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GIOVANNI PAOLO II – SULLO SPIRITO SANTO (anche Paolo)

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GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE – SULLO SPIRITO SANTO (anche Paolo)

Mercoledì, 9 gennaio 1991

1. Nell’illustrare l’azione dello Spirito Santo come anima del “Corpo di Cristo”, abbiamo visto nelle precedenti catechesi che Egli è fonte e principio dell’unità, santità, cattolicità (universalità) della Chiesa. Oggi possiamo aggiungere che è anche fonte e principio di quella apostolicità che costituisce la quarta proprietà e nota della Chiesa: “unam, sanctam, catholicam et apostolicam Ecclesiam”, come professiamo nel Credo. Grazie allo Spirito Santo la Chiesa è apostolica, il che vuol dire “edificata sopra il fondamento degli Apostoli”, essendone pietra angolare Cristo stesso, come dice San Paolo (Ef 2, 20). È un punto molto interessante della ecclesiologia vista in luce pneumatologica (Ef 2, 22). 2. San Tommaso d’Aquino lo mette in risalto nella sua catechesi sul Simbolo degli Apostoli, dove scrive: “Il fondamento principale della Chiesa è Cristo, come afferma San Paolo nella Prima Lettera ai Corinzi (1 Cor 3, 11): “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello già posto: Gesù Cristo”. Ma vi è un fondamento secondario, cioè gli Apostoli e la loro dottrina. Perciò si dice Chiesa apostolica” (San Tommso, In Symb, Apost., a.9). Oltre ad attestare la concezione antica – di San Tommaso e dell’epoca medievale – sulla apostolicità della Chiesa, il testo dell’Aquinate ci richiama alla fondazione della Chiesa e al rapporto tra Cristo e gli Apostoli. Tale rapporto avviene nello Spirito Santo. Ci si manifesta così la verità teologica – e rivelata – di una apostolicità della quale è principio e fonte lo Spirito Santo, in quanto autore della comunione nella verità che lega a Cristo gli Apostoli e, mediante la loro parola, le generazioni cristiane e la Chiesa in tutti i secoli della sua storia. 3. Abbiamo ripetuto molte volte l’annuncio di Gesù agli Apostoli nell’ultima Cena: “Il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto” (Gv 14, 26). Queste parole di Cristo, pronunciate prima della Passione, trovano il loro complemento nel testo di Luca dove si legge che Gesù, “dopo aver dato istruzioni agli Apostoli nello Spirito Santo. . ., fu assunto in cielo” (At 1, 2). L’apostolo Paolo a sua volta, scrivendo a Timoteo (nella prospettiva della sua morte), gli raccomanda: “Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi” (2 Tm 1, 14). È lo Spirito della Pentecoste, lo Spirito che riempie gli Apostoli e le comunità apostoliche, lo Spirito che garantisce la trasmissione della fede nella Chiesa, di generazione in generazione, assistendo i successori degli Apostoli nella custodia del “buon deposito”, come dice Paolo, della verità rivelata da Cristo. 4. Leggiamo negli Atti degli Apostoli la memoria di un episodio dal quale traspare in modo molto chiaro questa verità della apostolicità della Chiesa nella sua dimensione pneumatologica. È quando l’apostolo Paolo, “avvinto – com’egli dice – dallo Spirito”, va a Gerusalemme, sentendo e sapendo che coloro che ha evangelizzato ad Efeso “non lo vedranno più” (At 20, 25). Si rivolge allora ai presbiteri della Chiesa di quella città, che si sono stretti intorno a lui, con queste parole: “Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo Spirito Santo vi ha posto come vescovi a pascere la Chiesa di Dio, che Egli si è acquistata con il suo sangue” (At 20, 28). “Vescovi” significa ispettori e guide: posti a pascere, dunque, rimanendo sul fondamento della verità apostolica che, secondo la previsione di Paolo, sperimenterà lusinghe e minacce da parte dei propagatori di “dottrine perverse” (At 20, 30), miranti a staccare i discepoli dalla verità evangelica predicata dagli Apostoli. Paolo esorta i pastori a vegliare sul gregge, ma con la certezza che lo Spirito Santo, che li ha posti come “vescovi”, li assiste e li sostiene, mentre Egli stesso conduce la loro successione agli Apostoli nel munus, nel potere e nella responsabilità di custodire la verità che attraverso gli Apostoli hanno ricevuto da Cristo: con la certezza che è lo Spirito Santo ad assicurare la verità stessa e la perseveranza in essa del Popolo di Dio. 5. Gli Apostoli e i loro successori, oltre al compito della custodia, hanno quello della testimonianza della verità di Cristo, e anche in questo compito operano con l’assistenza dello Spirito Santo. Come ha detto Gesù agli Apostoli prima della sua Ascensione: “Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra” (At 1, 8). È una vocazione che lega gli Apostoli alla stessa missione di Cristo, che nell’Apocalisse viene chiamato “il testimone fedele” (Ap 1, 5). Egli infatti nella preghiera per gli Apostoli dice al Padre: “Come tu mi hai mandato nel mondo, anch’io li ho mandati nel mondo” (Gv 17, 18); e nell’apparizione della sera di Pasqua, prima di alitare sopra di loro il soffio dello Spirito Santo, ripete loro: “Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi” (Gv 20, 21). Ma la testimonianza degli Apostoli, continuatori della missione di Cristo, è legata allo Spirito Santo, che a sua volta rende testimonianza a Cristo: “Lo Spirito di verità, che procede dal Padre, mi renderà testimonianza, e anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio” (Gv 15, 26-27). A queste parole di Gesù nell’ultima Cena, fanno eco quelle rivolte ancora agli Apostoli prima dell’Ascensione, quando, alla luce del disegno eterno sulla morte e risurrezione di Cristo, dice che “nel suo nome saranno predicati a tutte le genti la conversione e il perdono dei peccat . . . i Di questo voi siete testimoni. E io manderò su di voi quello che il Padre mi ha promesso” (Lc 24, 48-49). E in modo definitivo annuncia: “Avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni” (At 1,8). È la promessa della Pentecoste non solo in senso storico, ma come dimensione interiore e divina della testimonianza degli Apostoli, e dunque – possiamo dire – dell’apostolicità della Chiesa. 6. Gli Apostoli sono consapevoli di questa loro associazione allo Spirito Santo nel “rendere testimonianza” a Cristo crocifisso e risorto, come risulta chiaramente dalla risposta che Pietro e i suoi compagni danno ai sinedriti che vorrebbero imporgli il silenzio su Cristo: “Il Dio dei nostri padri ha risuscitato Gesù, che voi avete ucciso appendendolo alla croce. Dio lo ha innalzato con la sua destra facendolo capo e salvatore, per dare a Israele la grazia della conversione e il perdono dei peccati. E di questi fatti siamo testimoni noi e lo Spirito Santo, che Dio ha dato a coloro che si sottomettono a Lui” (At 5,30-21). Anche la Chiesa, lungo l’intero svolgersi della sua storia, ha la consapevolezza che lo Spirito Santo è con lei nella testimonianza a Cristo. Pur nella constatazione dei limiti e della fragilità dei suoi uomini e con l’impegno della ricerca e della vigilanza che Paolo raccomanda ai “vescovi” nell’addio di Mileto, la Chiesa sa però che lo Spirito Santo la custodisce e difende dall’errore nella testimonianza del suo Signore e nella dottrina che da lui riceve per annunciarla al mondo. Come dice il Concilio Vaticano II, “l’infallibilità, della quale il divino Redentore volle provveduta la sua Chiesa nel definire la dottrina della fede e della morale, si estende tanto quanto il deposito della divina Rivelazione, che deve essere gelosamente custodito e fedelmente esposto” (Lumen Gentium, 25). Il testo conciliare chiarisce in qual modo questa infallibilità spetta a tutto il Collegio dei Vescovi e in particolare al Vescovo di Roma, in quanto successori degli Apostoli che perseverano nella verità da loro ereditata per virtù dello Spirito Santo. 7. Lo Spirito Santo è dunque il principio vitale di questa apostolicità. Grazie a Lui la Chiesa può diffondersi in tutto il mondo, attraverso le diverse epoche della storia, impiantarsi in mezzo a culture e civiltà così diverse, conservando sempre la propria identità evangelica. Come leggiamo nel Decreto Ad gentes dello stesso Concilio: “Cristo inviò da parte del Padre lo Spirito Santo, perché compisse dal di dentro (intus) la sua opera di salvezza e stimolasse la Chiesa ad estendersi . . . Prima di immolare liberamente la sua vita per il mondo, ordinò il ministero apostolico e promise l’invio dello Spirito Santo, in modo che (lo Spirito e gli Apostoli) collaborassero dovunque e per sempre nell’opera della salvezza. Lo Spirito Santo in tutti i tempi unifica la Chiesa, vivificando come loro anima le istituzioni ecclesiastiche e infondendo nel cuore dei fedeli quello spirito della missione, da cui era stato spinto Gesù stesso . . .” (Ad Gentes, 4). E la Costituzione Lumen Gentium sottolinea che “la missione divina, affidata da Cristo agli Apostoli, durerà sino alla fine dei secoli (cf. Mt 28, 20), poiché il Vangelo, che essi devono predicare, è per la Chiesa il principio di tutta la sua vita in ogni tempo” (Lumen Gentium, 20).

Vedremo nella prossima catechesi che nell’adempimento di questa missione evangelica lo Spirito Santo interviene dando alla Chiesa una garanzia celeste.

IL RAPPORTO TRA LO SPIRITO SANTO E IL CRISTIANO – DI GIANFRANCO RAVASI

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Con lo Spirito Verso il Giubileo

IL RAPPORTO TRA LO SPIRITO SANTO E IL CRISTIANO – DI GIANFRANCO RAVASI     

 Vita Pastorale n. 11 novembre 1998 – Home Page 

«La grazia del Signore nostro Gesù Cristo, l’amore di Dio e la comunione dello Spirito Santo siano con tutti voi». Il saluto trinitario paolino (2 Corinzi 13,13) può essere idealmente l’avvio della nostra nuova riflessione sullo Spirito Santo. L’accento cade su quel «tutti voi» finale: ogni cristiano ha un rapporto radicale e personale con lo Spirito. È ciò che a più riprese attesta Paolo ed è il naturale sviluppo di quanto abbiamo approfondito lo scorso mese, esaltando la funzione ecclesiale dello Spirito. A partire dall’immagine del corpo l’apostolo, in 1 Corinzi 12, celebrava il nesso tra dono comune effuso con la grazia a tutti i fedeli e i carismi specifici di ciascun credente. Gli stessi verbi usati sono significativi: lo Spirito è «mandato, dato, elargito, versato, effuso» nel cristiano ed è da lui « ricevuto » così da esserne « pieno », da « abitare » o « dimorare » nel suo cuore, da « averlo » come possesso personale. Bellissima è la frase a connotazione battesimale di Romani 5,5: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato». Dicevamo che lo Spirito è presente in modo « radicale » in ogni cristiano. È ciò che accade appunto nel battesimo, quando riceviamo l’adozione a figli e diveniamo nuova creatura. Fondamentale è il passo di Galati 4,6 (ripreso da Romani 8,15): «Che voi siete figli ne è prova il fatto che Dio ha mandato nei nostri cuori lo Spirito del Figlio suo che grida: « Abbà », Padre!». L’effusione dello spirito nel battezzato fa sì che egli possa rivolgersi a Dio con l’appellativo familiare aramaico con cui il bambino chiamava suo padre, « papà ». Questo ingresso « radicale » dello Spirito dà il via a una trasformazione integrale dell’essere della creatura e del suo agire. Il figlio di Dio cresce seguendo il percorso che gli viene indicato dallo « Spirito del Figlio »: «Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Galati 5,25). Lo Spirito Santo non è solo una componente strutturale dell’antropologia cristiana, lo è anche dell’etica. Non è solo alla base ontologica della nuova vita trascendente, è anche principio dinamico che anima l’agire morale, conducendo il cristiano a produrre «il frutto dello Spirito che è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Galati 5,22). Lo Spirito stimola il fedele a seguire «la legge dello Spirito», a vivere «nello Spirito» e a comportarsi «secondo lo Spirito» (sono queste espressioni tipiche paoline). Lo Spirito ci conduce, dunque, per tutto l’arco della nostra esistenza ma anche ci fa approdare alla meta ultima, all’escatologia. Per descrivere questa tensione verso la pienezza Paolo usa due immagini: della primizia (aparchè) e della caparra (arrabòn). Esse illustrano il nesso tra presente e futuro, tra realtà ottenuta e compimento sperato, un nesso che sostiene l’esistenza del cristiano e che è alimentato dallo Spirito. Ai Romani l’apostolo scrive: «Noi possediamo le primizie dello Spirito, ma gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo: nella speranza, infatti, siamo stati salvati» (8,23-24). Ai Corinzi, invece, dichiara: «Dio, in Cristo, ci ha impresso il sigillo e ci ha dato la caparra dello Spirito Santo nei nostri cuori» (2 Corinzi 1,21-22; 5,5). Che cosa significhino queste immagini di « anticipazione » e di speranza è esplicitato nella stessa Lettera ai Romani: «Se lo Spirito di colui che ha risuscitato dai morti Gesù abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti, darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi» (8,11). Il nostro è, perciò, un destino pasquale ed è quello stesso Spirito, che ci ha dato nel battesimo una nuova vita e che ci ha guidato nell’esistenza morale secondo la legge dell’amore, a condurci efficacemente a quella pienezza gloriosa. Paolo nella prima Lettera ai Corinzi la raffigurerà anche con un’espressione greca a prima vista contraddittoria, soma pneumatikòn (15,44.46), « corpo spirituale ». Come può essere « spirituale » ciò che per sua natura è antitetico, cioè il corpo materiale? La risposta è nell’esatta comprensione dei due termini secondo il linguaggio paolino. Il « corpo » è, come per tutta la Bibbia, l’espressione della persona in tutta la sua realtà ma anche nel suo limite e nella sua mortalità. « Spirituale » non rimanda all’anima ma allo Spirito Santo. Ecco, allora, la soluzione: il nostro essere è invaso dallo Spirito di Dio ed è per questo che nella morte non s’affloscia nel nulla, ma è attirato a Dio che già in esso è presente e operante attraverso lo Spirito Santo. E Dio è eterno: noi, perciò, parteciperemo alla sua vita piena, alla sua gloria, in un abbraccio d’amore. Con questa riflessione sul rapporto tra lo Spirito Santo e il cristiano abbiamo concluso il nostro itinerario nelle pagine bibliche alla ricerca della presenza della terza persona della Trinità. La molteplicità dell’azione dello Spirito nei singoli cristiani è alla base dell’ »inno sacro » Pentecoste di Alessandro Manzoni che abbiamo già avuto occasione di evocare nella scorsa puntata della nostra rubrica. Per lo scrittore lombardo, lo Spirito rianima i dubbiosi e gli infelici, sconvolge i violenti, insegnando la pietà, conforta il povero in lacrime, pervade i bambini innocenti e rende viva la freschezza interiore delle fanciulle, sostiene le anime consacrate a Dio e le spose, guida il comportamento dei giovani e degli adulti ed è accanto a chi è entrato nella vecchiaia e soprattutto «brilla nel guardo errante/ di chi sperando muor».

 

GIOVANNI PAOLO II (UN ALTRO CONSOLATORE, LO SPIRITO SANTO) (1991)

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GIOVANNI PAOLO II (UN ALTRO CONSOLATORE, LO SPIRITO SANTO)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 13 marzo 1991

1. Nel discorso d’addio agli Apostoli, durante l’ultima Cena, alla vigilia della sua passione, Gesù promise: “Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi sempre” (Gv 14, 16). Il titolo “Consolatore” traduce qui la parola greca Parakletos, nome dato da Gesù allo Spirito Santo. “Consolatore”, infatti, è uno dei sensi possibili di Paraclito. Nel discorso del Cenacolo Gesù suggerisce questo senso, perché promette ai discepoli la presenza continua dello Spirito come rimedio alla tristezza provocata dalla sua dipartita (cf. Gv 16, 6-8). Lo Spirito Santo, mandato dal Padre, sarà “un altro Consolatore”, inviato nel nome di Cristo, la cui missione messianica deve concludersi con la sua dipartita da questo mondo per ritornare al Padre. Questa dipartita, che avviene mediante la morte e la risurrezione, è necessaria perché possa venire l’“altro Consolatore” (Gv 16, 7). Gesù lo afferma chiaramente quando dice: “Se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore”. La Costituzione Dei Verbum del Concilio Vaticano II presenta questo invio dello “Spirito di verità” come momento conclusivo del processo rivelativo e redentivo rispondente all’eterno disegno di Dio (Dei Verbum, 4). E noi tutti nella Sequenza di Pentecoste lo invochiamo: “Veni . . ., Consolator optime”. 2. Nelle parole di Gesù sul Consolatore si sente l’eco dei libri dell’Antico Testamento, e in particolare del “Libro di consolazione d’Israele” compreso negli scritti raccolti sotto il nome del profeta Isaia: “Consolate, consolate il mio popolo, dice il vostro Dio . . . Parlate al cuore di Gerusalemme . . . è finita la sua schiavitù, è stata scontata la sua iniquità” (Is 40, 1-2). E in seguito: “Giubilate, o cieli: rallègrati, o terra; gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo” (Is 49, 13). Il Signore è per Israele come una donna che non può dimenticare il suo bambino. E anzi Isaia insiste col far dire al Signore: “Anche se ci fosse una donna che si dimenticasse, io invece non ti dimenticherò mai” (Is 49, 15). Nella oggettiva finalità della profezia di Isaia, oltre l’annuncio del ritorno di Israele a Gerusalemme dopo l’esilio, la “consolazione” promessa racchiude un contenuto messianico, che i pii israeliti, fedeli all’eredità dei loro padri, hanno avuto presente fino alle soglie del Nuovo Testamento. Così si spiega ciò che leggiamo nel Vangelo di Luca circa il vecchio Simeone, il quale “aspettava il conforto (o consolazione) d’Israele; lo Spirito Santo, che era su di lui, gli aveva preannunciato che non avrebbe visto la morte senza aver prima veduto il Messia del Signore” (Lc 2, 25-26). 3. Secondo Luca, che parla di fatti avvenuti e narrati nel contesto del mistero dell’Incarnazione, è lo Spirito Santo a compiere la promessa profetica legata alla venuta del primo Consolatore, Cristo. È Lui, infatti, a operare in Maria il concepimento di Gesù, Verbo incarnato (cf. Lc 1, 35); è Lui a illuminare Simeone e a condurlo al Tempio al momento della presentazione di Gesù (cf. Lc 2, 27); è in Lui che Cristo, all’inizio del ministero messianico, dichiara, riferendosi al profeta Isaia: “Lo Spirito del Signore è sopra di me; per questo mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi” (Lc 4, 18; cf. Is 61, 1-2). Il Consolatore di cui parlava Isaia, visto in prospettiva profetica, è Colui che porta la Buona Novella da parte di Dio, confermandola con dei “segni”, cioè con delle opere contenenti i beni salutari di verità, di giustizia, di amore, di liberazione: la “consolazione d’Israele”. E quando Gesù Cristo, compiuta la sua opera, lascia questo mondo per andare al Padre, annunzia “un altro Consolatore”, cioè lo Spirito Santo, che il Padre manderà nel nome del Figlio (cf. Gv 14, 26). 4. Il Consolatore, lo Spirito Santo, sarà con gli Apostoli; quando Cristo non sarà più sulla terra, vi sarà nei lunghi tempi dell’afflizione, che dureranno per secoli (cf. Gv 16, 17). Sarà dunque con la Chiesa e nella Chiesa, specialmente nei periodi di lotte e di persecuzioni, come Gesù stesso promette agli Apostoli con quelle parole riportate nei Vangeli sinottici: “Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi o che cosa dire: perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire” (Lc 12, 11-13; cf. Mc 13, 11): “non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mt 10, 20). Parole riferibili alle tribolazioni subite dagli Apostoli e dai cristiani delle comunità da loro fondate e presiedute; ma anche a tutti coloro che, in qualunque luogo della terra, in tutti i secoli, avranno da soffrire per Cristo. E in realtà sono molti coloro che in tutti i tempi, anche recenti, hanno sperimentato questo aiuto dello Spirito Santo. Ed essi sanno, e possono testimoniare, quale gioia è la vittoria spirituale che lo Spirito Santo ha loro concesso di riportare. Tutta la Chiesa di oggi lo sa, e ne è testimone. 5. Fin dagli inizi, in Gerusalemme, non mancano alla Chiesa contrarietà e persecuzioni. Ma già negli Atti degli Apostoli leggiamo: “La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria; essa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito Santo” (At 9, 31). Era lo Spirito Consolatore promesso da Gesù che aveva sostenuto gli Apostoli e gli altri seguaci di Cristo nelle prime prove e sofferenze, e continuava a concedere alla Chiesa il suo conforto anche nei periodi di tregua e di pace. Da Lui dipendeva quella pace, e quella crescita delle persone e delle comunità nella verità del Vangelo. Così sarebbe stato sempre nei secoli. 6. Una grande “consolazione” per la Chiesa primitiva fu la conversione e il battesimo di Cornelio, un centurione romano (cf. At 10, 44-48). Era il primo “pagano” che entrava nella Chiesa, insieme con la sua famiglia, battezzato da Pietro. Da quel momento andarono moltiplicandosi coloro che, convertiti dal paganesimo, specialmente per l’attività apostolica di Paolo di Tarso e dei suoi compagni, rinforzavano la moltitudine dei cristiani. Pietro, nel suo discorso all’assemblea degli Apostoli e degli “anziani” riuniti a Gerusalemme, riconobbe in quel fatto l’opera dello Spirito Consolatore: “Fratelli, voi sapete che già da molto tempo Dio ha fatto una scelta tra voi, perché i pagani ascoltassero per bocca mia la parola del Vangelo e venissero alla fede. E Dio, che conosce i cuori, ha reso testimonianza in loro favore concedendo anche a loro lo Spirito Santo, come a noi” (At 15, 7-9). La “consolazione” per la Chiesa apostolica era che nel dare lo Spirito Santo, come dice Pietro, Dio “non ha fatto nessuna discriminazione tra noi e loro, purificandone i cuori con la fede” (At 15, 9). Una “consolazione” era anche l’unità che a questo proposito si era espressa in quella riunione di Gerusalemme: “Abbiamo deciso, lo Spirito Santo e noi” (At 15, 28). Quando la lettera che riferiva le decisioni liberatrici di Gerusalemme fu letta alla comunità di Antiochia, tutti “si rallegrarono per la consolazione (greco paraklesei) che infondeva” (At 15, 31). 7. Un’altra “consolazione” dello Spirito Santo fu per la Chiesa la stesura del Vangelo come testo della Nuova Alleanza. Se i testi dell’Antico Testamento, ispirati dallo Spirito Santo, sono già per la Chiesa una sorgente di consolazione e di conforto, come dice San Paolo ai Romani (Rm 5, 4), quanto più lo saranno i libri che riferiscono “tutto ciò che Gesù fece e insegnò dal principio” (At 1, 1). Di questi possiamo dire a maggior ragione che sono stati scritti “per nostra istruzione, perché in virtù della perseveranza e della consolazione che ci vengono dalle Scritture teniamo viva la nostra speranza” (Rm 15, 4). È, d’altra parte, una consolazione da attribuire allo Spirito Santo (cf. 1 Pt 1, 12) l’attuazione della predizione di Gesù, cioè che “il Vangelo del Regno sarà annunziato a tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti” (Mt 24, 14). Tra queste “genti”, che coprono ogni epoca, vi sono anche quelle del mondo contemporaneo, che sembra così distratto e persino smarrito tra i successi e le attrattive del suo troppo unilaterale progresso di ordine temporale. Anche a queste genti – e a noi tutti – si estende l’opera dello Spirito Paraclito che non cessa di essere consolazione e conforto con la “Buona Novella” di salvezza.

CONVEGNO SULLO SPIRITO SANTO – (anche Paolo) Albert Card. Vanhoye S.J.

http://www.rns-italia.it/news/ConvegnoSpiritoSanto2012/Testi/3.Lingue_come_di_fuoco_Card_Albert_Vanhoye.pdf

CONVEGNO SULLO SPIRITO SANTO – (ANCHE PAOLO)

Albert Card. Vanhoye S.J.

P.U.G. 25.10.2012 –

“LINGUE COME DI FUOCO…”

Cari amici
Mi è stato gentilmente richiesto di trattare un tema formulato in questo modo: «Lingue come di fuoco si posarono su di loro» (At 1,3). “Roveto ardente”, amore che arde e non si consuma. Lo Spirito Santo e la vita nuova in Cristo.»Come potete vedere, questo tema parte da un punto molto preciso, un frammento di una frase degli Atti degli Apostoli, presa dal racconto della Pentecoste, poi il tema si allarga con un accenno al racconto del “Roveto ardente”, che si trova nel Libro dell’Esodo, all’inizio del terzo capitolo. Viene allora introdotto nel tema l’amore, di cui il racconto dell’Esodo non parla. Infine, il tema viene allargato immensamente al rapporto tra lo Spirito e la vita nuova in Cristo. Mi pare che questa presentazione del tema manifesti splendidamente la libertà dello Spirito, il quale soffia dove vuole,” come disse Gesù a Nicodemo (Gv 3,8). Non mi sarà facile spiegare in pochi minuti tutta questa abbondante materia. Come sapete, nel racconto della Pentecoste, la presenza e l’azione dello Spirito Santo si manifestano all’inizio in due modi, uno per le orecchie e l’altro per gli occhi. Per le orecchie c’è stato “un fragore, come di un vento che si abbatteva impetuoso e riempì tutta la casa dove stavano”. Che lo Spirito si manifesti come un vento è molto naturale, perché il primo senso della parola greca usata per designarlo è “soffio”. Lo Spirito soffia. Questo esprime bene il dinamismo dello Spirito, che mette tutto in moto, non ci lascia tranquilli! La parola italiana “spirito” è meno espressiva, non esprime un dinamismo. Per gli occhi lo Spirito manifestò la sua presenza e la sua azione in modo diverso, cioè con un’apparizione. San Luca scrive: “e apparvero loro, dividendosi,
lingue come di fuoco e se ne posò una su ciascuno di loro e furono tutti riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro di esprimersi.” (At 2,3-4).2 L’espressione “lingue come di fuoco” si trova soltanto qui nella Bibbia. Senza la parola “come” e al singolare, “lingua di fuoco” si legge una volta nell’A.T. in un passo di Isaia, che contiene una minaccia contro i peccatori, dicendo: “Perciò, come una
lingua di fuoco divora la stoppia e una fiamma consuma la paglia, così le loro radici diventeranno un marciume…” (Is 5,24). È chiaro che questo testo non illumina per niente l’espressione di At 2,3, nella quale la parola “come” ha un’importanza capitale, perché indica che “fuoco” non definisce bene una realtà che non è del nostro mondo.
Queste lingue non erano realmente “di fuoco”. Erano “come di fuoco”. Rappresentavano un fuoco spirituale.
Questa apparizione è molto diversa da quella del roveto ardente, la quale è un’apparizione di persona. Il testo dell’Esodo dice, infatti, parlando di Mosè: “L’Angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava” (Es 3,2). Più
avanti il testo dice che “Dio gridò a lui”, cioè a Mosè, “dal roveto” (Es 3,4), e si presentò come “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,6).L’apparizione del giorno della Pentecoste non è stata, invece, un’apparizione di persona, ma un’apparizione di “lingue”, che manifestò l’intervento dello Spirito, il quale non parlava, ma riempì le persone e le fece parlare. La prima cosa che dice san Luca di queste lingue, anche prima di nominarle, è che si dividevano; Luca, infatti, scrive: “e apparvero loro, dividendosi, lingue come di fuoco” (At 2,3). La traduzione della CEI
non rispetta l’ordine del testo greco, ma mette: “Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, …”. L’ordine del testo, però, è significativo; fa capire che non sono state le lingue singole che si dividevano, ma le lingue singole sono state il risultato della divisione. Questa divisione non manca d’importanza; manifesta, infatti, che lo Spirito
Santo non agì in modo globale, ma in modo diversificato. Non produsse uniformità, ma unità nella diversità. Lo spiega bene san Paolo nella sua Prima Lettera ai Corinzi scrivendo: “A uno, infatti, per mezzo dello Spirito, viene dato un linguaggio di sapienza, a un altro, invece, dallo stesso Spirito, un linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, un atteggiamento di fede; a un altro, nell’unico Spirito, doni di guarigioni”; san Paolo continua l’elenco dei carismi, poi conclude: “tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole” (1 Cor 12,8-
11).3 Il racconto di Luca insiste poi sull’aspetto di lingua, perché dice che l’effetto prodotto dallo Spirito Santo fu che “cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro di esprimersi” (At 2,4). Che cosa sono queste “altre lingue”? Il seguito del racconto suggerisce che si tratta delle lingue di altri popoli; perché nella
folla cosmopolitica radunata a causa del fragore che si era sentito, la gente diceva: “ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa” (At 2,8), “li sentiamo parlare, nelle nostre lingue, delle grandi opere di Dio” (At 2,11). Però se cerchiamo di rappresentarci l’evento, ci rendiamo conto che questa interpretazione suppone una cacofonia tremenda, cioè che nello stesso momento ciascun apostolo si esprimeva ad alta voce in una lingua diversa dagli altri. Perciò, già
nell’antichità, si è pensato che il miracolo non fosse stato nel parlare degli apostoli ma nel sentire degli uditori, cioè lo Spirito Santo dava agli uditori l’impressione di sentire un discorso ciascuno nella propria lingua. Nel secolo scorso, Padre Lyonnet ha precisato l’interpretazione, dicendo che gli apostoli ebbero allora il carisma di glossolalia e gli
uditori il carisma di interpretazione. Nella Prima ai Corinzi, san Paolo parla di questi due carismi, il “parlare in lingue” e “l’interpretare questo parlare in lingue”. Il “parlare in lingue” consiste nel lodare Dio con una serie di parole piene di entusiasmo, ma che non formano un discorso comprensibile. Sapete meglio di me che questo carisma era scomparso nella Chiesa, ma è apparso di nuovo a partire dall’inizio del secolo scorso in gruppi di protestanti pentecostali e si è diffuso nella Chiesa cattolica dopo il Concilio, il quale secondo il desiderio del Papa Giovanni XXIII doveva suscitare una nuova Pentecoste. Torniamo all’espressione “lingue come di fuoco” per parlare del rapporto del fuoco con Dio, secondo la Bibbia. Abbiamo già citato il testo dell’Esodo in cui Dio si rivela nel roveto ardente (Es 3,2-6) a Mosè che era allora “nel territorio di Madian” (Es 2,25). Mosè tornò in Egitto per riempire la sua missione e guidare il popolo fuori dell’Egitto. Dopo la partenza, il racconto riferisce che “il Signore marciava alla loro testa di giorno in una colonna di nube, per guidarli sulla via da percorrere, e di notte, in una colonna di fuoco, per far loro luce, così che potessero viaggiare giorno e notte” (Es 13,21). La colonna di nube non ha niente di straordinario; invece la colonna di fuoco è
straordinaria e manifesta la potenza di Dio. Tuttavia, il fatto che Dio si serve dell’una e 4 dell’altra indica che non c’era un’unione permanente di Dio con il fuoco. La prospettiva era utilitaria, non era di rivelazione. Si trattava di “far loro luce”. Invece nella teofania del Sinai, si tratta di rivelazione. In Es 19,18 leggiamo: “Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace.” C’era un’unione tra il Signore e il fuoco. Il testo di Es 24,17 dice di più; dichiara: “La gloria del Signore, appariva agli occhi degli Israeliti come fuoco divorante sulla cima della montagna”. Altri testi sono ancora più espliciti, dicono: “Il Signore, tuo Dio, è fuoco divoratore” (Dt 4,24). L’idea espressa non è di amore, ma di minaccia, di pericolo. “Chi di noi, dice Isaia, può abitare presso un fuoco divorante? Chi di noi può abitare tra fiamme perenni?” (Is 33,14). La minaccia può avere un aspetto positivo, perché può rivolgersi contro i nemici di Israele. È il caso in Dt 9,3: “Ascolta, Israele, tu stai per andare a conquistare popoli più grandi e più potenti di te […] Sappi dunque che il Signore, tuo Dio, passerà davanti a te come
fuoco divoratore, li distruggerà e li abbatterà davanti a te.” Ma più spesso la minaccia prende di mira gli Israeliti e viene attuata. Nel suo capitolo 11, il Libro dei Numeri riferisce che “il popolo cominciò a lamentarsi aspramente agli orecchi del Signore. Li udì il Signore e la sua ira si accese: il fuoco del Signore divampò in mezzo a loro e divorò un’estremità dell’accampamento” (Nm 11,1). Nondimeno, è possibile scoprire nei testi di minaccia qualche traccia di amore, perché parlano di gelosia divina. I testi vietano l’idolatria, perché essa è una violazione del legame di amore esclusivo che unisce Israele a Dio. Per appoggiare il primo comandamento del Decalogo, che vieta l’idolatria, Dio stesso dice: “Perché io, il Signore tuo Dio, sono un Dio geloso, che punisce la colpa […] per coloro che mi odiano, ma che dimostra la sua bontà fino a mille generazioni per quelli che mi amano e osservano i miei comandamenti” (Es 20,5-6; Dt 5,9-10). La bontà di Dio è immensa. La reazione di Dio contro gli Israeliti peccatori è una reazione di amore deluso. Similmente nel Deuteronomio, dopo aver ricordato il primo comandamento, Mosè dice al popolo: “Il Signore, tuo Dio, è fuoco divoratore, un Dio geloso” (Dt 4,24). In modo analogo, è possibile mettere la rivelazione del roveto ardente in
rapporto con il tema dell’amore. Di per sé, questa rivelazione di un roveto che arde e non si consuma esprime soltanto l’eternità di Dio, al quale un salmo dice: “Si logorano tutti come un vestito, […] ma tu sei sempre lo stesso e i tuoi anni non hanno fine” (Sal 5 101/102,27-28). Nel contesto, però, Dio si rivela anche pieno di amore per il suo popolo. Egli dichiara: “Ho osservato la miseria del mio popolo e ho udito il suo grido, […] conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo…” (Es 3,7.8). Tuttavia, non si può dire che il racconto operi la fusione tra questi due aspetti, eternità divina e
atteggiamento di amore. Sono nettamente distinti. Soltanto nel Nuovo Testamento, Dio viene definito “amore”. S. Giovanni proclama che “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16); diventa allora possibile dire che Dio è “amore che arde e non si consuma”.L’espressione “lingue come di fuoco” non esprime direttamente questo concetto, ma il contesto successivo, il quale rivela gli effetti prodotti dalle “lingue come di fuoco”, parla implicitamente in questo senso, perché dichiara che le persone sulle quali si erano posate queste “lingue come di fuoco” si sono messe a “parlare delle grandi opere di Dio” (At 2,11); manifestavano così, con amore riconoscente, l’amore generoso di Dio. D’altra parte, il discorso di Pietro è stato una manifestazione di grande zelo apostolico. Ispirato dallo Spirito Santo, lo zelo apostolico ha la sua origine nell’amore di Dio per gli uomini ed è una manifestazione dell’amore dell’apostolo per gli uomini. L’apostolo, cioè, accoglie nel proprio cuore e nella propria attività la corrente di amore che viene da Dio in vista della salvezza degli uomini. In fin dei conti, vediamo che l’espressione “lingue come di fuoco” sta in rapporto abbastanza stretto con il tema dell’amore. L’aspetto di minaccia che il fuoco ha in altri testi è qui completamente assente. Tra lo Spirito Santo e l’amore la relazione è affermata fortemente dall’apostolo Paolo nella Lettera ai Romani. San Paolo dichiara che “l’amore di Dio è stato versato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato” (Rm 5,5). Nella
Lettera ai Galati, il primo aspetto del “frutto dello Spirito” secondo san Paolo è “l’amore” (Gal 5,22). Questo passo della Lettera ai Galati mostra bene il rapporto tra lo Spirito Santo e la vita in Cristo. Quando san Paolo parla della vita nuova dei cristiani nella Lettera ai Romani, egli non accenna al ruolo dello Spirito Santo, ma parla unicamente di unione al mistero pasquale di Cristo. Egli scrive: “Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi camminiamo in una novità di vita” (Rm 6,4). Come vedete, san 6 Paolo parla di unione alla morte di Cristo e alla sua risurrezione, ma non parla del dono dello Spirito Santo, benché questo dono sia indispensabile perché i cristiani siano in grado di “camminare in una novità di vita”. Il rapporto con lo Spirito, san Paolo lo suggerisce più avanti quando parla di “una novità di spirito”. Per poter camminare “in una novità di vita”, è necessario accogliere la “novità dello spirito”, la quale libera dalla
“vecchiaia della lettera”, libera cioè dal sistema della Legge (Rm 7,6). Il rapporto con lo Spirito viene poi espresso molto chiaramente nella Lettera a Tito, che dice: Dio “ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, che ha effuso su di noi
in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro” (Tt 3,4-6). Questo testo è molto bello; comincia con un accenno alla dottrina paolina della giustificazione “non per opere giuste da noi compiute, ma per la misericordia” di Dio, la sua grazia. Poi viene un accenno al battesimo, chiamato “lavacro di rigenerazione di rinnovamento nello Spirito Santo”, il che significa che, per mezzo del battesimo, lo Spirito Santo introduce le persone in una vita nuova; esse sono generate una seconda volta, “da acqua e Spirito”, come Gesù diceva a Nicodemo (Gv 3,5), e sono radicalmente rinnovate. San Paolo sottolinea poi, in modo molto bello, l’abbondanza dell’effusione dello Spirito. Come ho detto, un passo della Lettera ai Galati mostra bene il rapporto tra lo Spirito e la vita in Cristo. Questo passo non parla di novità, ma è parallelo ai passi della Lettera agli Efesini e di quella ai Colossesi, che mettono in contrasto l’uomo nuovo e
l’uomo vecchio. La Lettera agli Efesini invita i cristiani “ad abbandonare…l’uomo vecchio che si corrompe seguendo le passioni ingannevoli… e a rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella vera santità” (Ef 4,22.24). Poi c’è tutto un elenco di difetti da evitare e alcuni consigli positivi molto importanti. Nel passo di Ef 4,22-24 lo
Spirito non è nominato; però, nel capitolo precedente, san Paolo dice che prega perché Dio conceda ai cristiani “di essere potentemente rafforzati nell’uomo interiore mediante il suo Spirito” (Ef 3,16). Il passo di Ef 4,22-24 va quindi completato con questo passo precedente. Nella Lettera ai Colossesi, san Paolo parla similmente dell’uomo vecchio e
dell’uomo nuovo; scrive: “vi siete svestiti dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo, che si rinnova per una piena conoscenza ad immagine di Colui che lo 7 ha creato” (Col 3,9-10). San Paolo fa un elenco di difetti da evitare e dà molti consigli positivi, ma non parla dello Spirito Santo in proposito. Quanto alla Lettera ai Galati, invece di parlare del contrasto tra l’uomo nuovo e l’uomo vecchio, essa parla di contrasto tra la carne e lo Spirito. Ai Galati san Paolo dice: “Camminate con lo Spirito e non ci sarà pericolo che portiate a compimento un desiderio della carne” (Gal 5,16). Poi san Paolo spiega: “La carne, infatti, ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne, queste cose si oppongono a vicenda, affinché non facciate tutto ciò che vorreste” (Gal 3,17). Chi segue la carne,
non può nel contempo seguire lo Spirito, e viceversa. San Paolo elenca poi, per la carne, una serie di “opere” cattive, cioè peccati in materia di sessualità, di culto, di relazioni tra le persone, di alimentazione. Per lo Spirito invece, san Paolo non parla di “opere”, ma di “frutto”, non al plurale di dispersione, ma al singolare di unità. La parole “frutto” esprime una fecondità profonda e non, come la parola “opere”, un’attività esterna. La fecondità implica un’unione vitale nell’amore. L’elenco che spiega il frutto dello Spirito non è semplicemente un elenco di virtù, opposte ai vizi della carne, ma, dopo “l’amore”, comprende anche la gioia e la pace, doni meravigliosi di Dio e segni della sua benedizione. San Paolo conclude dicendo: “Se viviamo dello Spirito, con lo Spirito anche camminiamo” (Gal 5,25). Questa frase è molto significativa. Dimostra anzitutto che noi cristiani abbiamo ricevuto lo Spirito, il quale ci comunica una nuova vita, “viviamo dello Spirito”. Questo dono ci rende poi capaci di una condotta corrispondente, una
condotta “con lo Spirito”. San Paolo ci invita a sfruttare attivamente questa capacità, camminando effettivamente con lo Spirito e accogliendo sempre nella nostra vita “il frutto dello Spirito.”Con questa conclusione di san Paolo, concludo anch’io la mia modesta

Conferenza! Vi ringrazio per la vostra attenzione.

Albert Card. Vanhoye S.J.

LO SPIRITO SANTO SORGENTE INESAURIBILE DI DONI – Angelo Amato

http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01021998_p-18_it.html

L’ANNO DELLO SPIRITO SANTO
I segni della speranza: i popoli

LO SPIRITO SANTO SORGENTE INESAURIBILE DI DONI
Angelo Amato

1. Lo Spirito è «Persona-dono»
L’esistenza cristiana è intimamente segnata dalla «nube dello Spirito» (cf. Mt 17,5). È lo Spirito che porta i fedeli alla loro piena configurazione a Cristo. Ma, in cosa consiste, concretamente, la presenza dello Spirito Santo e qual è il significato dei suoi doni? La risposta è semplice: la vita cristiana, per svilupparsi e giungere a maturazione, esige una assistenza speciale dello Spirito santo e dei suoi doni. Il mistero profondo dello Spirito è quello di essere «dono»: «Si può dire che nello Spirito santo la vita intima del Dio uno e trino si fa tutta dono, scambio di reciproco amore tra le divine Persone, e che per lo Spirito santo Dio «esiste» a modo di dono. È lo Spirito Santo l’espressione personale di un tale donarsi, di questo essere amore. È Persona-amore. È Persona-dono» (Dominum et Vivificantem, n. 10).
Essendo Persona-dono lo Spirito è la sorgente di ogni dono creato, come la vita, la grazia, la carità: «L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo, che ci è stato dato» (Rm 5,5). Ed è Gesù che ha dato il suo Spirito come dono di vita nuova agli apostoli, alla chiesa, al mondo: «Innalzato alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (At 2,33). Queste parole di Pietro a Pentecoste, riecheggiano la sua esperienza pasquale. La sera della risurrezione, infatti, Gesù, apparendo agli apostoli, disse: «Ricevete lo Spirito Santo» (Gv 20,22). Anche a Pentecoste gli apostoli «furono pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi» (At 2,4). Tale pentecoste apostolica rifluisce su tutta l’umanità, in tutte le sue categorie di giovani e di anziani, di uomini e di donne. È lo stesso Pietro a spiegare, nel suo primo kérygma, che questa irruzione dello Spirito non fa che realizzare la profezia di Gioele:
«Io effonderò il mio Spirito sopra ogni persona; i vostri figli e le vostre figlie profeteranno, i vostri giovani avranno visioni e i vostri anziani faranno dei sogni. E anche sui miei servi e sulle mie serve in quei giorni effonderò il mio Spirito ed essi profeteranno» (At 2,17-18).
Il dono dello Spirito significa vocazione alla profezia da parte dei figli e delle figlie, dei servi e delle serve; significa chiamata a seguire grandi ideali («visioni») da parte dei giovani e ad avere sogni profetici da parte degli anziani. L’effusione dello Spirito a Pentecoste realizza anche la profezia di Ezechiele:
«Vi prenderò dalle genti, vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio. Vi libererò da tutte le vostre impurità: chiamerò il grano e lo moltiplicherò e non vi manderò più la carestia» (Ez 36,24-29).
Lo Spirito è cioè dono di comunione, è acqua di purificazione, è cuore di carne, è novità, è obbedienza, è appartenenza e fedeltà a Dio, è abbondanza di beni.

2. «Vieni, datore dei doni»
San Giovanni, parlando della nostra vocazione alla comunione con Dio-Amore, afferma: «Da questo si conosce che noi rimaniamo in lui ed egli in noi: egli ci ha fatto dono del suo Spirito» (1Gv 4,13). È nello Spirito che noi amiamo Dio. Per questo S. Agostino afferma che «lo Spirito santo è il dono di Dio a tutti coloro che per mezzo suo amano Dio»1. Lo Spirito ci abilita al rapporto interpersonale con Dio, all’alleanza tra il nostro «io» e il «tu» divino: «Il dono dello Spirito significa chiamata all’amicizia, nella quale le trascendenti profondità di Dio vengono, in qualche modo, aperte alla partecipazione da parte dell’uomo» (Dominum et Vivificantem, n. 34). È quanto S. Paolo diceva: «Viviamo sotto il dominio dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in noi» (Rm 8,5.9); «Se viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito» (Gal 5,25).
Per rendere possibile e facilitare questo cammino lo Spirito si fa sorgente di molteplici doni, frutti, carismi. Per questo nella solennità di Pentecoste lo invochiamo: «Vieni, Santo Spirito, vieni, datore dei doni». Tradizionalmente si parla dei sette doni dello Spirito Santo: «la sapienza, l’intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timore di Dio» (CCC n. 1831). Attribuiti in prima istanza al Messia (cf. Is 11,1-2)2, nel quale si realizzano in pienezza, questi doni perfezionano le virtù del battezzato, rendendolo docile e obbediente a seguire le mozioni dello Spirito. Se la vocazione del cristiano è la santità, i doni dello Spirito servono per agevolare la pratica delle virtù sia teologali (fede, speranza, carità), sia morali (prudenza, giustizia, fortezza, temperanza). Spesso la tradizione teologica ha messo in correlazione i singoli doni con le singole virtù. Ad esempio, il dono del timore viene visto in corrispondenza con la virtù della temperanza e il dono della sapienza con la virtù della carità. In realtà ogni singolo dono facilita l’esercizio di tutte le virtù, che ne escono fortemente rafforzate. Più che in una graduatoria o su una scala i doni devono essere messi in reciproca circolarità e correlazione.

3. Il timore, come gioiosa trepidazione per la vicinanza di Dio
Il timore del Signore si può considerare come il primo gradino della scala della perfezione, che avrebbe il suo vertice nel dono della sapienza. Afferma S. Tommaso d’Aquino: «Il timore filiale occupa il primo posto tra i doni dello Spirito Santo in ordine ascendente, e l’ultimo in ordine discendente»3. Il Siracide, tuttavia, mostra l’interdipendenza e il reciproco influsso dei doni:
«Pienezza della sapienza è temere il Signore; essa inebria di frutti i propri devoti. Tutta la loro casa riempirà di cose desiderabili, i magazzini dei suoi frutti. Corona della sapienza è il timore del Signore; fa fiorire la pace e la salute. Dio ha visto e misurato la sapienza; ha fatto piovere la scienza e il lume dell’intelligenza; ha esaltato la gloria di quanti la possiedono. Radice della sapienza è temere il Signore; i suoi rami sono lunga vita» (Sir 1,14-18).
In una proposta di cammino vocazionale, si può vedere nel timore di Dio il primo passo per abbandonare la vita secondo la carne e percorrere la via secondo lo Spirito. Il timore di Dio fa comprendere che la vita non è solitudine e silenzio, ma comunione con Dio. Il timore non è paura di Dio, ma trepidazione e gratitudine per la sua grande prossimità a noi. È riscoperta e lode della sua grandezza e sapienza, e, allo stesso tempo, coscienza di essere immersi in questo «ambiente divino», avvolti dall’abbraccio di Dio:
«Signore, tu mi scruti e mi conosci; tu sai quando seggo e quando mi alzo. Penetri da lontano i miei pensieri, mi scruti quando cammino e quando riposo. Ti sono note tutte le mie vie; la mia parola non è ancora sulla lingua e tu, Signore, già la conosci tutta. Alle spalle e di fronte mi circondi e poni su di me la tua mano. Stupenda per me la tua saggezza, troppo alta, e io non la comprendo. Dove andare lontano dal tuo spirito, dove fuggire dalla tua presenza?» (Sal 139,1-7).
La prostrazione di Abramo di fronte ai tre pellegrini (Gn 18,2), la sorpresa di Giacobbe nel sogno della scala, la cui cima raggiungeva il cielo (Gn 28,12), lo sbigottimento di Mosè al roveto ardente (Es 3,6), la meraviglia di Isaia di fronte al serafino col carbone ardente (Is 6,6-7), il grande spavento dei pastori all’annuncio degli angeli (Lc 2,9), lo stordimento di Giovanni il veggente di fronte al Vivente (Ap 1,17) indicano lo stupore improvviso di chi si trova a tu per tu di fronte al mistero santo di Dio. È un timore che non si tramuta in paura, ma, al contrario, si espande per Abramo in servizio e dialogo con Dio, per Giacobbe in conferma di aver incontrato Dio, per Mosè in spinta alla missione, per Isaia in obbedienza alla chiamata profetica, per i pastori in invito a incontrare il neonato Salvatore, per Giovanni in contemplazione dell’azione efficace e vittoriosa di Dio nelle martoriate vicende della chiesa e del mondo.
Il timore è la trepidazione avvertita da chi inizia il cammino della vita nello Spirito e si affida con confidenza nelle mani di Dio: «Scrutami, Dio, e conosci il mio cuore, provami e conosci i miei pensieri: vedi se percorro una via di menzogna e guidami sulla via della vita» (Sal 139,23-24). Il timore di Dio diventa così consapevolezza della debolezza umana, esercizio di umiltà e di povertà di spirito, ma anche fiducia nella misericordia di Dio, speranza nella sua provvidente bontà, autentico «principio di saggezza» (Sal 111,10).

NOTE
1) De Trinitate, XV 19,35.
2) Il testo ebraico di Is. 11,2 parla di sei doni: spirito di sapienza, intelligenza, consiglio, fortezza, conoscenza e timore del Signore. La versione greca dei LXX e la versione latina della Volgata enunciano invece sette doni, introducendo la «pietà». In realtà si tratta di una interpretazione di Is 11,3, in cui il «timore del Signore», ripetuto in questo versetto, viene tradotto in una sua variazione e cioè in «pietà».
3) STh, II/II q. 19 a. 9.

Publié dans:DOCENTI -, SPIRITO SANTO (sullo) |on 10 juin, 2014 |Pas de commentaires »

«LA LETTERA UCCIDE, LO SPIRITO VIVIFICA» : DI PADRE ALBERT VANHOYE, S.J.

http://www.spiritosanto.org/formazione/articoli/0051.html

«LA LETTERA UCCIDE, LO SPIRITO VIVIFICA»

DI PADRE ALBERT VANHOYE, S.J.

GIUGNO 2002

 Nella sua Seconda Lettera ai Corinzi, l’apostolo Paolo esprime un forte contrasto tra la lettera (in greco gramma) e lo spirito (pneuma). «La lettera uccide, ma lo Spirito vivifica» (2Cor 3,6). La lettera fa morire, mentre lo spirito fa vivere. Come succede spesso nella Bibbia, questa parola è suscettibile di diverse interpretazioni, la si può capire in modo più o meno profondo, a seconda del senso che si dà a spirito.
 Una prima interpretazione consiste nel distinguere in un dato testo lettera e spirito. La lettera designa le parole scritte, prese nel loro senso oggettivo, lo spirito invece designa la disposizione mentale con la quale sono state scritte, l’intenzione di fondo dell’autore. In molti casi, c’è corrispondenza tra lettera e spirito. L’amore si esprime con parole affettuose, l’odio con parole offensive. In alcuni casi, invece, il senso della lettera non è tanto chiaro. Potrebbe essere presa in cattiva parte o in buona parte. Per interpretarla correttamente, è necessario conoscere per altre vie la mente di chi l’ha scritta. La distinzione tra spirito e lettera riveste una importanza speciale, quando si tratta di testi giuridici. Per poter applicare correttamente una legge a un caso concreto, bisogna aver afferrato lo spirito della legge.
 Nei racconti dei vangeli, osserviamo a più riprese un netto contrasto tra due interpretazioni diverse di certi precetti della Legge di Mosè; da una parte vediamo l’interpretazione rigida dei Farisei che esigono l’osservanza stretta della lettera di questi precetti, in qualsiasi circostanza; dall’altra parte, ammiriamo l’interpretazione generosa di Gesù, che si preoccupa di corrispondere allo spirito della Legge e prende quindi una certa libertà con la lettera, quando le circostanze lo richiedono. Questo contrasto si manifesta specialmente a proposito dell’osservanza del sabato. Gli episodi sono numerosi in tutti e quattro i vangeli. Prendiamo nel vangelo secondo Marco, il caso dell’uomo «che aveva una mano inaridita» e che si trovava nella sinagoga dove Gesù era entrato un giorno di sabato (Mc 3,1-6). I farisei osservano Gesù «per vedere se lo curava in giorno di sabato per poi accusarlo». Curare (greco therapeuein, da cui deriva terapia) è il lavoro del medico. Il decalogo vieta di lavorare in giorno di sabato (Es 20,8-11; Dt 5,12-15). Si tratta di un divieto severissimo, sotto pena di morte (Es 31,15; 35,2; Nm 15,32-36). I farisei prendono alla lettera questo divieto e ritengono che, se Gesù cura allora l’infermo, si meriterà la pena di morte (cfr. Mc 3,6). Gesù, invece, vuol essere fedele allo spirito della legge e perciò chiede ai farisei: «È lecito in giorno di sabato fare il bene o il male, salvare una vita o uccidere?». Gesù sa che lo spirito della Legge è uno spirito di misericordia; secondo il libro dell’Esodo, infatti, lo scopo dell’osservanza del sabato è che «possano goder quiete il tuo bue e il tuo asino e possano respirare i figli della tua schiava e il forestiero» (Es 23,12; cfr. anche Dt 5,14). Gesù ne conclude che «il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27). Egli, quindi, non esita a fare un’opera di misericordia un giorno di sabato; non vuole peccare per omissione, vuole «salvare una vita». Qui si vede bene che «la lettera uccide, mentre lo spirito fa vivere». Per fedeltà cieca alla lettera della legge, i farisei ostacolano la guarigione dell’infermo e quindi la sua piena vita e poi «tengono consiglio» contro Gesù «per farlo morire» (Mc 3,6). Gesù invece fa vivere pienamente l’infermo. Egli agisce similmente a favore del paralitico alla piscina di Betzata (Gv 5,8-9) e per la guarigione del cieco nato (Gv 9,14), suscitando ogni volta una reazione quanto mai ostile da parte dei farisei, attaccati alla lettera della legge.
 Bisogna però osservare che l’apostolo Paolo non è rimasto a questo livello d’interpretazione, quando ha scritto: «La lettera uccide, lo Spirito invece fa vivere» (2Cor 3,6). Non ha preso, cioè, la parola spirito in un senso generico, ma l’ha presa in un senso molto specifico, quello di «Spirito del Dio vivente», come dice in una frase precedente (2Cor 3,3). L’antitesi tra lettera e Spirito caratterizza, secondo Paolo, la «Nuova Alleanza», di cui gli Apostoli sono stati «resi ministri capaci», Alleanza «non di lettera, ma di Spirito». Effettivamente, gli oracoli profetici che annunciavano l’instaurazione di una Nuova Alleanza, la descrivevano come una relazione interiore con Dio stabilita dallo Spirito Santo. L’oracolo di Geremia sottolineava la differenza tra la Nuova Alleanza e l’Alleanza del Sinai, basata in un testo fatto di lettere scritte su due tavole di pietra. La Nuova non sarà così (Ger 31,32), ma sarà scritta sui cuori (31,33). Ezechiele precisa che Dio darà ai suoi fedeli «un cuore nuovo», nel quale verserà «uno spirito nuovo», che sarà, dice, «il mio Spirito» (Ez 36,26-27). Nella sua Seconda Lettera ai Corinzi, san Paolo accenna a questi oracoli, a quello di Geremia, quando dice ai Corinzi che sono una «epistola di Cristo», scritta «non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei cuori» (2Cor 3,3), poi all’oracolo di Ezechiele, quando dice che «questa epistola» è stata scritta «con lo Spirito del Dio vivente» (2Cor 3,3) e che la «Nuova Alleanza» non è «di lettera, ma di Spirito» (3,6). L’Apostolo mette in forte contrasto la «Disposizione Antica» (cfr. 2Cor 3,14), caratterizzata da una legge esterna, una lettera, e la «Disposizione Nuova» (3,6), caratterizzata dal dono interiore dello Spirito Santo, che «abita» nei cristiani (Rm 8,9.11; 1Cor 3,16; 2Tm 1,14).
 La legge esterna non fa vivere, perché non cambia il cuore delle persone, non comunica un dinamismo vitale. Quando il cuore è cattivo, l’effetto della legge esterna è quello di suscitare una voglia di trasgressione. Lungi dall’essere raffrenate dalla legge, «le passioni peccaminose» sono piuttosto stimolate da essa (cfr. Rm 7,5). «Non avrei conosciuto la concupiscenza, scrive Paolo, se la legge non avesse detto: Non avrai concupiscenza. Prendendo occasione da questo comandamento, il peccato scatenò in me ogni sorta di concupiscenza» (Rm 7,7-8). La legge può soltanto vietare e poi condannare. Perciò Paolo chiama il sistema della legge «il ministero della condanna», anzi, «il ministero della morte» (2Cor 3,7.9), perché la lettera della legge condanna a morte le persone colpevoli di una trasgressione grave. Così «la lettera uccide» veramente. Al «ministero della condanna» e «della morte», Paolo contrappone «il ministero dello Spirito» e «della giustizia» (2Cor 3,8.9), cioè il ministero apostolico della Nuova Alleanza, che per mezzo della parola della fede in Cristo e per mezzo del battesimo comunica ai credenti lo Spirito Santo (cfr. Rm 15,16; 1Cor 6,11). L’azione dello Spirito non rimane esterna, come quella della legge; al contrario, penetra all’interno dei cuori e li purifica, li santifica, vi stabilisce una relazione interiore con Dio, un dinamismo di comunione vivificante. Il «ministero dello Spirito» viene chiamato da Paolo «il ministero della giustizia» in un senso che non ci è consueto, nel senso, cioè, che lo Spirito trasforma interiormente i peccatori e li rende giusti, conformi al progetto di Dio. Ai Corinzi, Paolo scrive: «siete stati lavati, santificati, giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio» (1Cor 6,11). Così «lo Spirito fa vivere» di una vita nuova, in comunione con Dio. Questa vita è feconda; produce «il frutto dello Spirito», che «è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22-23); essa si manifesta anche con una meravigliosa diversità di doni spirituali ossia carismi (cfr. 1Cor 12,4.7-11). La vita comunicata dallo Spirito rende facile ai credenti l’adempimento della legge, perché lo Spirito riversa l’amore divino nei cuori (Rm 5,5) e «tutta la legge trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,14); «pieno compimento della legge è l’amore» (Rm 13,10). Non si tratta, però, di una osservanza rigida e minuziosa della lettera della legge; si tratta invece di una osservanza attenta all’essenziale e adattata alle circostanze, sull’esempio di Gesù. Lo sforzo principale del cristiano deve essere di accogliere sempre meglio nella sua esistenza quotidiana la presenza e l’azione del Santo Spirito, che lo fa vivere.

Opera dello Spirito Santo:www.spiritosanto.org

SAN BASILIO E LA FEDE NELLO SPIRITO SANTO – PADRE RANIERO CANTALAMESSA

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SAN BASILIO E LA FEDE NELLO SPIRITO SANTO

TERZA PREDICA DI QUARESIMA DI PADRE RANIERO CANTALAMESSA

23 Marzo 2012

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 23 marzo 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo della terza predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia, tenuta questa mattina nella Cappella “Redemptoris Mater” in Vaticano.

***
1. La fede termina alle cose
Il filosofo Edmund Husserl ha riassunto il programma della sua fenomenologia nel motto: Zu den Sachen selbst!, alle cose stesse, alle cose come sono in realtà, prima della loro concettualizzazione e formulazione. Un altro filosofo venuto dopo di lui, Sartre, dice che “le parole e, con esse, il significato delle cose e i modi del loro uso” non sono che “ i tenui segni di riconoscimento che gli uomini hanno tracciato sulla loro superficie”: bisogna oltrepassarli per avere la rivelazione improvvisa, che lascia senza fiato, della “esistenza” delle cose1.
San Tommaso d’Aquino aveva formulato molto prima un principio analogo in riferimento alle cose o agli oggetti della fede: “Fides non terminatur ad enunciabile, sed ad rem”: la fede non termina negli enunciati, ma alla realtà2. I Padri della Chiesa sono modelli insuperati di questa fede che non si ferma alle formule, ma va alla realtà. Passata la stagione d’oro dei grandi padri e dottori, si assiste quasi subito a quello che uno studioso dei pensiero patristico definisce “il trionfo del formalismo”3. Concetti e termini, come sostanza, persona, ipostasi, sono analizzati e studiati per se stessi, senza il costante riferimento alla realtà che con essi gli artefici del dogma avevano cercato di esprimere.
Atanasio è forse il caso più esemplare di una fede che si preoccupa più della cosa che della sua enunciazione. Per diverso tempo, dopo il concilio di Nicea, egli sembra quasi ignorare il termine homousios, consustanziale, pur difendendo con la tenacia che abbiamo visto la volta scorsa il suo contenuto e cioè la piena divinità del Figlio e la sua uguaglianza con il Padre. È pronto anche ad accogliere termini per lui equivalenti, purchè fosse chiaro che si intendeva mantenere ferma la fede di Nicea. Solo in un secondo momento, quando si rese conto che quel termine era l’unico che non lasciava scappatoie all’eresia, egli ne fece sempre più largo uso.
Questo fatto va notato perché conosciamo i danni arrecati alla comunione ecclesiale dal dare più importanza all’accordo sui termini che a quello sui contenuti della fede. In anni recenti si è potuta ristabilire la comunione con alcune chiese orientali, cosiddette monofisite, avendo riconosciuto che il loro contrasto con la fede di Calcedonia era nel diverso significato attribuito ai termini ousia e ipostasi, e non nella sostanza della dottrina. Anche l’accordo tra la Chiesa cattolica e la federazione mondiale delle Chiese luterane sul tema della giustificazione mediante la fede, firmato nel 1998, ha mostrato che il secolare contrasto su questo punto era più nei termini che nella realtà. Le formule, una volta coniate, tendono a fossilizzarsi, diventando bandiere e segni di appartenenza, più che espressione di fede vissuta.

2. San Basilio e la divinità dello Spirito Santo
Oggi saliamo sulle spalle di un altro gigante, san Basilio il Grande (329- 379), per scrutare con lui un’altra realtà della nostra fede, lo Spirito Santo. Vedremo subito come anche lui è un modello della fede che non si arresta alle formule ma va alla realtà.
Sulla divinità dello Spirito Santo, Basilio non dice né la prima né l’ultima parola, cioè non è colui che apre il dibattito e neppure colui che lo conclude. Chi aprì il discorso sullo statuto ontologico dello Spirito fu sant’Atanasio. Fino a lui, la dottrina intorno al Paraclito era rimasta nell’ombra, e si capisce anche perché: non si poteva definire la posizione dello Spirito Santo nella divinità, prima che fosse definita quella del Figlio. Ci si limitava perciò a ripetere nel simbolo di fede: “e credo nello Spirito Santo”, senza altre aggiunte.
Atanasio, nelle Lettere a Serapione, avvia il dibattito che porterà alla definizione della divinità dello Spirito Santo nel concilio di Costantinopoli del 381. Insegna che lo Spirito è pienamente divino, consustanziale con il Padre e con il Figlio, che non appartiene al mondo delle creature, ma a quello del creatore e la prova, anche qui, è che il suo contatto ci santifica, ci divinizza, ciò che non potrebbe fare se non fosse lui stesso Dio.
Ho detto che Basilio non dice neppure l’ultima parola. Egli si trattiene dall’applicare al Paraclito il titolo di “Dio” e quello di “consustanziale”. Afferma con chiarezza la fede nella piena divinità dello Spirito usando espressioni equivalenti, come l’uguaglianza con il Padre e Figlio nell’adorazione (la isotimia), la sua omogeneità, e non eterogeneità, rispetto ad essi. Sono i termini con cui la divinità dello Spirito Santo fu definita nel concilio ecumenico di Costantinopoli del 381e che costruiscono l’articolo di fede sullo Spirito Santo che professiamo ancor oggi nel credo.
Questo atteggiamento prudenziale di Basilio, volto a non allontanare ancora di più il partito avversario dei Macedoniani, gli attirò la critica di Gregorio Nazianzeno che colloca l’amico tra quelli che hanno avuto abbastanza coraggio per pensare che lo Spirito Santo è Dio, ma non abbastanza per proclamarlo tale esplicitamente. Rompendo ogni indugio, egli scrive. “Lo Spirito è dunque Dio? Certamente! È consustanziale? Sì, se è vero che è Dio”4.
Se dunque Basilio non dice, sulla teologia dello Spirito Santo, né la prima né l’ultima parola, perché scegliere proprio lui come nostro maestro di fede nel Paraclito? È che Basilio, come già Atanasio, è più preoccupato della “cosa” che della sua formulazione, più della piena divinità dello Spirito che dei termini con cui esprimere tale fede. La cosa, per esprimerci nei termini di Tommaso d’Aquino, gli interessa più che la sua enunciazione. Egli ci trasporta nel vivo della persona e dell’azione dello Spirito Santo.
Quella di Basilio è una pneumatologia concreta, vissuta, non scolastica, ma “funzionale” nel senso più positivo del termine, ed è quello che la rende particolarmente attuale e utile per noi oggi. A causa della nota questione del Filioque, la pneumatologia ha finito per restringersi nei secoli quasi solo al problema del modo della processione dello Spirito Santo: se dal Padre soltanto come dicono gli orientali, o anche dal Figlio, come professano i latini. Qualcosa della pneumatologia concreta dei Padri è passato nei trattati su “i Sette doni dello Spirito Santo”, ma limitato all’ambito della santificazione personale e alla vita contemplativa.
Il Concilio Vaticano II ha avviato un rinnovamento in questo campo, per esempio quando ha riportato i carismi dall’agiografia, cioè dalla vita dei santi, all’ecclesiologia, cioè alla vita della Chiesa, parlando di essi nella Lumen gentium5. Ma si è trattato solo di un inizio; resta molta strada da fare per mettere in luce l’azione dello Spirito Santo in tutto il vissuto del popolo di Dio. In occasione del XVI centenario del Concilio ecumenico di Costantinopoli del 381, il Beato Giovanni Paolo II scrisse una lettera apostolica in cui tra l’altro diceva: “Tutta l’opera di rinnovamento della Chiesa che il concilio Vaticano II ha così provvidenzialmente proposto e iniziato…non può realizzarsi se non nello Spirito Santo, cioè con l’aiuto della sua luce e della sua forza”6. Basilio, vedremo, ci è di guida proprio in questo cammino.

3. Lo Spirito Santo nella storia della salvezza e nella Chiesa
È interessante conoscere l’origine del suo trattato sullo Spirito Santo. Essa è legata curiosamente alla preghiera del Gloria Patri. Durante una liturgia, Basilio aveva pronunciato la dossologia a volte nella forma: “Gloria al Padre, per mezzo del Figlio, nello Spirito Santo”, altre volte nella forma: “Gloria al Padre e al Figlio e allo Spirito Santo”. Questa seconda forma metteva in luce più chiaramente della prima l’uguaglianza delle tre persone, coordinandole, anziché subordinarle, tra di loro. Nel clima surriscaldato delle discussioni sulla natura dello Spirito Santo, la cosa provocò delle contestazioni e Basilio scrisse la sua opera per giustificare il suo operato; in pratica, per difendere contro gli eretici macedoniani la piena divinità dello Spirito Santo.
Ma veniamo subito al punto per il quale, dicevo, la dottrina di Basilio si rivela particolarmente attuale: la sua capacità di mettere in luce l’azione dello Spirito in ogni momento della storia della salvezza e in ogni settore della vita della Chiesa. Inizia dall’opera dello Spirito nella creazione.
“Nella creazione degli esseri la causa prima di quanto viene all’esistenza è il Padre, la causa strumentale il Figlio, la causa perfezionatrice è lo Spirito. È per la volontà del Padre che gli spiriti creati sussistono; è per la forza operativa del Figlio che sono condotti all’essere ed è per la presenza dello Spirito che giungono alla perfezione…Se provi a sottrarre lo Spirito alla creazione, tutte le cose si mescolano e la loro vita appare senza legge, senza ordine, senza determinazione alcuna”7.
Sant’Ambrogio riprenderà da Basilio questo pensiero traendone una conclusione suggestiva. Riferendosi ai primi due versetti della Genesi (“la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso”) egli osserva:
“Quando lo Spirito cominciò ad aleggiare su di esso, il creato non aveva ancora alcuna bellezza. Invece, quando la creazione ricevette l’operazione dello Spirito, ottenne tutto questo splendore di bellezza che la fece rifulgere come ‘mondo’ ”8.
In altre parole, lo Spirito Santo è colui che fa passare il creato, dal caos, al cosmo, che fa di esso qualcosa di bello, di ordinato, pulito: un “mondo” (mundus) appunto, secondo il significato originario di questa parola e della parola greca cosmos. Ora noi sappiamo che l’azione creatrice di Dio non è limitata all’istante iniziale, come si pensava nella visione deista o meccanicista dell’universo. Dio non “è stato” una volta, ma sempre “è” creatore. Ciò significa che Spirito Santo è colui che continuamente fa passare l’universo, la Chiesa e ogni persona, dal caos al cosmo, cioè: dal disordine all’ordine, dalla confusione all’armonia, dalla deformità alla bellezza, dalla vetustà alla novità. Non, s’intende, meccanicamente e di colpo, ma nel senso che è al lavoro in esso e guida a un fine la sua stessa evoluzione. Egli è colui che sempre “crea e rinnova la faccia della terra” (cf. Sal 104,30).
Questo non significa, spiegava Basilio in quello stesso testo, che il Padre aveva creato qualcosa di imperfetto e di “caotico” che aveva bisogno di correttivi; semplicemente, era il disegno e il volere del Padre di creare per mezzo del Figlio e condurre gli esseri alla perfezione mediante lo Spirito.
Dalla creazione il santo Dottore passa a illustrare la presenza dello Spirito nell’opera della redenzione:
“Per quanto riguarda il piano di salvezza (oikonomia) per l’uomo ad opera del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo, stabilito secondo la volontà di Dio, chi potrebbe contestare che si compie per mezzo della grazia dello Spirito?”9
A questo punto, Basilio si abbandona a una contemplazione della presenza dello Spirito nella vita di Gesù che è tra i brani più belli dell’opera e apre alla pneumatologia un campo di ricerca che solo di recente si è cominciato a riprendere in considerazione10. Lo Spirito Santo è all’opera già nell’annuncio dei profeti e nella preparazione alla venuta del Salvatore; è per la sua potenza che si realizza l’incarnazione nel seno di Maria; è lui il crisma con il quale Gesù fu unto da Dio nel battesimo. Ogni sua opera fu realizzata con la presenza dello Spirito. Questi “era presente quando fu tentato dal diavolo, quando compiva miracoli, non lo lasciò quando risorse dai morti, e il giorno di Pasqua lo effuse sui discepoli (cf. Gv 20, 22 s.). Il Paraclito fu “il compagno inseparabile” di Gesù durante tutta la sua vita.
Dalla vita di Gesù, san Basilio passa a illustrare la presenza dello Spirito nella Chiesa:
“E l’organizzazione della Chiesa, non è chiaro e incontestabile che è opera dello Spirito? Egli stesso ha dato alla Chiesa, dice Paolo, ‘in primo luogo gli apostoli, poi i profeti, poi i maestri…Quest’ordine è organizzato secondo la diversità dei doni dello Spirito”11.
dell’Anafora che porta il nome di san Basilio – che l’attuale nostra Preghiera eucaristica IV ha seguito da vicino -, lo Spirito Santo ha un posto centrale.
L’ultimo quadro riguarda la presenza dello Paraclito nell’escatologia: “Anche al momento dell’evento dell’attesa manifestazione del Signore dai cieli- scrive Basilio – non sarà assente lo Spirito Santo”. Questo momento sarà, per i salvati, il passaggio dalle “primizie” al possesso pieno dello Spirito” e per i reprobi la separazione definitiva, il taglio netto, tra l’anima e lo Spirito12.

4. L’anima e lo Spirito
San Basilio non si ferma però all’azione dello Spirito nella storia della salvezza e nella Chiesa. Da asceta e uomo spirituale, il suo interesse maggiore è per l’agire dello Spirito nella vita di ogni singolo battezzato. Pur senza stabilire ancora la distinzione e l’ordine delle tre vie che diventeranno classiche in seguito, egli mette meravigliosamente in luce l’azione dello Spirito Santo nella purificazione dell’anima dal peccato, nella sua illuminazione e nella divinizzazione che egli chiama anche “intimità con Dio”13.
Non possiamo fare a meno di leggere la pagina in cui, in continuo riferimento alla Scrittura, il santo descrive questa azione e lasciarci trasportare dal suo entusiasmo:
“Il rapporto di familiarità dello Spirito con l’a­nima, non è un avvicinamento nello spazio — come ci si potrebbe infatti accostare all’incorporeo corporal­mente? — ma piuttosto consiste nell’esclusione delle passioni, le quali, come conseguenza della loro attrazio­ne per la carne, giungono all’anima e la separano dall’unione con Dio. Purificati dalla lordura di cui ci si era impastati attra­verso il peccato e tornati alla bellezza naturale, come avendo restituito a una immagine regale l’antica forma mediante la purificazione, solo così è possibile accostar­si al Paraclito. Egli, come un sole, riconoscendo l’oc­chio purificato, ti mostrerà in se stesso l’immagine dell’Invisibile. Nella beata contemplazione dell’immagi­ne, vedrai la indicibile bellezza dell’archetipo. Per mez­zo di lui si elevano i cuori, i deboli sono presi per mano, coloro che progrediscono giungono alla perfezione. Egli, illuminando coloro che si sono purificati da ogni macchia, li rende spirituali per mezzo della comunione con lui. E come i corpi limpidi e trasparenti, quando un raggio li colpisce, diventano essi stessi splendenti e riflettono un altro raggio, così le anime portatrici dello Spirito sono illuminate dallo Spirito; esse stesse diven­gono pienamente spirituali e rinviano sugli altri la grazia. Da qui la preconoscenza delle cose future; la com­prensione dei misteri; la percezione delle cose nascoste; le distribuzioni di carismi, la cittadinanza celeste; la danza con gli angeli; la gioia senza fine; la permanenza in Dio; la somiglianza con Dio; il compimento dei desideri: divenire Dio”14.
Non è stato difficile per gli studiosi scoprire dietro il testo di Basilio immagini e concetti derivati dalle Enneadi di Plotino e parlare, a questo proposito, di una infiltrazione estranea nel corpo del cristianesimo. In realtà, si tratta di un tema squisitamente biblico e paolino che si esprime, come era doveroso, in termini familiari e significativi per cultura del tempo. Alla base di tutto Basilio non pone l’azione dell’uomo – la contemplazione -, ma l’azione di Dio e l’imitazione di Cristo. Siamo agli antipodi della visione di Plotino e di ogni filosofia. Tutto, per lui, comincia con il battesimo che è una nuova nascita. L’atto decisivo non è alla fine, ma all’inizio del cammino:
“Come nella corsa doppia degli stadi, una fermata e un riposo separano i percorsi in senso opposto, così anche nel cambiamento di vita appare necessario che una morte si frapponga alle due vite per mettere fine a ciò che precede e dare inizio alle cose successive. Come riuscire a discendere agli inferi? Imitando la sepoltura di Cristo per mezzo del battesimo”15.
Lo schema di fondo è lo stesso di Paolo. Nel capitolo sesto nella Lettera ai Romani l’Apostolo parla della purificazione radicale dal peccato che avviene nel battesimo e nel capitolo ottavo descrive la lotta che, sostenuto dallo Spirito, il cristiano deve condurre, nel resto della sua esistenza, contro i desideri della carne, per avanzare nella vita nuova:
“Quelli che sono secondo la carne, pensano alle cose della carne; invece quelli che sono secondo lo Spirito, pensano alle cose dello Spirito.  Ma ciò che brama la carne è morte, mentre ciò che brama lo Spirito è vita e pace;  infatti ciò che brama la carne è inimicizia contro Dio, perché non è sottomesso alla legge di Dio e neppure può esserlo;  e quelli che sono nella carne non possono piacere a Dio […]. Così dunque, fratelli, non siamo debitori alla carne per vivere secondo la carne;  perché se vivete secondo la carne voi morrete; ma se mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete” (Rom 8, 5-13).
Non c’è da stupirsi se per illustrare il compito descritto da san Paolo, Basilio abbia fatto uso di un’immagine di Plotino. Essa è all’origine di una delle metafore più universali della vita spirituale e parla a noi oggi non meno che ai cristiani di allora:
“Orsù, ritorna a te stesso e guarda; e se non ancora ti vedi bello, imita l’autore di una statua che deve riuscire bella: quegli in parte scalpella, in parte appiana; qui leviga, lì affina, sino a quando avrà espresso un bel volto nella statua. Similmente anche tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto, e, a furia di purificare ciò che è oscuro, fa’ che diventi lucido e non cessare dal tormentare la tua statua fino a quando il divino splendore della virtù ti brilli dinanzi”16.
Se la scultura, come diceva Leonardo da Vinci, è l’arte di levare, ha ragione il filosofo di paragonare la purificazione e la santità alla scultura. Per il cristiano non si tratta però di raggiungere un’astratta bellezza, di costruire una bella statua, ma di riportare alla luce e rendere sempre più splendente l’immagine di Dio che il peccato tende continuamente a ricoprire.
Si racconta che un giorno Miche­langelo, passeggiando in un cortile di Firenze, vide un blocco di marmo grezzo ricoperto di polvere e fango. Si fermò di scatto a guardarlo, poi, come rischiarato da un improvviso lampo, disse ai presenti: « In questo masso di pietra è nascosto un angelo: voglio tirarlo fuori! ». E si mise a lavorare di scalpello per dare forma all’angelo che aveva intravisto. Così è anche di noi. Noi siamo ancora dei massi di pietra grez­za, con addosso tanta « terra » e tanti pezzi inutili. Dio Padre ci guarda e dice: « In questo pezzo di pietra è nascosta l’immagine del mio Figlio; voglio tirarla fuori, perché brilli in eterno accanto a me in cielo! » E per fare questo usa lo scalpello della croce, ci pota (cf. Gv. 15,2)
I più generosi, non solo sopportano i colpi di scalpello che vengono dall’esterno, ma collaborano anch’essi, per quanto è lo­ro concesso, imponendosi delle piccole, o grandi, mortificazioni volontarie e spezzando la loro volontà vecchia. Diceva un padre deserto:
« Se vogliamo es­sere completamente liberati, impariamo a spezzare la nostra volontà, e così, poco a poco, con l’aiuto di Dio, avanzeremo e arriveremo alla piena liberazione dalle passioni. È possibile spezzare dieci volte la propria volontà in un tempo brevissimo e vi dico come. Uno sta passeggiando e vede qualcosa; il suo pensiero gli dice: ‘Guarda là!’, ma lui ri­sponde al suo pensiero: ‘No, non guardo!’, e spezza la sua volontà »17.
Questo antico Padre porta altri esempi tratti dalla vita monastica. Si sta parlando male di qualcuno, forse del superiore; il tuo uomo vecchio ti dice: « Partecipa anche tu; di’ quello che sai. Ma tu ri­spondi: « No! ». E mortifichi l’uomo vecchio … Ma non è difficile allungare la lista con altri atti di rinuncia, propri dello stato in cui si vive e dell’ufficio che si ricopre.
Finché si vive assecondando i desideri della carne noi somigliamo ai due famosi “Bronzi di Riace”, al momento in cui furono ripescati dal fondo del mare, tutti ricoperti di incrostazioni e appena riconoscibili come figure umane. Se vogliamo risplendere anche noi, come questi due capolavori dopo il loro restauro, la Quaresima è il tempo opportuno per mettere mano all’impresa.

5. Una mortificazione “spirituale”
C’è un punto in cui la trasformazione dell’ideale di Plotino in ideale cristiano è rimasta incompleta, o almeno poco esplicita. San Paolo, abbiamo sentito, dice: “mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, voi vivrete”. Lo Spirito non è dunque solo il frutto della mortificazione, ma anche ciò che la rende possibile; non è solo al termine del cammino, ma anche all’inizio. Gli apostoli non ricevettero lo Spirito a Pentecoste perché erano diventati fervorosi; diventarono fervorosi perché avevano ricevuto lo Spirito.
I tre Padri Cappadoci, erano fondamentalmente degli asceti e dei monaci; Basilio, in particolare, con le sue Regole monastiche (Asceticon!), fu il fondatore del monachesimo cenobitico. Questo li portò ad accentuare fortemente l’importanza dello sforzo dell’uomo. Il fratello e discepolo di Basilio, Gregorio Nisseno, scriverà in questa linea: “Nella misura in cui tu sviluppi le tue lotte per la pietà, in questa medesima misura si sviluppa anche la grandezza dell’anima per mezzo di queste lotte e di questi sforzi”18.
Nella generazione seguente, questa visione dell’ascesi verrà ripresa e sviluppata da autori spirituali, come Giovanni Cassiano, ma staccata dalla solida base teologica che aveva in Basilio e in Gregorio Nisseno. “È da questo punto –nota il Bouyer – che il pelagianesimo, ponendo lo sforzo umano prima della grazia, prenderà il suo avvio”19. Ma questo esito negativo non si può certo imputare a Basilio e ai Cappadoci.
Torniamo per concludere al motivo che rende la dottrina di Basilio sullo Spirito Santo perennemente valida e oggi, dicevo, più che mai attuale e necessaria: la sua concretezza e aderenza alla vita della Chiesa. Noi latini abbiamo un mezzo privilegiato per fare nostro e trasformare in preghiera questo stesso tipo di pneumatologia: l’inno del Veni creator.
Esso è da cima a fondo una contemplazione orante di ciò che lo Spirito concretamente fa: in tutta la terra e l’umanità come Spirito creatore; nella Chiesa, come Spirito di santificazione (dono di Dio, acqua viva, fuoco, amore e unzione spirituale) e come Spirito carismatico (multiforme nei tuoi doni, dito della destra di Dio, che mette sulle labbra la parola); nella vita del singolo credente, come luce per la mente, amore per il cuore, guarigione per il corpo; come nostro alleato nella lotta contro il male e guida nel discernimento del bene.
Invochiamolo con le parole della prima strofa, chiedendogli di far passare anche il nostro mondo e la nostra anima dal caos al cosmo, dalla dispersione all’unità, dalla bruttezza del peccato alla bellezza della grazia.

Veni, Creator Spiritus,
mentes tuorum visita,
imple superna gratia
quae tu creasti pectora.

O Spirito che susciti il creato,
pervadi i tuoi fedeli nel profondo,
riversa la pienezza della grazia
nei cuori che creasti per te solo.

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