PAPA FRANCESCO – Il consiglio di Paolo
MEDITAZIONE MATTUTINA NELLA CAPPELLA DELLA
DOMUS SANCTAE MARTHAE
Martedì, 1° settembre 2015
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.198, 02/09/2015)
La testimonianza di Giobbe e l’affresco del Giudizio universale dipinto da Michelangelo nella Cappella Sistina sono due icone che possono ravvivare la nostra certezza dell’incontro personale con il Signore. Le ha riproposte il Papa rilanciando a ciascuno il consiglio, rivolto da Paolo ai cristiani di Tessalonica, di «confortarsi a vicenda», e cioè di «parlare della venuta del Signore», l’unica cosa che conta, senza perdere tempo in chiacchiere da sagrestia. Nella messa celebrata martedì mattina 1º settembre, nella cappella della Casa Santa Marta, il Pontefice ha suggerito anche una serie di domande per un esame di coscienza su come stiamo vivendo l’attesa del Signore.
Francesco ha preso le mosse per la sua meditazione proprio del passo liturgico della prima lettera che «l’apostolo Paolo scrive alla comunità di Tessalonica» (5, 1-6. 9-11). Forse, ha fatto notare, «questa lettera è la prima che lui ha scritto» e l’ha indirizzata a «una comunità un po’ inquieta» perché preoccupata di «come e quando» sarebbe stato e sarebbe venuto il giorno del ritorno del Signore. Tanto che già nel brano letto il giorno prima, ha precisato il Papa, san Paolo è costretto a raccomandare di non essere «tristi come quelli che non hanno speranza». Infatti la comunità si chiedeva: «Cosa succede ai morti, dove vanno i morti?». E ancora: «Quando viene il Signore?». E qualcuno rispondeva: «No, viene subito! E se viene subito, non lavoriamo!».
Così Paolo, uomo «concreto», deve rivolgersi ai cristiani di Tessalonica con un’espressione forte: «Ma, chi non lavora, che non mangi». Insomma, ha affermato il Papa, a questa «comunità un po’ così» l’apostolo «deve insegnare la strada della pace». E sempre il passo dell’epistola del giorno precedente ammoniva di non essere «tristi perché il Signore verrà e i vostri morti sono con lui». Ma Paolo va poi anche oltre: «E così per sempre saremo con il Signore». Questa affermazione, ha detto Francesco, «è una consolazione grande» ed «è quello che ci aspetta, tutti noi». Inoltre, ha aggiunto, «il brano di ieri finiva con un consiglio: confortatevi, dunque, a vicenda con queste parole».
Ma «anche oggi — ha detto il Papa — il brano che abbiamo letto finisce con lo stesso verbo: confortatevi a vicenda». È infatti «proprio il conforto che dà la speranza: il Signore verrà, e verrà quando lui vorrà venire, quando lui vedrà che sarà giunto il tempo». Nessuno può dire quando sarà: Paolo scrive addirittura che il Signore «verrà come un ladro, come le doglie a una donna incinta: viene!». E in questa prospettiva «noi cosa dobbiamo fare?». Paolo suggerisce, appunto, questo consiglio: «Confortatevi, confortatevi a vicenda». Invita cioè a parlarne insieme. «Ma io — ha chiesto Francesco — vi domando: noi parliamo del fatto che il Signore verrà, che noi incontreremo lui?». Oppure «parliamo di tante cose, anche di teologie, di cose di Chiesa, di preti, di suore, di monsignori, tutto questo?». E, ha aggiunto, «il nostro conforto, è questa speranza?».
Il consiglio di Paolo è quello di confortarsi a vicenda, confortarsi in comunità. E sulla questione Francesco ha proposto un vero esame di coscienza: «Nelle nostre comunità, nelle nostre parrocchie, si parla del fatto che siamo in attesa del Signore che viene o si chiacchiera di questo, di quello, di quella, per passare un po’ il tempo e non annoiarsi troppo? Qual è il mio conforto? È questa speranza? Io sono sicuro che il Signore verrà a cercarmi e a portarmi con lui? Ho questa certezza?».
Il Papa ha poi ripetuto le parole del salmo responsoriale (26): «Sono certo di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi». E ha subito proposto un’altra domanda: «Ma tu hai quella certezza di contemplare il Signore?». A questo proposito Francesco ha voluto far riferimento a «quel finale tanto bello del capitolo 19 del Libro di Giobbe», spiegando che «Giobbe soffriva tanto», eppure «in mezzo ai suoi dolori, alle sue piaghe, alle sue incomprensioni, alla sofferenza di non capire perché gli accadeva questo, diceva: ma io sono certo, io so che il mio Redentore è vivo; io so che Dio è vivo e io lo vedrò, e lo vedrò con questi occhi».
Una testimonianza che interpella ciascuno di noi. E così il Papa ha proposto ancora una riflessione diretta: «Io ci credo, a questo? O meglio non pensare? Pensiamo a un’altra cosa, perché questa certezza che il Signore verrà a trovarmi, a portarmi con lui… E questa è la nostra pace, questo è il nostro conforto, questa è la nostra speranza».
«È vero, lui verrà a giudicare — ha aggiunto — e quando andiamo alla Sistina vediamo quella bella scena del Giudizio finale: è vero!». Ma «pensiamo anche che lui verrà a trovarmi perché io lo veda con questi occhi, lo abbracci e sia sempre con lui. Questa è la speranza che l’apostolo Pietro ci dice di spiegare con la nostra vita agli altri, di dare testimonianza di speranza».
Dunque questo è il vero conforto: «Sono certo — questa è la vera certezza — di contemplare la bontà del Signore». Perciò, ha proseguito il Papa rilanciando il consiglio di Paolo, «confortatevi a vicenda con le buone opere e siate d’aiuto gli uni agli altri. E così andremo avanti». Del resto, proprio «nella preghiera all’inizio della messa — ha ricordato — abbiamo chiesto al Signore che lui sviluppi il germe che ha seminato in noi, quel seme di bontà, quel seme di grazia».
Francesco ha proseguito l’omelia chiedendo «al Signore la grazia che quel seme di speranza che ha seminato nel nostro cuore si sviluppi, cresca fino all’incontro definitivo con lui», per poter affermare: «Io sono certo che vedrò il Signore»; «io sono certo che il Signore vive»; «io sono certo che il Signore verrà a trovarmi». È questo «l’orizzonte della nostra vita». Dunque, ha concluso, «chiediamo questa grazia al Signore e confortiamoci gli uni gli altri con le buone opere e le buone parole, su questa strada».