DONNE BIBLICHE FIGURE FEMMINILI NELLE SACRE SCRITTURE Don Claudio DOGLIO
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SACRA BIBBIA DONNE BIBLICHE FIGURE FEMMINILI NELLE SACRE SCRITTURE
Don Claudio DOGLIO
1. EVA: la madre di tutti i viventi
Introduzione al corso
Il mito, un genere letterario per la corretta interpretazione del testo
Il racconto mitico della Bibbia e l’evoluzione delle specie
Il racconto biblico e la mitologia babilonese
L’albero della conoscenza del bene e del male e suo significato etico
La profonda differenza fra il racconto biblico e la mitologia babilonese
Adamo dà il nome agli animali: significato dell’atto
La donna, essere di pari dignità con l’uomo e da questi « ricavata »
La donna, nel racconto biblico, protagonista della storia dell’umanità
Le conseguenze del peccato di superbia
La prospettiva, certa, della salvezza per mezzo dell’amore di Dio
Eva, madre di tutti i viventi, il « nome » dato alla donna
Introduzione
L’argomento di quest’anno è trasversale rispetto ad altre scelte: non affrontiamo infatti la lettura di un unico testo biblico, come ad esempio abbiamo fatto l’anno scorso con il Vangelo secondo Giovanni, ma faremo una carrellata lungo tutta la Scrittura seguendo una tematica femminile.
Abbiamo intitolato il corso: « Donne bibliche »; è un’occasione per riscoprire quante pagine della Scrittura hanno come protagoniste delle donne e come la Rivelazione abbia in molti passi una connotazione femminile.
Dovendo fare una scelta di argomenti per i nostri incontri, in molti casi ho avuto difficoltà in quanto ho dovuto escludere alcuni argomenti interessanti fra i molti disponibili e in alcuni casi dovremo ridurre anche l’approccio, proprio perché la tematica è ampia. Le donne nella Bibbia sono tante e fanno anche in genere una bella figura; dovrebbe essere l’occasione per superare un luogo comune circa il disprezzo della donna o la poca valorizzazione della figura femminile. Sappiamo che la cultura antica aveva un’altra visione del ruolo della donna, per cui non si può pretendere che nell’ambiente orientale antico la donna avesse il ruolo che ha oggi con la libertà e con la possibilità di esprimersi che finalmente, almeno nei nostri ambienti, le è stata riconosciuta. Tuttavia, anche in questa realtà antica, chi comandava effettivamente era la donna, come è sempre successo e continua a succedere; pur rimanendo dietro le quinte e senza avere ruoli di potere diretto; nelle tende dei patriarchi comandavano le donne: Sara, Rebecca, Rachele sono le persone che decidono e decidono anche la linea della benedizione divina, ma ne parleremo la prossima volta a proposito delle matriarche di Israele.
Oggi cominciamo proprio dall’inizio, dalla prima e, è inevitabile, dobbiamo cominciare con lei perché è all’inizio del racconto biblico e, nonostante l’interpretazione corrente – proprio come luogo comune negativo – la figura di Eva nel racconto della Genesi non è una figura negativa, non è presentata come la responsabile del male, come la causa della rovina di tutto: Eva è la persona che simboleggia in sintesi l’umanità.
Il mito, un genere letterario per la corretta interpretazione del testo
Dobbiamo cogliere l’occasione per inquadrare il racconto circa questa figura femminile della quale si parla di nei capitoli 2 e 3 della Genesi, testi molto conosciuti, ma non facili, anzi estremamente difficili da interpretare in modo corretto. Non possiamo prenderli come « favola », come un bel raccontino dell’inizio. Il testo è di un’eccezionale profondità teologica, ma appartiene al genere letterario « mitico », si tratta cioè di un mito, ed è una cosa bella che questo racconto sia mitico; il mito, infatti, non è una realtà negativa in sé, ma è, appunto, un genere letterario, è un modo molto importante con il quale i popoli esprimono la loro mentalità. Si dice spesso che il mito è l’antenato della filosofia e aggiungerei che il mito è esso stesso filosofia, è un modo di esprimere il pensiero e la visione del mondo. Il termine « mito » ha un significato molto semplice, deriva dal greco e significa semplicemente « racconto »; è però un racconto che spiega il senso di qualcosa.
È importante non attribuire al mito un significato di falsità, è scorretto identificare il mito con qualcosa di non vero; il mito non è una favola, ma non è neppure un racconto storico. Vediamo allora, in estrema sintesi, la differenza concettuale fra « mito » e « fatto storico ».
Il fatto storico avviene una volta ed una volta sola: è un evento irripetibile, collocabile nel tempo e nello spazio, e la sua eventuale ripetizione in altro luogo o tempo sarebbe un fatto diverso.
Il racconto mitico presenta invece qualcosa che avviene sempre, e dire che non è « storico » non significa dire che è falso o irreale, ma significa dire che non è un fatto preciso, databile e collocabile nello spazio: il racconto mitico presenta una realtà che si ripete continuamente. Pensiamo ad esempio, nel mondo classico greco che ci è più familiare, al mito di Narciso, il ragazzo bellissimo che, vedendosi riflesso in un laghetto, si innamora di sé e della propria immagine e perde la vita annegando per poter incontrare l’immagine amata. Questo non è un fatto storico, ma è il racconto che spiega ciò che chiamiamo « narcisismo », cioè un ripiegamento della persona su di sé, il culto di sé, l’attenzione morbosa di sé e l’uso del mondo portando tutto a sé. Alcuni filosofi moderni stanno facendo indagini antropologiche e sostengono che una delle caratteristiche della nostra società attuale è proprio il narcisismo, che cioè stiamo diventando narcisisti e ci viene inculcata l’idea del culto del corpo, della bellezza, del curare se stessi, dello stare bene con sé; anche la religione diventa un strumento di consumo per stare bene. Il mito di Narciso è un testo letterario antico, prezioso, bello, ma che vale per noi anche oggi.
Quando Freud studia una situazione complessa della psiche umana nella relazione con i genitori e la chiama « complesso di Edipo » non sta inventando qualcosa, ma sta utilizzando il racconto mitico di Edipo – testo antichissimo del mondo greco -, dove si narra di una persona che ha ucciso il padre e sposato la madre. Non è un fatto storico, ma chi aveva raccontato la vicenda di Edipo aveva già intuito quel problema, che ogni uomo porta in sé, di una difficile relazione con i genitori; situazione che può essere risolta o può anche non risolversi e degenerare in un trauma. Il mito aveva già intuito ciò che poi Freud ha studiato da un altro punto di vista.
Provate a pensare se noi, a proposito del racconto di Genesi 2 e 3, parlassimo di « complesso di Adamo »: quello che noi chiamiamo « peccato originale », in un linguaggio mitico o psicanalitico potrebbe diventare, appunto, il « complesso di Adamo », cioè la condizione che ognuno di noi si porta dentro, un problema che ognuno ha, una situazione complicata, il groviglio della nostra psiche. Quello che ho chiamato « complesso di Adamo » non è altro che la relazione che ciascuno di noi ha con Dio, la relazione di dipendenza della creatura nei confronti del creatore. Poiché questo atteggiamento complesso della nostra personalità è l’orgoglio, la superbia, l’autosufficienza o l’autonomia, la pretesa di fare da sé e di essere legge a se stessi – e quindi non accettare di dipendere dal Creatore -, il riconoscersi « creatura » è faticoso, può sembrare umiliante e l’istinto ci porta ad essere indipendenti e autosufficienti in una relazione che sente Dio come oppressivo. Chi ha raccontato Genesi 2 e 3 aveva capito queste cose e lo ha fatto con un racconto mitico che non riproduce un fatto storico, ma presenta, in un racconto pregnante, ciò che avviene sempre; ma se avviene sempre, è avvenuto all’inizio con il primo uomo e con tutti quelli che sono venuti dopo.
Il racconto mitico della Bibbia e l’evoluzione delle specie
Molte volte i ragazzi, soprattutto nella fase della preadolescenza durante lo studio alle scuole medie, entrano in una situazione conflittuale con l’aspetto religioso. Infatti, da una parte gli insegnanti di storia o di scienze presentano gli uomini primitivi e l’evoluzionismo, con le varie ipotesi della maturazione dell’umanità dalla fase arcaica dell’uomo delle caverne fino alla civiltà; da un’altra parte l’insegnante di religione o un catechista presentano l’inizio con Adamo ed Eva. I ragazzi trovano difficoltà a mettere insieme le due cose perché le due presentazioni non coincidono e sorgono delle perplessità. Infatti, Adamo ed Eva, presentati come uomini maturi e perfetti, in che epoca sono vissuti? In quale rapporto stanno con l’uomo di Neandertal e, in genere, con l’uomo primitivo, peloso, curvo e dall’aspetto quasi animalesco? Sono vissuti prima o dopo? Sicuramente prima! Ed allora come mai all’inizio erano così belli e poi sono peggiorati? Hanno avuto un’evoluzione al contrario? Sono domande che i ragazzi si fanno, ma non riescono ad esprimerle perché hanno paura in tutti e due i sensi, hanno paura di andare contro la scienza perché la scienza ha ragione – andare contro la scienza è da stupidi – ed hanno paura ad andare contro la religione, che è una cosa sacra e quindi non va contraddetta. Di conseguenza, tengono spesso dentro questa doppia situazione non riuscendo a farla coincidere e molte volte, purtroppo, questo conflitto si risolve a scapito della religione, concludendo che le storie di Adamo ed Eva erano favole da bambini alla stregua di tante altre, non più da tenere in considerazione una volta diventati adulti.
È un guaio, perché non abbiamo fatto un buon servizio, nel senso che la pretesa di presentare Adamo ed Eva come il quadretto storico delle origini – che bisogna credere in quanto la Bibbia dice così e quindi è verità -, non è una formazione alla fede, ma un indottrinamento scorretto che non produce risultati; anzi, dà luogo ad un corto circuito.
Il discorso del mito invece, inteso come testo filosofico di interpretazione della vita, non entra in conflitto con la visione della scienza ed aiuta a capire, in chiave teologica, il senso della nostra realtà.
L’autore di questo testo si è posto la grande questione del perché c’è il male nel mondo, perché le cose vanno male, perché c’è la disarmonia.
Il racconto che compone è strutturato secondo il linguaggio tradizionale dei miti mesopotamici per il semplice motivo che gli israeliti provengono da quella regione ed appartengono a quella cultura: Abramo è partito dalla regione dei Caldei nella Mesopotamia meridionale, Giacobbe si è sposato in Mesopotamia ed è vissuto per anni in quella regione, tutti i suoi figli sono nati in quell’ambiente. In altre parole, gli antenati di Israele vengono da quella cultura, hanno quella mentalità ed adoperano il linguaggio mitico di quel mondo.
Il racconto biblico e la mitologia babilonese
Cento anni fa circa (nel 1902) un grande professore tedesco di nome F. Delitzsch, fece una conferenza con successiva pubblicazione, che fece scalpore in Italia e, particolarmente a Roma, provocò terrore ed era intitolata » Babel und Bibel » – cioè » Babele e Bibbia » -; la teoria che questo studioso sosteneva era la grande frode, nel senso che la Bibbia sarebbe un imbroglio madornale e non un testo ispirato da Dio. Erano stati rinvenuti dei testi negli scavi in Babilonia ed a Ninive nei quali erano riportati gli stessi racconti che si trovano nella Bibbia: quei testi erano solo più antichi, per cui la Bibbia non sarebbe stata altro che una copiatura della mitologia babilonese.
Potete immaginare come un discorso del genere, all’inizio del Novecento, potesse essere recepito negli ambienti romani; si era all’epoca del modernismo e mancavano ancora le conoscenze, in quanto le pubblicazioni di questi documenti erano tutte in inglese ed in tedesco, gli scavi a Babilonia erano stati fatti da tedeschi e inglesi, e i reperti erano stati portati al British Museum o al grande Museo di Berlino. Si stava quindi con il fiato sospeso oppure si proibiva di fare affermazioni oggi possibili, come appunto la caratteristica mitica del racconto di Adamo ed Eva.
Cento anni dopo possiamo invece parlare di queste cose con la massima serenità; si è infatti dimostrato che la tesi sostenuta dal professore Delitzsch è infondata. Avendo studiato con calma tutti quei documenti babilonesi, abbiamo potuto verificare che effettivamente il linguaggio biblico è analogo, le immagini sono quelle, ma il contenuto è tutt’altra cosa: anche quei racconti orientali parlano della Creazione in modi analoghi, ma il messaggio trasmesso, è completamente diverso. Che l’uomo sia plasmato con la polvere della terra e che ci sia un albero della vita, come pure che il serpente sia custode e nello stesso tempo avversario dell’uomo è detto anche dai testi babilonesi; si dice pure che ci sia di mezzo una costola nella creazione dell’uomo.
Il linguaggio quindi è simile, ma con gli stessi tasselli si compone un mosaico totalmente differente: nella tradizione mitologica babilonese si dice infatti che il giardino degli dei, dove c’è l’albero della vita, è irraggiungibile e nessuno sa dove sia né può accedervi. Gilgamesh, il grande eroe che ha superato tutte le prove per poter raggiungere la pianta della vita – perché vuole divenire immortale -, incontra un personaggio molto significativo durante il suo viaggio, una donna che gli dice: «Dove corri? Dove pensi di andare? La vita non la troverai! Quando gli dei crearono l’umanità tennero la vita per sé e agli uomini diedero solo la morte. Quindi il tuo viaggio è inutile, accontentati di quelle poche gioie quotidiane che hai perché non potrai mai trovare la vita!». Invece, il racconto biblico dice che Dio creò l’uomo e lo mise nel giardino dove c’è l’albero della vita, dicendogli che avrebbe potuto mangiare di tutto, compreso il frutto dell’albero della vita. Il contenuto biblico è quindi completamente diverso dalla mitologia babilonese.
L’albero della conoscenza del bene e del male e il suo significato etico
L’albero della conoscenza del bene e del male è invece « inventato » dall’autore biblico. Non dovete sorprendervi del termine « inventato »; il nostro autore interviene sul linguaggio corrente, nel quale si parla del giardino degli dei dove c’è l’albero della vita che permette di vivere sempre, aggiungendovi un altro albero simbolico: quello della conoscenza del bene e del male. Di questo secondo albero non si è trovata documentazione da nessuna parte, solo in questo racconto biblico si accenna a quest’albero simbolico, che, si badi bene, non è un melo, ma è l’ »arbor scientiae boni et mali »; in latino « malus » è anche il melo, per cui « arbor mali » potrebbe essere stato erroneamente interpretato come « albero di melo ».
Si tratta ovviamente, ripeto, di un albero simbolico, non di un albero reale! Il problema del peccato non è quello di mangiare una mela; è chiaro che, raccontata e interpretata in questo modo, la cosa finirebbe in barzelletta che, se può ancora reggere con un bambino non è assolutamente accettata da un ragazzo. Quando poi il ragazzo man mano cresce, finisce per interpretare addirittura qualcos’altro in chiave sessuale, considerando il fatto che c’erano un uomo e una donna nudi, che hanno mangiato una mela … e poi e poi. Un’interpretazione del genere, che viene data comunemente, non c’è nel testo biblico che non ha affatto questo tipo di riferimenti, ma la si vede recepita comunemente in modo malizioso tant’è vero che il mangiare della mela – il gioco la mela –, nel linguaggio corrente, ha un’allusione erotico-sessuale assolutamente non giustificata, ma che deriva appunto dal fraintendimento di questo testo.
L’albero della conoscenza del bene e del male è l’immagine della morale, della teologia morale: appropriarsi di quel frutto significa dominare la morale, ovvero pretendere di essere autonomi; il termine « autonomo » deriva dal greco « autònomos », dove « nòmos » significa « legge » e « autòs » è il soggetto, per cui « autonomo » è colui che è legge a se stesso. Secondo la mentalità corrente, uno ritiene di poter decidere da solo ciò che è o non è peccato in base alla propria opinione, e che non è peccato tutto ciò che semplicemente gli piace, per cui conclude: la « norma » – il « nòmos », la « legge » – sono io stesso, io sono l’arbitro del bene e del male; questa mentalità è manifestata appunto con l’espressione « mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male ».
La profonda differenza fra il racconto biblico e la mitologia babilonese
« Dio plasmò l’uomo fuori del giardino, quando il giardino non c’era ancora », come pure « lo plasmò con la polvere del suolo, poi lo prese e lo mise nel giardino » e ancora « Dio piantò un giardino e vi mise l’uomo dentro », sono tutti racconti che devono essere interpretati.
I babilonesi descrivono la creazione dell’uomo con racconti simpatici e brillanti – quasi con il taglio della rivolta sindacale –, dicendo che quando non c’erano gli uomini i lavori dei campi dovevano farseli gli dei per poter avere il necessario per mangiare; ad un certo punto, a forza di scaricare i compiti sulle varie divinità, gli ultimi della serie si ribellarono e si pervenne così alla decisione di fare qualcuno che lavorasse per loro: il consiglio degli dei decise di fare l’uomo, chiamandolo « lo stupido ». In questa ottica, quindi, l’umanità è lo stupido di turno, fatto dagli dei perché lavori, se ne stia zitto senza diritti e mantenga gli dei. Queste storie sono scritte dai babilonesi, che ritenevano quindi che le cose andassero male perché gli dei sono ostili agli uomini, sono i padroni e li sfruttano.
I greci ed i romani avevano la stessa idea, nel senso che ritenevano che gli dei non si interessassero dell’umanità, che facessero i loro comodi e si interessassero solo di qualche rappresentante dell’umanità, come una bellissima ragazza o un bellissimo ragazzo, che, una volta usati, sarebbero stati ignorati. I racconti greci e romani sono pieni di storie di questo genere, ma dietro c’è l’idea che gli dei sono indifferenti e sfruttatori; l’immagine di Zeus che emerge da questi racconti è quella di un bellimbusto che rovina le persone. Chi inventa queste storie ha di Dio un’idea del genere, cioè che Dio è uno sfruttatore, è un oppressore, è un padrone prepotente.
Nella Bibbia non c’è una simile mentalità, viene invece presentato un Dio che crea, che pianta il giardino per mettervi l’uomo; è lui che fa il giardino per creare un ambiente buono in cui inserire l’uomo e dà all’uomo una legge, dove c’è anzitutto un permesso universale di mangiare di tutto, anche dell’albero della vita, ma non dell’albero della conoscenza del bene e del male perché quel frutto « distrugge la vita ».
Il racconto biblico mette in scena l’alleanza con quella legge, mentre Dio chiede all’uomo di non scegliere la strada che porta alla morte: l’autonomia etica porta alla morte e Dio rivela la strada velenosa che distrugge la vita.
Adamo dà il nome agli animali: significato dell’atto
Qui inizia poi il resto del racconto: « Dio crea gli animali e li porta all’uomo e l’uomo dà loro il nome ». Si tratta di un racconto sapienziale, nato in un ambiente di studiosi e di ricercatori; nell’antichità il catalogo era uno dei metodi più elevati di scienza e di ricerca, in quanto dava la possibilità di sapere i nomi di tutte le cose.
Adamo è presentato come « il sapiente », che non è un nome proprio, ma significa semplicemente « uomo », è un termine generico che indica l’umanità, l’essere umano.
« Dà il nome a tutti gli animali » è un segno di potere e di superiorità; dà il nome perché domina, ma « non trova un aiuto che gli sia simile ». Mancando un termine adatto a delle idee talmente grandi che la sua povera lingua non riesce ad esprimere, l’autore ebraico inventa una parola per esprimere questo concetto, una parola che, tradotta letteralmente, significa « come uno di fronte a lui », cioè l’uomo ha bisogno di un aiuto che gli stia di fronte, di una corresponsabilità, di una somiglianza, di un viso da guardare.
La donna, essere di pari dignità con l’uomo e da questi « ricavata »
« Allora il Signore fa cadere Adamo in un torpore, un sonno profondo », anche questo appartiene al linguaggio mitico, cultuale: il sonno come il momento in cui opera Dio per cui, se Dio opera mentre l’uomo dorme, l’uomo non sa dire come Dio ha operato. « La donna viene creata mentre l’uomo dorme », non si tratta di un’espressione banale, ma è un discorso che l’autore fa con un linguaggio sapiente e cultuale, il fatto avviene in un momento mistico.
La costola da cui viene ricavata la donna richiama il concetto della vita, lo stesso termine che è usato anche per indicare anatomicamente la parte centrale del corpo umano, appena al di sotto delle costole; tutte le altre parti del corpo umano sono legate alla sua vita, ma l’uso di questo termine vuole in qualche modo enfatizzare il concetto che la donna deriva dal centro dell’uomo, dalla sua essenza, cioè in assoluta parità. Il narratore infatti non racconta la creazione della donna dalla polvere della terra, perché vuole sottolineare che è della stessa identica specie dell’uomo. Dio ha creato l’uomo poi ha creato tutti gli animali e, se avesse creato da ultimo la donna dalla polvere, essa sarebbe stata come uno degli altri animali; ma l’obiettivo del narratore è quello di mettere la donna alla fine, in un cammino di vertice: la donna è l’ultimo elemento e non è creata dal nulla per non dire che è una realtà a sé, diversa, ma è creata in un momento mistico dalla vita, cioè dal centro, dell’uomo. È un’impostazione originale che serve proprio ad evidenziare la grande dignità della donna, e quando il Signore la conduce all’uomo, questi pronuncia la prima parola che è il canto dello sposo per la sposa: « questa volta è osso delle mie ossa e carne della mia carne » è una formula di alleanza, di riconoscimento della parentela. Non le dà un nome e notiamo che, in italiano, la traduzione suona strana: « si chiamerà donna perché dall’uomo è stata tolta »; in ebraico invece c’è la possibilità di usare il femminile, come se noi in italiano dicessimo « uoma ». Non le dà un nome, ma la chiama appunto « uoma », cioè, in ebraico, « ishá », perché da « ish » (uomo) è stata tratta: non ha un altro nome, ma ha lo stesso nome dell’uomo perché è come l’uomo stesso.
La donna, nel racconto biblico, protagonista della storia dell’umanità
Il racconto mette in evidenza la donna come il vertice e, abilmente, la seconda parte del racconto presenta la donna come protagonista: è lei che conduce la storia. Improvvisamente compare il serpente, che non viene presentato perché evidentemente i lettori antichi ne conoscevano la figura; nel racconto il serpente ha un ruolo di ragionamento e parla con la donna. Il testo mette in evidenza come il serpente disse alla donna: « È vero che Dio vi ha proibito di mangiare tutto?, « No – risponde la donna -, ci ha detto che possiamo mangiare di tutti gli alberi del giardino; solo di uno ci ha detto che non dobbiamo mangiare, perché qualora ne mangiassimo moriremmo ». Conosce anche lei la legge; la legge era stata data all’uomo prima che fosse creata la donna, ma lei la sa già perché la donna è l’umanità in sé, è la figura dell’umanità e risponde correttamente. Il serpente non fa altro che, per prima cosa, suscitare un dubbio e, quando lei risponde che « Solo di un albero non possiamo mangiare perché se ne mangiamo moriamo », il serpente si accontenta di dire che « Non è vero, anzi Dio sa che se ne mangiate si apriranno i vostri occhi e diventerete come lui; Dio è invidioso, non vuole che diventiate come lui, Dio mente, non fidatevi di lui, fate come volete voi, seguite la vostra testa ». Qui finisce il ruolo del serpente, che è un ruolo di ragionamento per instillare un dubbio: ci dobbiamo fidare di Dio oppure no?
« La donna vide che l’albero era attraente e desiderabile per acquistare sapienza » – è l’aspirazione di diventare autosufficienti -, « allora ne mangiò e ne diede anche al marito e anch’egli ne mangiò ». Noi, con il senno di poi, potremmo dire che la responsabilità è dell’uomo e quindi insistere sulla sua negatività, ma il racconto mostra la donna come attiva e intraprendente, come l’immagine dell’umanità; Adamo è dipendente, è succube, la figura umana che cerca la sapienza è la donna. Non ha ancora un nome, è semplicemente « la donna ».
Le conseguenze del peccato di superbia
« … e si accorsero di essere nudi », si aprirono gli occhi, ma non divennero come Dio; aprendosi i loro occhi videro la propria nudità. Secondo la mentalità antica, la nudità è la mancanza di dignità: se il vestito è il segno del ruolo sociale e del prestigio, l’essere senza vestito è la mancanza di ruolo, è un « non essere », è l’essere vuoto, insignificante. L’apertura degli occhi produce l’esperienza del proprio nulla, del proprio male, è la scoperta dei propri limiti: l’uomo e la donna si nascondono, hanno paura di Dio, scappano.
« Dio scende a passeggiare nella brezza della sera »; il nostro narratore è un teologo poeta e usa un linguaggio arcaico. Non scrive per dei bambini, ma scrive per dei grandi, per persone che hanno capacità di interpretazione.
Dio scende a passeggiare nel giardino e cerca l’uomo: « Adamo dove sei? ». Dio va in cerca dell’uomo – è la storia della salvezza – e l’uomo si nasconde, scappa: « Ho paura, mi vergogno, mi sono nascosto perché sono nudo ». « Come fai a sapere di essere nudo? Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo proibito di mangiare? ». « La donna che tu mi hai messo al fianco me ne ha dato, la colpa è sua »; è la seconda parola dell’uomo con la quale contraddice l’espressione precedente – « Carne della mia carne e osso delle mie ossa » – e ribalta la responsabilità sulla donna, messagli al fianco da Dio. Dio si rivolge alla donna che, a sua volta, addossa la responsabilità al serpente. È la rottura delle relazioni e l’armonia della prima tavola si trasforma in disarmonia nella seconda, è il drammatico dittico: nella prima parte tutto è armonioso fra l’uomo e Dio, fra l’uomo e il creato, fra l’uomo e la donna, mentre la seconda parte è la fotografia del nostro mondo, c’è totale disarmonia.
La prospettiva, certa, della salvezza per mezzo dell’amore di Dio
A questo punto al serpente non viene chiesta la spiegazione, ma viene comminata la punizione.
Il serpente rappresenta il male e, contestualmente alla punizione, viene annunciato che il seme della donna schiaccerà la testa del serpente. Il « seme della donna » è una formula astratta, è l’umanità che si scontra col male: « Io porrò inimicizia fra te, serpente, e la donna, fra il tuo seme ed il suo seme, il seme della donna ti schiaccerà la testa », ci sarà qualcuno, nato da donna, che schiaccerà la testa del serpente. Il serpente tenterà di morsicare il tallone « al seme di donna », ma senza successo; il « seme di donna » gli schiaccerà la testa: è il protovangelo, è la prima bella notizia, è l’annuncio della salvezza attraverso la donna.
Il combattimento nella storia dell’umanità sarà fra il male e la donna, che qui è presentata proprio come la cifra dell’umanità.
Poi, in una forma poetica e drammatica, vengono presentate le situazioni difficili, non come cose normali, ma come un effetto del male: la ribellione a Dio, l’autonomia etica porta a questi effetti negativi. Vengono usate a questo scopo due immagini: per la donna, il dolore del parto – un momento che dovrebbe essere bello, sereno, entusiasmante è connotato da un tremendo dolore con il rischio di perdere addirittura la vita nel momento in cui nasce la vita -, e una situazione di analoga drammaticità, cioè la sottomissione della donna all’uomo, che indica una mentalità maschilista che sfrutta, usa e soggioga la donna; per l’uomo, una condizione di sofferenza nel lavoro – la terra, che è fatta per produrre, in realtà è faticosa e l’uomo deve mangiare attraverso il sudore della fronte. Queste immagini sono il quadro delle disarmonie: non c’è armonia con Dio, non c’è armonia fra uomo e donna, non c’è armonia con il creato.
Eva, madre di tutti i viventi, il « nome » dato alla donna
È a quel punto che l’uomo diede il nome alla moglie e la chiamò « Eva ». Non l’aveva chiamata all’inizio, perché l’aveva considerata simile a sé; le dà un nome, dopo, come l’aveva dato agli animali, perché è diventato superiore, si è imposto. Il nome Eva, italianizzato dal latino, deriva dall’ebraico « chawwah », che non è un nome proprio, ma significa « radice della vita ».
La donna viene quindi chiamata « vita » perché fu « la madre di tutti i viventi »; quindi, nonostante l’aspetto negativo di darle il nome, la donna è « la madre di tutti ». Si tratta di un titolo regale, era il titolo della regina madre: a Gerusalemme era importantissima la madre del re, non la moglie del re. Il re, avendo l’harem, aveva tante mogli, ma aveva solo una madre, e la regina era appunto la madre del re: a fianco del re sedeva la regina madre. Noi usiamo quei testi proprio per parlare della Madonna, cioè la madre di Gesù, la regina alla destra del re.
Si tratta di un ruolo importantissimo, tant’è vero che la regina madre veniva chiamata « ghevirah », cioè la « potente », la donna che ha il comando. Eva, « chawwah », la vita, è la madre di tutti i viventi, è la prima della serie delle regine madri, ha un ruolo determinante nella storia dell’umanità.
Uno studioso americano ha lanciato l’ipotesi che autore di questi testi sia una donna, cosa possibile in quanto in questi racconti si nota una fortissima psicologia femminile, e la donna è presentata in un ruolo determinante e sapiente: l’inizio dell’umanità è garantito dalla donna, nel bene e nel male. Il vertice della storia dell’umanità, con il capovolgimento in Maria, sarà di nuovo determinato da una donna; in un antico inno, scritto anche sulla Porta Santa in Vaticano, si dice di Maria che muta la sorte di Eva – « mutans Evae nomen » -; i latini avevano scoperto con stupore che « Ave » è l’inverso di « Eva » e l’ »Ave » dell’annuncio accolto da Maria è il capovolgimento della sorte di Eva, è la storia della madre, è la storia della donna, è la storia dell’umanità.
Abbiamo solo cominciato e avremo modo di vedere in molti altri passi il ruolo così importante della donna.
