per noi su cui è giunta la fine dei tempi » (I Cor 10, 6-11). Il che porta ad un terzo genere di tipologia, quella escatologica. Poiché, infatti la nuova alleanza, associata alla morte e resurrezione di Gesù, sfocia in una nuova creazione, le due prime tipologie non solo possono intrecciarsi, ma di necessità si incontrano nell’immediata apertura ad una dimensione nuova e diversa del creato e della storia.
E’ esattamente per questo che Paolo può parlare di una creazione che attende la propria liberazione dalla rivelazione dei figli di Dio (Rom 8, 19), che gli autori delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei possono presentarci Gesù come primizia del creato, capo della chiesa storica e primogenito dei risorti e dei riconciliati con Dio (Col 1, 15-20, Ebr 1-2), che il visionario dell’Apocalisse può aprire la sua prima lettera alle sette chiese qualificando l’emissario, Gesù risorto, come il Primo e l’Ultimo (2, 8) e chiudere la sua opera con una promessa che riassume enfaticamente tutto questo processo di risintetizzazione cristologica e martiriale del processo creativo e redentivo: « Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omnicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna. » (22, 12-15).
La cristologia come modello deflagrativo del presente
Ora questa ripresa sintetica del tema creativo e redentivo, posti in così stretta relazione con la realizzazione del loro fine ultimo, ci obbliga a renderci conto che il nostro non è affatto un credo pacificamente rassicurante e che la Bibbia cristiana, proprio perché non ci consente di dimenticare il passato, ma continuamente lo rilancia verso il futuro, è un libro esplosivo, un libro che fa del presente una sorgente di infinito e mai esausto dinamismo. Il che è evidente soprattutto per la cristologia, che privata di tale carattere dinamico e dirompente e letta come una dottrina metafisica degli attributi essenziali del Nazareno, diventa un « busillis » indecifrabile.
Il presente cristiano è per definizione un presente inquieto e lacerato, un presente in lotta per diventare quello che già sa di essere, ma ancora non sperimenta in tutta la sua pienezza. Un presente che potremmo paolinamente definire come un presente in corsa o in gara e che nulla esenta da questa situazione agonica di attesa e di tensione: non la storia con la sua specifica conflittualità, ma neppure la natura, con le sue tradizionali prerogative di fissità e perfezione.
Abbiamo in proposito già ricordato il passo in cui Paolo parla della creazione impaziente « Di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rom 8, 21),. Ma ora dobbiamo capire che quest’opera non consiste solo nella restaurazione di uno stato iniziale, temporaneamente deturpato dal peccato, bensì di qualcosa di totalmente nuovo e rivoluzionario, tanto rispetto all’essere originario del mondo, quanto e al nostro stare post-cristico. « Sappiamp bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come ancora potrebbe sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. » (8, 22-25).
Il che vale anche per il parallelo tipologico Adamo-Cristo. Gesù, come nuovo ed ultimo Adamo, non si limita a cancellare le colpe e i mali introdotti nella vita dalla trasgressione di Adamo, in quanto « il dono di grazia non è come la caduta ». « Se infatti per la caduta di uno solo morirono molti….molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo  » (Rom 5, 15-17). Egli è un « tipo » di Adamo che supera il padre naturale di tutti gli uomini, non soltanto perché, « pur essendo nella forma di Dio » (Filippesi 2, 6 e Gen 1, 26), « non considerò lo stato di equaglianza a Dio come una possibile preda » (Fil 2, 6; Gen 3, 5-6), ma anche perché, con la sua scelta di obbedienza fino alla morte, manifestò una vocazione alla signoria ben superiore a quella affidata da Dio ad Adamo e ottenne « un nome che è al di sopra di ogni altro nome…Un nome…di fronte al quale si piega ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra » (Fil 2, 7-11).
Se anche la creazione dove rinnovarsi
Siamo ad un passo dalle affermazioni cristologiche del prologo di Giovanni e delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei sulla preesistenza di Gesù Cristo alla natura e sulla sua stessa funzione creatrice; affermazioni che abbiamo esaminato nell’ultimo articolo e che ci sono sembrate davvero problematiche. Ma siamo anche ad un passo dal coglierne, insieme, il limite, la necessità e la paradossalità.
Il limite, perché in nessuna di queste professioni di fede cristologica, Gesù è presentato come Dio per essenza e per pacifica connaturalità, ma sempre e solo in relazione dinamica privilegiata con Lui, in rapporto di vicinanza e prossimità operativa molto stretta, in funzione mediatrice insostituibile nel momento creativo, in quello storico rivelativo e in quello escatologico.
La necessità perché senza una propria forte coloritura cristologica difficilmente la teologia cristiana potrebbe presentarsi come fedele rielaborazione innovativa di quella ebraica: fedele nella linea della progressiva e sempre più radicale interpretazione kenotico-redentiva dell’operare di Dio; innovativa nella scelta incarnazionista ed escatologica.
Paradossale perché proprio ciò che costituisce l’originalità della teologia cristiana, la sua forte enfasi cristologica, non si limita a caricare il Cristo di tutte le tensioni della natura e della storia, ma con lui carica di tali tensioni anche il cristiano e il suo tempo, vale a dire il nostro presente, conducendolo al limite della rottura.
E’ così che ci troviamo sfidati a vivere ogni nostra giornata come se si trattasse dell’attimo in cui il Regno può fare irruzione nella storia, ad esercitare, insieme, la virtu paziente e fiduciosa dell’attesa, l’operosità attiva di chi sa che da essa dipende ben più del suo destino, il coraggio di anticipare nella realtà mondana i segni di un futuro totalmente nuovo. E’ così, infine, che siamo invitati a far nostra la convinzione che il fondamento di tutto ciò non sta nella sicura conoscenza di un passato, ben saldo, ma nello slancio di una fede che tutto proietta al di là del già dato, come speranza: persino il vero essere dei cieli e della terra nuova in cui sognamo di ritrovarci risorti e liberati dalla morte e dal male.
Non abbiamo letto, forse, che coloro, che con bianche vesti, lavate dal sangue dell’Agnello, potranno aver parte all’albero della vita (Ap 22, 14), non si troveranno nel giardino edenico della prima creazione ma in una città martire della storia, trasformata in Gerusalemme celeste (21, 9-27)? Non ci è stato annunciato che tutto ciò comporterà la scomparsa del cielo e della terra di prima e, in forma assoluta e definitiva, del mare (21, 1)? Che analoga sorte toccherà alle tenebre e alla notte e, di conseguenza, allo stesso ritmo quotidiano del loro alternarsi con la luce del giorno (22, 5)?
Solo immagini, certo, non più che figure e simboli, ma simboli, figure e immagini che ci fanno capire che neppure l’opera « molto buona » del primo capitolo di Genesi regge alla prova dell’escaton cristico; che neppure la creazione col suo Dio può da sola essere presa come punto d’appoggio solido e definitivo per aprire, senza problemi, la bella formula di un credo cristiano.

Aldo Bodrato 

1 PIETRO 3: 15-18 – COMMENTO BIBLICO

http://www.chiesaevangelicadivolla.it/n-8-1-pietro-3–15-18.html

(Chiesa Evangelica)

1 PIETRO 3: 15-18

La 1° Pietro affronta uno dei problemi che inevitabilmente incontra il credente quando si lascia guidare dalla logica della sua fede. Alla pari del suo Signore il credente è “messo a morte nella carne e reso vivo nello spirito” (v.18b). Alla violenza non è opportuno rispondere con la violenza. Coloro che si ispirano alla violenza ed invocano “fuoco dal cielo” “non sanno di quale spirito sono animati” (Lc 9:55). Non è necessario raffigurarsi tempi di persecuzione, quali quelli vissuti sotto regimi totalitari (ma quanti ancora ve ne sono qui e là sul nostro globo!) per appropriarci del messaggio presente nei versetti proposti.

Se non proprio di persecuzione, il credente si trova quotidianamente a vivere in un contesto di ‘incompatibilità’ con l’andazzo prassistico del proprio tempo. La verità, ammesso che la si possegga (essa sta sempre e soltanto dinanzi a noi e ci precede!), non la si impone mai: è tentazione che in ogni caso va respinta. In un clima di diffusa osticità o di aperta ostilità occorre discernimento, accortezza e saggezza comportamentale. L’apostolo consiglia “mansuetudine, rispetto e coscienza pulita” (v. 16) soprattutto quando i persecutori occulti, i peggiori!, creano discredito nell’opinione pubblica, anche se limitatamente al proprio condominio, o all’ambito di lavoro ove possono non mancare, come non sono mancati, piccoli soprusi e ingiustizie di varia entità. Non solo i cristiani della chiesa primitiva ma anche quelli che come questi sono stati oggetto di persecuzioni (in Italia si pensi al periodo fascista!) hanno subìto attacchi diretti e continui colpi ai fianchi, pugilisticamente parlando. Il nostro brano (1 Pt 3:15-18) si sofferma soprattutto nella seconda delle tattiche persecutorie, quelle subdole fatte di insinuazioni e di dicerie gratuite. In questi casi a che vale la violenza? Basterà la “buona condotta in Cristo” (v. 16). Per “buona condotta” non deve intendersi il moralismo dei benpensanti. Non v’è nulla di più ottundente del ‘moralismo’ corrente, quell’onestà di facciata, del ‘così fan tutti’ con tutte le sue perverse declinazioni. Con “buona condotta” non deve intendersi neppure obbedienza a quell’insieme di norme scritte o, peggio, non scritte, che costituiscono le cosiddette ‘discipline’ stabilite dalle diverse istituzioni denominazionali. La “buona condotta” del nostro testo è quella che coincide o che è in armonia con la “giustizia” del v. 14. E non si tratta di giustizia umana, ma di giustizia secondo Dio che può contrastare, come a volte contrasta, con la nostra e l’altrui giurisprudenza. Il comportamento del credente di fronte al male non si limita alla sola non-violenza cosa che, da sola, può rendere pavidi, vili e paurosi. Il credente serio deve essere pronto innanzitutto a rispondere, a fare la sua ‘apologia’ (così nell’originale), a testimoniare la sua fede non solo in termini di speranza ma di vita quotidiana condotta sotto il segno della sovranità di Colui che è il Signore. Il timore di Dio cancella il timore degli uomini. La fede in Colui nel quale si crede non si testimonia con le sole parole, mutuate semmai da un catechismo, ma con una seria correttezza comportamentale a livello personale (se si tratta di singoli) come a livello istituzionale (se si tratta di gruppi). La fede deve « alleggerirsi dell’inflazione dottrinale » e recuperare il carattere coraggioso di confrontarsi con una cultura che, a conti fatti, le è ostile. Vi sono due termini che malcelano due comportamenti: “benedire” (v. 9) e “santificare” (v. 15). ‘Benedire’ non come parlar bene di.’, ma, nello spirito di Luca 6:28, pregare per coloro che ci sono ostili e mai ritenerli come ‘nemici’ dichiarati. Molti sono ostili alla fede per ignoranza (Lc 23:34a). ‘Santificare’ nel nostro testo ha come oggetto ‘il Signor Gesù’; ma è inimmaginabile che si possa santificare Colui che è ontologicamente santo. Qui va inteso come in Lc 6:2b, cioè ritenere il Cristo quale il solo santo (Is 8:13) e adorarLo riconoscendone la presenza nella propria storia: “Io sarò santificato in voi… voi conoscerete che io sono il Signore…quando avrò agito con voi per amor del mio nome … dice Dio, il Signore” (Ez 20:41,44).

Mario Affuso

DISCESE AGLI INFERI – (1Pt 3,18-19)

http://www.santamontagna.it/easynews/newsleggi.asp?newsid=73

DISCESE AGLI INFERI

“Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito. E in spirito andò ad annunziare la salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione” (1Pt 3,18-19).

La morte di Gesù è un evento reale; in modo lapidario il Simbolo niceno-costantinoplitano afferma: “morì e fu sepolto”. Come tutti gli uomini che muoiono.
La dipartita di Gesù da questo modo sembra dunque subire la stessa sorte, la stessa modalità di tutti se non fosse per il fatto che egli, il Pastore “quello bello”, è colui che si inoltra nel sentiero della “valle oscura” (Sal. 22,4) non come tutti i morti, ma come il Signore della Vita. È dunque il Cristo Signore che entra nel regno dei morti e lo attraversa chiamando a seguirlo le sue pecore, cioè le anime dei giusti che attendevano la redenzione.
Il “Simbolo degli Apostoli” aggiunge un particolare interessante: “discese agli inferi”.
Cosa dobbiamo intendere con questa espressione?
Il Catechismo ci ricorda che la Scrittura chiama inferi, shèol o ade il soggiorno dei morti dove Cristo morto è disceso, perché quelli che vi trovano sono privati della visione di Dio. Tutti i morti, sia cattivi che giusti, abitano questo “luogo”, ma ciò – ricorda ancora – non significa che la loro sorte sia identica, come ci insegna Gesù con la parabola di Lazzaro.
Per questo il catechismo afferma: “Gesù non è disceso negli inferi per liberare i dannati né per distruggere l’inferno della dannazione, ma per liberare i giusti che l’avevano preceduto” (CCC 633).
Non dobbiamo intendere la discesa negli “inferi” con l’accezione che ne abbiamo oggi; essa è frutto della tradizione filosofico – teologica detta: “Scolastica”, che lo strutturava in Limbo; purgatorio; inferno dei bambini non battezzati; inferno.
Né possiamo immaginare la sua discesa negli inferi secondo i nostri schemi che si basano inevitabilmente sulle categorie di spazio e tempo.
Nell’aldilà non vi è spazio fisico, né tempo cronologico, ma il “discendere” di Gesù in questo “luogo” va pensato come missione smisuratamente grande e di un reale, effettivo valore, perché l’opera redentrice raggiunge tutti gli uomini di tutti i tempi.
Potremmo pensare che con la morte Gesù abbia portato a compimento il disegno salvifico di Dio. Sbaglieremmo! La fase ultima dell’opera della salvezza è proprio quella di recarsi negli inferi per portare la Buona Novella anche ai prigionieri della morte.
Vi entra dopo aver subito la morte, una morte violenta che gli ha strappato la vita. La sua discesa dalla gloria del Padre lo porta fino all’abisso, punto estremo della distanza dell’uomo da Dio; egli si è spogliato persino della vita per poter assumere quella condizione umana che è la morte, ma il Padre lo ha risuscitato ed egli si avvia, potente e glorioso, fino all’abisso più profondo dove giace l’uomo, schiavo della morte, succube di questo destino e di questo potere, per liberarlo.
L’iconografia bizantina ha saputo rendere questa scena in modo straordinario; il Cristo glorioso, vincitore della morte, scardina le porte degli inferi che giacciono sotto i suoi piedi e, prendendo Adamo ed Eva per i polsi, li strappa dal sepolcro e dalla morte. Essi sono i capostipiti dell’umanità, la rappresentano.

PARTE BIBLICA
“Il sabato santo” è l’indicazione temporale di un evento che rimane di per sé avvolto nel mistero. È l’evento della discesa nel regno dei morti.
Il “segno di Giona” indica da parte di Gesù la consapevolezza della missione agli inferi:
<<Una generazione perversa e adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta. Come infatti Giona rimase tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, così il Figlio dell’uomo resterà tre giorni e tre notti nel cuore della terra>> (Mt 12,39-49).
Non si tratta di semplice solidarietà con i morti; non si tratta solamente di vivere fino in fondo la dimensione umana fino alla morte, così da poter essere accomunato a tutti gli uomini.
La morte di Gesù per poter essere “efficace” deve in un certo senso essere diversa da tutte le altre; in altre parole: per poter essere inclusiva di tutta l’umanità, deve essere esclusiva, unica nella sua forza di espiazione. Andando al di là della comune esperienza della morte, Gesù ne ha misurato tutto lo spessore e ha raggiunto il fondo dell’abisso.
Nell’esperienza della morte, Egli assume tutto il senso della morte, soffrendo ciò che essa infligge al peccatore. In questo senso Gesù fa esperienza della “morte seconda” di cui parla la Scrittura, quell’esperienza di dannazione eterna subita da coloro che rifiutano Dio ostinatamente e dei quali Dio dice: “Via da me maledetti, nel fuoco eterno”.
La Morte allora avvolge con i suoi tormenti coloro che non hanno più nessuna speranza (anzi disperazione assoluta), perché nella totale assenza e privazione di Dio. Gesù arriva fino in fondo all’abisso perché assume su di sé il tormento di questa umanità portandovi la sua luce e spogliandosi di essa a beneficio dei morti, per donare loro la vita, rinunciando alla sua per amore.
Della sofferenza di Gesù in questo abisso possiamo dire che è la sofferenza più grande, infinitamente più grande di quella della croce; è la sofferenza di cui non possiamo immaginare una sofferenza più grande.
È la sofferenza di coloro che, a causa del peccato, sperimentano l’essersi irrimediabilmente smarriti e di aver perduto Dio; Gesù non solo assume su di sé il dolore di tutti costoro, prima di Lui e dopo di Lui, ma sperimenta in sé stesso cosa significa l’ “essere peccato”:
“Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno” (Galati 3,13).
“Colui che non ha conosciuto peccato, egli lo ha fatto diventare peccato per noi, affinché noi diventassimo giustizia di Dio in lui” (2Corinzi 5,21).
Di tutto questo Gesù ne era ben consapevole. Egli sapeva bene a cosa sarebbe andato incontro e la percezione dell’abisso di dolore che lo attendeva era presente in Lui quando si paragonava al “servo di Jawhè” descritto nel profeta Isaia: “Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori che ben conosce il patire, come uno davanti al quale ci si copre la faccia, era disprezzato e non ne avevamo alcuna stima”. (Is 53,3).
Gesù sa – e lo dice molte volte – che il Figlio dell’Uomo dovrà soffrire, essere ucciso e poi risorgere. Vi è una consapevolezza totale anche su ciò che lo attende dopo la morte; egli sa quale valore debba avere la sua morte e nell’orto degli olivi tocca con mano questa sofferenza morale, quella interiore dello “spirito umano”.
“E disse loro: «L’anima mia è oppressa da tristezza mortale; rimanete qui e vegliate». (Mc 14,34)
Inoltre questa consapevolezza è usata da satana come tentazione per farlo desistere dalla volontà del Padre.
Alla presa di coscienza totale di ciò che lo attende, si aggiunge – come aggravante – la lotta contro la tentazione di Satana. È davvero un agonia nel senso profondo del termine: un agone, una battaglia.. tutto si svolge nel suo cuore, nella sua mente, ma tutto questo è soltanto la premessa, l’anticipazione di ciò che dovrà accadere: un assaggio: ecco allora la sudorazione di sangue.. indizio esterno dell’estrema tensione vissuta nella psiche, nel cuore e nella carne. E tutto questo è solo la premessa: l’impatto distruttivo con la Morte, con il Signore della morte deve ancora arrivare: sulla croce e nel suo regno: gli inferi.
Un grido squarcia il silenzio del Golgota; Gesù, il crocifisso muore. Il Vangelo di Marco riporta così quel tragico momento:
<<Alle tre Gesù gridò con voce forte: Eloì, Eloì, lemà sabactàni?, che significa: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?>> (Mc 15,34).
<< Gesù, dando un forte grido, spirò>> (Mc 15,37).
È una testimonianza scarna, cruda, priva di qualsiasi sentimentalismo. Da questo momento Gesù inizia quella parte della sua missione che lo porta negli “inferi”.
La discesa agli inferi
Vi sono dunque due aspetti della missione di Gesù agli inferi e, anche se complementari e inseparabili tra di loro – sono due aspetti di un’unica azione – tuttavia dovremo considerarli separatamente.
Il primo è relativo l’assunzione del peccato totale che ha come conseguenza la sofferenza più atroce, diventando così “vittima di espiazione” per tutti gli uomini.
Il secondo è la vittoria su satana. Per questo suo umiliarsi, svuotarsi (kenosi) per amore vince il potere di Satana. La forza di Gesù che distrugge il potere di satana non è “violenta”, ma è quella dell’obbedienza, del servizio, dell’amore, del dono totale di sé. La forza di Dio è l’amore!
Vediamo con un po’ più di attenzione questi due aspetti.
Gesù “scende” fino nel più profondo degli inferi. Vi scende come il Servo sofferente di Isaia; l’uomo dei dolori non ha smesso di soffrire con la morte di croce, ma ha solo concluso una parte per lasciare spazio ad un’altra, per certi aspetti ancora peggiore. Qui infatti la sofferenza è immane, eterna.. ed è qui che si devono spezzare le catene della Morte che imprigiona l’umanità. La forza di Gesù sta nell’amore, nel donare la sua vita; un amore unico che lo ha portato a donare la sua stessa vita. Ora così spogliato di sé, obbediente fino alla morte e oltre la morte prende su di sé tutto il male del mondo, il rifiuto, la ribellione, il peccato.
Benedetto XVI nel suo libro “Gesù di Nazaret”, ha un passaggio affascinante quando riprende la teologia proposta dalla lettera agli Ebrei, circa la funzione espiatoria di Gesù.
Infatti nel testo sacro, il corpo di Gesù è paragonato al “hilasteryon” ossia “propiziatorio” che era il coperchio dell’Arca dell’Alleanza, sul quale, una volta all’anno il sommo sacerdote compiva il rito di purificazione dal peccato nel giorno dell’espiazione (Yom Kippur). Su di esso veniva asperso il sangue della vittima sacrificale per propiziarsi Dio e per purificare il popolo dai peccati. Ora – dice la lettera agli Ebrei – abbiamo un nuovo propiziatorio: Gesù. Il suo sangue è offerto per la purificazione dal peccato nel senso che egli lo ha preso su di sé, lo ha assunto. Dio Padre ha donato il suo Figlio che è ciò che di più puro possiamo immaginare perché venendo di mezzo agli uomini e ora scendendo agli inferi, purificasse, espiasse il peccato.
Il dono di Dio fattoci in Gesù è qualcosa di infinitamente puro e per così dire, “purificante” il mondo dal male: basta accostarsi a Lui con fede. In questo senso abbiamo qualcuno che è in grado di vincere il Male.
Scendendo agli inferi vi entra con la purezza assoluta del suo corpo e del suo sangue offerti come sacrificio di espiazione e purificazione. Questo sacrificio vivo e santo, puro e purificante lava l’umanità passata, presente e futura. È il sangue che ci purifica da ogni peccato: <<Ma se camminiamo nella luce, come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri, e il sangue di Gesù, suo Figlio, ci purifica da ogni peccato>> (1Gv 1,7).
Scrive Von Balthasar: L’esplorazione dell’inferno è un evento trinitario. Se il Padre è il creatore dell’umana libertà, allora come ha mandato il Figlio nel mondo per salvarlo e non per giudicarlo, allora deve introdurlo anche nell’inferno (come suprema conseguenza della libertà umana). Questo è necessario se i morti devono ascoltare la voce del Figlio di Dio e, ascoltandola, vivere: “In verità, in verità vi dico: è venuto il momento, ed è questo, in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno” Gv 5,25).
Questa discesa è l’inabissarsi nel caos, in quanto di più imperfetto, di deforme possa esserci nella creazione. E siccome lo fa su missione del Padre, veramente assistiamo a una “nuova creazione”; infatti come il Logos di Dio fu mandato nel caos primordiale per creare tutte le cose, per farle passare cioè dal caos all’ordine, così Gesù negli inferi ridona ordine alla libertà dell’uomo dandogli la possibilità della salvezza.
(H.U.von Balthasar: Teologia dei tre giorni; Ed Queriniana 1990; pag. 156 -159).
Gesù porta negli inferi la misericordia di Dio.
Il secondo aspetto è quello relativo la vittoria su Satana; entrando nel suo regno ne spezza le catene, abbatte le porte della prigione, “vince il forte”, gli strappa l’armatura e libera i prigionieri.
Gesù è sempre stato consapevole di dover combattere Satana e il suo potere; lo ha fatto fin dall’inizio della sua missione, nel deserto. Nell’attività esorcistica che svolge durante la missione pubblica dice chiaramente di essere più forte di Satana e che il suo regno sta per finire. Emblematico il racconto di Luca:
<<Se invece io scaccio i demòni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio. Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino>> (Lc 11, 20-22).
L’uomo forte e ben armato è il diavolo, ed egli fa la guardia al suo palazzo, ma Gesù è il “più forte” che penetra nella sua casa per strappargli il potere. Ed è quanto avviene negli inferi. Con i Padri della Chiesa siamo legittimati a leggere in questo senso il fatto della “discesa agli inferi”, dove Gesù vince Satana e libera i prigionieri.
Ora “risale” dagli inferi vittorioso, portando con sé gli uomini: “Per questo sta scritto: Ascendendo in cielo ha portato con sé prigionieri, ha distribuito doni agli uomini” (Ef 4,8).
Gli antichi legami sono stati infranti dall’amore e Gesù, richiamato dal Padre, risorge a Vita senza fine.

PARTE FRANCESCANA
Guardate – frati – l’umiltà di Dio
È quasi gioco forza pensare a Francesco come a colui che “discende”, intendendo quel processo di umiltà che lo porterà a sentirsi fratello di tutti, persino della creazione. Mentre contempla il discendere di Dio nel grembo di Maria, Francesco rimane stupito per la sua umiltà; dice infatti: “Guardate, fratelli, l’umiltà di Dio!”. Egli la vede perpetuarsi ogni giorno nell’Eucarestia, esattamente come la prima volta, quando si fece carne nel grembo della Vergine. Se quella discesa umile nella carne fu grande, allo stesso modo ogni giorno compie questa “discesa” umile nel pane consacrato attraverso le mani del sacerdote:
« Ecco – scrive – ogni giorno egli si umilia, come quando dalla sede regale discese nel grembo della Vergine; ogni giorno discende dal seno del Padre sopra l’altare » (FF n. 144); e parlando dell’eucaristia esclama: « Guardate, frati, l’umiltà di Dio! » (FF n. 221).
Guardando Gesù comprende ciò che è chiamato a vivere: scendere per incontrare i fratelli, quelli che stanno “in fondo” alla scala sociale, i poveri, gli ultimi, i lebbrosi.
Non si tratta tanto di una scelta di tipo umanitario o sociale, quanto piuttosto di una scelta teologica, di fede che avrà come risvolto la dimensione umana perché è il desiderio di imitare Cristo e di incontrarlo nell’altro che lo porta a cercare gli ultimi e ad essere “come” loro.
È facile recarsi dagli ultimi ed elargire denaro, aiuti e solidarietà.. più difficile è “diventare-come ” gli ultimi; questo è ciò che ha fatto Gesù e questo è ciò che fa anche Francesco. È questa la “rivoluzione” francescana nella società e nella Chiesa del duecento; ogni posizione di comando, tutto ciò che ha sapere di superiorità, intellettuale, umana, sociale viene da Francesco rifiutata come anti evangelica e quindi diabolica. La soluzione ai conflitti, sia interiori che sociali e anche di religione, sta nell’umiltà di “discendere” al piano dell’altro, come quando si reca in Terra Santa con la crociata. Arrivato a Damietta andrà come fratello dal sultano, per parlare di Dio, con rispetto e amore e ricevendone in cambio stima e amicizia.

LA VITA
Ora proviamo a guardare la nostra vita.. cosa facciamo in questo senso? Cosa potremmo fare che ancora non facciamo?
Ciò che spinge Gesù a discendere fino in fondo alla storia dell’umanità è l’amore per l’uomo e il desiderio di salvarlo.
Ciò che spinge Francesco a discendere è l’amore per Gesù che lo porta a scoprire l’amore per il prossimo in modo nuovo e concreto.
Ciò che spinge entrambi è il desiderio di fare la volontà di Dio.
In primo luogo dunque, ciò che potremmo fare è chiedere al Padre di portarci a compiere la sua volontà. Per poterlo fare credo sia importante riconoscere l’urgente bisogno di permettere a Gesù di “scendere” nella parte più profonda del nostro cuore, della nostra vita, là dove il caos ha bisogno di trovare ordine; là dove lo smarrimento e la sfiducia hanno bisogno di una luce e di una forza liberante.
Gesù deve poter arrivare a quella parte di noi che è peccato, lontananza da Dio e buio; deve poter attraversare quello spazio di miseria. Occorre fare grande verità dentro di noi e solo Lui può aiutarci. Solo così potremo fare esperienza di risurrezione. Con lui dobbiamo scendere anche noi, sapendo che sarà doloroso e faticoso; pensate a tutti quei ragazzi che nelle comunità di Madre Elvira escono dalla droga.. pensate a quale lotta per poter arrivare in fondo alla loro drammatica esistenza, ma lo fanno con Gesù e Gesù con loro cammina e ridona una vita nuova, una vita da risorti.
Questo è il Pastore Bello che cammina con noi nella valle oscura per poter giungere poi alla sala del banchetto.
In secondo luogo occorre crescere nella capacità di farsi prossimo (come nella parabola del buon samaritano) a coloro che sono gli ultimi e magari all’interno della cerchia dei familiari o conoscenti. Quante volte facciamo finta di niente e tiriamo dritto di fronte alle disgrazie o ai problemi altrui. Come il Signore ha fatto con noi così anche noi..

Per la settimana
Risorgere con Cristo. Questo l’obiettivo! Leggerò i vangeli là dove narrano della risurrezione; saranno la mia lettura spirituale e la mia preghiera. Sarà il mio incontro con Gesù Risorto.
Preghiera
Signore, sei sceso nell’abisso del mio cuore dove non c’è vita;
sei sceso là dove tu solo puoi;
sei sceso nella sofferenza dell’amore;
ora vorrei chiederti.
Prendi la mia povertà, il mio peccato, la mia vergogna;
solo con te Gesù potrò avere la Vita.
Solo con te potrò essere amore.
impegno
soccorrere gli ultimi: in famiglia; al lavoro; essere la presenza di Gesù; essere misericordia e amore

1 PIETRO 2,4-9 – COMMENTO BIBLICO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=1%20Pietro%202,4-9

BRANO BIBLICO SCELTO – 1 PIETRO 2,4-9

Carissimi, 4 stringendovi a Cristo, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, 5 anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. 6 Si legge infatti nella Scrittura: Ecco io pongo in Sion una pietra angolare, scelta, preziosa e chi crede in essa non resterà confuso.
7 Onore dunque a voi che credete; ma per gli increduli la pietra che i costruttori hanno scartato
è divenuta la pietra angolare, 8 sasso d’inciampo e pietra di scandalo.
Loro v’inciampano perché non credono alla parola; a questo sono stati destinati. 9 Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce.

COMMENTO

Il sacerdozio dei credenti

La Prima lettera di Pietro è uno scritto cristiano della fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma che secondo gli studiosi moderni è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire in qualche modo a Pietro o al suo ambiente. Essa non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale. Lo scritto si apre con il prescritto e una benedizione (1,1-5). Il corpo si divide in tre sezioni: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 – 2,10); 2) I cristiani nella società pagana (2,11 – 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 – 5,11). La prima di queste tre sezioni si divide a sua volta in due parti: la prima (1,3-25) contiene un’esortazione generale sui temi della vigilanza, della santità e dell’amore vicendevole, e termina con un richiamo al tema iniziale della rinascita (1,23; cfr. 1,3); nella seconda l’autore tratta della crescita spirituale, prima da un punto di vista personale, con l’immagine dello sviluppo biologico (2,1-3), e poi sotto un profilo comunitario, rappresentando la chiesa come una comunità sacerdotale (2,4-10). La liturgia propone alla riflessione quest’ultimo brano, che a sua volta si articola in quattro momenti: il sacerdozio dei cristiani (vv. 4-5); Cristo «pietra d’angolo» (v. 6); Cristo «pietra d’inciampo» (vv. 7-8); il sacerdozio del popolo di Dio (vv. 9-10).
Il sacerdozio dei cristiani (vv. 4-5)
Il brano si collega mediante il relativo pros hon (a lui) con l’ultimo termine della frase precedente (ho Kyrios, il Signore). Esso inizia con queste parole: «Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi, come pietre vive, venite [da Dio] costruiti come edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali, a Dio graditi, per mezzo di Gesù Cristo» (v. 4-5). Il participio «stringendovi» (proserchomenoi, avvicinandovi), indica il rapporto personale con Cristo in cui i credenti sono entrati mediante la conversione e il battesimo. Cristo è qui designato come la «pietra» di cui parlano le Scritture (cfr. le citazioni ai vv. 6-8). Questa pietra è «viva» in quanto si tratta di una persona, ma più ancora perché Cristo è il vivente (cfr. At 3,18 e 4,10-11) e da lui la vita è comunicata ai credenti. Essa è «rigettata dagli uomini» (cfr. v. 7: Sal 118,22), sia in passato, da parte dei capi del popolo ebraico (cfr. At 4,5-11), sia al presente (cfr. v. 8; 4,17). Ma è «scelta e preziosa agli occhi di Dio», come è detto in Is 28,16 (cfr. v. 6): Dio infatti, resuscitando Cristo ed esaltandolo alla sua destra (cfr. 3,16.22), lo ha riabilitato e lo ha costituito «pietra d’angolo».
Come Cristo, il vivente, anche i cristiani sono «pietre vive», rigenerati «per una speranza viva» (cfr. 1,3) e partecipi della «grazia della vita» (cfr. 3,7). L’immagine è orientata all’affermazione centrale: «(su di lui) siete edificati…». Il passivo implica l’azione di Dio: egli ha posto la pietra d’angolo, Cristo, e su di essa costruisce la comunità dei credenti quale «casa o edificio (oikos) spirituale». L’aggettivo «spirituale» (pneumatikos) si riferisce allo Spirito che vivifica e santifica la comunità cristiana (cfr. 1,2; 4,6-10). Alla luce di numerosi testi sparsi nel NT (Mt 16,18; 1Cor 3,9-17; 2Cor 6,16s; Ef 2,20-22; 1Tm 3,15; Eb 3,2-6; 10,21; cfr. anche 1Pt 4,17; 2,9) è certo che l’immagine dell’edificio e il tema della costruzione si riferiscono alla Chiesa, comunità unita dalla fede nell’unico Signore, opera di Dio che continuamente la edifica e vi dimora. E’ probabile che, dato l’accostamento a «sacerdozio» e «sacrifici», l’edificio sia connotato come nuovo «tempio» (per cui cfr. Mc 11,17 par.; 14,58 par.; Gv 2,19-21; At 7,48).
L’azione di Dio tende a un risultato, che si precisa come realtà personale e comunitaria («sacerdozio santo») da cui scaturisce un agire etico-esistenziale («per offrire…»). Alla luce di Es 19,6 (LXX, citato al v. 9), la comunità cristiana è presentata come un «corpo di sacerdoti» (hierateuma) capace di offrire a Dio il culto autentico, cioè «sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo». L’aggettivo «santo» (hagion) sottolinea l’elezione e consacrazione a Dio (cfr. commento al v. 9). L’autore pensa certamente ai sacrifici delle religioni pagane, ma soprattutto il culto ebraico con i suoi diversi sacrifici: olocausto, sacrifici di comunione, sacrifici di espiazione. Già l’AT documenta un processo di spiritualizzazione del culto, considerato legittimo solo se è accompagnato dalla «giustizia», mentre il concetto di sacrificio si estende alla preghiera, alla penitenza, alla carità.
I sacrifici che i credenti offrono a Dio sono «spirituali» non perché sono immateriali, ma perché, ad analogia dell’«edificio spirituale», sono resi possibili dall’azione dello Spirito, sono da esso animati. Essi si identificano con l’insieme della vita cristiana, in quanto esprime la santità costitutiva dei credenti (cfr. v. 9), e in particolare le opere dell’amore fraterno (cfr. 1,22; 3,8-12), la condotta esemplare nella società (2,11-3,7), la pazienza nelle avversità subite a motivo della fede (2,19-21). Questi, e non altri, sono i sacrifici «graditi a Dio»: lo stesso culto di Israele è obiettivamente superato per la novità definitiva del nuovo patto. Essi gli sono offerti «per mezzo di Gesù Cristo», non solo perché è lui l’unico mediatore (cfr. Rm 8,34; Eb 7,25; 1Gv 2,1), ma anche perché i cristiani sono a lui uniti e «in lui» (cfr. 3,16) compiono quelle opere indicate come «sacrifici spirituali».
Cristo pietra angolare (v. 6)
Le affermazioni riportate nella prima parte del brano sono ora confermate con un riferimento esplicito all’AT: «Si legge infatti nella Scrittura: Ecco, io pongo in Sion una pietra scelta angolare preziosa, e chi crede in essa non sarà confuso» (v. 6; cfr. Is 28,16). Con questa citazione l’autore intende sottolineare non solo che quanto ha affermato è contenuto nella stessa parola di Dio scritta, ma anzi che questa si realizza compiutamente solo in riferimento a Cristo e alla Chiesa. Con le parole di Is 28,16 si porta anzitutto l’attenzione sul rapporto tra Cristo, pietra angolare posta da Dio, e la Chiesa che su di lui è costruita come edificio fatto di «pietre vive».
Sul monte, che è sede del suo tempio, Dio ha posto una «pietra scelta, di grande valore», che precedentemente (cfr. v. 4) è già stata identificata con Cristo; egli è la «pietra d’angolo», ossia il fondamento di quell’edificio che è la comunità del nuovo popolo di Dio, con la funzione di darle stabilità e compattezza. Ne segue che («e» con valore consecutivo) «chi in essa crede», ossia poggia fermamente, è fondato su di essa (cfr. il significato della radice ebraica ’mn che denota fermezza, stabilità) «non resterà confuso»: questa espressione, intesa in senso obiettivo e con probabile allusione al giudizio (cfr. 1Gv 2,28), significa «non andare in rovina» (cfr. anche Rm 9,33). La fede richiesta è certo ormai la fede cristiana, di cui si parla fin dall’inizio della lettera (1,2.7-8.21).
Cristo pietra d’inciampo (vv. 7-8)
L’autore prosegue ora contrapponendo la funzione positiva esercitata da Cristo, pietra angolare, nei confronti della comunità cristiana a quella negativa riguardante i non credenti: «Onore dunque a voi che credete; ma per i non credenti la pietra che i costruttori hanno scartato è divenuta la pietra d’angolo, pietra d’inciampo e sasso di scandalo; essi v’inciampano perché non obbediscono alla Parola; a ciò sono stati destinati» (vv. 7-8). Ai credenti «l’onore» è dovuto sia nel presente, come dignità inerente allo statuto di popolo eletto, sia in futuro al momento della parusia (cfr. 1,7). Per i non credenti invece si avvera quanto è affermato in altri due testi nei quali ricompare l’immagine della pietra: Cristo è «la pietra che i costruttori hanno scartato» e che Dio ha posto come «pietra d’angolo» (Sal 118,22; cfr. Is 28,16 citato al v. 6); per quanti lo respingono egli diventa «pietra d’inciampo e rupe da cui si precipita» (cfr. Is 8,14). La Scrittura dunque getta luce sull’esperienza della prima missione cristiana: per i giudei come per i gentili Cristo è «scandalo», sasso nel quale s’inciampa (cfr. 1Cor 1,23; Rm 9,32-33), «segno di contraddizione» che causa la «rovina di molti» (Lc 2,34), perché contraddice le attese e le pretese umane.
Gli increduli «inciampano perché non credono alla parola», ossia al vangelo (v. 8b; cfr. 3,1; 4,17): respingendo l’iniziativa salvifica di Dio in Cristo, i non credenti «disobbediscono» a lui, così come un tempo aveva fatto «il popolo disobbediente e ribelle» (cfr. Is 65,2 citato in Rm 10,21). L’autore soggiunge: «a questo stati destinati» (v. 8c). In linea di principio, si afferma che la stessa incredulità rientra nel disegno salvifico di Dio. Il concetto di (pre)-destinazione solleva un difficile problema teologico: occorre però ricordare che la destinazione a inciampare, quindi a cadere e ad andare in rovina, va di pari passo con la responsabilità dell’uomo e con la destinazione di Cristo a «pietra angolare» per tutti (cfr. v. 6). Chi lo respinge dunque non è escluso, ma si autoesclude dalla salvezza. Il tema della pre-destinazione appare anche altrove nel NT (per es. Rm 9,19-24; 11,25-27) con lo scopo non solo di affermare l’assoluta signoria di Dio nella storia della salvezza, ma anche di ammonire circa la serietà del rifiuto opposto all’annuncio evangelico e di confermare nella fede quanti hanno accolto il messaggio cristiano.
Il sacerdozio del popolo di Dio (vv. 9-10)
A questo punto l’autore trasferisce alla Chiesa i titoli che definiscono lo statuto di Israele come popolo santo di Dio: «Ma voi [siete] la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché annunciate le opere meravigliose di colui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce» (v. 9). Gli attributi della Chiesa, ripresi dal testo classico di Es 19,6 nonché da Is 43,20, si riassumono nell’espressione «popolo di Dio» (v. 10; cfr. Os 1-2), del quale mettono in rilievo diversi aspetti.
La Chiesa è anzitutto «stirpe eletta» (genos eklekton) (cfr. Is 43,20) in senso non più etnico ma spirituale, in quanto ormai Abramo è il padre di tutti i credenti, circoncisi e non circoncisi (cfr. Gal 3,7-9; Rm 4,11-12.16-17). Attraverso l’esperienza della salvezza, Israele ha scoperto l’amore di predilezione che JHWH aveva per lui (cfr. Dt 7,6-8; 14,2) e ha riconosciuto di essere stato «scelto» tra tutti i popoli; allo stesso modo e in senso più alto la Chiesa, fatta di ebrei e gentili, sa di dovere la propria esistenza all’amore e alla elezione divina.
Alla Chiesa viene poi applicato il titolo «sacerdozio regale» (basileion hierateuma), ricavato da Es 19,6. Questa espressione può essere tradotta, come fa la Vg (regale sacerdotium) e la CEI, «sacerdozio regale», ove basileion (regale) è considerato un aggettivo che qualifica il sostantivo hierateuma (sacerdozio). A favore di tale traduzione si può portare il fatto che nel contesto appaiono altri binomi formati da un sostantivo accompagnato da un aggettivo o da un complemento con valore di attributo. La comunità cristiana, in qualità di vero ed escatologico popolo di Dio, costituirebbe dunque un organismo o «corpo di sacerdoti» al quale compete la qualifica di «regale» perché è dedicato al servizio di Dio, considerato come re: forse è sottintesa una punta polemica nei confronti del culto dell’imperatore, cui erano addette corporazioni di sacerdoti pagani.
Ma l’espressione può anche significare «casa/dimora del re (e) corpo di sacerdoti»: basileion sarebbe allora un sostantivo indipendente, accostato asindeticamente a hierateuma. A favore di questa lettura, che negli ultimi tempi ha guadagnato terreno, si portano tre fatti: sia nel greco profano che nei LXX basileion è per lo più sostantivo (= regno, sovranità, monarchia, città reale, palazzo reale); nella tradizione interpretativa ebraica ai due termini del binomio è spesso riconosciuto un valore autonomo; infine anche in Ap 1,6; 5,10 «regno» (basileia) e «sacerdoti» (hiereis) sono considerati come sostantivi indipendenti. Si avrebbe pertanto che la comunità cristiana è la dimora di Dio, il luogo della sua presenza (cfr. il termine oikos nel v. 5) e, al tempo stesso, un organismo sacerdotale consacrato al suo servizio.
I credenti sono inoltre la «nazione santa» (ethnos hagion) (cfr. Es 19,6): Dio aveva scelto Israele di mezzo alle genti separandolo da esse perché appartenesse a Lui solo, che è il «santo» per eccellenza; a livello escatologico la Chiesa è il popolo santo di Dio, partecipe della sua santità, scelto e separato dal mondo, e i cristiani sono «santi» e chiamati alla santità. L’ultimo titolo, «popolo che (Dio) si è acquistato» (laon eis peripoiêsin) (cfr. Is 43,21), pone l’accento sulla iniziativa di Dio nella redenzione (cfr. 1,18; 3,18.21) e sulla radicale appartenenza della comunità cristiana a Dio (cfr. il concetto ebraico di segullâ in Es 19,6).
La divina elezione sollecita una risposta che, alla luce di quanto già si leggeva in Is 43,21 (cfr. 42,12 e Sal 107,22), consiste nella proclamazione della sua salvezza: «affinché annunciate le opere meravigliose di colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua ammirabile luce» (v. 9b). Questa risposta è parallela e complementare ai «sacrifici spirituali» (cfr. v. 5) e come questi riconducibile al «sacerdozio santo» della comunità cristiana. Si tratta di una proclamazione cultica, come già nell’AT e nella tradizione giudaica. Nelle prime comunità cristiane l’esperienza della salvezza si riflette nelle confessioni di fede (omologesi), nell’innologia, nelle narrazioni cultuali, e soprattutto nell’Eucaristia, il «sacrificio di lode» per eccellenza, il cui nucleo è costituito dalla berakâ, eulogia-eucharistia rivolta a Dio per la salvezza che egli ha realizzato e manifestato in Cristo. Queste risonanze sono certo presenti nella 1Pt (cfr. la «benedizione» iniziale: 1,3-5), dove si attira l’attenzione anche sulla testimonianza che i credenti debbono ai pagani, sia col «rendere ragione della speranza» cristiana (3,15), sia con la condotta santa (2,12).
Oggetto e motivo dell’annuncio-proclamazione-testimonianza sono le «opere meravigliose» (aretas, nobili gesta) di Dio. Nell’AT queste opere sono principalmente quelle dell’esodo, ma altresì l’insieme degli interventi di Dio a salvezza del suo popolo, in particolare il nuovo esodo, il ritorno dall’esilio; nel NT si tratta ovviamente dell’agire di Dio in Cristo, soprattutto della sua resurrezione, come evento in cui si è manifestata la potenza di Dio (cfr. Ef 1,9-11) e dal quale scaturisce la salvezza dei credenti (le megaleia tou Theou, nella Vg. magnalia Dei, di cui si parla in At 2,11).
Queste opere potenti di Dio sono evocate con una formula, che pone al centro dell’attenzione l’iniziativa della grazia divina nella conversione di quelli che oggi sono credenti e formano il suo popolo santo. Egli infatti è «colui che vi ha chiamati…», ossia ha concretizzato la sua elezione e ha efficacemente avviato il processo che conduce alla gloria con l’appello alla fede (cfr. 1Ts 2,12; Rm 8,28-30). Accogliendo questa vocazione, i cristiani sono passati «dalle tenebre alla sua (di Dio stesso) ammirabile luce». L’espressione, di matrice isaiana (cfr. Is 9,2; 40,1-3.14-15), è usata comunemente negli scritti neotestamentari (cfr. 1Ts 5,4-5; Col 1,12-13; At 26,18) per indicare la conversione e il passaggio dalla vita pagana alla sfera di salvezza, cui apre la fede in Cristo.
Al termine del brano l’autore, riecheggiando Os 1-2, sottolinea il contrasto tra la condizione antecedente e quella attuale: «Voi che un tempo eravate non popolo, ora invece [siete] il popolo di Dio, [un tempo] esclusi dalla misericordia, ora [siete] oggetto del [suo] amore» (v. 10). Le parole del profeta, ora applicate ai gentili divenuti «popolo eletto», sono calate nell’antitesi temporale «un tempo… ora…». Il passato corrisponde alle «tenebre» del v. 9b: è il tempo dell’«ignoranza» (cfr. 1,14) e della lontananza da Dio, «il tempo trascorso nel soddisfare le passioni del paganesimo» (4,3). Il presente è il tempo determinato dalla redenzione (cfr. 1,18-19) e dalla rigenerazione dei credenti (cfr. 1,3.23). Più ancora che l’antico Israele nelle circostanze descritte da Osea, i gentili erano «non popolo», non oggetto dell’amore di Dio e pertanto «esclusi dalla misericordia» (ouk êleêmenoi) (cfr. Ef 2,12: «esclusi dalla cittadinanza di Israele, estranei ai patti della promessa…»). «Ora invece», grazie alla chiamata divina, alla fede e al battesimo, gli «eletti» a cui è indirizzata la lettera, benché «dispersi» nel mondo pagano (1,1), formano il «popolo di Dio» e sono divenuti «oggetto del suo amore» (eleêthentes; CEI: avete ottenuto misericordia). La Chiesa nasce dall’amore del Padre ed è il nuovo e vero Isrele.

Linee interpretative
L’autore si rivolge alle prime comunità disperse in un ambiente ostile e le incoraggia nella fede ponendo davanti ad esse la dignità della vocazione cristiana. Questa viene delineata con le parole stesse della Scrittura, dalle quali sono definiti il ruolo di Cristo e la relazione della Chiesa con lui. Cristo è la «pietra d’angolo» rigettata dagli uomini ma scelta da Dio, su cui poggia la comunità dei credenti. La Chiesa è l’edificio che Dio costruisce, il tempio nel quale è presente; essa è al tempo stesso un «corpo di sacerdoti» che offre a Dio il vero culto, i sacrifici spirituali a lui graditi. L’immagine dell’edificio e il linguaggio cultico si saldano con la categoria classica del «popolo di Dio», ormai trasferita da Israele alla Chiesa. Il ruolo decisivo di Cristo nella storia della salvezza e nella edificazione della dimora escatologica di Dio si riflette nello scandalo dei non credenti e nell’esperienza del rifiuto, che i cristiani condividono con il loro Signore.
Tra i temi sviluppati nel brano merita particolare attenzione quello del sacerdozio dei fedeli, ritornato di viva attualità negli ultimi decenni. Nell’età patristica si afferma concordemente, sulla base della 1Pietro, ma altresì di Ap 1,6; 5,10 (e 20,6), il sacerdozio comune o universale dei credenti, sottolineandone il legame con il sacerdozio di Cristo e senza affatto negare la realtà dei ministeri nella Chiesa. Al tempo della Riforma protestante la concezione del sacerdozio universale fu riscoperto ed enfatizzato, in funzione anche polemica nei confronti della mediazione ministeriale. Lutero mise l’accento sulla responsabilità di tutti i cristiani quanto all’annuncio dell’evangelo e sui sacrifici spirituali che consistono nel servizio del prossimo. Superata la diffidenza verso tutto ciò che sapeva di protestante, negli ultimi decenni anche la teologia cattolica ha nuovamente messo in luce questo tema biblico, che è stato autorevolmente assunto dal Concilio Vaticano II.
Parlando dei fedeli laici, il Concilio dice: «Tutte le loro opere, le preghiere e le iniziative apostoliche, la vita coniugale e familiare, il lavoro giornaliero, il sollievo spirituale e corporale, se sono compiute nello Spirito, e persino le molestie della vita, se sono sopportate con pazienza, diventano sacrifici spirituali graditi a Dio per Gesù Cristo (cfr. 1Pt 2,5), i quali nella celebrazione dell’Eucaristia sono piissimamente offerti al Padre insieme all’oblazione del Corpo del Signore. Così anche i laici, operando santamente dappertutto come adoratori, consacrano a Dio il mondo stesso» (Lumen gentium, 34).

Adattamento da F. Mosetto, Sacerdozio regale (1Pt 2,4-10), in A. Sacchi e coll., Lettere paoline e altre lettere (Logos 6), Elle Di Ci, Leumann (TO) 1995, pp. 571-582.

QUANDO L’INIZIO FA CORTOCIRCUITO CON LA FINE, AD ANDARE A FUOCO SIAM

http://www.tempidifraternita.it/archivio/bodratoweb/bodrato13.htm

QUANDO L’INIZIO FA CORTOCIRCUITO CON LA FINE, AD ANDARE A FUOCO SIAMO NOI

Si consiglia di leggere questo articolo tenendo presenti i sequenti passi biblici: Romani 5, 12- 21 e 8, 18-27; I Corinti 15, 20-28; Filippesi, 2, 5-11; Colossesi 1, 15-20; Apocalisse, cap. 21-22.

Proprio perché comincia coi racconti dell’origine e termina con le immagini di una rivelazione (apocalisse), che adombrano la conclusione ultima, la Bibbia non può non contenere pagine che tentano un incontro tra questi suoi due estremi. L’inizio preordina in qualche modo la fine e la fine inevitabilmente rimanda alle grandi attese e ai fondamentali valori dell’inizio. Lo abbiamo chiarito in termini generali in uno dei nostri primi interventi, ma qui ora dobbiamo tornarci con maggiore attenzione. Infatti la ripresa neotestamentaria del tema delle origini si caratterizza proprio per lo stretto rapporto posto tra primo e ultimo nell’interpretazione della figura di Gesù, anzi quasi traforma la loro potenziale relazione in una sorta di cortocircuito cristologico.
Tutto ciò solleva un’infinità di questioni esegetiche e teologiche tutt’altro che semplici, come abbiamo visto durante la rilettura del prologo del Vangelo di Giovanni. Se in Gesù si incontrano, infatti, l’originaria potenza creatrice del Verbo, quella storico-rivelatrice dello Spirito e, in ultimo, la realizzazione escatologica della pienezza in Dio della creazione e della storia, Gesù è la sintesi del tutto, la verità di Dio e la verità dell’uomo, il compimento che riassume in sè ogni altro essere e ogni altra attesa, ma, come Crocefisso-Risorto, ne è anche la radicale problematizzazione.

L’esegesi tipologica come strumento neotestamentario di lettura e di scrittura biblica
Tutti sappiamo che le pagine che compongono il Nuovo Testamento nascono dal bisogno di tradurre in annuncio e in testimonianza scritta la fede cristologica dei primi seguaci di Gesù. Potremmo anche tentare di articolare in tempi e livelli diversi le tappe che hanno portato alla professione esplicita di tale fede, per meglio comprendere che essa non forma un blocco unico e non corrisponde, sic et cimpliciter, alla predicazione di Gesù. Ma questo ci condurrebbe lontano. Ci basti qui tenere presente il fatto che tutto il Nuovo Testamento è frutto di una riflessione sull’esperienza del proprio incontro, diretto o indiretto, col Nazareno che, per tradursi in scritto teologicamente orientato e orientante, in cristologia appunto, si vale di una profonda rilettura dell’Antico Testamento, di una sua continua rivisitazione per mezzo di citazioni esplicite e implicite, di rimandi e rielaborazioni. In sostanza si potrebbe quasi dire che i libri cristiani della Bibbia nascono come ricucitura di quelli ebraici intorno alla figura di Gesù di Nazaret detto il Cristo.
Anche questa è una caratteristica della Bibbia, quella di essere un libro che mette in scena la propria stesura, che tematizza ed esplicita la propria natura aperta, capace di continui aggiornamenti e completamenti. Per di più dovuti ad una lettura che si fa scrittura, che genera pagine nuove, degne di diventare compagne delle antiche e sorgente di altre infinite riletture e riscritture.
E’ così che hanno operato Paolo, Giovanni e le loro scuole, che ha operato l’autore della lettera agli Ebrei e quello dell’Apocalisse. Quando hanno cercato di dare corpo teologico e forma letteraria e simbolica alla propria convinzione di fede che Gesù era il Cristo, hanno evocato i temi teologici, le forme letterarie, i simboli portanti della fede veterotestamentaria, hanno utilizzato le grandi figure della Scrittura per convogliarle e raccoglierle intorno alla persona del loro eroe. Hanno dato vita ad una straordinaria operazione esegetico-creativa che va sotto il nome di tipologia.
Ce lo documenta con straordinaria chiarezza Earle Ellis nel suo studio sull’uso de L’antico Testamento nel primo cristianesino (Brescia, 1999). « L’esegesi tipologica era già stata impiegata nel giudaismo, ma per il cristianesimo primitivo essa divenne la chiave fondamentale per l’interpretazione scritturistica della figura e della missione di Gesù. » Essa si basa, infatti, sulla convinzione che gli eventi cristiani della salvezza si spiegano come realizzazione di analoghi eventi testimoniati dalla storia passata di Israele. Considera questi ultimi come anticipazioni e figure, come tipi o antitipi del Cristo. Tratta anzi a sua volta il Cristo stesso come prefigurazione e anticipazione, come tipo profetico del compimento futuro dell’intero processo redentivo (p. 141).
Ora, in generale, nel Nuovo Testamento la tipologia si presenta come tipologia della creazione e tipologia dell’alleanza. La prima presenta Adamo come « tipo di colui che doveva venire » (Rom 5, 14) e Gesù come nuovo Adamo, capace di rovesciarne l’umano destino di morte in destino di vita (I Cor 15, 22). La seconda fa di Gesù il nuovo Mosè e degli eventi dell’Esodo dei « tipi » della nuova alleanza, dei « tipi » che « vennero messi per scritto quale ammonimento per noi su cui è giunta la fine dei tempi » (I Cor 10, 6-11). Il che porta ad un terzo genere di tipologia, quella escatologica. Poiché, infatti la nuova alleanza, associata alla morte e resurrezione di Gesù, sfocia in una nuova creazione, le due prime tipologie non solo possono intrecciarsi, ma di necessità si incontrano nell’immediata apertura ad una dimensione nuova e diversa del creato e della storia.
E’ esattamente per questo che Paolo può parlare di una creazione che attende la propria liberazione dalla rivelazione dei figli di Dio (Rom 8, 19), che gli autori delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei possono presentarci Gesù come primizia del creato, capo della chiesa storica e primogenito dei risorti e dei riconciliati con Dio (Col 1, 15-20, Ebr 1-2), che il visionario dell’Apocalisse può aprire la sua prima lettera alle sette chiese qualificando l’emissario, Gesù risorto, come il Primo e l’Ultimo (2, 8) e chiudere la sua opera con una promessa che riassume enfaticamente tutto questo processo di risintetizzazione cristologica e martiriale del processo creativo e redentivo: « Ecco, io verrò presto e porterò con me il mio salario, per rendere a ciascuno secondo le sue opere. Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il principio e la fine. Beati coloro che lavano le loro vesti: avranno parte all’albero della vita e potranno entrare per le porte nella città. Fuori i cani, i fattucchieri, gli immorali, gli omnicidi, gli idolatri e chiunque ama e pratica la menzogna. » (22, 12-15).

La cristologia come modello deflagrativo del presente
Ora questa ripresa sintetica del tema creativo e redentivo, posti in così stretta relazione con la realizzazione del loro fine ultimo, ci obbliga a renderci conto che il nostro non è affatto un credo pacificamente rassicurante e che la Bibbia cristiana, proprio perché non ci consente di dimenticare il passato, ma continuamente lo rilancia verso il futuro, è un libro esplosivo, un libro che fa del presente una sorgente di infinito e mai esausto dinamismo. Il che è evidente soprattutto per la cristologia, che privata di tale carattere dinamico e dirompente e letta come una dottrina metafisica degli attributi essenziali del Nazareno, diventa un « busillis » indecifrabile.
Il presente cristiano è per definizione un presente inquieto e lacerato, un presente in lotta per diventare quello che già sa di essere, ma ancora non sperimenta in tutta la sua pienezza. Un presente che potremmo paolinamente definire come un presente in corsa o in gara e che nulla esenta da questa situazione agonica di attesa e di tensione: non la storia con la sua specifica conflittualità, ma neppure la natura, con le sue tradizionali prerogative di fissità e perfezione.
Abbiamo in proposito già ricordato il passo in cui Paolo parla della creazione impaziente « Di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio » (Rom 8, 21),. Ma ora dobbiamo capire che quest’opera non consiste solo nella restaurazione di uno stato iniziale, temporaneamente deturpato dal peccato, bensì di qualcosa di totalmente nuovo e rivoluzionario, tanto rispetto all’essere originario del mondo, quanto e al nostro stare post-cristico. « Sappiamp bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. Poiché nella speranza noi siamo stati salvati. Ora, ciò che si spera, se visto, non è più speranza; infatti ciò che uno già vede, come ancora potrebbe sperarlo? Ma se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza. » (8, 22-25).
Il che vale anche per il parallelo tipologico Adamo-Cristo. Gesù, come nuovo ed ultimo Adamo, non si limita a cancellare le colpe e i mali introdotti nella vita dalla trasgressione di Adamo, in quanto « il dono di grazia non è come la caduta ». « Se infatti per la caduta di uno solo morirono molti….molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo  » (Rom 5, 15-17). Egli è un « tipo » di Adamo che supera il padre naturale di tutti gli uomini, non soltanto perché, « pur essendo nella forma di Dio » (Filippesi 2, 6 e Gen 1, 26), « non considerò lo stato di equaglianza a Dio come una possibile preda » (Fil 2, 6; Gen 3, 5-6), ma anche perché, con la sua scelta di obbedienza fino alla morte, manifestò una vocazione alla signoria ben superiore a quella affidata da Dio ad Adamo e ottenne « un nome che è al di sopra di ogni altro nome…Un nome…di fronte al quale si piega ogni ginocchio nei cieli, sulla terra e sotto terra » (Fil 2, 7-11).

Se anche la creazione dove rinnovarsi
Siamo ad un passo dalle affermazioni cristologiche del prologo di Giovanni e delle lettere ai Colossesi e agli Ebrei sulla preesistenza di Gesù Cristo alla natura e sulla sua stessa funzione creatrice; affermazioni che abbiamo esaminato nell’ultimo articolo e che ci sono sembrate davvero problematiche. Ma siamo anche ad un passo dal coglierne, insieme, il limite, la necessità e la paradossalità.
Il limite, perché in nessuna di queste professioni di fede cristologica, Gesù è presentato come Dio per essenza e per pacifica connaturalità, ma sempre e solo in relazione dinamica privilegiata con Lui, in rapporto di vicinanza e prossimità operativa molto stretta, in funzione mediatrice insostituibile nel momento creativo, in quello storico rivelativo e in quello escatologico.
La necessità perché senza una propria forte coloritura cristologica difficilmente la teologia cristiana potrebbe presentarsi come fedele rielaborazione innovativa di quella ebraica: fedele nella linea della progressiva e sempre più radicale interpretazione kenotico-redentiva dell’operare di Dio; innovativa nella scelta incarnazionista ed escatologica.
Paradossale perché proprio ciò che costituisce l’originalità della teologia cristiana, la sua forte enfasi cristologica, non si limita a caricare il Cristo di tutte le tensioni della natura e della storia, ma con lui carica di tali tensioni anche il cristiano e il suo tempo, vale a dire il nostro presente, conducendolo al limite della rottura.
E’ così che ci troviamo sfidati a vivere ogni nostra giornata come se si trattasse dell’attimo in cui il Regno può fare irruzione nella storia, ad esercitare, insieme, la virtu paziente e fiduciosa dell’attesa, l’operosità attiva di chi sa che da essa dipende ben più del suo destino, il coraggio di anticipare nella realtà mondana i segni di un futuro totalmente nuovo. E’ così, infine, che siamo invitati a far nostra la convinzione che il fondamento di tutto ciò non sta nella sicura conoscenza di un passato, ben saldo, ma nello slancio di una fede che tutto proietta al di là del già dato, come speranza: persino il vero essere dei cieli e della terra nuova in cui sognamo di ritrovarci risorti e liberati dalla morte e dal male.
Non abbiamo letto, forse, che coloro, che con bianche vesti, lavate dal sangue dell’Agnello, potranno aver parte all’albero della vita (Ap 22, 14), non si troveranno nel giardino edenico della prima creazione ma in una città martire della storia, trasformata in Gerusalemme celeste (21, 9-27)? Non ci è stato annunciato che tutto ciò comporterà la scomparsa del cielo e della terra di prima e, in forma assoluta e definitiva, del mare (21, 1)? Che analoga sorte toccherà alle tenebre e alla notte e, di conseguenza, allo stesso ritmo quotidiano del loro alternarsi con la luce del giorno (22, 5)?
Solo immagini, certo, non più che figure e simboli, ma simboli, figure e immagini che ci fanno capire che neppure l’opera « molto buona » del primo capitolo di Genesi regge alla prova dell’escaton cristico; che neppure la creazione col suo Dio può da sola essere presa come punto d’appoggio solido e definitivo per aprire, senza problemi, la bella formula di un credo cristiano.

Aldo Bodrato

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