EBREI E CRISTIANI UN SOLO DESTINO. 40° ANNIVERSARIO DELLA NOSTRA AETATE (JEAN-MARIE LUSTIGER) (2006)
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EBREI E CRISTIANI UN SOLO DESTINO. 40° ANNIVERSARIO DELLA NOSTRA AETATE (JEAN-MARIE LUSTIGER)
SABATO 03 GIUGNO 2006
Quale cammino sorprendente abbiamo percorso, ebrei e cristiani, da oltre mezzo secolo! Il quarantesimo anniversario della dichiarazione Nostra aetate coincide con il sessantesimo dell’arrivo delle truppe sovietiche al campo di Auschwitz. Mentre si stanno manifestando nuove forme di antisemitismo, questa doppia commemorazione ci permette di misurare l’enorme peso di dolore e di vergogna che grava sulle coscienze per la memoria della Shoah, «questo crimine inaudito e fino a quel momento anche inimmaginabile», così come lo ha qualificato Benedetto XVI alla sinagoga di Colonia . Qui bisognerebbe fermarsi e rendere grazie per tutti coloro che hanno lavorato a stabilire tra ebrei e cattolici una nuova relazione di fiducia, di stima e di rispetto che fonda le vere amicizie. Essi sono numerosi da una parte e dall’altra. Permettetemi di citarne uno solo, papa Giovanni Paolo II. Ho voluto, per questa occasione, riflettere sull’appello che ci ha lanciato papa Benedetto XVI al termine della sua allocuzione alla sinagoga di Colonia. Ci invita a «spingersi anche in avanti, verso i compiti di oggi e di domani» per «dare insieme una testimonianza ancora più concorde, collaborando sul piano pratico». In effetti è frequente al giorno d’oggi sentir parlare in Occidente di civiltà «giudaico-cristiana», il più delle volte per criticarla e per liberare gli individui dagli obblighi che essa farebbe pesare sui costumi e sulla società. Così, osservatori che si presentano lontani tanto dal cristianesimo quanto dall’ebraismo li mettono entrambi sullo stesso piatto della bilancia. Individuare nel cuore della nostra civiltà una Weltanschauung giudaico-cristiana non soddisferà certo tutti gli ebrei né tutti i cristiani, ma attesta dall’esterno due fatti essenziali dal nostro punto di vista: primo, ebrei e cristiani esercitano insieme una responsabilità rispetto alla civiltà e a tutta l’umanità; secondo, ebrei e cristiani portano insieme il peso della rivelazione biblica. In questo quarantesimo anniversario della Nostra aetate vi propongo di lasciarci interpellare da questo sguardo esterno e di riflettere sulla nostra comune responsabilità. Che cosa può e deve apportare al mondo l’incontro degli ebrei e dei cristiani, o piuttosto la loro riconciliazione, o meglio ancora la loro reciproca riscoperta in un’epoca in cui si sta delineando una civiltà planetaria fatta di conflitti e opposizioni, convergenze e scambi, ma anche di ripiegamenti? Non è senza significato che la ‘riscoperta’ tra ebrei e Chiesa cattolica avvenga in questo periodo critico e magnifico di grandi sconvolgimenti dalle imprevedibili conseguenze. 1. Esiste indubbiamente una convergenza tra ebrei e cristiani – almeno per quel tanto che sono coerenti con la propria fede – nel fare appello alla necessità di una morale per il bene della vita della società. Durante l’ultimo secolo, essi si sono ritrovati concordi nel criticare i poteri totalitari. Questi ultimi, in quanto «dettavano legge», si sono eretti ad arbitri del bene e del male. Certo, ogni potere è tentato di farlo. Ma ebrei e cristiani hanno in comune una visione molto chiara: la legge che s’impone alla coscienza umana ha una fonte più alta dell’uomo, il bene non è definito dall’arbitrio dei voleri o delle opinioni ma s’impone in questo mondo relativo e si propone come un assoluto alle scelte della libertà; e questa norma irrecusabile nella gestione degli affari temporali rende la politica una realtà degna della condizione umana. La saggezza della legge umana e la sua forza rispetto alle coscienze non emerge solamente dalle sanzioni che l’accompagnano, ma innanzi tutto dalla giustizia che essa introduce nei rapporti umani. Questa legge, ogni legge giusta, giace nel solco, per la maggior parte del tempo invisibile, della volontà santa di Dio,rivelata sul Sinai. In un modo o nell’altro la legge trae da Dio un certo carattere sacro che qualifica anche l’uomo a cui è rivolta. Questa convinzione comune agli ebrei e ai cristiani si dispiega in un discorso razionale che ha costituito il corpus del diritto naturale e ha permesso l’affermazione della dignità inalienabile della persona umana sulla quale si fondano in definitiva i diritti dell’uomo. Permettetemi di citare qui un retroscena poco conosciuto della redazione della costituzione Gaudium et spes del Vaticano II. Per superare le formulazioni classiche del diritto naturale l’arcivescovo Karol Wojtyla, sulla scia di Max Scheler, propose la propria prospettiva personalista, in cui un vescovo riconobbe il pensiero di Martin Buber… Questa prospettiva etica sulla politica ne contesta dall’interno l’arbitrarietà; essa mira a chiarire l’esercizio del potere, non a distruggerlo ma a situarlo come uno dei più nobili servizi da rendere. Essa è il testimone dell’autentica saggezza che la Bibbia ci dice venire da Dio. Non c’è qui un altissimo ideale di umanità? Il ruolo di sentinella e testimone del regno di Dio che hanno sia il popolo ebraico sia i cristiani sfida e relativizza ogni impero umano. Insieme, ebrei e cristiani, non abbiamo forse la responsabilità e l’obbligo rispetto all’intera umanità di questa ragione politica? Non si trova forse qui la saggezza necessaria alle istituzioni mondiali fondate per regolare la pace tra le nazioni, ma che i conflitti di forza e di interesse non lasciano funzionare secondo la giustizia e il diritto (cf. Gen 18,19), e cioè con efficacia? 2. Questa convinzione ha la propria origine nella rivelazione del Sinai. Consideriamo come ebrei e cristiani ricevono il dono della Legge o dei comandamenti. Non spetta a me affrontare la questione centrale dell’osservanza dei precetti commentata dalle tradizioni rabbiniche. Mi sembra tuttavia necessario far presente di continuo ai cristiani che cosa significa l’osservanza di 613 comandamenti. Codificati dalla tradizione, essi abbracciano la totalità della vita dell’ebreo religioso, dalla preghiera e dallo studio personale e comunitario a tutti gli altri ambiti dell’esistenza: morale, vita familiare, professionale ecc. Essi sono tutti recepiti come provenienti espressamente dalla volontà divina. Il migliore paragone della vita ebraica così concepita sarebbe, nel cristianesimo, la vita monastica, benché si tratti qui di una vita familiare con tutti gli obblighi propri della vita laica… E per un cristiano? Sorprenderò forse quelli fra voi che conoscono poco la dottrina cattolica, siano essi cristiani o ebrei, ricordando che, sostanzialmente, questi comandamenti sono recepiti dai cristiani come rivelazione divina contenuta nella Bibbia stessa. Sfogliate il Catechismo della Chiesa cattolica promulgato da papa Giovanni Paolo II. La morale vi è esposta nel quadro delle dieci parole, all’interno delle quali si situa la riflessione morale sull’agire umano personale e sociale. Certo, come discepoli di Gesù differiamo senz’altro sulla maniera d’intendere e applicare questi comandamenti. Per un cristiano il commentario autorizzato dei comandamenti è la maniera in cui Gesù li ha vissuti e in cui ci chiede di vivere. È un’interpretazione determinata da «Shemà, Israele (…) amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze» (Dt 6,4; cf. Mt 22,37). La prima regola dell’agire ricapitola la Legge e i profeti nel comandamento dell’amore di Dio e dell’amore fraterno (cf. Lv 19,18; Mt 22,39), immagine e retaggio dell’amore insegnato da Gesù ai suoi discepoli: amatevi «gli uni gli altri come io vi ho amati» (Gv 15,12). Uno sguardo miope potrebbe vedere tra queste due visioni delle differenze inconciliabili. Uno sguardo più profondo vedrà che la loro fonte è comune: è in Dio. Le conseguenze sull’agire umano sono analoghe, anche quando la giustizia e la pace si dispiegano secondo modalità diverse e sono vissute facendo appello a distinte risorse spirituali. Certo, queste differenze non sono trascurabili. Esse sono ugualmente essenziali alla nostra esperienza. Tuttavia la convergenza di ebrei e cristiani permette loro di affermare con più forza e rispetto la propria missione di vigilanza e di testimonianza nei confronti dell’umanità. L’esperienza cristiana ha potuto a volte introdurre una certa relativizzazione dei comandamenti in nome della carità. Certo, l’amore di Dio e del prossimo è, per il cristiano come per l’ebreo, la pienezza della Legge: l’espressione non potrebbe essere più esatta, forte e bella. Rimane imprescindibile che le esigenze dell’amore siano rigorosamente comprese e strutturate dal rispetto delle volontà divine. Un incontro fecondo potrebbe ricordare ai cristiani che essi non possono tralasciare quello che Dio comanda e, agli ebrei, che il comandamento dell’amore posto all’inizio dello Shemà anima tutti gli atteggiamenti che ne derivano, nei rapporti umani come nei riguardi di Dio.
L’universalismo cristiano ha fatto conoscere a tutte le nazioni del mondo, a volte in una forma secolarizzata, quello che è stato dato a Israele sul Sinai. Israele ne resta il garante, senza dubbio assieme ai cristiani, per il bene comune di tutta l’umanità. 3. Dobbiamo dunque ora interrogarci sull’universalismo della rivelazione. Che significato può avere per l’insieme dell’umanità il riavvicinamento di ebrei e cristiani? Evidentemente non voglio rispondere a questa domanda limitandomi a esporre l’opinione corrente. Alcuni potrebbero temere un risultato disastroso per la messa a rischio dell’indipendenza e della libertà delle identità particolari nazionali o religiose. Altri, forse gli stessi, si domanderanno come delle religioni che la storia ha fino a questo punto separato possano unire le proprie forze per contribuire a una convergenza delle culture e delle religioni. In effetti questa relazione con l’insieme dell’umanità è inscritta nell’origine stessa dell’ebraismo. Ricordate la benedizione data ad Abramo: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,3) e anche l’annuncio profetico secondo cui tutte le nazioni verranno ad adorare nel suo tempio l’unico Signore del cielo e della terra. Per i cristiani, gli ebrei apostoli di Gesù hanno obbedito, non senza grande fatica, a questo oracolo profetico scoprendo, quasi loro malgrado e con stupore, che il dono dello Spirito era ugualmente accordato ai pagani. L’ordine di Gesù dato ai suoi di andare a insegnare a tutte le nazioni (goim) per formare tra esse dei discepoli che riceveranno il battesimo (cf. Mt 28,19) fa in realtà partecipi i cristiani della speranza ebraica per il mondo. Nello stesso tempo gli atteggiamenti spirituali e le speranze degli uni e degli altri restano opposti su questo punto. Infatti, il popolo ebraico vive una situazione paradossale. Esso rimane un popolo, continua a rivendicare questo nome. La domanda di sapere se sia un popolo simile agli altri oppure diverso è stata posta fin dalle origini. Siamo un popolo differente dalle nazioni, perché formato da Dio per servirlo; e una nazione simile alle altre allorché reclama un re e un potere come gli altri popoli. Rimane il fatto che nell’attuale processo di globalizzazione gli ebrei e le comunità ebraiche disperse nel mondo intero sono, a tutti gli effetti, parte integrante della diversità delle culture e delle nazioni, senza che per questo cessi l’appartenenza al ‘popolo ebraico’. Allo stesso modo – si può concludere – il fatto d’essere cristiani incorpora ciascuna persona e ciascuna comunità nell’esistenza comune della Chiesa del Messia, presente attraverso i tempi della storia in tutte le nazioni e in tutte le culture. Il problema che tento qui di circoscrivere è sollevato dalla globalizzazione. Può una solidarietà unificare l’intera umanità? E a prezzo della negazione o dell’oblio delle particolarità considerate fino a oggi come ricchezze, ma che possono apparire ormai come delle sopravvivenze o degli ostacoli? Certamente no. Eppure, la responsabilità affidata dalla parola di Dio agli ebrei e ai cristiani, ciascuno secondo la propria chiamata e tradizione, è di condurre l’umanità alla consapevolezza della sua unità e della sua vocazione unica. Ciò riguarda la sua origine. L’umanità, come dicono le prime pagine della Genesi, è stata creata da Dio a sua immagine e somiglianza (cf. Gen 1,26). Esistono, in seno alla diversità umana, delle sentinelle e dei testimoni della luce dell’origine, non per imporla ma per aiutare l’umanità a decifrare il proprio destino. Gli ebrei sono consapevoli della propria particolarità storica poiché questa rivelazione ha loro affidato per primi una fede assolutamente irrevocabile. E nell’esperienza di un popolo forgiato da questa elezione che la storia santa si è incarnata nella storia umana. La tentazione per il popolo ebraico è, evidentemente, di chiudersi in questa particolarità e quindi di vuotarla della sua portata salvifica universale. I cristiani sono diventati a propria volta beneficiari di questa primi genia benedizione poiché, fin dall’origine della Chiesa, nata dagli ebrei, anche i pagani ottengono di aver parte con loro a questa benedizione e alla sua promessa. Nel corso dei secoli i cristiani saranno anch’essi tentati di ricreare dei particolarismi di tipo nazionale o religioso; essi rischiano di perdere così il senso delle proprie radici, dell’origine che garantisce la loro speranza. Ma ebrei e cristiani, rincontrandosi e misurando le differenze reciproche, possono meglio comprendere quello che è stato loro dato come evidenza fondatrice e scopo primordiale: rivelare a un’umanità frazionata il richiamo all’unità più forte e più grande delle sue immense diversità. 4. Evocare tali prospettive non significa minacciare né l’originalità ebraica né l’identità cristiana. Mi spiego. «La salvezza viene dai giudei», insegna Gesù alla samaritana nel Vangelo secondo san Giovanni (Gv 4,22). Senza gli ebrei l’universalità cristiana potrebbe dissolversi in un umanesimo astratto. L’esperienza cristiana mostra che la diversità delle culture, attraverso ostacoli e ambiguità a volte considerevoli, può essere rispettata e ogni cultura esaltata attraverso il riconoscimento dell’unità dell’umanità, figlia dell’Uno. Senza i cristiani l’ebraismo, portatore della benedizione promessa a tutte le nazioni, può forse realizzare il proprio compito senza riassorbirsi nella razionalità universale dei Lumi e senza vuotare di sostanza la storia che l’ha generato? Dalla riflessione su queste aporie possiamo ricavare una lezione: l’incontro tra ebrei e cristiani è necessario a entrambi per comprendere quel che forse Dio esige da ciascuno di essi. La loro esperienza comune, al pari delle loro percezioni divergenti della benedizione divina, rivela il volto dell’unità e della comunione universale radicato nella promessa fatta ad Abramo, annunciato dai profeti e attestato dalla Chiesa cattolica così come essa lo crede con umile audacia. Forse il passaggio vi apparirà forzato, ma esso rende conto della difficoltà con cui ciascuno di noi, in questo tempo di globalizzazione, è portato a misurarsi. Per gli ebrei, qual è la loro identità? È l’identità nazionale israeliana o è quella della diaspora? Su che cosa si fonda? Quel che è possibile dire alla luce della fede cattolica è stato espresso in maniera sorprendente da papa Giovanni Paolo II nella sua preghiera sulla Umschlagplatz di Varsavia. Ascoltiamola: ‘Dio di Abramo, Dio dei profeti, Dio di Gesù Cristo, in te tutto è contenuto, verso di te tutto si dirige; tu sei il termine di tutto. Esaudisci la nostra preghiera per il popolo ebraico che, in grazia dei suoi padri, tu continui a prediligere. Suscita in esso il desiderio sempre più vivo di penetrare profondamente la tua verità e il tuo amore. Assistilo perché, nei suoi sforzi rivolti alla pace e alla giustizia, sia sostenuto nella sua grande missione di rivelare al mondo la tua benedizione. Che esso incontri rispetto e amore presso coloro che non comprendono ancora le sue sofferenze, come presso coloro che provano compassione per le ferite profonde che gli sono state inferte, con il sentimento del rispetto reciproco degli uni verso gli altri. Ricordati delle nuove generazioni, dei giovani e dei bambini: che essi persistano nella fedeltà verso di te in quel che costituisce l’eccezionale mistero della loro vocazione. Ispirali affinché l’umanità comprenda, attraverso la loro testimonianza, che tutti i popoli hanno una sola origine e un solo fine: Dio, il cui disegno di salvezza si estende a tutti gli uomini. Amen’. Così, per la fede cattolica l’identità ebraica è fondata sul dono di Dio, dono irrevocabile, secondo l’espressione di san Paolo, dono che precede, nella storia, ogni altra determinazione sociologica, culturale o politica. Questo dono di Dio costituisce, in qualche modo, la vocazione del popolo ebraico di rivelare al mondo la benedizione divina. E per quel che riguarda i cristiani, il loro messaggio universale non è forse solo una maschera dell’imperialismo prima romano e poi occidentale? Come può espandersi nelle culture del mondo senza per questo perdere la propria forza e il proprio contenuto? Il problema si pone in maniera acuta quando i cristiani portano il messaggio biblico, compresa la Torah, a nazioni come l’Asia e quando queste, alla maniera di Gandhi, pur disposte ad accogliere i valori di Gesù Cristo come un messaggio di liberazione, dichiarano di non aver nulla a che fare con la Bibbia poiché hanno le proprie scritture e storie sacre. Pur esponendosi al rischio di perdersi perdendo la propria universalità, il cristianesimo non può accettare questo sradicamento fuori di Israele, vale a dire fuori dall’alleanza, dalla scelta primigenia di Dio. L’incontro – il legame – degli ebrei e dei cristiani, nella tensione perenne verso un pieno rispetto reciproco, offre all’intera umanità il suo volto originale e conforta la sua speranza di un’unità pacifica. 5. Qual è dunque il fondamento del riavvicinamento tra ebrei e cristiani? Cosa c’è di comune agli uni e agli altri che giustifica un’alleanza reciproca? La risposta è inscritta nella prima pagina del Nuovo Testamento. Esso comincia con una genealogia, di cui vi cito le prime righe: «Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli» (Mt 1,2). Queste parole introducono, come ha detto il primo evangelista, ‘la genealogia di Gesù Cristo (Messia), figlio di Davide, figlio di Abramo» (Mt 1, 1). Il cristiano riceve dal popolo ebraico la totalità della Scrittura: la Legge, i profeti e gli altri scritti. Noi la riceviamo per quel che è: parola di Dio. E questo è vero per tutti i cristiani – protestanti, cattolici, ortodossi -, quali che siano stati i crimini commessi e le vicissitudini della storia. Questa Scrittura santa è inseparabile da coloro a cui è stata rivolta e dalle lingue in cui è stata dapprima formulata. La Chiesa riceve ognuna di queste parole come ispirate dallo Spirito di Dio. Vuole rimanere fedele a esse. Anzi, non può allontanarsene mentre certuni, come Marcione, avrebbero voluto una rottura radicale che avrebbe eliminato dalla fede dei discepoli di Gesù la Scrittura biblica, la storia, l’alleanza e l’elezione. Ma non si è avuta forse una simmetrica riduzione da parte ebraica per delle ragioni che a noi a volte paiono fin troppo evidenti e che sarebbe superfluo ricordare? E la legge del silenzio che ha prevalso. Molto spesso gli ebrei hanno detto, in passato, di non aver affatto bisogno dei cristiani dal punto di vista religioso. In effetti in questi atteggiamenti opposti noi riconosciamo la rottura che si instaurò molto presto davanti al messaggio di Gesù di Nazaret, segno di contraddizione. Ebrei e cristiani o cattolici condividono contemporaneamente una radice comune e un conflitto. Ma questo conflitto, agli occhi stessi dei cristiani, s’inscrive nell’attesa che la storia umana si compia secondo la volontà di Dio; questo è un orizzonte familiare anche per il pensiero ebraico. Gli ebrei, come i cristiani, sono tesi verso una speranza. Essi hanno in comune la rivelazione ricevuta e trasmessa, che porta il loro sguardo verso quel compimento i cui tratti sono per ciascuno segnati dall’esperienza dei secoli, delle culture e dei popoli, per quel tanto che ciascuno accetta o rifiuta dell’altro. Chi non avverte qui che le tensioni possono essere tanto più forti e dolorose quanto più i punti d’accordo e di comunione sono solidi? Dal momento che apparteniamo alla stessa radice ogni tensione è vissuta come l’insorgere di una ferita, di un rifiuto; ma può essere anche vissuta nella speranza di una luce sempre più grande. Oggi, alla luce della storia, senza che il riavvicinamento possa rendere meno acute le divergenze, l’urgenza dell’appello ricevuto alle origini obbliga i fratelli separati, il fratello maggiore e il minore, a rispondere, ciascuno per la parte che gli spetta, alla missione assegnatagli. Nessuno dei due può adempierla senza l’altro, senza contemporaneamente fare violenza all’altro o penalizzarlo. L’aspetto attuale dell’umanità anticipa, in modo ancora oscuro e a volte contraddittorio, la speranza portata dai profeti e proclamata dal Nuovo Testamento. Sarebbe illusorio e menzognero negare le nostre differenze e la nostra fede personale al fine di realizzare questa speranza comune. Ciò sarebbe un errore mortale e in effetti una rinuncia. Piuttosto, ciascuno è chiamato a progredire nel dovere di giustizia e di pace assegnatogli dalla Provvidenza. Il legame comune tra ebrei e cristiani fonda la loro riscoperta reciproca in questo secolo, garantendo l’opera che essi debbono compiere, pena una loro mancanza verso l’umanità. Sono in gioco l’equilibrio e la pace nel mondo. L’avvenire comune tra ebrei e cattolici non si riduce a limitare il possibile contenzioso. Non può accontentarsi di una pacifica comprensione reciproca, e neppure di una solidarietà a servizio dell’umanità. Questo avvenire richiede un lavoro su quel che è comune, come su quel che separa, lavoro ormai possibile perché fondato sulla certezza di un’amicizia voluta da Dio. Che le differenze e le tensioni divengano uno stimolo per un approfondimento sempre più attento e docile del mistero, di cui la storia ci costituisce gli eredi indivisi.
Roma, 27 ottobre 2005.
* Cardinale, Arcivescovo emerito di Parigi.