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UN RITRATTO DI MELCHISEDECH – 26 AGOSTO (mf)

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UN RITRATTO DI MELCHISEDECH – 26 AGOSTO (mf)

L’articolo è tratto da Jean Daniélou, I santi pagani dell’Antico Testamento, trad. it. a cura di F. Savoldi, Queriniana, Brescia 1988, pp. 107-113 (ed. or. Paris 1956).
Tra le grandi figure non ebraiche dell’Antico Testamento, Mechisedech è una delle più eminenti. La Genesi non gli consacra che un breve paragrafo, carico però di significato (14,18-20), il Salmo 109 ci mostra in lui il modello del «sacerdote eterno», la Lettera agli Ebrei gli consacra numerosi passi. I Giudei cercheranno di diminuirlo a profitto di Abramo [1]. Ma i cristiani esaltano in lui l’immagine del sacerdozio del Cristo e le primizie della Chiesa delle nazioni [2].
La festa di san Melchisedech è celebrata il 25 aprile. Una chiesa gli è consacrata a Salem di Samaria, che la pellegrina Eteria visita nel IV secolo (Cronaca del viaggio, 13-14). La Preghiera eucaristica I menziona il suo sacrificio tra quelli di Abele e di Abramo.
Attorno alle brevi e misteriose righe della Genesi, si costruiscono meravigliose leggende. Il Libro dei Segreti di Enoc, uno scritto giudeo- cristiano del secondo secolo, gli attribuisce una concezione miracolosa e lo mostra sottratto alla morte e sollevato in Cielo dall’Arcangelo Michele [3]. La Caverna dei tesori siriaca ne fa un precursore di Giovanni Battista [4]. Alcuni gnostici, i Melchisedechiani, vedranno in lui una manifestazione dello Spirito santo [5].
Ma la realtà è ancor più mirabile. Melchisedech è il grande Sacerdote della religione cosmica. Egli raccoglie in sé tutto il valore religioso dei sacrifici offerti dalle origini del mondo sino ad Abramo e attesta il gradimento di Dio. Melchisedech è «il sacerdote dell’Altissimo, che ha fatto il cielo e la terra» (Gen. 14,13). Egli conosce il vero Dio, non sotto il nome di Jahvé, che sarà rivelato a Mose per esprimere le ricchezze nuove che l’alleanza manifesta, ma sotto il nome di El, che è quello del Dio creatore, conosciuto attraverso la sua azione nel mondo. Ed è questa un’ulteriore attestazione della conoscenza di Dio attraverso il cosmo che già Enoc ci aveva mostrato.
Melchisedech è sacerdote di questa prima religione dell’umanità, che non è limitata ad Israele, ma che abbraccia tutti i popoli. Egli non offre il sacrificio nel Tempio di Gerusalemme, ma il mondo intero è il Tempio da cui si innalza l’incenso della preghiera [6]. Egli non offre il sangue dei montoni e dei tori, il sacrificio espiatorio, ma offre la pura oblazione del pane e del vino, il sacrificio di ringraziamento.
Ed è proprio il ringraziamento che egli offre, per la vittoria di Abramo, al quale Dio lo ha inviato. Egli riceve la decima da Abramo, cioè la parte prelevata su tutti i beni, per servire al culto di Dio. Se Abramo è l’iniziatore di un’alleanza nuova e più perfetta, rende però omaggio alla legittimità di questa prima alleanza tra le mani del suo gran sacerdote.
Ci si ricorda, in un altro momento della storia, di Gesù che riceve sulle rive del Giordano il battesimo da Giovanni Battista prima di vederlo inchinarsi davanti a lui [7]. Egli è re e sacerdote raccogliendo in sé le due unzioni che saranno divise, tra David e Aronne, e non saranno più raccolte che in Gesù. Così, senza alcun bisogno di fare appello alla leggenda, ci appare la grandezza di Melchisedech.
Il sacrificio è l’azione religiosa per eccellenza, l’atto con il quale l’uomo riconosce il sovrano dominio di Dio su di sé e su tutte le cose, con l’offerta delle primizie dei suoi beni, come faceva Abele, agli inizi del mondo, offrendo le primizie dei suoi greggi. Così, alle origini dell’umanità, sorgono i due gesti essenziali. Abele che inventa il rito e Caino che fabbrica l’utensile, i due gesti le cui vestigia attesteranno dopo millenni la presenza dell’uomo.
Dappertutto dove vi è sacrificio vi è religione, e dove non vi è sacrificio, azione sacerdotale, non vi è religione. La religione è infatti l’atto stesso per cui l’uomo riconosce la sua totale appartenenza a Dio. E il sacrificio è l’espressione visibile, il sacramento di questo atto interiore di adorazione.
Questo gesto lo ritroviamo presso tutti i popoli del mondo. Esso appare nella forma più elementare nei popoli dell’Africa o dell’ Australia, raggiunge la più alta vetta d’interiorità in India dove Brahma, il flamen latino, diviene un nome della divinità. Esso rivestirà a volte forme barbare, nel sacrificio di fanciulli al Moloch fenicio o nei sacrifici di prigionieri alle divinità azteche. Ma per quanto ingenuo o pervertito, esso resterà sempre l’espressione dell’ esigenza più irreprimibile dell’uomo, quella di mantenere il suo legame con Dio da cui proviene, e che è la ratifica stessa della sua esistenza.
La grandezza di Melchisedech non è solo di essere la più perfetta espressione del suo ordine proprio, ma di essere la figura di colui che sarà il gran sacerdote eterno e che offrirà il perfetto sacrificio. È quanto annunciava, in un testo importantissimo, il Salmo 109: «Tu sei sacerdote in eterno, secondo l’ordine di Melchisedech». Il Salmista annunciava così che alla fine dei tempi sarebbe apparso l’ultimo grande sacerdote, colui che sarebbe stato il gran sacerdote in eterno, perché avrebbe esaurito la realtà del sacerdozio e perché non sarebbe stata possibile l’esistenza di altri dopo di lui.
È questo testo che la Lettera agli Ebrei applicherà a Gesù, attestando come si realizzi in Lui (4,6). Bisogna rileggere il testo straordinario in cui la Lettera agli Ebrei ci mostra in Melchisedech la figura del Cristo: «Or questo Melchisedech, re di Salem, Sacerdote del Dio Altissimo, che andò incontro ad Abramo, mentre ritornava dopo aver sconfitto vari re e lo benedì, a cui Abramo dette la decima di ogni cosa, il cui nome significa prima di tutto “Re di giustizia”, e per di più è Re di Salem, cioè “Re di pace”, senza padre, madre, senza antenati, e del quale si ignora il principio e la fine, questo Melchisedech, vera figura del Figlio di Dio, rimane sacerdote per sempre» (7,1-3).
Così per Paolo i titoli stessi di Melchisedech si caricano di un misterioso simbolismo, la giustizia e la pace si riuniscono in lui, la giustizia e la pace di cui il Salmo 84,11 dice che si sono abbracciate. Non è però questo il fatto più strano. Paolo sembra mostrarci Melchisedech quasi sorgente nel mondo «senza padre e senza madre». Non ne fa in qualche modo un personaggio celeste? In realtà Paolo parte qui dal fatto notevole che a differenza degli altri personaggi della Bibbia, di cui ci vengono date lunghe genealogie, Melchisedech non è collegato ad alcuna razza e non gli si dà alcuna discendenza. Ciò non significa minimamente, per Paolo, che egli non abbia avuto in realtà antenati e discendenti. Ma l’assenza di una loro menzione nella Bibbia appare a Paolo come una figura di colui che non avrà padre perché viene dal cielo, e che non si iscriverà in una successione sacerdotale [8].
San Paolo vuol sottolineare qui un tratto essenziale del sacerdozio di Cristo, che è di essere definitivo, in modo che egli è il gran sacerdote eterno, dopo il quale non ve n’è un altro. Per questo oppone il sacerdozio di Melchisedech, che non rientra in una successione, a quello di Aronne, che invece vi rientrava. La successione dei sacerdoti nel sacerdozio levitico ne sottolineava l’imperfezione: «Se la perfezione fosse stata realizzata con il sacerdozio levitico, quale necessità c’era che sorgesse un altro sacerdote, secondo l’ordine di Melchisedech?» (Eb 7,11).
Essi avevano dei predecessori e dovevano avere dei successori: «I sacerdoti ebrei formano una lunga serie, perché la morte impediva loro di essere duraturi» (7,23 ) [9]. A ciò si oppone il sacerdozio del Cristo: «Gran sacerdote dei beni futuri, è entrato una volta per sempre nel Santuario dei cieli, dopo averci ottenuta una redenzione eterna» (9,11).
Egli è sacerdote per sempre, poiché il sacrificio che ha offerto è acquisito per sempre. I sacrifici che venivano offerti fino ad allora esprimevano lo sforzo dell’uomo di riconoscere la sovranità divina. Ma il loro sforzo non aveva successo a causa dell’eccessiva sproporzione tra la fragilità dell’uomo e la santità di Dio. Sacrifici pagani di Melchisedech, sacrifici ebraici di Aronne, tutti si urtavano contro la soglia invalicabile. Essi non penetravano nel santuario, e la loro stessa ripetizione ne attestava il fallimento.
Per questo, nella pienezza dei tempi, il Figlio di Dio, unito alla natura dell’uomo da un legame indistruttibile, si è fatto obbediente fino alla morte e fino alla morte della croce, manifestando con la sua obbedienza l’infinita amabilità della volontà divina e rendendo così a Dio una gloria perfetta. Ora la gloria di Dio è il fine stesso della creazione.
Così, nell’azione sacerdotale di Gesù Cristo, Dio è stato perfettamente glorificato in modo che nessuna gloria nuova gli può essere data. Tutti gli altri sacrifici sono così aboliti e noi non potremo ormai offrire al Padre che l’unico sacrificio di Gesù Cristo, di cui ogni eucaristia è il sacramento attraverso l’unico sacerdozio di Gesù Cristo, di cui ogni sacerdozio è la partecipazione. Abolendo però così tutti i sacrifici antichi, Gesù Cristo non li distrugge, ma li compie. Attraverso lui tutti i sacrifici di tutte le nazioni, ogni sforzo dell’uomo per glorificare Dio è rivolto al Padre e giunge sino a Lui: «Per ipsum et cum ipso et in ipso est tibi Deo Patri omnipotenti omnis honor et gloria».
E la menzione del sacrificio di Melchisedech, «sanctum sacrificium, immaculatam hostiam», nella Preghiera eucaristica I, attesta che non sono solo i sacrifici del Tempio d’Israele, ma anche quelli del mondo pagano che sono così ripresi e assunti nel sacrificio del Sommo Sacerdote eterno.

BENEDETTO XVI : AQUILA E PRISCILLA – 8 LUGLIO

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2007/documents/hf_ben-xvi_aud_20070207.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 7 febbraio 2007

AQUILA E PRISCILLA – 8 LUGLIO

Cari fratelli e sorelle,

facendo un nuovo passo in questa sorta di galleria di ritratti dei primi testimoni della fede cristiana, che abbiamo iniziato alcune settimane fa, prendiamo oggi in considerazione una coppia di sposi. Si tratta dei coniugi Priscilla e Aquila, che si collocano nell’orbita dei numerosi collaboratori gravitanti intorno all’apostolo Paolo, ai quali avevo già brevemente accennato mercoledì scorso. In base alle notizie in nostro possesso, questa coppia di coniugi svolse un ruolo molto attivo al tempo delle origini post-pasquali della Chiesa.
I nomi di Aquila e Priscilla sono latini, ma l’uomo e la donna che li portano erano di origine ebraica. Almeno Aquila, però, proveniva geograficamente dalla diaspora dell’Anatolia settentrionale, che si affaccia sul Mar Nero – nell’attuale Turchia -, mentre Priscilla, il cui nome si trova a volte abbreviato in Prisca, era probabilmente un’ebrea proveniente da Roma (cfr At 18,2). È comunque da Roma che essi erano giunti a Corinto, dove Paolo li incontrò all’inizio degli anni ’50; là egli si associò ad essi poiché, come ci racconta Luca, esercitavano lo stesso mestiere di fabbricatori di tende o tendoni per uso domestico, e fu accolto addirittura nella loro casa (cfr At 18,3). Il motivo della loro venuta a Corinto era stata la decisione dell’imperatore Claudio di cacciare da Roma i Giudei residenti nell’Urbe. Lo storico romano Svetonio ci dice su questo avvenimento che aveva espulso gli Ebrei perché “provocavano tumulti a motivo di un certo Cresto” (cfr “Vite dei dodici Cesari, Claudio”, 25). Si vede che non conosceva bene il nome — invece di Cristo scrive “Cresto” — e aveva un’idea solo molto confusa di quanto era avvenuto. In ogni caso, c’erano delle discordie all’interno della comunità ebraica intorno alla questione se Gesù fosse il Cristo. E questi problemi erano per l’imperatore il motivo per espellere semplicemente tutti gli Ebrei da Roma. Se ne deduce che i due coniugi avevano abbracciato la fede cristiana già a Roma negli anni ’40, e ora avevano trovato in Paolo qualcuno che non solo condivideva con loro questa fede — che Gesù è il Cristo — ma che era anche apostolo, chiamato personalmente dal Signore Risorto. Quindi, il primo incontro è a Corinto, dove lo accolgono nella casa e lavorano insieme nella fabbricazione di tende.
In un secondo tempo, essi si trasferirono in Asia Minore, a Efeso. Là ebbero una parte determinante nel completare la formazione cristiana del giudeo alessandrino Apollo, di cui abbiamo parlato mercoledì scorso. Poiché egli conosceva solo sommariamente la fede cristiana, «Priscilla e Aquila lo ascoltarono, poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio» (At 18,26). Quando da Efeso l’apostolo Paolo scrive la sua Prima Lettera ai Corinzi, insieme ai propri saluti manda esplicitamente anche quelli di «Aquila e Prisca, con la comunità che si raduna nella loro casa» (16,19). Veniamo così a sapere del ruolo importantissimo che questa coppia svolse nell’ambito della Chiesa primitiva: quello cioè di accogliere nella propria casa il gruppo dei cristiani locali, quando essi si radunavano per ascoltare la Parola di Dio e per celebrare l’Eucaristia. È proprio quel tipo di adunanza che è detto in greco “ekklesìa” – la parola latina è “ecclesia”, quella italiana “chiesa” – che vuol dire convocazione, assemblea, adunanza. Nella casa di Aquila e Priscilla, quindi, si riunisce la Chiesa, la convocazione di Cristo, che celebra qui i sacri Misteri. E così possiamo vedere la nascita proprio della realtà della Chiesa nelle case dei credenti. I cristiani, infatti, fin verso il secolo III non avevano propri luoghi di culto: tali furono, in un primo tempo, le sinagoghe ebraiche, fin quando l’originaria simbiosi tra Antico e Nuovo Testamento si è sciolta e la Chiesa delle Genti fu costretta a darsi una propria identità, sempre profondamente radicata nell’Antico Testamento. Poi, dopo questa “rottura”, si riuniscono nelle case i cristiani, che diventano così “Chiesa”. E infine, nel III secolo, nascono veri e propri edifici di culto cristiano. Ma qui, nella prima metà del I secolo e nel II secolo, le case dei cristiani diventano vera e propria “chiesa”. Come ho detto, si leggono insieme le Sacre Scritture e si celebra l’Eucaristia. Così avveniva, per esempio, a Corinto, dove Paolo menziona un certo «Gaio, che ospita me e tutta la comunità» (Rm 16,23), o a Laodicea, dove la comunità si radunava nella casa di una certa Ninfa (cfr Col 4,15), o a Colossi, dove il raduno avveniva nella casa di un certo Archippo (cfr Fm 2).
Tornati successivamente a Roma, Aquila e Priscilla continuarono a svolgere questa preziosissima funzione anche nella capitale dell’Impero. Infatti Paolo, scrivendo ai Romani, manda questo preciso saluto: «Salutate Prisca e Aquila, miei collaboratori in Cristo Gesù; per salvarmi la vita essi hanno rischiato la loro testa, e ad essi non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese dei Gentili; salutate anche la comunità che si riunisce nella loro casa» (Rm 16,3-5). Quale straordinario elogio dei due coniugi in queste parole! E a tesserlo è nientemeno che l’apostolo Paolo. Egli riconosce esplicitamente in loro due veri e importanti collaboratori del suo apostolato. Il riferimento al fatto di avere rischiato la vita per lui va collegato probabilmente ad interventi in suo favore durante qualche sua prigionia, forse nella stessa Efeso (cfr At 19,23; 1 Cor 15,32; 2 Cor 1,8-9). E che alla propria gratitudine Paolo associ addirittura quella di tutte le Chiese delle Genti, pur considerando l’espressione forse alquanto iperbolica, lascia intuire quanto vasto sia stato il loro raggio d’azione e, comunque, il loro influsso a vantaggio del Vangelo.
La tradizione agiografica posteriore ha conferito un rilievo tutto particolare a Priscilla, anche se resta il problema di una sua identificazione con un’altra Priscilla martire. In ogni caso, qui a Roma abbiamo sia una chiesa dedicata a Santa Prisca sull’Aventino sia le Catacombe di Priscilla sulla Via Salaria. In questo modo si perpetua la memoria di una donna, che è stata sicuramente una persona attiva e di molto valore nella storia del cristianesimo romano. Una cosa è certa: insieme alla gratitudine di quelle prime Chiese, di cui parla san Paolo, ci deve essere anche la nostra, poiché grazie alla fede e all’impegno apostolico di fedeli laici, di famiglie, di sposi come Priscilla e Aquila il cristianesimo è giunto alla nostra generazione. Poteva crescere non solo grazie agli Apostoli che lo annunciavano. Per radicarsi nella terra del popolo, per svilupparsi vivamente, era necessario l’impegno di queste famiglie, di questi sposi, di queste comunità cristiane, di fedeli laici che hanno offerto l’“humus” alla crescita della fede. E sempre, solo così cresce la Chiesa. In particolare, questa coppia dimostra quanto sia importante l’azione degli sposi cristiani. Quando essi sono sorretti dalla fede e da una forte spiritualità, diventa naturale un loro impegno coraggioso per la Chiesa e nella Chiesa. La quotidiana comunanza della loro vita si prolunga e in qualche modo si sublima nell’assunzione di una comune responsabilità a favore del Corpo mistico di Cristo, foss’anche di una piccola parte di esso. Così era nella prima generazione e così sarà spesso.
Un’ulteriore lezione non trascurabile possiamo trarre dal loro esempio: ogni casa può trasformarsi in una piccola chiesa. Non soltanto nel senso che in essa deve regnare il tipico amore cristiano fatto di altruismo e di reciproca cura, ma ancor più nel senso che tutta la vita familiare, in base alla fede, è chiamata a ruotare intorno all’unica signoria di Gesù Cristo. Non a caso nella Lettera agli Efesini Paolo paragona il rapporto matrimoniale alla comunione sponsale che intercorre tra Cristo e la Chiesa (cfr Ef 5,25-33). Anzi, potremmo ritenere che l’Apostolo indirettamente moduli la vita della Chiesa intera su quella della famiglia. E la Chiesa, in realtà, è la famiglia di Dio. Onoriamo perciò Aquila e Priscilla come modelli di una vita coniugale responsabilmente impegnata a servizio di tutta la comunità cristiana. E troviamo in loro il modello della Chiesa, famiglia di Dio per tutti i tempi.

17 MARZO: SAN PATRIZIO : “CRISTO CON ME, MATTINO E SERA”

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Santo_del_mese/03-Marzo/San_Patrizio.html

17 MARZO: SAN PATRIZIO, APOSTOLO DELL’IRLANDA, VESCOVO 390(?)-461

“CRISTO CON ME, MATTINO E SERA”

È solo una leggenda ma la trovo significativa. Narra che San Patrizio, giunto in Irlanda, prima di iniziare il suo lavoro di apostolo ed evangelizzatore degli abitanti, si fosse ritirato sulla sommità di un picco ossuto e sassoso che si affaccia sull’Oceano. Qui iniziò il suo “deserto”, fatto di digiuno, di preghiera e preparazione spirituale alla grande missione. Finita questa esperienza di solitudine Patrizio si mise a suonare la sua campana. A quel richiamo accorsero i serpenti dell’isola, per poi gettarsi dal dirupo nel mare, liberando l’Irlanda dai rettili. Una leggenda certo, ma che ci fa capire l’importanza del protagonista e di quanto sia radicato nell’immaginario collettivo degli Irlandesi. Ci spiega anche il perché ogni ultima domenica di luglio questo monte sacro, chiamato “The Reek”, sia meta di pellegrinaggi di migliaia di persone. Queste, si arrampicano sul monte, in preghiera e in silenzio, spesso a piedi nudi in segno di umiltà, talvolta portando vestiti di penitenza e grandi croci sulle spalle.
Un pellegrinaggio che si ripete da secoli anche se oggi con meno partecipazione e convinzione, anche perché l’isola è profondamente cambiata. Se ne andata l’immagine tradizionale di una Irlanda povera ma devotissima, dalla frequenza all’Eucarestia domenicale altissima (le ho viste anch’io un po’ di anni fa, a Dublino, queste chiese strapiene di gente devota e simpatica), un’isola che andava orgogliosa per il proprio attaccamento e fedeltà a Roma, ricca di vocazioni e generosa esportatrice di missionari in tutta la Chiesa (in Italia San Colombano, fondatore della celebre abbazia di Bobbio).
Quell’Irlanda non c’è più. Il grande cambiamento è avvenuto grosso modo in quest’ultimo ventennio. Non c’è più la povertà che si era patita per secoli (da qui anche la grande emigrazione in America). L’Irlanda ha saputo approfittare con intelligenza e tempismo degli aiuti provenienti dalla Unione Europea (della quale sono stati sostenitori convinti, a differenza degli Inglesi, ancora malati di nostalgia del loro ex-impero) non solo per vincere la povertà ma per diventare un’isola di benessere. Non c’è più una cultura chiusa e isolana, ma aperta alla globalizzazione, con molte aziende multinazionali che hanno fatto fare un salto di qualità all’Irlanda intera: dalla campagna alla telematica e alla “Net Economy”.
Molto profondo è anche l’influsso della cultura americana, particolarmente attraverso la televisione ed i film. Non si parla più di povertà economica ormai, ma di una certa “crisi spirituale” ed ecclesiale. Questa è stata innestata anche dai molti problemi creati dai fenomeni quali urbanizzazione, secolarizzazione e consumismo, e, non ultimo, da alcuni scandali del clero che ha intaccato la fiducia di molte persone. In alcune zone dell’isola la pratica religiosa domenicale è crollata dal 90% al 50% (comunque sempre più alta rispetto alla nostra cattolica Italia!). In alcune periferie di grandi città anche di meno. Ma per avere il quadro completo, qualche Irlandese direbbe “You have to go west” bisogna andare all’Ovest dell’isola, dove la frequenza alla messa è rimasta ancora molto alta, anche se minore rispetto al passato. Questo significa che il Cristianesimo rimane sempre la struttura portante della mentalità e della cultura della gente irlandese.
E questo è merito anche di San Patrizio e delle radici profonde che ha dato al cristianesimo dell’isola.

“Io, Patrizio, vado avanti sostenuto dalla forza di Dio”
Patrizio nacque attorno al 390 a Bannavem Taberniae, un villaggio della Britannia Romana, sulla costa occidentale dell’Inghilterra. Possiamo dire che era un “figlio d’arte” perché suo nonno era prete e il padre era un diacono e nello stesso tempo decurione civile, incaricato cioè della riscossione dei tributi. Ma quando Patrizio era ancora un ragazzo le legioni romane cominciarono a ritirarsi dalla Britannia, lasciandola indifesa. E in quegli anni hanno inizio le incursioni, dal continente, di altri popoli quali gli Angli, i Sassoni, gli Juti (che più tardi si stabiliranno nell’isola che diventerà così la “Terra degli Angli” (England), con una popolazione in prevalenza quindi anglo-sassone.
Ma le incursioni non arrivavano solo dal continente, ma anche dalla vicina grande isola. Ed in una di queste razzie di pirati irlandesi, Patrizio venne rapito, a sedici anni, e portato in Irlanda a fare il pastore, proprio tra quelle popolazioni che diventeranno il terreno della sua missione evangelizzatrice. Si vede proprio che le vie della Provvidenza sono infinite, e si serve anche di una apparente disgrazia (essere rapiti) per i propri progetti di salvezza. Patrizio cominciò così a conoscere e studiare l’indole ed il carattere, gli usi e i costumi di quelle popolazioni. Questo avvenimento doloroso interruppe la sua formazione scolastica (e di questo si rammaricherà spesso dichiarando di essere rimasto purtroppo “ignorantissimo”), ma nello stesso tempo fu “provvidenziale”. Scrisse lui stesso nella sua “Confessio”:
“Arrivato in Irlanda, ogni giorno portavo al pascolo il bestiame, e pregavo spesso nella giornata; fu allora che l’amore e il timore di Dio invasero sempre più il mio cuore, la mia fede crebbe, e il mio spirito era portato a fare circa cento preghiere al giorno, e quasi altrettante la notte, e stavo nelle foreste e sulle montagne, e mi alzavo prima dell’alba a pregare, e nonostante la neve, il gelo e la pioggia non sentivo alcun male, e non c’era in me pigrizia alcuna, come vedo ora, perché allora il mio spirito era pieno di ardore”.
Dopo alcuni anni riuscì a fuggire dall’Irlanda e le notizie che si hanno su questo buco di circa vent’anni della sua vita sono controverse. Si sa che Patrizio si preparò a diventare diacono e prete, e che seguì poi il vescovo Germano ad Auxerre, nella Gallia romana. Germano era una figura importante: una specie di Ambrogio di Milano. Era stato infatti funzionario imperiale, chiamato poi dal popolo all’episcopato. Aveva fatto anche dei viaggi apostolici in Britannia (nel 430 e nel 445) predicando ed insegnando. Patrizio lo scelse come suo maestro e lo seguì nella città chiamata oggi Auxerre (qualche studioso afferma che sia stato anche a Roma).

Patrizio evangelizzatore e vescovo di tutta l’Irlanda
Patrizio non è stato il primo evangelizzatore. Prima di lui era arrivato Palladio, britannico come Patrizio, inviato dal papa Celestino I. Gli Annali Irlandesi parlano anche di altri tre vescovi provenienti dal continente per predicare il Vangelo nell’isola. Ma questi sono stati solo i primi tentativi. Patrizio portò a compimento la sua missione, diventando il vero e grande apostolo di tutta l’Irlanda.
Alla morte di Palladio, Germano consacrò Patrizio vescovo e lo inviò nell’isola. Per lui era stata terra di prigionia, ora diventava terra di missione. E a questo si dedicò con tutto se stesso. Cominciò il suo lavoro apostolico nel nord, ed in seguito fissò sua sede episcopale ad Armagh. Particolare interessante, visto che parliamo molto di Unione Europea. Patrizio portò con sé un “team” multinazionale di collaboratori: c’erano Romani, Britanni, Galli, Franchi. Il risultato di questo lavoro “europeo” fu splendido. Da vecchio, Patrizio si definiva “peccator rusticissimus” (peccatore ignorantissimo), ma il suo spendersi senza risparmio e con intelligenza diffuse la fede cristiana nell’isola dandole una forte organizzazione. Nella sua predicazione ebbe un primo obbiettivo:
“Il modo di operare di Patrizio fu quello di convertire i figli e le figlie dei re (se non proprio il re stesso). E lui stesso dice che molti di questi diventarono monaci e monache, tutti dedicati a Dio. E questo sostiene bene l’idea che la cultura druidica di allora era già ben sviluppata, e pronta a quell’ultimo passo della fede, in cui la grazia poteva costruire sulla base umana già molto alta. Questi due aspetti spiegherebbero il grande successo dell’inculturazione della fede nell’Irlanda di allora” (Pat Egan SDB).
Con i suoi collaboratori seppe infondere in tutti e in tutto una particolare energia che renderà l’Irlanda una “isola di santi e di dotti” facendone sentire l’influsso anche sul continente europeo. Darà poi agli irlandesi l’orgoglio della propria identità come un popolo unificato dalla stessa fede cristiana.
Ma chi era Patrizio? Di sé parla nella Confessio. “Traspare dagli scritti la figura di un uomo molto sensibile… Ma gli elementi del carattere che risaltano di più sono una franchezza disarmante, un senso acuto dei propri limiti, e insieme la coscienza di aver ricevuto una missione alla quale consacrarsi con uno zelo smisurato, una generosità istintiva, una vera e propria passione per il Vangelo, unita alla venerazione per tutta la Scrittura, senza trascurare l’attaccamento affettuoso alle persone da lui battezzate ordinate, che traspare con tutta la forza dell’emozione soprattutto nell’Epistola” (Domenico Pezzini).
Patrizio fu specialmente un apostolo, un evangelizzatore ed un grande catecheta, molto vicino alla gente semplice, che egli sapeva capire e dalla quale si faceva capire, anche quando parlava di grandi temi teologici, quali la Trinità. Di essa è rimasta celebre la spiegazione che diede al popolo: “Le Persone della Trinità sono distinte tra loro, come queste foglioline di trifoglio sul loro stelo. Ma unica è la loro sostanza: ciascuna Persona è Dio, come ciascuna fogliolina è erba”. Qualche teologo non sarà certo felice della espressione, ma il popolo semplice intravedeva il significato del grande mistero trinitario e ne era felice. Da qui viene anche la tradizione degli Irlandesi che nel giorno della sua festa, il “Saint Patrick’s Day”, ancora oggi portano all’occhiello un trifoglio. Per ricordare e per ringraziare il grande santo che portò il Vangelo alla loro verde isola.

Mario Scudu SDB ***

*** Questo e altri 120 santi e sante sono nel volume di :
MARIO SCUDU, Anche Dio ha i suoi campioni, Editrice Elledici, Torino

Cristo davanti a me e dietro di me
Io, Patrizio, vado avanti per la mia strada, sostenuto dalla forza di Dio.
La potenza di Dio mi protegge, la saggezza di Dio mi guida,
L’occhio di Dio mi indica la via, l’orecchio di Dio è testimone delle mie parole.
Le parole di Dio siano sulle mie labbra, la mano di Dio mi sostenga,
si apra dinanzi a me la via che conduce a Dio, lo scudo di Dio mi difenda
l’armata invisibile di Dio mi salvi dalle insidie del demonio,
dai difetti che mi imprigionano, da tutti coloro che mi vogliono ingannare.
Durante il mio viaggio, breve o lungo, da solo o accompagnato da molti,
Cristo mi protegga sulla mia via,
perché una messe abbondante sia il frutto della mia missione.
Cristo davanti a me, Cristo dietro di me,
Cristo sotto e sopra di me, Cristo dentro e di fianco a me,
Cristo attorno a me dappertutto, Cristo con me mattino e sera.
Cristo nel cuore di chi pensa a me, Cristo sulle labbra di chi parla di me,
Cristo nello sguardo di chi mi guarda, Cristo negli orecchi di chi mi ascolta.
San Patrizio d’Irlanda

 

BEATO ANGELICO: IL REALISMO DELL’ESPERIENZA -18 FEBBRAIO MEMORIA

http://www.30giorni.it/articoli_id_422_l1.htm

BEATO ANGELICO: IL REALISMO DELL’ESPERIENZA -18 FEBBRAIO MEMORIA

«Il realismo di chi ha conosciuto d’esperienza la santità, di chi ha visto e rappresentato questa realtà che è la grazia di essere abbracciati da Cristo». Così lo storico Giuseppe De Luca commenta la pittura del domenicano Giovanni da Fiesole

di Stefania Falasca

Diciamo la verità: non è che gli garbasse poi tanto andare nei sacri palazzi. Lo aveva chiamato il Papa in persona per incaricarlo di affrescare la sua cappella privata in Vaticano. Altri al suo posto, per il privilegio di una simile commissione, sarebbero corsi a gambe levate. Ma lui, fra Giovanni da Fiesole, non avrebbe lasciato la sua povera cella del convento domenicano di San Marco per tutto l’oro del mondo. E alla fine, se c’era andato, lo aveva fatto per obbedienza, solo per obbedienza. «Modesto et humilissimo», ci riferisce il Vasari, lì, nella corte rinascimentale del Papa, il frate pittore non cambiò una virgola della sua condotta di vita che l’austera regola del chiostro gli dettava.
«Dicono alcuni» informa ancora il Vasari «che fra Giovanni non harebbe preso i pennelli se prima non avesse fatto orazione». Nella cappella pontificia raffigurò le storie dei diaconi martiri Stefano e Lorenzo mostrando al Vicario di Cristo i tesori della Chiesa così come «l’umile suo cuore» e la sua abilissima mano di «eccelso pittore» gli dettavano.
Si dice che il Papa, entrato in quella cappella ad opera compiuta, guardando quelle figure tanto vivide e presenti non poté trattenere le lacrime.
Erano gli anni 1448-1450 quando fra Giovanni da Fiesole, noto come Beato Angelico, andava fissando sui muri della cappella privata di papa Niccolò V il capolavoro della sua arte matura, l’ultimo dei suoi affreschi. In quel periodo, il coetaneo Masaccio, del quale l’Angelico è l’erede più diretto, era già morto da un ventennio e un altro pittore toscano, Piero della Francesca, da tutti considerato il “maestro della divina proporzione”, punto di riferimento per le future generazioni di pittori, andava dipingendo nel Palazzo Ducale di Urbino la famosa Flagellazione di Cristo. Erano gli stessi anni, eppure come è diverso il modo d’espresýione di quest’artista; un altro mondo, quello dell’Angelico, a confronto. Scrive Albert Camus, annotando le sue impressioni proprio di fronte a quella sacra rappresentazione di Piero della Francesca: «Perché commuoversi per chi non aspetta più nulla? Non un sorriso labile, non un pudore fugace, né rimpianto o attesa, ma facce coagulate in linee eterne. L’angoscia vuol esser scacciata per sempre. A prezzo della speranza. Perché il corpo ignora la speranza, non conosce più il pulsare del sangue. L’eternità è fatta d’indifferenza. Questo supplizio non ha seguito…».
Bastano queste intense osservazioni di Camus per suggerirci indirettamente cosa non è l’opera del Beato Angelico. Lo storico dell’arte Argan ce l’ha invece descritta tutta con queste poche e chiare parole: «C’est la caritas, la foi des simples, la piété des purs de cœur».
Figura davvero singolare quella di Giovanni da Fiesole nella storia dell’arte. E tanto è singolare nella storia dell’arte quanto è unica nella storia della Chiesa. La diffusa fama di santità che lo distinse già in vita, tanto da nominarlo con l’appellativo di Angelicus e di Beatus, è stata riconosciuta ufficialmente: il pittore domenicano è l’unico artista nella storia della Chiesa elevato agli onori degli altari. L’unico al quale, agli atti del processo canonico conclusosi nel 1983, per la prima volta non furono allegati scritti spirituali o teologici, ma il catalogo completo delle opere: le 135 tavole che riproducono i suoi dipinti. Del resto, ad intuire che l’arte del maestro fiorentino non poteva esser compresa se non alla luce della sua vita fu proprio il Vasari, il primo (e per eccellenza) biografo del Beato Angelico, che, nelle Vite, così inizia a scriverne: «Frate Giovanni Angelico da Fiesole, il quale fu al secolo chiamato Guido, essendo non meno stato eccellentissimo pittore e miniatore che ottimo religioso, merita per l’una e l’altra cagione, che di lui sia fatta honoratissima memoria».

Via pulchritudinis
Guido di Piero era nato nell’anno 1400 a Vicchio del Mugello, nella campagna fiorentina. Proprio nella Firenze dei Medici, agli inizi del Quattrocento, cominciò l’attività di “dipintore”. Poco più che bambino lo troviamo già all’opera nella bottega di Lorenzo Monaco, dove apprese la tecnica della miniatura e dell’affresco e si specializzò nella pittura su tavola. La sua pittura dovette essere apprezzata ben presto, se già nel 1417 risulta pagata a suo nome un’opera commissionata per la chiesa di Santo Stefano a Firenze. Un enfant prodige, si direbbe oggi. Certo è che Guido di Piero, stando ai documenti e alle testimonianze riguardo alla sua precoce e dimostrata abilità in quest’arte, aveva già avviata davanti a sé una brillante carriera di pittore. E ben remunerata anche, considerato lo status sociale di cui godevano i pittori affermati in un’epoca così favorevole per chi esercitava l’arte. Ma tre anni più tardi, poco più che ventenne, lo vediamo bussare, insieme al fratello Benedetto, alla porta del convento di San Domenico a Fiesole. Il “conventino”, come lo chiamavano quasi con disprezzo gli stessi domenicani della storica e ben più celebre sede conventuale di Santa Maria Novella a Firenze. Un conventino abbandonato e sperduto tra le colline fiesolane, di stretta osservanza, dove la vita comunitaria si svolgeva secondo la regola originaria, nella più radicale povertà. Era stato fondato pochi anni prima dal riformatore dell’ordine domenicano, il beato Giovanni Dominici, discepolo di santa Caterina da Siena, e tra i primi monaci vi aveva spiccato la semplice e umanissima figura di fra Antonino Pierozzi, poi canonizzato da papa Adriano VI. È sotto il priorato di questo santo frate che l’Angelico e suo fratello abbracciarono il chiostro, insieme a non pochi altri loro coetanei.
Dunque, Guido di Piero «se bene harebbe potuto commodissimamente stare al secolo, et oltre quello che haveva, guadagnandosi cioche havesse voluto con quell’arti, che ancor giovinetto benissimo fare sapeva… volle farsi religioso dell’ordine de’ frati predicatori» commenta il Vasari. E “harebbe potuto”, potremmo dire ancora col Vasari, bussare al ben più noto convento domenicano di Santa Maria Novella, pieno d’opere di insigni maestri, dove non gli sarebbe stato difficile mantenere contatti per progredire nella sua arte. “Harebbe potuto” anche, una volta finito il noviziato, non proseguire con l’ordinazione sacerdotale, restando così più libero di esercitare la pittura, come altri frati pittori avevano fatto (e ce ne sono tanti che a un certo punto sono rimasti solo pittori). Ma fra Giovanni no. Aveva bussato a quel conventino. Non c’era altro. Lo aveva fatto per sempre. Già, per sempre. Perché in convento rimase tutta la vita. «Non si cavò mai l’abito», «mai abbandonò la Religione», «nulla stimava più caro e bello che la compagnia di Christo solo» dice il Vasari, sottolineando con sorpresa, più che l’aspetto della sua vocazione, la sua fedeltà fino alla fine, il suo perseverare nella vita religiosa. Continuata vitae innocentia (nonostante, anche, la fama e la celebrità raggiunte).
Il noto storiografo ce lo descrive così: «Era humanissimo e molto sobrio», «semplice ne’ suoi costumi» e «in tutte le opere e ragionamenti suoi humilissimo e modesto». «Non lasciò mai huficio ecresiasticho per dipingere e con amorevolezza incredibile, a úhiunque ricercava opere da lui diceva che ne facesse esser contento il priore, e che, poi non mancherebbe». «Era solito dire che chi fa cose di Christo, con Christo deve star sempre». «Non fu mai veduto in collera tra i frati; il che grandissima cosa, e quasi impossibile mi pare a credere: et soghignando semplicemente haveva in costume d’amonire gli amici». «Poté havere dignità ne’ frati, e fuori, e non le stimò, affermando non cercare altra dignità che cercare di fuggire lo Inferno». «Potette comandar a molti, e non volle; dicendo esser men fatica, et manco errore ubbidire altrui». Per nessuna delle circa duecento Vite di eccellenti pittori, scultori e architetti scritte dal Vasari sono riportati tanti fatti e detti (oltremodo veritieri e documentati) come in quella del Beato Angelico. Non ce ne sono così nemmeno per il «sommo Michelangelo» (al cui cospetto, per lo storico Vasari, tutti gli altri artisti non sono che ombre). Sembra quasi che di fronte all’Angelico non abbia potuto fare altrimenti. Come resistere al fascino di questo pittore «non minore a Giotto» e padre «humanissimo», dall’umiltà tanto vera e profonda da renderlo persino inconsapevole della sua stessa arte, che mai firmò le sue opere e nemmeno volle mai lasciare autoritratti, che «mai fece crucifisso che non si bagnasse le gote di lacrime»? Senza la sua vita, è vero, non si può dire tutta la bellezza delle sue opere. «A San Marco fece storie del Testamento nuovo belle quanto più non si può dire». Basta guardarle.

Facilità espressiva
Bisogna allora entrare a San Marco. In quel convento domenicano a Firenze del quale l’Angelico decorò tutti gli ambienti: i corridoi, il chiostro, la sala capitolare e le quarantadue celle destinate ai frati, suoi confratelli. L’Angelico realizzò queste opere tra il 1436 e il 1445. Il suo più grande ciclo di affreschi destinato a un luogo privato. Un luogo di clausura, frequentato da soli monaci. Il ciclo di affreschi di San Marco, universalmente considerato un capolavoro assoluto dell’arte italiana, fra Giovanni lo dipinse così come aveva fatto tutto il resto della sua vita: per obbedienza, «pregando Dio che gli facesse ogni cosa a gloria di Lui»; e per il frate non era nient’altro che quello che è: una preghiera dipinta.
Vi raffigurò scene della vita di Cristo insieme ai misteri fondamentali della salvezza «con tale ardente amore, tale viva partecipazione e semplicità cristiana quanto alcun altro mai». Non un gesto, in queste immagini, è inutile. E non c’è sforzo, non smania, non gratuito divincolarsi. «Solo la sua immaginazione lo tradiva, ed egli diventava come un bambino» scrive lo storico dell’arte Berenson. Si è detto molto sulla “facilità espressiva” di queste opere e sulla loro evangelica semplicità. L’Angelico infatti non inventa mai dei racconti o dei dettagli. Le sue raffigurazioni si attengono a quanto riferiscono le Sacre Scritture o le fonti della Tradizione. Non introduce mai elementi scenografici, curiosi o superflui che possono distogliere l’attenzione dal fatto narrato. «Ciò che qui si esprime» ebbe a dire Paolo VI, visitando San Marco «è una voce cavata proprio dal profondo dell’animo, una forma che si distingue da ogni travisamento di palcoscenico, di rappresentazione puramente esteriore».
È stata sottolineata dai critici l’umanità che trapela dai volti dei suoi crocifissi, dai gesti di Gesù. Scriveva già Lorenzo Valla: «L’aspetto di Cristo è tale che chi lo guardi, quasi infiammato di incontenibile letizia, non cessa di esclamare, giorno e notte: santo, santo, santo». Come pure la singolare bellezza delle sue moltissime Madonne: «Gratia fingendae Virginis una fuit/ Ut docet eiusdem manibus descripta Iohannis/ Saepe salutatae forma venusta deae» (Del tutto particolare fu la grazia con cui venne effigiata la Vergine, come dimostra la leggiadra bellezza divina con cui fu dipinta dalle mani dello stesso Giovanni, spesso nell’atto di ricevere il saluto [dall’Angelo]), scrive Domenico di Corrella nel suo Theotocon del 1468. Non c’è dunque da stupirsi se l’Angelico, come pictor mansuetudinis Christi, possa essere paragonato in questo allo scriba mansuetudinis Christi, l’evangelista autore degli Atti degli apostoli.
Si è anche notato che pur dipingendo sempre santi, il Beato Angelico non ne ha mai rappresentato i “trionfi”, come era in uso, secondo la volontà delle committenze (come ad esempio il celebre Trionfo di san Tommaso dell’Orcagna nella Cappella Strozzi). I suoi santi sempre sono raffigurati nell’atto di adorare. Bisogna allora entrare nella direzione di quegli sguardi. Solo guardando. Perché «l’affetto ama ciò che vede e capisce» diceva san Tommaso. Guardando. Ma bisogna più che guardare: bisogna lasciarsi trafiggere il cuore. E la reazione di chi guarda è quella degli ascoltatori di Pietro, che, come è scritto negli Atti, «all’udir tutto questo, si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”».

Una preghiera dipinta
Contemplari et contemplata aliis tradere. Quello che fra Giovanni vide ha trasmesso, con intensità tale da muovere a «divozione» chi guarda. Ed è questo che dovette provare lo stesso pontefice Eugenio IV quando, il 6 gennaio 1443, andò a presenziare alla consacrazione della chiesa di San Marco, pernottando nel convento. Ne rimase così sorpreso e intimamente commosso che chiamò fra Giovanni a Roma incaricandolo di eseguire alcuni affreschi nella Basilica di San Pietro. Quella stessa sorpresa il Papa dovette provarla anche quando un giorno, chiamato il buon frate a pranzare alla sua tavola, si sentì da lui candidamente declinare l’invito, dicendo che avrebbe dovuto chiedere la dispensa al suo superiore poiché nella regola è proibito mangiare carne. E questa, non fu certo minore di quella volta che lo stesso Pontefice, volendolo ricompensare per la stima che nutriva nei suoi confronti, gli offrì l’arcivescovado di Firenze. Non solo l’angelico frate rifiutò, supplicando «Sua Santità che provvedesse d’uno altro», perché, disse, non si sentiva «buono a governar popoli» ed «è men fatica e manco errore ubbidire altrui», ma indicò anche al Papa chi avrebbe potuto degnamente ricoprire quell’incarico.
Dopo questo periodo trascorso a Roma, fra Giovanni ritornò a Fiesole dove ricevette l’incarico di dipingere l’Armadio degli Argenti per la chiesa della Santissima Annunziata in Firenze. L’armadio era destinato a contenere gli ex voto offerti alla Vergine. Ancora una volta l’Angelico vi illustrò con estremo realismo tutti gli episodi della vita di Gesù. Con estremo realismo, è proprio il caso di dire. «Perché di realismo si tratta» disse lo storico Giuseppe De Luca, commentando quest’opera dell’Angelico in occasione del centenario della morte del pittore (occasione nella quale egli difese il frate dalla critica che lo inseriva nella corrente degli artisti misticheggianti, secondo la quale il fervoroso frate avrebbe dipinto i suoi santi rapito in inconscie estasi). «È il realismo di un uomo reale e realista, il realismo di chi ha conosciuto d’esperienza la santità, di chi ha visto e rappresentato questa realtà che è la grazia di essere abbracciati da Cristo».
Quel realismo che uno come Michelangelo aveva capito subito, al primo sguardo. Raccontano i biografi del Buonarroti che un giorno egli volle salire nella chiesa di San Domenico a Fiesole. Entrato, si fermò in silenzio davanti all’Annunziata dell’Angelico. «Bisogna che La vedesse sì fatta in Paradiso» disse poi, e aggiunse: «quest’huomo l’ha veduto il Paradiso».
Nel 1453, svolto l’incarico di priore nel convento di San Domenico succedendo al fratello Benedetto, l’Angelico venne nuovamente richiamato a Roma. Al suo amato chiostro fiesolano non farà più ritorno.
Fra Giovanni moriva al canto del Salve Regina nel convento domenicano della Minerva. Era il 18 febbraio 1455. Il suo corpo è ancora lì, nella basilica romana dell’ordine dei Frati predicatori, accanto alle spoglie mortali di santa Caterina da Siena. «Ai tuoi, o Cristo, donavo tutti i miei guadagni. Alcune opere sono in terra, altre in cielo [Altera nam terris opera exstat, altera coelo]», è scritto nell’epitaffio che riassume la sua vita. Ma forse, ancora una volta, più che le parole possono le immagini. Quelle da lui stesso lasciate nel convento di San Marco. Quella nel chiostro del convento dove Tommaso d’Aquino abbraccia il legno della croce ai piedi di Cristo. L’Angelico è tutto lì, in quell’immagine. Immagine che sembra rievocare il dialogo tra il Crocifisso e il Santo aquinate, quando Gesù dalla croce volgendosi verso di lui gli aveva detto: «Hai scritto bene di me, Tommaso, che ricompensa vuoi?»; e Tommaso: «Nessun’altra che Te», Non aliam quam Te. Non aliam mercedem quam Te.

 

Publié dans:SANTI :"memorie facoltative" |on 18 février, 2015 |Pas de commentaires »

24 LUGLIO: SAN CHARBEL

http://tetra.spazioblog.it/86609/San+Charbel+Giuseppe+Makhluf.html

24 LUGLIO: SAN CHARBEL

(2007)

Oggi Santa Romana Chiesa ricorda San Charbel, santo libanese morto nel 1898.

La storia e la grandezza di questo Santo sono spesso ignorate, per questo abbiamo di ricordarlo nel giorno della Sua Memoria:

Giuseppe Makhluf, nacque nel villaggio di Biqa ’Kafra il più alto del Libano nell’anno 1828. Rimasto orfano del padre a tre anni, passò sotto la tutela dello zio paterno. A 14 anni già si ritirava in una grotta appena fuori del paese a pregare per ore (oggi è chiamata “la grotta del santo”).
Egli pur sentendo di essere chiamato alla vita monastica, non poté farlo prima dei 23 anni, visto l’opposizione dello zio, quindi nel 1851 entrò come novizio nel monastero di ‘Annaya dell’Ordine Maronita Libanese. Cambiò il nome di battesimo Giuseppe in quello di Sarbel che è il nome di un martire antiocheno dell’epoca di Traiano.
Trascorso il primo anno di noviziato fu trasferito da ‘Annaya al monastero di Maifuq per il secondo anno di studi. Emessi i voti solenni il 1° novembre 1853 fu mandato al Collegio di Kfifan dove insegnava anche Ni’matallah Kassab la cui Causa di beatificazione è in corso.
Nel 1859 fu ordinato sacerdote e rimandato nel monastero da ‘Annaya dove stette per quindici anni; dietro sua richiesta ottenne di farsi eremita nel vicino eremo di ‘Annaya, situato a 1400 m. sul livello del mare, dove si sottopose alle più dure mortificazioni.
Mentre celebrava la s. Messa in rito Siro-maronita, il 16 dicembre 1898, al momento della sollevazione dell’ostia consacrata e del calice con il vino e recitando la bellissima preghiera eucaristica, lo colse un colpo apoplettico; trasportato nella sua stanza vi passò otto giorni di sofferenze ed agonia finché il 24 dicembre lasciò questo mondo.
A partire da alcuni mesi dopo la morte si verificarono fenomeni straordinari sulla sua tomba, questa fu aperta e il corpo fu trovato intatto e morbido, rimesso in un’altra cassa fu collocato in una cappella appositamente preparata, e dato che il suo corpo emetteva del sudore rossastro, le vesti venivano cambiate due volte la settimana. Nel 1927, essendo iniziato il processo di beatificazione, la bara fu di nuovo sotterrata. Nel 1950 a febbraio, monaci e fedeli videro che dal muro del sepolcro stillava un liquido viscido, e supponendo un’infiltrazione d’acqua, davanti a tutta la Comunità monastica fu riaperto il sepolcro; la bara era intatta, il corpo era ancora morbido e conservava la temperatura dei corpi viventi. Il superiore con un amitto asciugò il sudore rossastro dal viso del beato Sarbel e il volto rimase impresso sul panno.
Sempre nel 1950 ad aprile le superiori autorità religiose con una apposita commissione di tre noti medici riaprirono la cassa e stabilirono che il liquido emanato dal corpo era lo stesso di quello analizzato nel 1899 e nel 1927. Fuori la folla implorava con preghiere la guarigione di infermi lì portati da parenti e fedeli ed infatti molte guarigioni istantanee ebbero luogo in quell’occasione. Si sentiva da più parti gridare Miracolo! Miracolo! Fra la folla vi era chi chiedeva la grazia anche non essendo cristiano o non cattolico.

Charbel Makhlouf, il santo libanese dai miracoli eclatanti, non cessa di manifestarsi con segni tangibili a chi ricorre a lui con fiducia. I miracoli registrati presso la sua tomba, nel convento san Marone di Annaya, sono oltre seimila. La sua intercessione si sperimenta rivolgendosi a lui con la preghiera, o utilizzando anche l’olio, l’acqua e l’incenso benedetti e distribuiti dal convento di Annaya, visitando la sua tomba e attraverso le sue immagini. Alcuni sono stati operati direttamente da lui e riportano anche i segni chirurgici, come è accaduto alla signora Nohad el-Chamy, che vive nei pressi del convento e conserva le cicatrici dell’intervento eseguito senza anestesia dal Santo apparsole mentre era paralizzata a letto, che le ha restituito la salute. Altre guarigioni sono avvenute suo tramite in modo meno traumatico. Molte le conversioni e le vocazioni sacerdotali nate sotto il segno di Charbel. Alcuni affermano di averlo visto in sogno, altri da svegli, dopo averlo invocato. Moltissimi dicono di aver visto illuminarsi la sua immagine. Sul registro del convento di Annaya si legge la testimonianza di Jean-Pierre Abboud, che a gennaio 2006 ringrazia il santo per averlo guarito dalla sordità, causata da una malattia infantile. Sostiene di avere recuperato l’udito dopo essersi strofinato sulle orecchie del cotone imbevuto con l’olio benedetto di san Charbel. Il 23 marzo 2006 ad Annaya, anche il signor Freddy Mansour registra la sua sconvolgente testimonianza. In vista di un rischioso intervento cardiaco, il devoto di Charbel teneva sul cuore un’immagine del Santo, confidando nel suo aiuto. Dieci giorni prima del ricovero iniziò la novena in suo onore. Il nono giorno, dopo avere acceso una candela davanti al quadro di Charbel, vide davanti a sé un uomo vestito da medico, che indicando l’immagine che teneva sul cuore, gli disse: “È lui che ti ha guarito” e disparve. Il giorno seguente i medici constatarono la sua completa guarigione. Claude Massouh è tornato a ringraziare san Charbel, dopo essersi specializzato in biologia in Francia. Per un tragico errore, durante gli esperimenti nel suo laboratorio, non erano stati spenti i raggi ultravioletti a cui lo studente era rimasto esposto inconsapevolmente. Quando se ne accorse era ormai troppo tardi. Prima di recarsi all’ospedale, corse a lavarsi gli occhi con acqua benedetta di san Charbel. I medici riscontrarono gravissime lesioni alla retina, ma ciò che non sapevano spiegarsi era come mai Claude ci vedeva bene, un fatto inspiegabile per la scienza. Terminati gli studi in Francia, nell’aprile 2006, il miracolato è tornato ad Annaya, per ringraziare il Santo presso la sua tomba. Paul Azzi, il postulatore generale dell’ordine libanese maronita di Roma, sostiene che più lo si invoca, più il Santo si manifesta con segni concreti a chi ricorre a lui e che l’ultimo miracolo di cui è stato messo al corrente riguarda una donna cilena di religione cattolico-melchita, ridotta a trenta chili di peso a causa di un tumore ai polmoni al quarto stadio, guarita contro ogni speranza dopo essersi rivolta a san Charbel. Un sacerdote ha invece raccontato di un ragazzo uscito dal coma il nono giorno della novena al santo, recitata dai familiari. Un’infermiera si è spaventata vedendo il quadro di Charbel illuminarsi all’improvviso nel buio della stanza, un’esperienza sperimentata da moltissimi suoi devoti, e una donna di Pescara mi ha riferito una serie di problemi familiari molto gravi che si sono risolti dopo avere invocato il santo con fiducia, come se una mano misteriosa li avesse sciolti uno dopo l’altro. Un’anziana sola al mondo, a 85 anni di età, venutasi a trovare in gravi difficoltà economiche è ricorsa a San Charbel, trovando in pochi giorni la soluzione al problema, piovuta proprio dal cielo. Moltissimi sono coloro che testimoniano benefici per intercessione del santo libanese che entra nella loro vita e nel loro cuore, come un amico di vecchia data.
Alcune sperimentazioni effettuate dagli istituti di ricerca di Mosca e Tbilisi. Ad esempio l’Istituto di Informazione e Tecnologie Elettromagnetiche ha scoperto che i ritratti di San Charbel irradiano incredibilmente onde elettromagnetiche come ogni normale essere vivente.

Tanti altri miracoli sono stati attribuiti a san Charbel; conversio­ni, apparizioni e mirabolanti guarigioni come quella di Nouhad Al-Chami, la donna che soffriva di emiplegia con doppia ostruzione alla carotide. Lei stessa e la sua famiglia erano prostrati dalla disperazio­ne, perché Nouhad non si muoveva più e stava cessando di cibarsi, non riuscendo più a deglutire… I dottori le avevano consigliato un’operazione con esito dubbio; una notte, però, (era il 21 gennaio 1993), dopo che suo figlio le aveva frizionato la gola con dell’olio benedetto proveniente dal Monastero di San Charbel, si addormen­tò per poi destarsi di colpo e rammentare di aver visto san Charbel ed un altro monaco avvicinarsi al suo capezzale ed averla operata alla gola. Improvvisamente si alzò, corse in bagno e davanti allo specchio notò due cicatrici ai lati della gola di dodici centimetri ciascuna, coi punti di sutura e del filo chirurgico nero che fuoriusciva, mentre il collo e la cami­cia da notte erano imbrattati di sangue. Vi lascio immaginare lo stupore e lo spavento del marito vedendola in piedi e tutta insanguinata… Lo stesso mattino la famiglia di Al-Chami si recò al Monastero di Annaya per testimoniare l’accaduto al superiore, mentre i medici dell’Ospedale di Beirut tolsero increduli i punti di sutura dal collo di Nouhad, certificando­ne l’avvenuta guarigione.

***
Il Signore ha creato ogni essere umano affinché risplen­da, per illuminare il mondo; voi siete la luce del mondo. Ogni esse­re umano è una lanterna destinata a risplendere; il Signore ha provveduto che ogni lanterna disponga di vetri chiari e trasparen­ti, per permettere a questa luce di risplendere e di illuminare il mondo; ma la gente si cura del vetro, dimenticandosi della luce; si interessa dell’aspetto del vetro, lo colora e lo decora, finché esso diventa torbido, opaco, impedendo così alla luce di risplendere attraverso, e di conseguenza il mondo è sprofondato nell’ignoranza. Il Signore insiste nel voler illuminare il mondo. I vostri vetri devo­no ridiventare trasparenti. Dovreste realizzare il proposito per il quale siete nati in questo mondo »
San Charbel

Publié dans:SANTI, SANTI :"memorie facoltative" |on 24 juillet, 2014 |Pas de commentaires »

SAN DEMETRIO DI TESSALONICA – 9 APRILE

http://it.wikipedia.org/wiki/Demetrio_di_Tessalonica

SAN DEMETRIO DI TESSALONICA – 9 APRILE

Demetrio di Tessalonica († 306), (in greco Άγιος Δημήτριος της Θεσσαλονίκης), fu un martire del IV secolo. I greci-ortodossi gli attribuiscono il titolo di Megalomartire.

Biografia
Le origini del suo culto sono oscure, la prima prova della sua esistenza si ha soltanto 175 anni dopo il suo martirio e molti studiosi dubitano addirittura che sia mai esistito un Demetrio martire in Tessalonica.
Tuttavia l’agiografia tradizionale su questo santo narra che fosse un diacono del luogo passato a fil di lancia intorno al 306, durante le persecuzioni contro i cristiani volute dall’imperatore romano Diocleziano o forse Galerio.
Una tradizione più tarda vuole che sia stato un militare romano e addirittura un proconsole e per questo motivo venne adottato come santo protettore dai Crociati insieme a san Giorgio durante il Medioevo.

Culto
Le sue reliquie sono conservate in Salonicco, in Grecia, città della quale è anche il santo patrono ed il giorno in cui viene celebrato è il 26 ottobre.
Il Martirologio Romano ne celebra la memoria invece il 9 aprile, riprendendo la tradizione del Martirologio Siriaco.
Tra i Serbi appartenenti alla Chiesa ortodossa viene venerato come Mitar e il giorno delle celebrazioni in suo onore, ha il nome di Mitrovdan, ed è l’8 novembre, giorno di festività pubblica nella parte serba della Bosnia ed Erzegovina.
Le ossa di San Demetrio sono state trasferite dalla chiesa di San Lorenzo in Campo a Salonicco, dapprima il teschio il 24 ottobre 1978, poi tutte le altre ossa, tranne i femori, nella primavera del 1980. I femori si possono venerare nella cripta della chiesa a San Lorenzo in Campo, mentre le altre reliquie sono conservate nella chiesa di San Demetrio a Salonicco.[non chiaro]

Iconografia
La sua iconografia lo raffigura in armatura da soldato romano, sebbene le sue prime rappresentazioni precedenti al 600 lo vedono vestito di una semplice tunica. Dopo la caduta di Costantinopoli esso venne sempre più spesso associato a San Giorgio ed insieme raffigurati a dorso di un cavallo, spesso di colore rosso per San Demeterio e bianco per San Giorgio.
Un’altra iconografia per questo santo lo vede dipinto con lo sfondo della Torre bianca di Tessalonica che nell’iconografia è raffigurata però la torre così come era nota durante il XVI secolo, poiché l’architettura e la conformazione della torre dell’epoca di san Demetrio è rimasta ignota. Una delle più antiche ed importati iconografie di questo santo è oggi custodita nel museo civico di Sassoferrato.

MARIA EGIZIACA, LA SANTA DELLA SOLITUDINE E DELLA PENITENZA – 1 APRILE

http://www.toscanaoggi.it/Cultura-Societa/Maria-Egiziaca-la-Santa-della-solitudine-e-della-penitenza

(la festa era ieri, ma non avevo la connessione con  il Server, scusate)

MARIA EGIZIACA, LA SANTA DELLA SOLITUDINE E DELLA PENITENZA – 1 APRILE

Una delle figure di sante onorate sia dal cristianesimo orientale che da quello occidentale è la Santa penitente ed eremita Maria Egiziaca. Per lei occorre fare un discorso a parte in quanto è impossibile e inutile separarla dalla sua leggenda. Non si potrebbe infatti capire l’influenza esercitata da questa figura sulla spiritualità antica e anche su quella successiva, limitandosi a quel nocciolo dotato di maggiore certezza dal quale ha preso avvio la meravigliosa storia della sua vita, del peccato, della conversione e dalla morte.

DI CARLO LAPUCCI

Una delle figure di sante onorate sia dal cristianesimo orientale che da quello occidentale è la Santa penitente ed eremita Maria Egiziaca. Per lei occorre fare un discorso a parte in quanto è impossibile e inutile separarla dalla sua leggenda. Non si potrebbe infatti capire l’influenza esercitata da questa figura sulla spiritualità antica e anche su quella successiva, limitandosi a quel nocciolo dotato di maggiore certezza dal quale ha preso avvio la meravigliosa storia della sua vita, del peccato, della conversione e dalla morte.
Sarebbe difficile peraltro separare anche approssimativamente la creazione letteraria da quella che è la storia, anche probabile. Si sa che la base di questa vicenda sta in una tomba che si trovava nel deserto presso il Giordano, nella quale si trovava sepolta una penitente solitaria. Cirillo di Scitopoli ne parla nelle Vita di Ciriaco. Narra che viaggiando nel deserto insieme a un tale abba Giovanni, giunsero in un luogo dove era la tomba della beata Maria. Cirillo chiese all’abba Giovanni notizie di questa donna e questi gli narrò una vicenda, da lui stesso vissuta, storia che traccia nelle grandi linee il racconto che farà poi Sofronio, vescovo di Gerusalemme, dando l’impianto completo della leggenda che sarà diffusa ovunque, per lungo tempo, approdando anche alla Leggenda aurea, il che testimonia un solido e tempestivo inserimento nella tradizione occidentale.
Nel mondo cristiano orientale Maria è una figura di grande rilievo, venerata e onorata nelle varie chiese come testimonianza del cammino ascetico più consono e praticato dalla spiritualità orientale: quello dell’abbandono totale del mondo per un ritiro nel deserto, dove ogni forma di vita è spoglia ed essenziale e la mente può concentrarsi tutta nella meditazione e in Dio.
L’altra figura, assai simile a lei, è Santa Maria Maddalena, che percorse un simile cammino di peccato, di incontro con Cristo e di penitenza. Le due figure sono tanto simili che nell’iconografia, soprattutto quella antica, spesso si confondono ed hanno in comune anche la venerazione incondizionata del mondo cristiano occidentale e orientale.

Il racconto leggendario
Racconta Sofronio nella sua non breve narrazione, che il monaco Zosimo, santo e di grande dottrina, si ritirò in un monastero della Palestina in mezzo al deserto, per fare vita più santa e perfetta. Là usavano i monaci ritirarsi ciascuno per suo conto oltre il fiume Giordano in luoghi solitari, lontani dall’edificio, per un periodo della Quaresima, con pochi viveri e nessun aiuto. Mentre lì soggiornava, vide improvvisamente in lontananza qualcosa di strano che gli parve una sinistra apparizione: una figura di donna completamente nuda si aggirava in quella solitudine, con una folta e lunghissima capigliatura bianca che le copriva il corpo il quale, scoprendosi, appariva riarso, ossuto, disseccato dagli anni e dagli stenti.
Zosimo cercò di avvicinarsi a lei, chiamandola, seguendola, ma la donna fuggiva e riuscì a raggiungerla solo sulla riva d’un fiume. Nascondendosi dietro una tamerice, la donna gli disse d’avere vergogna e si fece passare dal monaco il suo mantello, col quale si coprì, e cominciò a parlare con lui. Zosimo però temeva di trovarsi di fronte a una manifestazione diabolica, e la invitò a pregare. Con sua meraviglia, appena si raccolse in preghiera la vide staccarsi da terra e librarsi in aria. Quando però si sentì chiamare per nome e si accorse che sapeva molte cose di lui, la vide segnarsi il corpo della croce, non ebbe più diffidenza e volle sapere la storia di quella donna che da tanto tempo viveva nella solitudine. E quella si sedette e gli raccontò la propria vita.
Aveva nome Maria, di origine egiziana, e da fanciulla subito aveva sentito come un’oppressione i vincoli della famiglia, della società e della morale. Precoce e avvenente, a dodici anni fuggì dalla casa paterna e si recò ad Alessandria, dove dette sfogo al suo temperamento sensuale e al suo ardore, vivendo per diciassette anni una vita di disordine e di peccato. Tale era la sua perversione che non si prostituiva per danaro, ma si manteneva col suo lavoro e si dava al vizio per il solo piacere.
In primavera giungevano ad Alessandria molti pellegrini dall’Egitto e dall’Africa per imbarcarsi per essere a Gerusalemme alla festa dell’Esaltazione della Croce. Evidentemente la sua inquietudine non aveva trovato ancora pace: la curiosità e il bisogno di conoscere una nuova vita, la indussero a seguire quella comitiva e prese posto sulla nave, pagandosi questa volta il viaggio con il suo triste mestiere.
Giunta a Gerusalemme si aggregò ai pellegrini che andavano alla basilica della città ad adorare la Croce, della quale ricorreva la festa. Ora, mentre stava varcando la soglia del tempio, senti una forza prepotente che le impediva di entrare. Provò e riprovò tre volte, finché dovette convincersi che qualcosa di forte e misterioso le impediva di entrare nel tempio.
Allora considerò la propria vita, vide i propri peccati e pensò d’essere miserabile, piangendo di cuore. Vide in alto, su un muro, l’immagine della Madre di Dio, e istintivamente s’inginocchiò e pregò con fervore che la liberasse dal male e le indicasse la via della penitenza e della redenzione, promettendo di cambiare vita e fare penitenza per il rimanente dei suoi giorni. Poté allora entrare e inginocchiarsi davanti al legno della santa Croce e confermare quanto si era proposta di fare. Là sentì una voce che le diceva d’andare verso il Giordano e, uscita fuori dalla città, incontrò uno sconosciuto che le mise in mano tre monete d’argento. Seguendo il cammino Maria con quelle monete acquistò tre forme di pane che portò con sé nel deserto.
Visitò l’oratorio di San Giovanni Battista, che è sulla riva del fiume, si purificò nel Giordano, ricevette la comunione e quindi, mangiato metà di uno di quei pani che aveva, andò a ritirarsi in uno speco che non abbandonò mai più: ben diciassette anni le durò il rimanente del pane che mangiava insieme alle radici che trovava, che si era comprata con le monete dello sconosciuto, e quarantasette erano gli anni che soggiornava in quelle solitudini. In quel tempo, consumate le vesti era rimata nuda, combattendo le continue tentazioni che tornavano ad assalirla.
Maria chiese a Zosimo di tornare nel luogo presso il Giordano che essa gli indicò, l’anno seguente il giorno del Giovedì Santo, portandole l’Eucarestia, cosa che il monaco non mancò di fare. Al suo arrivo Maria, che giunse dall’altra parte, attraversò il fiume camminando sull’acqua, ricevette la comunione e gli dette appuntamento per l’anno venturo nello stesso luogo. Il monaco le offrì alcuni cibi che le aveva portato in un cestello, ma essa prese solo tre lenticchie e, messele in bocca, disse che le bastavano.
Quando Zosimo si presentò per la seconda volta nel luogo convenuto, non trovò Maria, ma una grande luce usciva dal suo corpo steso a terra, avvolto nel mantello che le aveva dato. In terra era scritto: «Padre Zosimo, sotterra il corpo di Maria peccatrice: restituisci alla terra ciò che è della terra, aggiungi la polvere alla polvere e prega Dio per me, che passai da questa vita nel mese d’aprile dei Romani, la notte della Passione del Salvatore, dopo aver partecipato al banchetto mistico».
Maria era dunque morta dopo aver ricevuto la comunione, un anno prima. Zosimo si accinse a seppellirla, ma per scavare non aveva altro che il suo bastone. Ecco allora che apparve un leone il quale in poco tempo scavò agevolmente la fossa in cui il monaco depose il corpo della Santa che in breve tempo fu ricoperto dalla belva. La morte della Santa avvenne il 9 di Aprile dell’anno 526.

Il simbolo e l’esempio
Si comprende bene come questa leggenda possa aver colpito la fantasia e la sensibilità dei fedeli, peri i quali è stata oggetto di meditazione e modello esemplare di forza e di virtù.
Non si sa nulla del soggiorno di Maria nel deserto: preghiere, penitenze, meditazioni, privazioni: tutto è rimasto un segreto della sua anima. Quindi il disprezzo del mondo, che procedendo verso Oriente differenza sempre più la spiritualità rispetto a quella occidentale, non appare nella sua radicalità e crudezza. Maria torna solo al momento della sua rigenerazione, distrutta dal tempo e dalla sofferenza, ma di nuovo integra e purificata. È per questo che molti artisti la raffigurano ancora bella: non è un’esigenza dell’arte, ma un modo per evidenziare l’avvenuta trasformazione spirituale che illumina anche il corpo.
Il peccato della carne, il più comune e umiliante, quello che più fa sentire la debolezza dell’essere umano, trova in Maria una umile e spontanea reazione, forte e decisa, una volontà di riscatto e di purificazione tanto più lunga e ferrea quanto più ostinata era stata la trasgressione. Però in lei mancano quelle terribili violenze sul proprio corpo, quelle esagerate penitenze, quelle spesso assurde autopunizioni degli stiliti, o quantomeno non sono esplicitate. Questo ne fa il modello della penitente verso la quale si rivolgono i pensieri di coloro che si trovano a combattere la tentazione e il peccato, cercando un distacco dal mondo che fu per lei totale, ma non di disprezzo e di orrore, come invece si legge di tanti eremiti. Basti questa considerazione: sia pure miracolosamente è vissuta nel deserto mangiando pane ed è l’unica tra gli eremiti, che in genere si nutrono di radici e locuste, che venga raffigurata con tre pagnotte, le quali sono proprio uno dei suoi attributi. La sua festa si celebrava il 2 aprile, rimossa dall’ultima riforma del Calendario liturgico.

Nell’arte
La letteratura su questa Santa è considerevole, come la sua iconografia. La sua storia ha offerto suggestioni sia nella sua prima parte, per rappresentazioni meno devote, sia nella seconda per i temi ascetici. Tutto il Medio Evo la leggenda di Maria Egiziaca fu letta e divulgata, fatta oggetto di meditazioni e di rappresentazioni drammatiche.
L’opera si Sofronio fu tradotta in latino da Paolo Diacono e da Atanasio, in diverse lingue orientali, tra le quali il siriaco, e altre opere del genere sono state compilate nel corso dei secoli. Entrò nella poesia con poemi a lei dedicati: la Vita di Maria Egiziaca di Giovanni Commerciarios, i poemi di Massimo Olobolos e di Niceforo Prosucos, in latino di Flodoardo e di Ildeberto di La Mans, quindi l’Encomio di Eutimio, e il Sermone di Manule Paleologo.
In molte città si conservano reliquie che si dicono sue, tra cui Roma, Napoli, Anversa e Tournai e le sono state dedicate molte chiese.
Nell’iconografia prevale il tema della sua vita nel deserto: talvolta è vecchia, come la immagina lo Spagnoletto nel quadro Immagine di Maria Egiziaca che si trova alla Galleria del Prado a Madrid, a volte ancora giovane nel momento in cui giunge nel romitorio con i tre pani, come la raffigura Hans Memling a Bruges, Immagine di Maria Egiziaca nell’Ospedale di San Giovanni. La sua immagine si trova in diversi capitelli romanici, vetrate, nelle chiese rupestri della Cappadocia.
Altro tema è il momento del suo ritrovamento adagiata sul terreno, morta senza essere alterata, mentre il monaco Zosimo si accinge a seppellirla: così si trova alla Galleria Pitti di Firenze, dipinta da Pietro Berrettini da Cortona: La morte di Maria Egiziaca. Frequente è anche il tema della sua Comunione prima della morte; così la rappresenta Puccio Capanna nella Chiesa di San Francesco a Pistoia: Maria Egiziaca riceve la comunione da Zosimo.
Difficile è distinguerla dalla Maddalena nelle scene che rappresentano la sua vita dissoluta o il suo trionfo nei cieli, se non intervengono attributi o situazioni tipiche che la identifichino.
Domenico Cavalca narrò diffusamente la sua storia, tenendosi tuttavia fedele ai testi antichi e trasferendo tutta la vicenda nella spiritualità medievale.

Nel Faust di Goethe
Nella parte finale del Faust di Goethe, il momento più alto e intenso del dramma compare anche Santa Maria Egiziaca ad implorare il perdono per il protagonista nel Paradiso, insieme ad altre figure della tradizione cristiana: la Samaritana, la Maddalena. La Santa nella sua preghiera riassume in pochi versi tutta la sua leggenda:

Per quel sacrosanto luogo
dove Cristo fu sepolto;
per quel braccio sulla soglia
contro me fiero rivolto!
Pel deserto ove fedele
quarant’anni vissi in pena,
per quel santo estremo addio
che traccia sopra la rena?

Gli attributi
Raffigurata in moltissime opere d’arte spesso ha attributi comuni con altre penitenti del deserto.
Tre pani, che regge o si trovano nel suo speco. Sono il suo segno inconfondibile.
Il teschio davanti al quale è inginocchiata in meditazione.
I capelli lunghissimi, spesso bianchi come vuole la tarda età che ha raggiunto, che le coprono il corpo altrimenti nudo.
Il leone che giunse a scavare la sua tomba e dal racconto della sua storia si immagina fosse domestico della sua grotta. Appena giunge davanti al corpo morto lecca i piedi della Santa.

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