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EBREI E CRISTIANI UN SOLO DESTINO. 40° ANNIVERSARIO DELLA NOSTRA AETATE (JEAN-MARIE LUSTIGER) (2006)

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EBREI E CRISTIANI UN SOLO DESTINO. 40° ANNIVERSARIO DELLA NOSTRA AETATE (JEAN-MARIE LUSTIGER)

SABATO 03 GIUGNO 2006

Quale cammino sorprendente abbiamo percorso, ebrei e cristiani, da oltre mezzo secolo! Il quarantesimo anniversario della dichiarazione Nostra aetate coincide con il sessantesimo dell’arrivo delle truppe sovietiche al campo di Auschwitz. Mentre si stanno manifestando nuove forme di antisemitismo, questa doppia commemorazione ci permette di misurare l’enorme peso di dolore e di vergogna che grava sulle coscienze per la memoria della Shoah, «questo crimine inaudito e fino a quel momento anche inimmaginabile», così come lo ha qualificato Benedetto XVI alla sinagoga di Colonia . Qui bisognerebbe fermarsi e rendere grazie per tutti coloro che hanno lavorato a stabilire tra ebrei e cattolici una nuova relazione di fiducia, di stima e di rispetto che fonda le vere amicizie. Essi sono numerosi da una parte e dall’altra. Permettetemi di citarne uno solo, papa Giovanni Paolo II. Ho voluto, per questa occasione, riflettere sull’appello che ci ha lanciato papa Benedetto XVI al termine della sua allocuzione alla sinagoga di Colonia. Ci invita a «spingersi anche in avanti, verso i compiti di oggi e di domani» per «dare insieme una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico». In effetti è frequente al giorno d’oggi sentir parlare in Occidente di civiltà «giudaico-cristiana», il più delle volte per criticarla e per liberare gli individui dagli obblighi che essa farebbe pesare sui costumi e sulla società. Così, osservatori che si presentano lontani tanto dal cristianesimo quanto dall’ebraismo li mettono entrambi sullo stesso piatto della bilancia. Individuare nel cuore della nostra civiltà una Weltanschauung giudaico-cristiana non soddisferà certo tutti gli ebrei né tutti i cristiani, ma attesta dall’esterno due fatti essenziali dal nostro punto di vista: primo, ebrei e cristiani esercitano insieme una responsabilità rispetto alla civiltà e a tutta l’umanità; secondo, ebrei e cristiani portano insieme il peso della rivelazione biblica. In questo quarantesimo anniversario della Nostra aetate vi propongo di lasciarci interpellare da questo sguardo esterno e di riflettere sulla nostra comune responsabilità. Che cosa può e deve apportare al mondo l’incontro degli ebrei e dei cristiani, o piuttosto la loro riconciliazione, o meglio ancora la loro reciproca riscoperta in un’epoca in cui si sta delineando una civiltà planetaria fatta di conflitti e opposizioni, convergenze e scambi, ma anche di ripiegamenti? Non è senza significato che la ‘riscoperta’ tra ebrei e Chiesa cattolica avvenga in questo periodo critico e magnifico di grandi sconvolgimenti dalle imprevedibili conseguenze. 1. Esiste indubbiamente una convergenza tra ebrei e cristiani – almeno per quel tanto che sono coerenti con la propria fede – nel fare appello alla necessità di una morale per il bene della vita della società. Durante l’ultimo secolo, essi si sono ritrovati concordi nel criticare i poteri totalitari. Questi ultimi, in quanto «dettavano legge», si sono eretti ad arbitri del bene e del male. Certo, ogni potere è tentato di farlo. Ma ebrei e cristiani hanno in comune una visione molto chiara: la legge che s’impone alla coscienza umana ha una fonte più alta dell’uomo, il bene non è definito dall’arbitrio dei voleri o delle opinioni ma s’impone in questo mondo relativo e si propone come un assoluto alle scelte della libertà; e questa norma irrecusabile nella gestione degli affari temporali rende la politica una realtà degna della condizione umana. La saggezza della legge umana e la sua forza rispetto alle coscienze non emerge solamente dalle sanzioni che l’accompagnano, ma innanzi tutto dalla giustizia che essa introduce nei rapporti umani. Questa legge, ogni legge giusta, giace nel solco, per la maggior parte del tempo invisibile, della volontà santa di Dio,rivelata sul Sinai. In un modo o nell’altro la legge trae da Dio un certo carattere sacro che qualifica anche l’uomo a cui è rivolta. Questa convinzione comune agli ebrei e ai cristiani si dispiega in un discorso razionale che ha costituito il corpus del diritto naturale e ha permesso l’affermazione della dignità inalienabile della persona umana sulla quale si fondano in definitiva i diritti dell’uomo. Permettetemi di citare qui un retroscena poco conosciuto della redazione della costituzione Gaudium et spes del Vaticano II. Per superare le formulazioni classiche del diritto naturale l’arcivescovo Karol Wojtyla, sulla scia di Max Scheler, propose la propria prospettiva personalista, in cui un vescovo riconobbe il pensiero di Martin Buber… Questa prospettiva etica sulla politica ne contesta dall’interno l’arbitrarietà; essa mira a chiarire l’esercizio del potere, non a distruggerlo ma a situarlo come uno dei più nobili servizi da rendere. Essa è il testimone dell’autentica saggezza che la Bibbia ci dice venire da Dio. Non c’è qui un altissimo ideale di umanità? Il ruolo di sentinella e testimone del regno di Dio che hanno sia il popolo ebraico sia i cristiani sfida e relativizza ogni impero umano. Insieme, ebrei e cristiani, non abbiamo forse la responsabilità e l’obbligo rispetto all’intera umanità di questa ragione politica? Non si trova forse qui la saggezza necessaria alle istituzioni mondiali fondate per regolare la pace tra le nazioni, ma che i conflitti di forza e di interesse non lasciano funzionare secondo la giustizia e il diritto (cf. Gen 18,19), e cioè con efficacia? 2. Questa convinzione ha la propria origine nella rivelazione del Sinai. Consideriamo come ebrei e cristiani ricevono il dono della Legge o dei comandamenti. Non spetta a me affrontare la questione centrale dell’osservanza dei precetti commentata dalle tradizioni rabbiniche. Mi sembra tuttavia necessario far presente di continuo ai cristiani che cosa significa l’osservanza di 613 comandamenti. Codificati dalla tradizione, essi abbracciano la totalità della vita dell’ebreo religioso, dalla preghiera e dallo studio personale e comunitario a tutti gli altri ambiti dell’esistenza: morale, vita familiare, professionale ecc. Essi sono tutti recepiti come provenienti espressamente dalla volontà divina. Il migliore paragone della vita ebraica così concepita sarebbe, nel cristianesimo, la vita monastica, benché si tratti qui di una vita familiare con tutti gli obblighi propri della vita laica… E per un cristiano? Sorprenderò forse quelli fra voi che conoscono poco la dottrina cattolica, siano essi cristiani o ebrei, ricordando che, sostanzialmente, questi comandamenti sono recepiti dai cristiani come rivelazione divina contenuta nella Bibbia stessa. Sfogliate il Catechismo della Chiesa cattolica promulgato da papa Giovanni Paolo II. La morale vi è esposta nel quadro delle dieci parole, all’interno delle quali si situa la riflessione morale sull’agire umano personale e sociale. Certo, come discepoli di Gesù differiamo senz’altro sulla maniera d’intendere e applicare questi comandamenti. Per un cristiano il commentario autorizzato dei comandamenti è la maniera in cui Gesù li ha vissuti e in cui ci chiede di vivere. È un’interpretazione determinata da «Shemà, Israele (…) amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze» (Dt 6,4; cf. Mt 22,37). La prima regola dell’agire ricapitola la Legge e i profeti nel comandamento dell’amore di Dio e dell’amore fraterno (cf. Lv 19,18; Mt 22,39), immagine e retaggio dell’amore insegnato da Gesù ai suoi discepoli: amatevi «gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Uno sguardo miope potrebbe vedere tra queste due visioni delle differenze inconciliabili. Uno sguardo più profondo vedrà che la loro fonte è comune: è in Dio. Le conseguenze sull’agire umano sono analoghe, anche quando la giustizia e la pace si dispiegano secondo modalità diverse e sono vissute facendo appello a distinte risorse spirituali. Certo, queste differenze non sono trascurabili. Esse sono ugualmente essenziali alla nostra esperienza. Tuttavia la convergenza di ebrei e cristiani permette loro di affermare con più forza e rispetto la propria missione di vigilanza e di testimonianza nei confronti dell’umanità. L’esperienza cristiana ha potuto a volte introdurre una certa relativizzazione dei comandamenti in nome della carità. Certo, l’amore di Dio e del prossimo è, per il cristiano come per l’ebreo, la pienezza della Legge: l’espressione non potrebbe essere più esatta, forte e bella. Rimane imprescindibile che le esigenze dell’amore siano rigorosamente comprese e strutturate dal rispetto delle volontà divine. Un incontro fecondo potrebbe ricordare ai cristiani che essi non possono tralasciare quello che Dio comanda e, agli ebrei, che il comandamento dell’amore posto all’inizio dello Shemà anima tutti gli atteggiamenti che ne derivano, nei rapporti umani come nei riguardi di Dio.

L’universalismo cristiano ha fatto conoscere a tutte le nazioni del mondo, a volte in una forma secolarizzata, quello che è stato dato a Israele sul Sinai. Israele ne resta il garante, senza dubbio assieme ai cristiani, per il bene comune di tutta l’umanità. 3. Dobbiamo dunque ora interrogarci sull’universalismo della rivelazione. Che significato può avere per l’insieme dell’umanità il riavvicinamento di ebrei e cristiani? Evidentemente non voglio rispondere a questa domanda limitandomi a esporre l’opinione corrente. Alcuni potrebbero temere un risultato disastroso per la messa a rischio dell’indipendenza e della libertà delle identità particolari nazionali o religiose. Altri, forse gli stessi, si domanderanno come delle religioni che la storia ha fino a questo punto separato possano unire le proprie forze per contribuire a una convergenza delle culture e delle religioni. In effetti questa relazione con l’insieme dell’umanità è inscritta nell’origine stessa dell’ebraismo. Ricordate la benedizione data ad Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3) e anche l’annuncio profetico secondo cui tutte le nazioni verranno ad adorare nel suo tempio l’unico Signore del cielo e della terra. Per i cristiani, gli ebrei apostoli di Gesù hanno obbedito, non senza grande fatica, a questo oracolo profetico scoprendo, quasi loro malgrado e con stupore, che il dono dello Spirito era ugualmente accordato ai pagani. L’ordine di Gesù dato ai suoi di andare a insegnare a tutte le nazioni (goim) per formare tra esse dei discepoli che riceveranno il battesimo (cf. Mt 28,19) fa in realtà partecipi i cristiani della speranza ebraica per il mondo. Nello stesso tempo gli atteggiamenti spirituali e le speranze degli uni e degli altri restano opposti su questo punto. Infatti, il popolo ebraico vive una situazione paradossale. Esso rimane un popolo, continua a rivendicare questo nome. La domanda di sapere se sia un popolo simile agli altri oppure diverso è stata posta fin dalle origini. Siamo un popolo differente dalle nazioni, perché formato da Dio per servirlo; e una nazione simile alle altre allorché reclama un re e un potere come gli altri popoli. Rimane il fatto che nell’attuale processo di globalizzazione gli ebrei e le comunità ebraiche disperse nel mondo intero sono, a tutti gli effetti, parte integrante della diversità delle culture e delle nazioni, senza che per questo cessi l’appartenenza al ‘popolo ebraico’. Allo stesso modo – si può concludere – il fatto d’essere cristiani incorpora ciascuna persona e ciascuna comunità nell’esistenza comune della Chiesa del Messia, presente attraverso i tempi della storia in tutte le nazioni e in tutte le culture. Il problema che tento qui di circoscrivere è sollevato dalla globalizzazione. Può una solidarietà unificare l’intera umanità? E a prezzo della negazione o dell’oblio delle particolarità considerate fino a oggi come ricchezze, ma che possono apparire ormai come delle sopravvivenze o degli ostacoli? Certamente no. Eppure, la responsabilità affidata dalla parola di Dio agli ebrei e ai cristiani, ciascuno secondo la propria chiamata e tradizione, è di condurre l’umanità alla consapevolezza della sua unità e della sua vocazione unica. Ciò riguarda la sua origine. L’umanità, come dicono le prime pagine della Genesi, è stata creata da Dio a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26). Esistono, in seno alla diversità umana, delle sentinelle e dei testimoni della luce dell’origine, non per imporla ma per aiutare l’umanità a decifrare il proprio destino. Gli ebrei sono consapevoli della propria particolarità storica poiché questa rivelazione ha loro affidato per primi una fede assolutamente irrevocabile. E nell’esperienza di un popolo forgiato da questa elezione che la storia santa si è incarnata nella storia umana. La tentazione per il popolo ebraico è, evidentemente, di chiudersi in questa particolarità e quindi di vuotarla della sua portata salvifica universale. I cristiani sono diventati a propria volta beneficiari di questa primi genia benedizione poiché, fin dall’origine della Chiesa, nata dagli ebrei, anche i pagani ottengono di aver parte con loro a questa benedizione e alla sua promessa. Nel corso dei secoli i cristiani saranno anch’essi tentati di ricreare dei particolarismi di tipo nazionale o religioso; essi rischiano di perdere così il senso delle proprie radici, dell’origine che garantisce la loro speranza. Ma ebrei e cristiani, rincontrandosi e misurando le differenze reciproche, possono meglio comprendere quello che è stato loro dato come evidenza fondatrice e scopo primordiale: rivelare a un’umanità frazionata il richiamo all’unità più forte e più grande delle sue immense diversità. 4. Evocare tali prospettive non significa minacciare né l’originalità ebraica né l’identità cristiana. Mi spiego. «La salvezza viene dai giudei», insegna Gesù alla samaritana nel Vangelo secondo san Giovanni (Gv 4,22). Senza gli ebrei l’universalità cristiana potrebbe dissolversi in un umanesimo astratto. L’esperienza cristiana mostra che la diversità delle culture, attraverso ostacoli e ambiguità a volte considerevoli, può essere rispettata e ogni cultura esaltata attraverso il riconoscimento dell’unità dell’umanità, figlia dell’Uno. Senza i cristiani l’ebraismo, portatore della benedizione promessa a tutte le nazioni, può forse realizzare il proprio compito senza riassorbirsi nella razionalità universale dei Lumi e senza vuotare di sostanza la storia che l’ha generato? Dalla riflessione su queste aporie possiamo ricavare una lezione: l’incontro tra ebrei e cristiani è necessario a entrambi per comprendere quel che forse Dio esige da ciascuno di essi. La loro esperienza comune, al pari delle loro percezioni divergenti della benedizione divina, rivela il volto dell’unità e della comunione universale radicato nella promessa fatta ad Abramo, annunciato dai profeti e attestato dalla Chiesa cattolica così come essa lo crede con umile audacia. Forse il passaggio vi apparirà forzato, ma esso rende conto della difficoltà con cui ciascuno di noi, in questo tempo di globalizzazione, è portato a misurarsi. Per gli ebrei, qual è la loro identità? È l’identità nazionale israeliana o è quella della diaspora? Su che cosa si fonda? Quel che è possibile dire alla luce della fede cattolica è stato espresso in maniera sorprendente da papa Giovanni Paolo II nella sua preghiera sulla Umschlagplatz di Varsavia. Ascoltiamola: ‘Dio di Abramo, Dio dei profeti, Dio di Gesù Cristo, in te tutto è contenuto, verso di te tutto si dirige; tu sei il termine di tutto. Esaudisci la nostra preghiera per il popolo ebraico che, in grazia dei suoi padri, tu continui a prediligere. Suscita in esso il desiderio sempre più vivo di penetrare profondamente la tua verità e il tuo amore. Assistilo perché, nei suoi sforzi rivolti alla pace e alla giustizia, sia sostenuto nella sua grande missione di rivelare al mondo la tua benedizione. Che esso incontri rispetto e amore presso coloro che non comprendono ancora le sue sofferenze, come presso coloro che provano compassione per le ferite profonde che gli sono state inferte, con il sentimento del rispetto reciproco degli uni verso gli altri. Ricordati delle nuove generazioni, dei giovani e dei bambini: che essi persistano nella fedeltà verso di te in quel che costituisce l’eccezionale mistero della loro vocazione. Ispirali affinché l’umanità comprenda, attraverso la loro testimonianza, che tutti i popoli hanno una sola origine e un solo fine: Dio, il cui disegno di salvezza si estende a tutti gli uomini. Amen’. Così, per la fede cattolica l’identità ebraica è fondata sul dono di Dio, dono irrevocabile, secondo l’espressione di san Paolo, dono che precede, nella storia, ogni altra determinazione sociologica, culturale o politica. Questo dono di Dio costituisce, in qualche modo, la vocazione del popolo ebraico di rivelare al mondo la benedizione divina. E per quel che riguarda i cristiani, il loro messaggio universale non è forse solo una maschera dell’imperialismo prima romano e poi occidentale? Come può espandersi nelle culture del mondo senza per questo perdere la propria forza e il proprio contenuto? Il problema si pone in maniera acuta quando i cristiani portano il messaggio biblico, compresa la Torah, a nazioni come l’Asia e quando queste, alla maniera di Gandhi, pur disposte ad accogliere i valori di Gesù Cristo come un messaggio di liberazione, dichiarano di non aver nulla a che fare con la Bibbia poiché hanno le proprie scritture e storie sacre. Pur esponendosi al rischio di perdersi perdendo la propria universalità, il cristianesimo non può accettare questo sradicamento fuori di Israele, vale a dire fuori dall’alleanza, dalla scelta primigenia di Dio. L’incontro – il legame – degli ebrei e dei cristiani, nella tensione perenne verso un pieno rispetto reciproco, offre all’intera umanità il suo volto originale e conforta la sua speranza di un’unità pacifica. 5. Qual è dunque il fondamento del riavvicinamento tra ebrei e cristiani? Cosa c’è di comune agli uni e agli altri che giustifica un’alleanza reciproca? La risposta è inscritta nella prima pagina del Nuovo Testamento. Esso comincia con una genealogia, di cui vi cito le prime righe: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli» (Mt 1,2). Queste parole introducono, come ha detto il primo evangelista, ‘la genealogia di Gesù Cristo (Messia), figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1, 1). Il cristiano riceve dal popolo ebraico la totalità della Scrittura: la Legge, i profeti e gli altri scritti. Noi la riceviamo per quel che è: parola di Dio. E questo è vero per tutti i cristiani – protestanti, cattolici, ortodossi -, quali che siano stati i crimini commessi e le vicissitudini della storia. Questa Scrittura santa è inseparabile da coloro a cui è stata rivolta e dalle lingue in cui è stata dapprima formulata. La Chiesa riceve ognuna di queste parole come ispirate dallo Spirito di Dio. Vuole rimanere fedele a esse. Anzi, non può allontanarsene mentre certuni, come Marcione, avrebbero voluto una rottura radicale che avrebbe eliminato dalla fede dei discepoli di Gesù la Scrittura biblica, la storia, l’alleanza e l’elezione. Ma non si è avuta forse una simmetrica riduzione da parte ebraica per delle ragioni che a noi a volte paiono fin troppo evidenti e che sarebbe superfluo ricordare? E la legge del silenzio che ha prevalso. Molto spesso gli ebrei hanno detto, in passato, di non aver affatto bisogno dei cristiani dal punto di vista religioso. In effetti in questi atteggiamenti opposti noi riconosciamo la rottura che si instaurò molto presto davanti al messaggio di Gesù di Nazaret, segno di contraddizione. Ebrei e cristiani o cattolici condividono contemporaneamente una radice comune e un conflitto. Ma questo conflitto, agli occhi stessi dei cristiani, s’inscrive nell’attesa che la storia umana si compia secondo la volontà di Dio; questo è un orizzonte familiare anche per il pensiero ebraico. Gli ebrei, come i cristiani, sono tesi verso una speranza. Essi hanno in comune la rivelazione ricevuta e trasmessa, che porta il loro sguardo verso quel compimento i cui tratti sono per ciascuno segnati dall’esperienza dei secoli, delle culture e dei popoli, per quel tanto che ciascuno accetta o rifiuta dell’altro. Chi non avverte qui che le tensioni possono essere tanto più forti e dolorose quanto più i punti d’accordo e di comunione sono solidi? Dal momento che apparteniamo alla stessa radice ogni tensione è vissuta come l’insorgere di una ferita, di un rifiuto; ma può essere anche vissuta nella speranza di una luce sempre più grande. Oggi, alla luce della storia, senza che il riavvicinamento possa rendere meno acute le divergenze, l’urgenza dell’appello ricevuto alle origini obbliga i fratelli separati, il fratello maggiore e il minore, a rispondere, ciascuno per la parte che gli spetta, alla missione assegnatagli. Nessuno dei due può adempierla senza l’altro, senza contemporaneamente fare violenza all’altro o penalizzarlo. L’aspetto attuale dell’umanità anticipa, in modo ancora oscuro e a volte contraddittorio, la speranza portata dai profeti e proclamata dal Nuovo Testamento. Sarebbe illusorio e menzognero negare le nostre differenze e la nostra fede personale al fine di realizzare questa speranza comune. Ciò sarebbe un errore mortale e in effetti una rinuncia. Piuttosto, ciascuno è chiamato a progredire nel dovere di giustizia e di pace assegnatogli dalla Provvidenza. Il legame comune tra ebrei e cristiani fonda la loro riscoperta reciproca in questo secolo, garantendo l’opera che essi debbono compiere, pena una loro mancanza verso l’umanità. Sono in gioco l’equilibrio e la pace nel mondo. L’avvenire comune tra ebrei e cattolici non si riduce a limitare il possibile contenzioso. Non può accontentarsi di una pacifica comprensione reciproca, e neppure di una solidarietà a servizio dell’umanità. Questo avvenire richiede un lavoro su quel che è comune, come su quel che separa, lavoro ormai possibile perché fondato sulla certezza di un’amicizia voluta da Dio. Che le differenze e le tensioni divengano uno stimolo per un approfondimento sempre più attento e docile del mistero, di cui la storia ci costituisce gli eredi indivisi.

Roma, 27 ottobre 2005.

* Cardinale, Arcivescovo emerito di Parigi.

JEAN-MARIE LUSTIGER: E’ POSSIBILE PREGARE O MEDITARE SCANDENDO I TEMPI DELLA GIORNATA?

http://www.qumran2.net/ritagli/index.php?parole=santi%20preghiere&p=barra_sx

3. E’ POSSIBILE PREGARE O MEDITARE SCANDENDO I TEMPI DELLA GIORNATA?

JEAN-MARIE LUSTIGER, AVVENIRE DEL 30/11/2008

Ecco i consigli dell’arcivescovo di Parigi: «Obbligatevi a spezzare il ritmo frenetico delle nostre metropoli. Fatelo sui mezzi pubblici e nelle pause del lavoro». Uno scritto inedito del cardinale Francese morto un anno fa.

Come pregare durante il giorno? La tradizione della Chiesa raccomanda di pregare sette volte al giorno. Perché? Una prima ragione è che il popolo d’Israele offriva il proprio tempo a Dio in sette preghiere quotidiane, in momenti fissi, nel Tempio o almeno voltati verso di esso: «Sette volte al giorno io ti lodo» ci rammenta il salmista (Salmo 118,164). Una seconda ragione è che il Cristo stesso ha pregato così, fedele alla fede del popolo di Dio. La terza ragione è che i discepoli di Gesù hanno pregato così: gli apostoli (vedi Atti 3,1: Pietro e Giovanni) e i primi cristiani di Gerusalemme «assidui nelle preghiere» (vedi Atti 2,42; 10,3-4: Cornelio nella sua visione); poi le comunità cristiane e, più tardi, le comunità monastiche. E così anche i religiosi e le religiose, i preti, sono stati chiamati a recitare o a cantare in sette riprese le «ore» dell’«ufficio» (che significa «dovere», «incarico», «missione» di preghiera), facendo una pausa per cantare i salmi, meditare la Scrittura, intercedere per i bisogni degli uomini e rendere gloria a Dio. La Chiesa invita ogni cristiano a scandire la propria giornata con una preghiera ripetuta, deliberata, voluta per amore, fede, speranza.
Prima di sapere se è bene pregare due, tre, quattro, cinque, sei, sette volte al giorno, un consiglio pratico: associate i momenti di preghiera a gesti fissi, a punti di passaggio obbligati che scandiscono le vostre giornate.
Per esempio: per coloro che lavorano e in genere hanno orari stabili, esiste pure un momento in cui lasciate il vostro domicilio e vi recate al lavoro… a piedi o in auto, in metropolitana o in autobus. A un orario preciso. E ciò vi prende un determinato tempo, sia all’andata sia al ritorno. Perché quindi non associare dei tempi di preghiera a quelli di spostamento?
Secondo esempio: siete madre di famiglia e rimanete a casa, ma avete dei figli da portare e riprendere a scuola in momenti precisi della giornata. Un altro obbligo che segna una pausa: i pasti, anche se a causa di forza maggiore o cattiva abitudine mangiate solo un panino o pranzate in piedi. Perché non trasformare queste interruzioni nella giornata in punti di riferimento per una breve preghiera?
Sì, andate a cercare nella vostra giornata questi momenti più o meno regolari di interruzione delle occupazioni, di cambiamento nel ritmo di vostra vita: inizio e fine del lavoro, pasti, tempi di viaggio ecc.
Associate a questi momenti la decisione di pregare, anche solo per un breve istante, il tempo di fare l’occhiolino a Dio. Datevi l’obbligo rigoroso, qualunque cosa accada, di consacrare quindi anche solo trenta secondi o un minuto a dare un nuovo orientamento alle vostre diverse occupazioni sotto lo sguardo di Dio.
La preghiera così, pervaderà quanto vi sarà dato vivere.
Quando andate al lavoro forse intanto rimuginate sui colleghi che ritroverete, sulle difficoltà da affrontare in un ufficio in cui lavorate in due o in tre; le personalità cozzano maggiormente quando la vicinanza è troppo stretta e quotidiana. Chiedete a Dio in anticipo: «Signore, fa’ che io viva questo rapporto quotidiano nella vera carità. Permettimi di scoprire le esigenze dell’amore fraterno nella luce della Passione di Cristo che mi renderà sopportabile lo sforzo richiesto».
Se lavorate in un grande centro commerciale, forse rimuginerete sulle centinaia di volti che vi scorreranno davanti senza che abbiate il tempo di guardarli. Chiedete a Dio in anticipo: «Signore, ti prego per tutte quelle persone che passeranno davanti a me e alle quali cercherò di sorridere.
Anche se non ne ho la forza quando mi insultano e mi trattano come fossi una macchina calcolatrice».
Insomma, approfittate al meglio, durante la vostra giornata, di questi punti di passaggio obbligati, dei momenti in cui disponete di un po’ di margine e vi lasciano, se siete vigili, un piccolo spazio di libertà interiore per riprendere fiato in Dio.
Si può pregare nella metropolitana o sui mezzi pubblici? Io l’ho fatto. Ho utilizzato diversi metodi secondo i momenti della mia vita o le circostanze. Ci fu un tempo in cui mi ero abituato a mettere i tappi nelle orecchie per isolarmi e poter avere un minimo di silenzio, tanto ero esasperato dal rumore. Pregavo così, senza per questo tagliar fuori le persone che mi erano attorno visto che potevo ancora essere presente a essi con lo sguardo, senza però scrutarli, senza fissarli, senza essere indiscreto nel modo di guardarli. Il silenzio fisico dell’orecchio mi permetteva di essere ancora più libero nell’accoglienza. In altri periodi, invece, ho vissuto un’esperienza esattamente contraria. Ognuno di noi fa come può, ma in nessun caso dobbiamo ritenere che sia impossibile pregare.
Ecco un altro suggerimento. Scommetto che lungo il vostro tragitto, dalla stazione della metropolitana o dalla fermata dell’autobus fino a casa o al posto di lavoro, potete incontrare, nel raggio di trecento o cinquecento metri, una chiesa o una cappella (una piccola deviazione vi consentirebbe di camminare un po’). A Parigi si può fare. In quella tal chiesa potete pregare in tranquillità o, al contrario, essere continuamente disturbati; può essere adatta o meno alla vostra sensibilità: questo è un altro discorso. Ma c’è una chiesa con il Santissimo Sacramento. Perciò, camminate per qualche centinaio di metri in più; vi ci vorranno dieci minuti, e un po’ d’esercizio non farà male alla vostra linea… Entrate in chiesa e andate fino al Santissimo Sacramento. Inginocchiatevi e pregate. Se non potete di più, fatelo per dieci secondi. Ringraziate Dio Padre per il mistero dell’Eucaristia nel quale siete inclusi, per la presenza del Cristo nella sua Chiesa. Lasciatevi andare all’adorazione con il Cristo, nel Cristo, tramite la forza dello Spirito. Rendete grazie a Dio. Rialzatevi.
Fatevi un bel segno della croce e ripartite.

di Mons. Jean-Marie Lustiger: Ebrei e cristiani un solo destino

vi propongo questa lettura, il riferimento a San Paolo è appena un cenno, tuttavia sembra sottostare, e inevitabilmente, a tutto il pensiero del Cardinale, io ogni tanto cerco di rileggere qualcosa di quello che scrisse Lustiger, mi piace molto questa visione del cristianesimo, dove appare sempre chiaro ed evidente che siamo legati ad una storia, quella che Dio ha fatto con l’uomo, quando - sin dalla creazione – l’Eterno comincia a parlare all’uomo, non slegati o appartati da tutto quanto accade nel mondo e tutto quello che è accaduto nella storia, ma legati alla Parola stessa di Dio, non nati d’improvviso o mescolati alle altre religioni, la storia del cristianesimo è una storia unica, irripetibile, legata all’amore che Dio ha da sempre per noi, così come Gesù che è nato in un popolo, in una storia, in una fede: quella del popolo di Israele; metto anche una biografia di Lustiger, dal sito:

http://www.missionline.org/index.php?l=it&art=203

02/01/2006  

Ebrei e cristiani un solo destino

di Mons. Jean-Marie Lustiger, arcivescovo emerito di Parigi

Ebrei e cristiani esercitano insieme una grande responsabilità nei confronti della civiltà umana e del suo avvenire

Pubblichiamo ampi stralci dell’intervento che il cardinale Jean-Marie Lustiger, arcivescovo emerito di Parigi, ha tenuto il 27 ottobre 2005 a Roma, in occasione dei quarant’anni del documento conciliare Nostra Aetate. Il testo integrale è disponibile (in lingua francese) sul sito della diocesi di Parigi (www.catholique-paris.com).

Oggi è frequente sentir parlare in Occidente di civiltà «giudaico-cristiana», più spesso per criticarla e per liberare gli individui dagli obblighi che questa farebbe pesare sui costumi e sulla società. Così, osservatori che si dicono distanti tanto dal cristianesimo quanto dal giudaismo, li mettono sullo stesso piano. Identificare nel cuore della nostra società una Weltanschaung giudaico-cristiana non soddisferà certo tutti gli ebrei e tutti i cristiani, ma stabilisce dall’esterno due fatti essenziali per il nostro discorso. Primo: ebrei e cristiani esercitano insieme una responsabilità nei confronti della civiltà dell’umanità. Secondo: ebrei e cristiani portano insieme la responsabilità della Rivelazione biblica.
In questo quarantesimo anniversario della Nostra Aetate, vi propongo di lasciarci interrogare da questo sguardo esteriore e di riflettere sulla nostra comune responsabilità: che cosa può e deve apportare al mondo l’incontro di ebrei e cristiani, o piuttosto la loro riconciliazione, o meglio ancora il loro ritrovarsi, nel momento in cui una civiltà planetaria si delinea in mezzo a conflitti e contrasti, convergenze e scambi, ma anche a delle chiusure? (…)

Esiste indubbiamente una convergenza fra ebrei e cristiani, almeno se essi sono coerenti con la loro fede, nel richiamare l’esigenza morale necessaria alla vita della società. Si sono ritrovati accomunati nello scorso secolo nella critica ai poteri totalitari. Questi, poiché «dettavano legge», si sono eretti a signori del bene e del male. Certo, ogni potere subisce la tentazione di fare lo stesso. Ma ebrei e cristiani hanno in comune una visione molto limpida: la legge che si impone alla coscienza umana ha un’origine più alta di qualsiasi uomo, il bene non è stabilito a seconda dei voleri o delle opinioni, ma si impone in questo mondo relativo e si propone come un assoluto nella scelta della libertà. 
Infatti, ogni legge giusta riposa sul segno – invisibile per la maggior parte del tempo e rivelato sul Sinai – della volontà santa di Dio. In un modo o nell’altro, la legge riceve da Dio un certo carattere sacro, che qualifica anche l’uomo al quale si indirizza. Questa convinzione comune agli ebrei e ai cristiani si dispiega in un discorso razionale che ha costituito il corpus del diritto naturale e ha permesso l’affermazione della dignità inalienabile della persona umana sulla quale, in definitiva, si fondono i diritti dell’uomo. La posizione del popolo ebreo e dei cristiani come vedette e testimoni del regno di Dio sfida e relativizza ogni impero umano.
 
Questa convinzione ha origine nella Rivelazione del Sinai. Consideriamo come ebrei e cristiani ricevono il dono della Legge e dei Comandamenti. (…) Mi sembra necessario ricordare continuamente ai cristiani cosa significa l’osservanza dei 613 comandamenti. Codificati dalla tradizione, essi abbracciano la totalità della vita dell’ebreo religioso, dalla preghiera e lo studio personale e comunitario a tutti gli altri aspetti dell’esistenza: la morale, la vita familiare, quella professionale, ecc. Sono tutti recepiti come venuti espressamente dalla volontà divina. (…)
E per un cristiano? Io sorprenderei forse quelli che tra voi non conoscono affatto la dottrina cattolica, sia cristiani che ebrei, ricordando che sostanzialmente questi comandamenti sono ricevuti dai cristiani come rivelazione divina della Bibbia stessa.
Certo, discepoli di Gesù, noi ci differenziamo senza dubbio sul modo di capire e di applicare questi comandamenti. Il commento autorizzato dei comandamenti per un cristiano è la maniera in cui Gesù li ha vissuti e ci domanda di viverli. È un’interpretazione ben determinata del «Shema, Israel: amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze». La prima regola dell’agire riassume la Legge e i Profeti nel comandamento dell’amore di Dio e dell’amore fraterno a immagine e in condivisione dell’amore insegnato da Gesù ai discepoli: «Amatevi l’uno con l’altro come io vi ho amato».
L’universalismo cristiano ha fatto conoscere a tutte le nazioni del mondo, a volte sotto una forma secolarizzata, ciò che è stato dato al Sinai, a Israele. Israele ne rimane il garante e con lui i cristiani, senza dubbio, per il bene comune di tutta l’umanità.

Ora ci si deve interrogare sull’universalismo della Rivelazione. Che significato può avere per l’insieme dell’umanità il riavvicinamento di ebrei e cristiani?
Evidentemente io non risponderò a questa domanda in modo sensazionalistico. Alcuni temono che io risponda in maniera disastrosa, minacciando l’indipendenza e la libertà delle identità particolari, nazionali o religiose. Altri, forse gli stessi, si domanderanno come delle religioni che la storia ha, a questo punto, separato, possano unire le loro forze per contribuire all’incontro delle culture e delle religioni.

In effetti, questo riferimento all’insieme dell’umanità è scritto nella stessa origine del giudaismo. Ricordatevi della benedizione data ad Abramo: «In te saranno benedette tutte le nazioni della Terra». Ricordate anche l’annuncio profetico secondo cui tutte le nazioni verranno ad adorare nel suo tempio l’Unico Signore del cielo e della terra. Presso i cristiani, gli ebrei apostoli di Gesù hanno obbedito, non senza grande pena a questo oracolo profetico, scoprendo quasi involontariamente e con stupore che il dono dello Spirito era egualmente concesso ai pagani. Il comando di Gesù dato ai suoi di andare a insegnare a tutte le nazioni (i goim) per formare in mezzo a queste dei discepoli che riceveranno il battesimo (Mt 28,19) fa raggiungere ai cristiani la speranza ebrea per il mondo. Anche se le attitudini spirituali e l’esperienza degli uni e degli altri risiedono in posizioni differenti su questo punto.
Perché il popolo ebreo vive in una situazione paradossale. È un popolo, continua a rivendicare questo nome. La questione se è un popolo simile agli altri o differente è stata posta dalle origini: siamo un popolo differente dalle nazioni, perché formato da Dio per servirlo, e una nazione simile alle altre quando reclama re e potere come gli altri popoli. È indubbio che nella mondializzazione attuale, ebrei e comunità ebree sparse nel mondo intero sono, in ogni caso, parte integrante delle avversità delle culture e delle nazioni, senza che venga sfumata l’appartenenza al popolo ebreo. Allo stesso modo si può dire che il fatto di essere cristiano incorpora ogni persona o ogni comunità nell’esistenza comune della Chiesa del Messia, presente attraverso le epoche storiche in tutte le nazioni e in ogni cultura.
Il problema che tento di delimitare è quello sollevato dalla mondializzazione. Una solidarietà riunisce l’umanità intera? Il prezzo di ciò è la negazione o l’oblio di particolarità considerate sino ad oggi delle ricchezze, ma che possono apparire ormai come dei rimasugli e degli ostacoli? No, certamente.
Ma la responsabilità, trasmessa dalla Parola di Dio, a ebrei e cristiani, ciascuno secondo la propria chiamata e la propria tradizione, è di condurre l’umanità alla consapevolezza della propria unità e della sua unica vocazione. Che si riferisce alla propria origine. L’umanità, come dicono le prime pagine della Genesi, è stata creata da Dio «a mia immagine e somiglianza». Esiste all’interno della diversità umana delle sentinelle e dei testimoni della luce dell’origine, non per imporla ma per aiutare l’umanità a decifrare il suo destino.
Gli ebrei hanno coscienza della loro particolarità storica poiché questa Rivelazione è stata loro conferita per primi, una volta per tutte in maniera irrevocabile. È nell’esperienza di un popolo plasmato da questa elezione che la storia santa si è incarnata nella storia umana. La tentazione per il popolo ebreo è, evidentemente, di rinchiudersi in questa particolarità e, da allora in poi, di svuotarla della sua portata salutare universale.
I cristiani sono diventati essi stessi beneficiari di questa prima benedizione perché, dal momento che la Chiesa nasce dagli ebrei, ecco che anche dei pagani ottengono di far parte con essi di questa benedizione e della sua Promessa. Nel corso dei secoli, i cristiani saranno tentati essi stessi di crearsi dei particolarismi di tipo nazionale o religioso; essi rischiano di perdere sia il senso delle loro radici, dell’origine garante della loro speranza.
Ma ebrei e cristiani, incontrandosi e misurando le loro differenze, possono meglio comprendere ciò che viene dato loro come evidenza fondatrice e compito primordiale: rivelare a una «umanità frazionata» l’appello all’unità più forte e più grande della sua immensa diversità.

Evocare queste prospettive non è minacciare né l’originalità ebrea né l’identità cristiana. Spieghiamolo. «La salvezza viene dagli ebrei» insegna Gesù a una donna di Samaria nel Vangelo secondo san Giovanni (Gv 4,22).
Senza gli ebrei, l’universalità cristiana potrebbe dissolversi in un umanitarismo astratto. L’esperienza cristiana dimostra che la diversità delle culture, al prezzo di ostacoli e ambiguità talvolta considerevoli, può essere rispettata, e ciascuna d’esse magnificata, dalla riconosciuta unità, figlia dell’Unico.
Senza i cristiani, il giudaismo, portatore della benedizione promessa a tutte le nazioni, può realizzare il proprio compito senza riassorbirsi nella razionalità universale dei Lumi e senza vuotare della sua sostanza la storia che l’ha generato? Dalle riflessioni su queste aporie noi possiamo trarne una lezione: l’incontro fra ebrei e cristiani è necessario a ciascuno per comprendere ciò che, forse, Dio esige da lui.
Per la fede cattolica, l’identità ebrea è fondata sul dono di Dio, dono irrevocabile secondo l’espressione di san Paolo, dono che precede nella storia ogni altra determinazione sociologica, culturale o politica. Questo dono di Dio costituisce in qualche maniera la vocazione del popolo ebreo di rivelare al mondo la Benedizione divina.
Per ciò che riguarda i cristiani, il loro messaggio universalista non è che una maschera dell’imperialismo romano e poi occidentale? Come può diffondersi nelle culture del mondo senza perdere contemporaneamente le sue forze e i suoi contenuti? Il problema si pone in modo acuto quando i cristiani portano il messaggio biblico, compresa la Torah, a nazioni come quelle asiatiche e queste, alla maniera di Gandhi, sono pronte ad accogliere i valori di Gesù Cristo come un messaggio di liberazione, ma dichiarano di non aver niente a che fare con la Bibbia poiché possiedono già le loro scritture e le loro storie sacre. A rischio di perdere la propria universalità, il cristianesimo non può accettare questo sradicamento fuori da Israele, cioè fuori dall’Alleanza, della scelta originaria di Dio. L’incontro-legame degli ebrei e dei cristiani, nella ricerca di un continuo rispetto, offre all’intera umanità il suo volto originale e conforta la sua speranza di unità pacifica.

Qual è dunque il fondamento dell’avvicinamento di ebrei e cristiani? Cos’hanno in comune per giustificare un’alleanza? La risposta è scritta nella prima pagina del Nuovo Testamento. Se l’aprite voi cominciate con una genealogia della quale eccovi le prime righe: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli…». Queste parole introducono, come disse il primo evangelista «la genealogia di Gesù Messia, figlio di David, figlio di Abramo» (Mt 1,1). Il cristiano riceve dal popolo ebreo la totalità della Scrittura: la Legge, i Profeti e gli altri scritti. Noi la riceviamo per ciò che è: Parola di Dio. E ciò è vero per tutti i cristiani, protestanti, cattolici o ortodossi, qualunque siano stati i crimini commessi e le vicissitudini della storia. Questa Scrittura santa è inseparabile da quelli a cui è stata indirizzata e dalle lingue con le quali all’inizio è stata formulata. La Chiesa riceve tutte e ciascuna di queste parole come ispirate dallo Spirito di Dio. Vuol esservi fedele. Molto di più, essa non può farne a meno – come alcuni, ad esempio Marcione, i quali avrebbero voluto una rottura radicale che avrebbe eliminato dalla fede dei discepoli di Gesù, la Scrittura biblica, la storia, l’alleanza e l’elezione. Ebrei e cristiani o cattolici condividono nello stesso tempo una radice comune e un conflitto. Ma questo conflitto, agli occhi degli stessi cristiani, si iscrive nell’attesa che la storia si compia secondo la volontà di Dio; ciò che è anche l’orizzonte famigliare del pensiero ebreo.
Gli ebrei come i cristiani sono sostenuti da una speranza. Essi hanno in comune la Rivelazione ricevuta e tramandata, che porta il loro sguardo verso questo compimento i cui tratti sono ciascuno marcati dall’esperienza dei secoli, delle culture e dei popoli, affinché ciascuno accetti o rifiuti l’altro.
Chi non avverte qui che le tensioni possono essere tanto più forti e dolorose quanto i punti d’accordo e di comunione sono più solidi? Dal momento che noi siamo della stessa origine, ogni tensione è vissuta come la nascita di una ferita, di un rifiuto; ma può anche essere vissuta nella speranza di una luce sempre più grande.
Oggi, vista dalla storia, senza che il riavvicinamento possa rendere meno acute le divergenze, l’urgenza dell’appello ricevuto alle origini obbliga i fratelli separati, i fratelli anziani e il secondogenito, a rispondere, ciascuno per la propria parte, alla missione che gli è assegnata. Nessuno può compierla senza l’altro, senza tuttavia fare violenza all’altro né sminuirlo.
L’attuale configurazione dell’umanità anticipa, in maniera ancora oscura e talvolta contrastata, la speranza portata dai profeti e proclamata dal Nuovo Testamento. Sarebbe illusorio e menzognero trascurare le nostre differenze e la nostra fede personale per realizzare questa speranza comune. Sarebbe un errore mortale e, in definitiva, una dimissione. Ma ognuno di noi è chiamato a progredire nel compito di giustizia e di pace che gli è stato assegnato dalla Provvidenza.

Il legame comune a ebrei e cristiani fonda il loro ritrovarsi in questo secolo, garantendo l’opera che devono compiere, altrimenti farebbero torto all’umanità. L’equilibrio e la pace nel mondo ne vanno di mezzo. L’avvenire comune fra ebrei e cattolici non si riduce a limitare il possibile contenzioso. Non può accontentarsi d’una pacifica e reciproca comprensione e neppure di una solidarietà al servizio dell’umanità. Questo avvenire richiede un lavoro su ciò che è comune, come su ciò che separa, lavoro ormai possibile perché fondato sulla certezza di un’amicizia voluta da Dio. Che le differenze e le tensioni divengano uno stimolo per un approfondimento, sempre più attento e docile al mistero di cui la storia ci designa eredi indivisi.

(traduzione dal francese di Daniele Parolini e Gabriele Ripamonti)

Jean-Marie Lustiger

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/uploads/Stampa/070807tincq.pdf

Jean-Marie Lustiger

di Henri Tincq

in « Le Monde » del 7 agosto 2007

Nessun uomo di Chiesa in Francia ha avuto un destino così singolare e una carriera così atipica. Non solo perché Aaron Lustiger, figlio di una famiglia di immigrati ebrei proveniente dalla Polonia – nato il 17 settembre 1926 a Parigi – ha percorso tutte le tappe fino a quella di arcivescovo della capitale (Parigi) e di persona molto ascoltata dal papa a Roma, e già questo sarebbe bastato a distinguerlo. Ma perché in Francia, per più di un quarto di secolo, è riuscito ad incarnare il volto di una Chiesa senza dubbio più brillante e dialogica di quanto essa sia in realtà. Riuniva in sé la « verticalità » dell’ebreo che era per nascita, radicalmente rivolto a Dio e alla sua parola, e l’ »orizzontalità » del cristiano che era diventato a 14 anni, ultraclericale e contemporaneamente molto laico, tradizionale e insieme moderno.
Il suo nonno materno si chiamava come lui Aaron Lustiger, rabbino di Bedzin, in Slesia (Polonia), portava barba e filatteri ed era arrivato in Francia prima della guerra del 1914. I suoi genitori, naturalizzati agli inizi degli anni 20, sono commercianti nella via Simart, nel 18° arrondissement di Parigi. Non frequentano la sinagoga, ma educano i loro due figli nella coscienza della loro identità ebraica, stimolando il loro gusto per lo studio e la loro fedeltà ad una morale esigente.
Aaron Lustiger, la cui infanzia è « felice, ma rigorosa », studia al liceo Montaigne di Parigi, scopre
l’Antico Testamento e il Vangelo da un professore di pianoforte, poi l’antisemitismo nei racconti
dei suoi genitori e nella letteratura. Ma non mette allora in connessione l’antisemitismo e la fede cristiana, che scopre provvidenzialmente nel 1937, in occasione di un soggiorno in Germania presso una famiglia protestante.
La guerra costringe i suoi genitori a rifugiarsi a Orléans. E’ lì che compie l’atto decisivo della sua vita: la sua conversione al cristianesimo durante la Settimana santa del 1940. Il futuro cardinale ha 14 anni quando viene battezzato, il 25 agosto 1940. Mantiene il suo nome Aaron – che figura nel calendario cristiano – a cui aggiunge quelli di « Jean » et « Marie ». Su questo battesimo fatto nel periodo dell’occupazione nazista sorgeranno molti interrogativi. Per tutta la sua vita, a rischio di irritare, spiegherà che il suo cristianesimo non ha mai significato una rinuncia alla sua identità ebraica.
Alla fine del 1940, quando sono promulgate le prime leggi antiebraiche del governo di Vichy, il
giovane Lustiger vive nascosto, con sua sorella, a Orléans, ma i suoi genitori portano la stella gialla. E si compie il dramma: mentre suo padre è in viaggio, sua madre, rimasta sola a Parigi per tenere la merceria di famiglia, è denunciata da un vicino, arrestata il 10 settembre 1942, condotta a Drancy e deportata ad Auschwitz.
Con la sua fede di neofita, Lustiger entra in seminario ed è ordinato prete nel 1954 a Parigi. E’
all’inizio cappellano alla Sorbona, dove il suo carisma attira molti studenti, futuri professori,
ingegneri, alti funzionari, giuristi. Ma, quando sembra giunto il tempo di »raccogliere la messe », il maggio 68 infiamma l’Università. Quegli avvenimenti lo sorprendono. Le sue certezze rischiano di crollare. « Non c’è posto per il Vangelo in questa baraonda », ruggisce in una di quelle formule maligne che non dispiacevano a questo « monello » parigino, che amava anche lo sberleffo.
Nel 1969 diventa parroco di Sainte-Jeanne-de-Chantal, una parrocchia borghese del 16° arrondissement di Parigi vicino alla circonvallazione. Lì sconvolge le abitudini e tesse i suoi primi rapporti – ad esempio con André Vingt-Trois, che sarà suo successore a capo della diocesi di Parigi – prima di tornare nel 1979 come vescovo ad Orléans dove frequenta assiduamente le parrocchie. Molto presto dimostra la sua attenzione puntigliosa per la liturgia, la sua intransigenza intellettuale, il suo temperamento di capotribù.
Il suo percorso si accelera, quando Giovanni Paolo II lo rimanda a Parigi, il 2 febbraio 1981, questa volta al primo posto, quello di arcivescovo, per succedere al cardinale François Marty, pastore ricolmo d’umore e d’umorismo, tutto l’opposto delle rigidità e angolosità di Jean-Marie Lustiger. Diventa ben presto famoso per la corazza in cui si trincera. Dominique Wolton e Jean-Louis Missika ci metteranno anni a convincerlo ad aprirsi nel suo libro-confessione Le Choix de Dieu (La scelta di Dio – ed. De Fallois, 1987). Eppure è inesauribile nelle sue omelie curate, spesso pungenti. E’ morbosamente perfezionista, giungendo a pronunciare i suoi discorsi ad alta voce prima di passare alla stesura definitiva.
Del monello parigino ha la franchezza. Sono famose le sue collere, le sue decisioni spesso imperiose. E’ ossessionato dalla paura di complotti, ha un senso acuto della sua superiorità intellettuale e di una missione che lo divora interamente. Chi non lo segue fino in fondo o si oppone a lui è perduto. Gli capita di far saltare le teste del suo « entourage » più prossimo o del suo clero, o ancora di manifestare irritazione nei confronti dei suoi colleghi vescovi. Il suo anticonformismo fa di lui una personalità battagliera nel dibattito pubblico e mediatico,
impulsiva, sempre controcorrente. Nel 1984 guida la contestazione contro la legge Savary tendente a creare il servizio pubblico dell’istruzione. Un milione di difensori della scuola cattolica scendono in piazza e François Mitterrand fa marcia indietro. In seguito sarà su tutti i fronti della battaglia sociale: la « follia » degli apprendisti-stregoni in medicina, la difesa dell’embrione, il divieto dell’eutanasia, della clonazione, poi le rivolte dei giovani, la disoccupazione, gli immigrati e i « feriti dalla vita », invitati esclusivi una notte di Natale a Notre-Dame, e infine l’Europa.
Mette in chiaro i rischi e l’importanza dei temi in discussione e colpisce ben al di là dell’opinione
cattolica, nonostante un tono che è sempre quello dell’imprecazione: contro l’Illuminismo e i « maestri del sospetto » (Marx, Nietzsche, Freud, etc.) che, rompendo i legami con la Rivelazione e volendo la « morte di Dio », hanno rischiato di provocare la « morte dell’uomo » a Auschwitz e nei gulag. Contro la « modernità » di un mondo senza Dio. Contro l’avanzata di un « neopaganesimo » che intuisce nelle tesi del Front National. Contro gli idoli del denaro, del sesso, del potere.
Per lui, il vescovo non è un uomo a parte. Deve uscire dalle sacrestie, partecipare ai dibattiti della società civile e del gota intellettuale. Lustiger coltiva le relazioni più audaci. Con i presidenti François Mitterrand e Jacques Chirac gioca « al gatto e al topo », come afferma lui stesso. La seduzione reciproca è grande, ma le delusioni numerose. Davanti a loro, il cardinale Lustiger sostiene la causa per la libertà delle scuole private, per dei ritmi scolastici conciliabili con la catechesi, per una laicità insieme ferma e rispettosa, per un dialogo ufficiale e regolare tra le autorità della Repubblica e della gerarchia cattolica. Questo sforzo giunge ad un esito positivo con Lionel Jospin e continua anche in seguito. Pur considerandosi figlio della Repubblica francese, si rifiuta, in nome del clero vittima del Terrore, di associarsi, nel 1989, alla commemorazione del bicentenario della Rivoluzione e alla « panteonizzazione » dell’abbé Grégoire, prete costituzionale.
Fin dalla prima volta in cui si presenta il problema del velo in Francia (1989), difende con ardore la legge del 1905 relativa alla separazione delle Chiese e dello Stato. Non smetterà di farlo, protestando anche contro i tentativi di Nicolas Sarkozy di organizzare l’islam di Francia, come se fosse una « religione di Stato »! Per riguardo a Jacques Chirac, allontana, proprio prima delle elezioni presidenziale del 1995, il padre Alain de la Morandais, giudicato troppo a favore dell’altro candidato Balladur, dal suo posto di ambasciatore della Chiesa nell’ambiente politico. Sono queste relazioni atipiche per un uomo di Chiesa che rendono il cardinal Lustiger tanto vicino alla società civile quanto straniero talvolta nella propria Chiesa.

concezione radicale della fede

Nel collegio cardinalizio – in cui è entrato nel 1983 – Monsignor Lustiger diventa tuttavia uno dei favoriti di Giovanni Paolo II (1978-2005). I due uomini hanno le stesse origini in Polonia, lo stesso amore per la filosofia, una concezione altrettanto radicale della fede cristiana, la stessa visione tragica della storia e della libertà e l’esperienza di due totalitarismi che hanno forgiato il loro temperamento eccezionale. Karol Wojtila incarna la resistenza spirituale in un società comunista atea. Lustiger, da parte sua, lo fa in una società francese laicizzata, secolarizzata all’estremo. Nasce una forte amicizia.
Cresce anche la simpatia tra il papa polacco e una Francia a lungo scettica nei suoi riguardi. La
svolta ha luogo nel 1996, in occasione di un riuscito viaggio di Giovanni Paolo II a Reims il 1500° anniversario del battesimo di Clodoveo – in un contesto di ostilità e di derisione laiche – e soprattutto nel 1997, in occasione delle Giornate mondiali della gioventù di Parigi. Un milione di giovani invadono il prato di Longchamps in agosto. E’ un trionfo per il papa e per il cardinal Lustiger, apostolo per la Francia della nuova evangelizzazione e di un cattolicesimo giovane e libero da complessi.
A Parigi, le sue iniziative non ricevono mai un consenso unanime. Ridefinisce e rilancia le parrocchie, si scontra con dei parroci onnipotenti, crea nel 1981 Radio Notre-Dame, poi nel 1999 la prima televisione cattolica, KTO. Il suo clero e i suoi confratelli vescovi lo accusano di « culto della personalità » quando crea i suoi percorsi per la formazione dei preti e per l’insegnamento teologico (la Scuola-Cattedrale).
Sordo alle critiche, Lustiger procede. La sua ultima grande iniziativa è stata una manifestazione di massa dei cattolici di Parigi per la festa di Ognissanti 2004. Paradossalmente, questo cardinale, che ottenne il massimo riconoscimento con l’elezione all’Académie Française nel 1995, è sempre stato battuto nelle elezioni per la presidenza della Conferenza episcopale francese. Ma quest’uomo, che conosce bene la sua storia ebraica, sa che nessuno è profeta in patria.

Figlio dell’Antica e Nuova Alleanza

E’ nella riconciliazione tra la Chiesa e l’ebraismo che Aaron Lustiger, figlio di una famiglia ebrea e di una madre deportata ed uccisa ad Auschwitz ha mostrato la sua statura. Figlio dell’Antico e del Nuovo Testamento, come lui stesso si definiva, ha portato nella carne la sofferenza e la vocazione proprie del popolo ebraico.
La singolarità della Shoah stava per lui nella volontà assoluta di sterminare « il popolo ebraico in quanto portatore della Parola divina, della Legge, dei Comandamenti ». Ossia una rottura per la cancellazione delle frontiere fra bene e male, rimasta una « tentazione universale ». Non spiegava altrimenti i drammi posteriori della Cambogia, del Ruanda o della Bosnia.
Non aveva ricevuto una grande educazione ebraica, ma aveva un senso acuto del destino del popolo ebraico e del suo posto privilegiato nella storia della salvezza. Con la sua conversione e la sua entrata nella Chiesa, compiva la vocazione di Israele, la « promessa » fatta da Dio al suo popolo, ma anche alle « nazioni », ai gentili, ai pagani. Amava dire che più la sua fede cristiana era maturata, più il Cristo gli era apparso come il « Messia di Israele ». (La Promesse, Parole et silence, 2002).
Fin dal 1981 aveva interpretato la sua nomina ad arcivescovo di Parigi come la « evidenziazione » della parte di ebraismo che il cristianesimo porta in sé. Ed aveva usato questa formula che allora a molti non era piaciuta: « E’ come se tutto ad un tratto i crocifissi si fossero messi a portare la stella gialla! » Chiaramente il suo discorso fu largamente incompreso nella comunità ebraica. Gli è valso dei battibecchi con il suo amico Elie Wiesel ed una polemica, in visita a Tel-Aviv nel 1996, con il gran rabbino Meïr Lau d’Israele.
Nel dialogo ufficiale tra cattolici ed ebrei, compariva poco sulla scena, spingendo invece in primo piano il suo amico Albert Decourtray (morto nel 1994), arcivescovo di Lione, unico ad accompagnarlo, il 23 giugno 1983, nella sua prima visita ad Auschwitz, la « tomba » di sua madre.
Con Théo Klein e altre personalità ebraiche e cattoliche, ha condotto le delicate trattative per tentare di risolvere nel 1983 il caso della carmelitane polacche che si erano stabilite nel campo di Auschwitz e che accetteranno di lasciare questo luogo solo dieci anni dopo (nel 1994).
Dopo l’irritazione degli inizi, il suo ruolo e il suo prestigio non cesseranno più di aumentare nella comunità ebraica. Monsignor Lustiger sarà uno dei primi ispiratori ed autori della dichiarazione di « pentimento » dell’episcopato francese nel settembre 1997 a Drancy e un artigiano del successo della visita di Giovanni Paolo II a Gerusalemme nel 2000. La loro visita a Yad Vashem e al muro del pianto fu un pellegrinaggio della memoria, del riconoscimento del debito cristiano ai « fratelli maggiori » ebrei. Un passo inaudito, ma non ancora conclusivo, della riconciliazione tra « l’ulivo buono » di cui parlava San Paolo e « l’ulivo selvatico ».
Alla fine della sua vita, Monsignor Lustiger rappresenta ancora il papa nel gennaio 2005, in occasione delle cerimonie del 50° anniversario della liberazione del campo di Auschwitz. E, nel
maggio 2006, sarà presente a Birkenau, sulla rampa della morte, accanto a Benedetto XVI. Nonostante il procedere della malattia guidava delegazioni di cardinali di tutto il mondo e di vescovi francesi negli ambienti ebrei più ortodossi di New York. La sua ultima visita risale al marzo 2007.

Publié dans:c.CARDINALI, Card. Jean Marie Lustiger |on 28 février, 2009 |Pas de commentaires »

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