Archive pour octobre, 2011

Luca Signorelli, La resurrezione della carne (1499-1502)

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Publié dans:immagini sacre |on 31 octobre, 2011 |Pas de commentaires »

SANTA MESSA IN SUFFRAGIO DEI DEFUNTI: OMELIA DI PAOLO VI (1965)

SANTA MESSA IN SUFFRAGIO DEI DEFUNTI

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/homilies/1965/documents/hf_p-vi_hom_19651102_it.html

OMELIA DI PAOLO VI

Martedì, 2 novembre 1965

Siamo qui riuniti – incomincia il Santo Padre – con il proposito di onorare religiosamente i nostri defunti: coloro cioè che ci hanno preceduti «cum signo fidei et dormiunt in somno pacis». Ognuno – come è ovvio – ricorda anzitutto i propri cari, specie coloro la cui dipartita è meno lontana, sì che la cicatrice del dolore non è ancora rimarginata. Poi il pensiero torna alle persone conosciute, a coloro che hanno avuto con noi vincoli di parentela, o rapporti di professione ed amicizia, che con noi hanno condiviso le vicende del pellegrinaggio terreno, partecipando alla nostra vita sociale.

UN RELIGIOSO SACRO DOVERE
L’animo, il ricordo si volge quindi a tutti gli scomparsi appartenenti alle singole parrocchie, ai paesi, ai centri urbani: specialmente alla città e diocesi di Roma, alla nostra terra, al popolo tra cui viviamo.
L’orizzonte si allarga ancora, e sentiamo doverosa la preghiera per gli altri defunti, a cominciare dalle vittime delle guerre del nostro tempo, sino ai molti caduti anche in questi giorni perché gli uomini non sono capaci di essere fratelli. Si arriva, infine, con tale sentimento di umana pietà, all’aiuto cristiano a quanti sono avvolti dall’oblio, a pro dei quali nessuno prega, e che proprio da noi aspettano l’aiuto per passare dalle sofferenze della espiazione alla luce del Signore.
Un sacro dovere, dunque, di religiosa, universale solidarietà. Si tratta, è vero, d’un obbligo triste e penoso: ed esso rimarrebbe nei termini d’un dolore sconsolato, se noi ci limitassimo solo all’aspetto umano di quanto sentiamo di fronte alla morte. Sappiamo tutti che tale condoglianza non è sufficiente e che il considerare solo in termini terreni ciò che avviene con la morte e dopo la morte, ci atterrisce. Le cognizioni umane, in proposito, non ci dicono nulla: e generano soltanto smarrimento, fantasie, sconforto. Perciò non bastano questi limitati sentimenti a commemorare degnamente e piamente i nostri defunti. Occorre ben altro: ed ecco la lampada della nostra santa Religione venirci incontro per illuminarci, guidarci ed indicare, in ogni momento, quel che si deve pensare e compiere dinanzi al trapasso dalla esistenza nel tempo all’eternità.
Non è che questa lampada dissipi, nel campo in esame, tutte le tenebre, San Paolo ci ricorda che noi, adesso vediamo come per riflesso, in aenigmate. Nondimeno quel che la Religione ci fa intravedere della vita d’oltre tomba è tale da darci grandi certezze, alimentate e sorrette dalle tre virtù teologali. La fede, la speranza, la carità vengono ad impartirci insegnamenti di luce sì da rendere possibile, anzi doverosa, una comunione con i nostri defunti.

VIVREMO NELLA IMMORTALITÀ
Ben oltre i semplici eppur apprezzabili dati della ragione, che arriva a dimostrare l’immortalità dell’anima senza però nulla dirci della vita futura, la fede ci dà il quadro completo della vita, anzitutto di quella presente, per quindi elevare il nostro spirito ed immergerlo nella somma verità: noi siamo immortali. Noi non moriremo più: siamo nati ieri e abbiamo davanti a noi l’eternità da vivere. La morte che può essere vicina e che, comunque, per la durata del tempo, non è lontana, tocca solo in una maniera episodica la nostra esistenza.
Siamo usciti dalle mani di Dio, che ci ha creati, per vivere sempre. Questa coscienza, di cui ora disponiamo, non si spegnerà mai. Ognuno può dire: il mio essere non sarà più assorbito da un sonno di morte, cioè di annullamento e di distruzione.

LA FEDE CERTEZZA DEI BENI SUPREMI
Vivrò! Questa nozione, che ci fa contemplare il vero programma e panorama della nostra esistenza, è, da un lato, consolantissima; dall’altro ci prospetta gravi pensieri di arduo dominio. Se siamo fatti per la eternità, che rapporto c’è fra la vita presente e quella futura? Mirabile è la risposta. Noi sappiamo che la morte va considerata come una lanterna posta ad illuminare il mutamento della nostra vita temporale, facendoci ben vedere un rapporto di responsabilità nei confronti del nostro destino eterno. Siamo noi a formare la nostra fisionomia per l’avvenire. Quel che facciamo ora ha una ripercussione nell’eternità. Di qui il peso e il valore della nostra vita presente. «Opera enim illorum sequuntur illos»: è stato letto poco fa nel brano dell’Apocalisse. Le nostre azioni ci seguono: diventano perciò di una importanza enorme. Bisogna pensarle e considerarle appieno; occorre essere perfetti, essere santi. Ogni azione, infatti, ha la sua portata al di là del tempo; incide non nel vuoto, ma nel nostro essere. Saremo, di fronte a Dio, quali ci stiamo plasmando con la nostra volontà, con le nostre virtù.
Consegue doverosa una domanda: come si perverrà a un grado di perfezione, alla piena corrispondenza al supremo destino stabilito da Dio? Rimanendo uniti, sempre, alle fonti della vita: a Cristo Signore benedetto, il Quale ha proclamato: «Ego sum resurrectio et vita»: Io sono la risurrezione e la vita. Così è: questa la norma indefettibile. Quale gioia il ricordare che, nell’imminenza della nostra nascita alla vita soprannaturale, quando abbiamo ricevuto il santo Battesimo, alla richiesta: che cosa cerchi dalla Chiesa? qualcuno ha dato, per noi, la risposta splendente: cerco la fede! E che cosa ti dà la fede? La vita eterna!

«CON LA SPERANZA SIAMO SALVI»
La fede ci inserisce nell’albero dell’eterna vita: Cristo. L’essere uniti con Cristo è necessità essenziale per noi. Se siamo innestati in Lui e cristiani vivi, il nostro destino è bene assicurato e i nostri giorni possono anche consumarsi rapidamente: non importa. Sappiamo d’essere incamminati non verso l’oscurità, l’annullamento, il castigo del nostro essere, ma verso l’oceano della vita: Cristo, la nostra redenzione e salvezza, il nostro premio.
Giunge ora la speranza a fornirci anch’essa i suoi beni. Il primo è il conforto: è il togliere le inquietudini che non hanno sollievo; è il sentire vicino a noi la voce grave e autorevole del Maestro ripeterci: «Noli fiere»: non piangere! Un pianto disperato non è cristiano, lacrime che scorrono senza consolazione non sono lacrime benedette. E Gesù spiega: Sì, tu puoi sentire il dolore, la morte, la separazione dai tuoi, l’intera amarezza retaggio della prima colpa; puoi sì piangere, ma non con la disperazione nel cuore e con gli occhi annebbiati e incapaci di scorgere la luce che ti aspetta.
Non vogliate piangere i scrive San Paolo ai Tessalonicesi – come coloro «qui spem non habent», giacché appunto il Cristianesimo, la nostra fede, la nostra unione con Cristo ci danno l’incrollabile sicurezza. «Spe salvi facti sumus»: già con la speranza siamo salvi. Potenzialmente, anzi, sin d’ora siamo al di là dell’abisso tenebroso, al di là della morte: e possiamo procedere con quella serenità, che rende accetta ed agevole la stessa vita presente.

LA CARITÀ PROSEGUE NEL CIELO
Abbiamo un pegno nella bontà di Dio, nella sua fedeltà, larghezza e misericordia. Egli ci aspetta, ci chiama; perciò sostiene il nostro pellegrinaggio terreno con la sicurezza dell’incontro finale con Lui. Ed ecco la carità. Fiorisce cioè questa eccelsa virtù che, come dice San Paolo, giammai verrà meno, e non si spegnerà. La fede, la speranza si risolveranno nella visione di Dio e nel suo godimento nella vita futura. La carità no: quel che oggi noi compiamo nella ricerca di Dio, nel volergli bene, nel seguirne i precetti e nell’essere uniti a Cristo: questo slancio, che si chiama amore soprannaturale, carità, durerà sempre. Sarà il nostro sentimento indistruttibile. Adesso palpita nel desiderio, domani rifulgerà nella pienezza del possesso: ma rimarrà sempre identico per origine e natura. Sarà sempre l’anelito di congiungerci al Signore: ad esso è assicurato un totale compimento.
Ora, sappiamo che questo vincolo esistente fra Dio e noi arriva a porsi in comunicazione anche con le anime dei nostri defunti. Il messaggio di amore che noi loro mandiamo perviene ad esse attraverso il misterioso canale costituito dalla Comunione dei Santi, il regno della carità. Riusciamo, quindi, a metterci in reale comunicazione con i trapassati e a ricevere da loro qualche messaggio, non fosse altro che il ricordo dei loro atti ed esempi edificanti; e sentirci, così, già in società restituita, anzi piena, con tutti i nostri defunti.
Quale la conclusione di quanto si è qui rammentato? Dobbiamo attuare in esercizio volenteroso i grandi suggerimenti di fede, di speranza e di carità: e guardare sì la vita con il richiamo luminoso che ci viene dai nostri defunti, ma soprattutto possedere questo supremo, vittorioso slancio di amore, che il Signore dà e fa circolare tanto in questa vita quanto in quella della beatitudine.

IL SUFFRAGIO: SUBLIME ATTO D’AMORE
A che cosa ci obbligano, allora, i rapporti, indicatici dal Signore, con coloro che ci hanno preceduti? Essi ci richiamano proprio a quel dovere che noi stiamo adesso piamente compiendo: suffragare i nostri Morti. La comunicabilità dei meriti è uno dei frutti della sopravvivente carità. Noi possiamo aiutare i cari defunti; possiamo beneficarli. Che cosa non faremmo, se ci fossero vicini? Ebbene: li abbiamo, in certo modo, accanto, e proprio nel circuito della carità. Cerchiamo, perciò, di essere solleciti e generosi con il suffragio. Tutti sanno come esso si esprima: con le opere buone, i sacrifizi, specialmente con le elemosine e con la preghiera.
È quanto facciamo in questo momento, cercando di dilatare il nostro cuore per includervi, insieme con i nostri cari, tutti gli altri a cui la carità ci indirizza: cioè il mondo intero e tutti i defunti che fanno parte della Chiesa in stato di purificazione. Cerchiamo di consolare questa immensa schiera di anime non solo con la nostra memoria, ma proprio con la carità della nostra preghiera, del nostro suffragio.
E quel Dio, che è così buono d’averci dato la vita, quel Dio che veglia sopra di noi e ci ha fatti cristiani, riversando sulle nostre anime tante grazie, mentre sta a vedere se di esse ci accorgiamo, se rispondiamo con amore all’amore, accoglierà certamente il nostro impegno di carità per i diletti Defunti. Ascolterà le nostre preci, affretterà per loro il giorno solare della vita eterna; e darà a noi più salda certezza; anche un anticipo del nostro destino supremo. Saremo salvi per la bontà del Signore. E così sia!                            

2 Novembre : Commemorazione dei defunti

dal sito:

http://www.parrocchiasarnico.it/Pagine/Catechesi/CommemorazioneDefunti.htm

Commemorazione dei defunti

(2 novembre 1980)

La commemorazione dei fedeli defunti al 2 novembre ebbe origine net sec. X nel monastero benedettino di Cluny. Papa Benedetto XV, al tempo della prima guerra mondiale, giunse a concedere a ogni sacerdote la facoltà di celebrare «tre messe» in questo giorno.
«La liturgia cristiana dei funerali è una celebrazione del mistero pasquale di Cristo Signore. Nelle esequie la Chiesa prega che i suoi figli, incorporati per il battesimo a Cristo morto e risorto, passino con lui dalla morte alta vita e, debitamente purificati nell’anima, vengano accolti con i santi e gli eletti nel cielo, mentre il corpo aspetta la beata speranza della venuta di Cristo e la risurrezione dei morti». 
Nella nostra vita noi pensiamo di non avere mai abbastanza: viviamo protesi verso un continuo «domani», dal quale ci attendiamo sempre «di più»: più amore, più felicità, più benessere. Viviamo sospinti dalla speranza. Ma in fondo a tutto il nostro stordirci di vita e di speranza si annida, sempre in agguato, il pensiero della morte: un pensiero a cui è molto difficile abituarci, che si vorrebbe spesso scacciare. Eppure la morte è la compagna di tutta la nostra esistenza: addii e malattie, dolori e delusioni ne sono come i segni premonitori.

La morte: un mistero
La morte resta per l’uomo un mistero profondo. Un mistero che anche i non credenti circondano di rispetto.
Essere cristiani cambia qualcosa nel modo di considerare la morte e di affrontarla? Qual è l’atteggiamento del cristiano di fronte alla domanda, che la morte pone continuamente, sul senso ultimo dell’esistenza umana?
La risposta si trova nella profondità della nostra fede. La morte per il cristiano non è il risultato di un gioco tragico e ineluttabile da affrontare con freddezza e cinismo. La morte del cristiano si colloca nel solco della morte di Cristo: è un calice amaro da bere fino in fondo perché frutto del peccato; ma è pure volontà amorosa del Padre, che ci aspetta al di là della soglia a braccia aperte: una morte che è una vittoria vestita di sconfitta; una morte che è essenzialmente non-morte: vita, gloria, risurrezione.
Come tutto questo avvenga di preciso non lo possiamo sapere. Non è dell’uomo misurare l’immensità delle promesse e del dono di Dio. Il commiato dei fedeli è accompagnato dalla celebrazione eucaristica che è ricordo della morte di Gesù in croce e pegno della sua risurrezione. Uno dei prefazi rivela un accento di umana soavità e di divina certezza: «In Cristo rifulge a noi la speranza delta beata risurrezione, e se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consola la promessa dell’immortalità futura. Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo».

A faccia a faccia con Cristo
La morte del cristiano non è un momento al termine del suo cammino terreno, un punto avulso dal resto detta vita. La vita terrena è preparazione a quella celeste, stiamo in essa come bambini nel seno materno: la nostra vita terrena è un periodo di formazione, di lotte, di prime scelte. Con la morte l’uomo si trova di fronte a tutto ciò che costituisce l’oggetto delle sue aspirazioni più profonde: si troverà di fronte a Cristo e sarà la scelta definitiva, costruita con tutte le scelte parziali di questa vita.
Cristo ci attende con le braccia aperte: l’uomo che sceglie di porsi contro Cristo, sarà tormentato in eterno dal ricordo di quello stesso amore che ha rifiutato. L’uomo che si decide per Cristo troverà in quell’amore la gioia piena e definitiva.

«L’eterno riposo dona loro, o Signore»
Possiamo fare qualcosa per i defunti?
Essi non sono lontani da noi: appartengono tutti alla comunità degli uomini e alla Chiesa, sia quelli che sono morti nell’abbraccio di Dio, come pure tutti coloro dei quali solo il Signore ha conosciuto la fede.
La preghiera per i defunti è una tradizione della Chiesa. In ogni persona infatti, anche se morta in Stato di grazia, può sussistere tanta imperfezione, tanto da purificare dell’antico egoismo! Tutto questo avviene nella morte. Morire significa morire al male. E’ il battesimo di morte con Cristo, nel quale trova compimento il battesimo d’acqua. Questa morte vista dall’altro lato — così crede la Chiesa — può essere una purificazione, il definitivo e totale ritorno alla luce di Dio.
Quanto tempo durerà? Non siamo in grado di determinare né tempo né luogo né come. Ma, partendo dal nostro punto di vista umano, c’è un tempo durante il quale noi consideriamo qualcuno come «trapassato» e lo aiutiamo con la nostra preghiera.
Il Messale Romano presenta tre formulari distinti di orazioni per la celebrazione del 2 novembre. Nella Messa non si dice il Gloria né il Credo.

Moriamo insieme a Cristo, per vivere con lui

Dal libro «Sulla morte del fratello Satiro» di sant’Ambrogio, vescovo
(Lib. 2, 40.41.46.47.132.133; CSEL 73, 270-274, 323-324)
Dobbiamo riconoscere che anche la morte può essere un guadagno e la vita un castigo. Perciò anche san Paolo dice: «Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1, 21). E come ci si può trasformare completamente nel Cristo, che è spirito di vita, se non dopo la morte corporale?
Esercitiamoci, perciò, quotidianamente a morire e alimentiamo in noi una sincera disponibilità alla morte. Sarà per l’anima un utile allenamento alla liberazione dalle cupidigie sensuali, sarà un librarsi verso posizioni inaccessibili alle basse voglie animalesche, che tendono sempre a invischiare lo spirito. Così, accettando di esprimere già ora nella nostra vita il simbolo della morte, non subiremo poi la morte quale castigo. Infatti la legge della carne lotta contro la legge dello spirito e consegna l’anima stessa alla legge del peccato. Ma quale sarà il rimedio? Lo domandava già san Paolo, dandone anche la risposta: «Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?» (Rm 7, 24). La grazia di Dio per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore (cfr. Rm 7, 25 ss.).
Abbiamo il medico, accettiamo la medicina. La nostra medicina è la grazia di Cristo, e il corpo mortale è il corpo nostro. Dunque andiamo esuli dal corpo per non andare esuli dal Cristo. Anche se siamo nel corpo cerchiamo di non seguire le voglie del corpo.
Non dobbiamo, è vero, rinnegare i legittimi diritti della natura, ma dobbiamo però dar sempre la preferenza ai doni della grazia.
Il mondo è stato redento con la morte di uno solo. Se Cristo non avesse voluto morire, poteva farlo. Invece egli non ritenne di dover fuggire la morte quasi fosse una debolezza, né ci avrebbe salvati meglio che con la morte. Pertanto la sua morte è la vita di tutti. Noi portiamo il sigillo della sua morte; quando preghiamo la annunziamo; offrendo il sacrificio la proclamiamo; la sua morte è vittoria, la sua morte è sacramento, la sua morte è l’annuale solennità del mondo.
E che cosa dire ancora della sua morte, mentre possiamo dimostrare con l’esempio divino che la morte sola ha conseguito l’immortalità e che la morte stessa si è redenta da sé? La morte allora, causa di salvezza universale, non è da piangere. La morte che il Figlio di Dio non disdegnò e non fuggì, non è da schivare.
A dire il vero, la morte non era insita nella natura, ma divenne connaturale solo dopo. Dio infatti non ha stabilito la morte da principio, ma la diede come rimedio. Fu per la condanna del primo peccato che cominciò la condizione miseranda del genere umano nella fatica continua, fra dolori e avversità. Ma si doveva porre fine a questi mali perché la morte restituisce quello che la vita aveva perduto, altrimenti, senza la grazia, l’immortalità sarebbe stata più di peso che di vantaggio.
L’anima nostra dovrà uscire dalle strettezze di questa vita, liberarsi delle pesantezze della materia e muovere verso le assemblee eterne.
Arrivarvi è proprio dei santi. Là canteremo a Dio quella lode che, come ci dice la lettura profetica, cantano i celesti sonatori d’arpa: «Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente; giuste e veraci le tue vie, o Re delle genti. Chi non temerà, o Signore, e non glorificherà il tuo nome? Poiché tu solo sei santo. Tutte le genti verranno e si prostreranno dinanzi a te» (Ap 15, 3-4).
L’anima dovrà uscire anche per contemplare le tue nozze, o Gesù, nelle quali, al canto gioioso di tutti, la sposa è accompagnata dalla terra al cielo, non più soggetta al mondo, ma unita allo spirito: «A te viene ogni mortale» (Sal 64, 3).
Davide santo sospirò, più di ogni altro, di contemplare e vedere questo giorno. Infatti disse: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita, per gustare la dolcezza del Signore» (Sal 26, 4).

Omelia per la festa di Tutti i Santi: I diversi aspetti e la varietà della santità

dal sito:

http://www.lachiesa.it/calendario/omelie/pages/Detailed/16545.html

Omelia (01-11-2009)

padre Antonio Rungi

I diversi aspetti e la varietà della santità

Celebriamo oggi la Solennità di Tutti i Santi, in questa prima domenica di novembre, che apre il mese dei morti. Domani, infatti, ricorderemo nell’annuale commemorazione di tutti i fedeli defunti, quanti hanno lasciato questo mondo e godono o sono in attesa di godere della visione beatifica di Dio. La solennità odierna ci porta nel cuore stesso del mistero della salvezza eterna verso la quale siamo tutti incamminati per strade e percorsi diversi. Siamo, infatti, tutti chiamati alla santità e tutti possiamo diventare santi, cioè realizzare la beatitudine nel tempo e nell’eternità.
Oggi la chiesa pone alla nostra attenzione i santi conosciuti e quelli meno conosciuti, quelli ignoti, in poche parole coloro che godono della visione beatifica di Dio. Tutti coloro che hanno vissuto nella legge di Dio, nel timore di Dio e si sono sforzati per diventare sempre più perfetti nell’amore verso Dio e verso i fratelli. E non sono pochi, perché l’evangelista Giovanni, nell’Apocalisse afferma che vide « una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua ». E’ la conferma biblico-teologica che la salvezza è rivolta davvero a tutti e tutti partecipano del banchetto del cielo. Certo chi ha avuto il dono di testimoniare la fede fino al martirio, fino allo spargimento del sangue per amore di Cristo, viene indicato come modello per eccellenza agli altri. D’altronde i martiri sono i testimoni della fede e quanti vogliono raggiungere la santità non possono non seguire la strada del martirio quotidiano. Ecco perché nel testo dell’Apocalisse della prima lettura di oggi si sottolinea in particolare la presenza dei martiri nella schiera dei beati.
La vita cristiana richiede una purificazione continua, un cammino di perfezionamento nell’essere e nell’agire, che abbia di mira la Gerusalemme celeste, senza trascurare la Gerusalemme terrestre, cioè il mondo in cui siamo chiamati a realizzare la nostra vocazione ed applicare concretamente i carismi ricevuti. Santi non si nasce, ma si diventa, a partire da quel giorno del Battesimo, in cui siamo stati avviati a quel percorso di santità con il dono della grazia battesimale, con l’eliminazione del peccato originale e la nuova condizione di figli di Dio, per mezzo di quella stessa grazia battesimale che ci ha fatto passare dallo stato naturale a quello soprannaturale. L’atto fondante della nostra opzione per la santità è proprio quel dono del Battesimo che ci immette in quella linfa vitale che è la grazia santificante. Vivere nello stato di grazia significa allontanarsi dal peccato e seguire la via di Dio. Non è facile, ma con la vita di preghiera, la frequenza ai sacramenti, con la lotta contro le tentazioni della carne, degli occhi e la concupiscienza di ogni genere si può progredire nella santità e vivere in grazia.
Questa condizione speciale in cui siamo viene sottolineata dalla prima lettera di san Giovanni apostolo, secondo lettura della liturgia odierna. La fede nella vita eterna ci dice una cosa importante: « quando Dio si manifesterà, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è ». La speranza nella vita eterna ci mette in uno stato di purificazione, per essere puri come Dio è puro. Si tratta di quel cammino di spiritualità, in quanto Dio è puro spirito e la santità è sinonimo di spiritualità, ma anche umanità, sensibilità, carità, impegno per la pace, per la giustizia.
I santi sono coloro che hanno la mente rivolta al cielo, ma camminano con i piedi per terra, cioè realizzano qualcosa concretamente, non limitandosi ad annunciare, ma ad operare. I beati e la beatitudine di cui parla il Vangelo di Matteo nel celebre discorso della Montagna, tenuto da Gesù davanti alle persone che lo seguivano è un insegnamento di ampia portata educativa, su quel cammino di santità nel quale siamo immessi, ma che non sempre seguiamo speditamente. A volte siamo noi stessi a rallentare questo cammino, anzi a fermarci, a bloccarci di continuo, perché ci facciamo distrarre da percorsi alternativi, come quando ci troviamo in un ingorgo e cerchiamo vie di fuga. La santità richiede coerenza e costanza, fedeltà a Dio, coraggio nelle proprie azioni, forte propensione a guardare oltre e a non fermarsi al primo intoppo. Ecco perché questo testo sulle beatitudini è stato inserito nella liturgia della solennità di tutti i santi, in quanto in esso sono individuate le molteplici categorie di persone che sentono davvero l’urgenza nel loro cuore di mettersi alla sequela del Cristo Maestro. Qui infatti troviamo espresso l’alto magistero di Cristo, il vero pedagogo, il maestro divino che parla ad esseri umani, con il linguaggio dell’amore, del perdono, della pace, della giustizia, della solidarietà. In poche parole il codice ed il linguaggio della vera santità concretizzata in scelte radicali di vita per amore di Dio e dei fratelli, secondo quanto riusciamo a intendere dal Vangelo di Matteo.
Nel pensare alla grande moltitudine di quelli che hanno raggiunto la gloria del cielo, vivendo gli insegnamenti del vangelo, ci si apre il cuore alla speranza. E’ vero che molti sono i chiamati e pochi gli eletti, ma è altrettanto vero che la misericordia di Dio è infinita e che il Signore non vuole che nessuno dei suoi figli vada perduto.
Ci affidiamo, quindi, alla protezione di tutti i santi e particolarmente dei nostri protettori, delle anime sante che abbiamo incontrato e conosciuto nella nostra vita, perché si facciano interpreti delle nostre attese e desideri di santità presso il trono dell’Altissimo, ma anche di una vita serena e tranquilla in questo mondo, nell’attesa di incontrare il Signore nella gloria del Santo Paradiso.
Molti di noi ricordano un vecchio proverbio che era anche una forma augurale che le persone di una certa età esprimevano in senso di affetto di fronte ai bambini appena nati o in fase si sviluppo: « Cresci santo e vecchietto », cioè buono e per una lunga vita.
E’ l’augurio che rivolgo a ciascuno di voi in questa giornata di festa per tutti. Oggi è l’onomastico di tutti, perché noi cattolici in questo giorno ricordiamo i nostri santi patroni e protettori che dovremmo imitare nella vita e nella santità.
Sia questa la nostra preghiera che sgorga dal nostro cuore proiettato nella vita oltre la vita, a quella vita in vita, che ha solo un grande e promettente nome: il Paradiso.
« Dio onnipotente ed eterno, che doni alla tua Chiesa la gioia di celebrare in un’unica festa i meriti e la gloria di tutti i Santi, concedi al tuo popolo, per la comune intercessione di tanti nostri fratelli, l’abbondanza della tua misericordia. Amen.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻, SANTI |on 31 octobre, 2011 |Pas de commentaires »

…scribes and Pharisees, hypocrites!

...scribes and Pharisees, hypocrites! dans immagini sacre woeuntoyou

http://thewordofchrist.net/oursavior/TheCrucifixion/thirdday.html

Publié dans:immagini sacre |on 29 octobre, 2011 |Pas de commentaires »

Docile e impudente audacia ebraica (Dt 4,7)

dal sito:

http://kabballart.com/cinuweb/fotocinuweb/wtorah/audacia.html

Docile e impudente audacia ebraica

Poiché qual’ è il popolo così grande da avere vicine le proprie divinità così come H’’ nostro D’ lo è ogni volta che lo invochiamo ?

(Dt 4,7)

Se c’è una cosa che contraddistingue il popolo d’Israele da tutti gli altri popoli è proprio il tipo di relazione che egli  ha instaurato con il Suo D’: nel moderno stato d’Israele la Torah fa direttamente o indirettamente parte integrante della vita quotidiana dei cittadini; in Israele D’ è per tutti, credenti e meno credenti, il Padrone di casa al quale ci si rivolge con una confidenza che ai non-ebrei a volte suscita stupore, se non scandalo. Una delle accuse che ci vengono fatte è che “gli ebrei mettono D’ da ogni parte!”. Questo modo familiare di rivolgersi a D’ denota il tipo di relazione che l’ebreo ha nei confronti dell’assoluto. L’ebreo, a causa della sua elezione e del suo passato storico, non intrattiene con la divinità un rapporto distante di Creatore-creatura, ma un rapporto intimo a tu-per-tu come quello di Padre-figlio, Marito-moglie…
Questa intimità spesso tocca punte di un’arditezza e libertà tali da sembrare persino blasfeme. L’ebreo rifiuta un atteggiamento di passiva sottomissione al “fato”, sa porre domande a D’ e spingersi fino alle estreme conseguenze di esse; sa umilmente sottomettersi alla volontà di D’, anche quando è troppo esigente, ma allo stesso tempo sa anche dimostrare apertamente il suo disappunto, presentare a D’ le sue proteste e permettersi anche di litigare con Lui senza paura di offenderlo, e senza timore di fra crollare le consolidate impalcature teologiche che non fanno che aumentare la distanza dell’uomo dalla sorgente di ogni bene.
La preghiera ebraica è aliena all’etichetta e non assume nessun codice di comportamento formale mirato a mascherare la misera realtà umana: la sinagoga non è un luogo sacro dove solo si prega, in sinagoga si studia Torah, si danza, si parla, si mangia, si urla a D’ la propria gioia o il proprio dolore, si discute con i fratelli e a volte persino si litiga!! L’ebreo si permette questa libertà perché ama il suo Creatore e sa di essere da Lui eternamente amato così com’è con i suoi pregi e difetti, non ha bisogno di recitare un ruolo, può permettersi di rimanere autenticamente se stesso in sinagoga così com’è nella vita di tutti i giorni.

Pubblichiamo un racconto hassidico che illustra molto bene questo tipo di relazione confidenziale tipicamente ebraica.
Si racconta che, durante il mese terribile di Av, il Grande Magghid rabbi Dov Baer di Mezrich si rivolse al suo giovane discepolo reb Elimelekh di Lizensk e gli chiese se conosceva il senso profondo di Rosh Hashana (=capodanno ebraico).
- No, rispose il discepolo. Non lo conosco. In realtà non conosco il senso profondo di nulla.
- Ti piacerebbe apprenderlo?
- Fosse vero, rabbi. Me lo insegni. Proprio per questo sono venuto a Mezritch. Per comprendere quello che faccio, chi io sia.
- Bene, disse il Grande Magghid. Va’ a Zhitomir. Fermati nel villaggio vicino alla foresta. Trovererai facilmente la locanda, ce n’è una sola. L’oste ti svelerà il significato profondo di Rosh Hashana.
Senza perdere un minuto, reb Elimelekh lasciò Mezritch, prese la strada per Zhitomir e si fermò al villaggio presso la foresta. Trovò la locanda, incontrò l’oste e subito pensò che il Magghid l’aveva dovuto indirizzare da un Giusto veramente nascosto. Infatti costui non aveva per nulla l’aria d’uno che potesse insegnargli anche la più elementare preghiera d’ogni giorno. Era un oste fatto e finito, si comportava da oste e si esprimeva da oste, tutto occupato com’era a servire gli avventori, a bere con loro e a ridere con gli ubriachi. “Riesce a camuffarsi a meraviglia”, pensava Elimelekh.
Il giovane si fermò una notte, si fermò tre notti.
Spiava l’oste. Sperava di sorprenderlo a mezzanotte, quando tutti i mistici piangono sulla distruzione del Tempio. Fatica sprecata: quel brav’uomo dormiva placidamente.
Al mattino l’oste si alzava, biascicava in fretta e furia le preghiere, ingoiava la colazione come aveva fatto il giorno prima e, certamente, la settimana prima. Poi si metteva al lavoro. Scopava l’osteria, ordinava le sedie, lavava i bicchieri, e aspettava il primo vetturino per trincare con lui. Ma reb Elimelekh non si perdeva d’animo. “Il Magghid m’ha indirizzato qui,e io devo venirci”, pensava. “Il Magghid sa quello che fa. Forse dovrei fermarmi per lo shabbat (=sabato). Nella luce e nella purezza dello shabbat l’oste non potrà più nascondersi e sarà forzato a mantenere la promessa del Magghid”.
Passò, dunque, lo shabbat all’osteria ma non accadde niente, salvo che, in onore dello shabbat, l’oste mangiò senza fretta e dormì a lungo. Allora Elimelekh cominciò ad agitarsi. “Perché sono venuto qui?”, si chiese. “Perché non ho udito le parole che m’erano destinate? Forse perché non ne sono degno? È colpa mia se l’oste è rimasto oste?”.
Col cuore amareggiato, reb Elimelekh decise di ritornare a Meztritch per Rosh Hashana e s’affrettò ad avvertire l’oste. Lo cercò su e giù per la casa ma non lo trovò. Finalmente lo scovò in un angolo della cucina che armeggiava davanti a due quaderni e mormorava:
- Presto sarà Rosh Hashana. È tempo, Signore dell’universo, che tiriamo le somme, non ti pare? Apriamo il primo quaderno; vi ho notato tutto quanto ti devo. Dunque, vediamo. Ho lasciato passare le feste di Simhat Torah senza una ‘alyah (=salita alla lettura della Torah) : ho sbagliato; in un giorno simile il posto di un’ebreo è fra gli ebrei. Ti debbo una ‘alyah. Continuiamo. Il mese dopo, ho dimenticato di recitare la preghiera di minhah. Bene, ti debbo una preghiera. E poi? Poi non ho voluto dare da mangiare a un mendicante. Che vuoi, ero troppo occupato. Ti debbo anche un pasto. Volgiamo pagina: il giorno di Tisha beAv ho interrotto il digiuno, ho bevuto un bicchiere, ma non  en potevo fare a meno. Tu conosci bene il signore del villaggio, quando s’arrabbia ammazza; e stava proprio arrabbiandosi perché mi rifiutavo di bere con lui. Allora ti debbo un bicchiere. Poi ti debbo una elemosina e un dono per Shimon, l’orfano, e per Rahel che sta per sposarsi…Ma adesso apriamo il secondo quaderno, permetti? Ho segnato tutto quanto mi devi. Ecco qui: mio cugino, innocente, messo in prigione, e Tu hai lasciato fare. Perché non Ti sei opposto? Mi devi trentadue giorni di prigione…Cinque settimane dopo, sua moglie s’è ammalata. Perché  l’hai fatta ammalare, Signore dell’universo? Mi devi la sua malattia…Lo stesso mese, il figlio di Jankel è stato bastonato dal signore del villaggio: perché non l’hai protetto? Tu mi devi tre costole rotte…Volto pagina e leggo che alcuni disgraziati teppisti hanno incendiato la sinagoga di Pesinka, dopo aver stracciato i rotoli sacri e assassinato il povero reb Iddel, lo scaccino: mi devi l’onore della Torah, la bellezza della Torah, e più ancora, Signore dell’universo, mi devi rab Iddel…Non c’è che dire, mi devi molto. Veniamo al dunque. Come la mettiamo con nostro dare e avere?

L’oste prese la testa fra le mani per riflettere meglio. Poi ebbe un’idea:
- Ebbene, ti voglio fare una proposta: tu non mi devi nulla e io non ti devo nulla, pari e patta, diciamo. Ti va?
Reb Eliemelekh rientrò a Mezritch e si presentò al Magghid il cui viso si illuminiò d’un sorriso misterioso.
- Com’è andata? Ora tu sai?
- Sì, disse il discepolo, ora so.
- E sei d’accordo?
- Sì, disse reb Elimelekh. Sono d’accordo.
- Allora anche il Creatore è d’accordo.
Non io, dice il narratore della storia. Non io.

Il senso di questo racconto non è quello di invitare a trascurare l’osservanza dei comandamenti, ma piuttosto suggerisce l’atteggiamento da adottare nel praticarli: i comandamenti, le mitzvot non devono essere osservate per il timore della punizione né per il desiderio della ricompensa, ma semplicemente per amore. E nell’amore autentico non si teme di mostrarsi all’amato per quello che si è, in tutta la verità del proprio essere.

Publié dans:EBRAISMO - STUDI |on 29 octobre, 2011 |Pas de commentaires »

Prima lettura : Malachia 1,14b-2,2b.8-10 – commento

dal sito:

http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi1.asp?ID_festa=89

I LETTURA DELLA FESTA  Tempo Ordinario – 31a Domenica

TESTO DELLA PRIMA LETTURA

Malachia 1,14b-2,2b.8-10

14b Io sono un re grande, dice il Signore degli eserciti, e il mio nome è terribile fra le nazioni.
2,1 Ora a voi questo monito, o sacerdoti. 2 Se non mi ascolterete e non vi prenderete a cuore di dar gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su di voi la maledizione e cambierò in maledizione le vostre benedizioni
8 Voi vi siete allontanati dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento; avete rotto l’alleanza di Levi, dice il Signore degli eserciti. 9 Perciò anch’io vi ho reso spregevoli e abbietti davanti a tutto il popolo, perché non avete osservato le mie disposizioni e avete usato parzialità riguardo alla legge.
10 Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro profanando l’alleanza dei nostri padri.

COMMENTO

Malachia 1,14b-2,2b.8-10

Le responsabilità dei sacerdoti

Il libretto di Malachia, il cui nome significa «mio messaggero» (cfr. 1,1; 3,1), contiene gli oracoli di un profeta del postesilio, il quale annunzia ai giudei la venuta del «messaggero di JHWH», identificato poi con Elia, e l’approssimarsi del giudizio. La sua attività si colloca dopo la ricostruzione del tempio (515 a.C.), verso la metà del sec. V a.C., quando svolgevano la loro opera i due riformatori Neemia e Esdra. Costoro infatti denunziano gli stessi abusi contro cui egli ha combattuto. Ciò si ricava senza difficoltà dal semplice elenco dei temi affrontati nei suoi oracoli, i quali sono stati raccolti senza un ordine specifico: 1) elezione di Israele (1,1-5); 2) colpe dei sacerdoti e minacce nei loro confronti (1,6-2,9); 3) contro i matrimoni con donne straniere e la pratica del divorzio (2,10-16); 4) giudizio di JHWH e la venuta del suo messaggero (2,17-3,5); 5) mancato pagamento delle decime (3,6-12); 6) il giorno di JHWH (3,12-21); 7) la venuta di Elia (3,22-24). Il testo liturgico prende qualche versetto della seconda parte e conclude con il versetto iniziale della terza.
Le colpe commesse dai sacerdoti riguardano il campo loro specifico, cioè il culto, e in particolare la scelta delle vittime da offrire a JHWH. Dopo averle segnalate (cfr. 2,12-14a), JHWH proclama: «Io sono un re grande, dice il Signore degli eserciti, e il mio nome è terribile fra le nazioni» (1,14b). Il titolo di «re» è stato attribuito a JHWH nel contesto dell’esodo: infatti Israele sarà tra tutti i popoli la sua «proprietà» particolare (Es 19,5), cioè un popolo che, a differenza di tutti gli altri, sarà governato direttamente da lui (cfr. Es 15,18; Dt 33,5; Nm 23,21). All’epoca di Samuele le correnti profetiche si oppongono all’introduzione della monarchia proprio in base al principio secondo cui JHWH è l’unico re di Israele (cfr. 1Sam 8,7). La regalità di JHWH viene riaffermata al termine dell’esilio dal Deuteroisaia (Is 52,7; cfr. Sof 3,14,15; Mi 4,6-7). In questo periodo Egli comincia ad essere considerato non più solo come re di Israele, ma come re universale, che sostiene l’universo da lui creato e guida la storia di tutta l’umanità (cfr. 1Cron 29,11-12; Sal 47,2-3.9-10; 93,1; 96,7-10; 99,1-2). La regalità diventa così una prerogativa che riguarda la natura stessa di Dio, ma che sulla terra si manifesterà pienamente solo alla fine dei tempi (cfr. Dn 2,36-45; 7,27). Su questa linea Malachia immagina JHWH come il «grande re», il cui potere, a immagine degli imperi dell’antichità, si estende su tutta la terra: perciò il suo nome è «terribile» (nôra’, temuto) fra le nazioni, in quanto suscita un misto di sentimenti che vanno dalla paura alla venerazione.
In questa veste di sovrano universale, JHWH si rivolge anzitutto ai sacerdoti: «Ora a voi questo monito, o sacerdoti. Se non mi ascolterete e non vi prenderete a cuore di dar gloria al mio nome, dice il Signore degli eserciti, manderò su di voi la maledizione e cambierò in maledizione le vostre benedizioni» (2,1-2a). Siccome questo re supremo risiede nel tempio di Gerusalemme, i suoi ministri sono anzitutto i sacerdoti che vi operano. Dopo le accuse circostanziate sollevate contro di loro (1,6-14), viene ora un monito (mizwah, precetto), cioè un duro richiamo ai loro doveri, ai quali sono collegate severe sanzioni in caso di trasgressione. Ai sacerdoti erano promesse particolari benedizioni (Es 32,29; cfr. Es 29; Lv 8-9), che comportavano privilegi speciali, come prelevare parti delle vittime, ottenere abitazioni e ricevere terre da coltivare. Se essi però non ascoltano, cioè non obbediscono al loro Dio e non danno gloria al suo nome, non solo saranno privati delle benedizioni a loro assegnate, ma queste si trasformeranno in maledizioni: in altre parole perderanno i loro privilegi, e in più saranno disprezzati ed oppressi.
Nei successivi vv. 2b-7 (omessi dalla liturgia), il profeta mostra come tali maledizioni si siano già attuate, e porta come motivo il fatto che i sacerdoti hanno tradito l’alleanza che JHWH aveva concluso con Levi, loro progenitore (Dt 33,8-11): in base ad essa le labbra del sacerdote, in quanto «messaggero» di JHWH, avrebbero dovuto custodire la «conoscenza» (da’at) e dalla sua bocca si sarebbe aspettata l’«istruzione» (tôrah, legge). Al sacerdote compete dunque l’insegnamento dei comandamenti di Dio, frutto di una profonda esperienza personale (conoscenza) di Dio stesso. In mancanza di ciò il sacerdote perde la sua ragione di essere e il suo status.
Dopo aver indicato ciò che Dio si aspettava dai sacerdoti, il profeta prosegue nella sua accusa, che ripete in due frasi parallele in forma chiastica: «Voi (invece) vi siete allontanati dalla retta via e siete stati d’inciampo a molti con il vostro insegnamento; avete rotto l’alleanza di Levi, dice il Signore degli eserciti. Perciò anch’io vi ho reso spregevoli e abbietti davanti a tutto il popolo, perché non avete osservato le mie disposizioni e avete usato parzialità riguardo alla legge» (vv. 8-9). La colpa dei sacerdoti consiste nell’essersi allontanati dalla retta via, e di conseguenza nell’aver allontanato molti dall’incontro con JHWH a motivo del loro cattivo esempio e dei loro consigli perversi; essi hanno rotto l’alleanza di Levi, cioè sono venuti meno alle condizioni del servizio che spettava loro in quanto discendenti di Levi. Il versetto parallelo ripete lo stesso concetto con altre parole: i sacerdoti hanno perso prestigio e dignità davanti a tutto il popolo perché non hanno osservato le disposizioni (lett. le vie) di JHWH, hanno usato parzialità nella (applicazione della) legge. Un esempio di questo comportamento è quello attribuito ai figli di Eli (cfr. 1Sam 2,12-17). Per persone dotate di un incarico pubblico il venir meno ai propri doveri comporta tutta una serie di ripercussioni negative nella società in cui operano.
Il versetto conclusivo del testo liturgico è quello con cui si introduce il tema successivo dei matrimoni misti: «Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro profanando l’alleanza dei nostri padri?» (v. 10). Parlando di un unico padre di tutti Malachia non allude né ad Adamo, capostipite di tutto il genere umano, e neppure ad Abramo, progenitore di Israele, ma a Dio, in quanto creatore e padre di tutti gli uomini. Siccome l’alleanza con Lui sta alla base dei rapporti sociali, il rifiuto di obbedirgli comporta non solo un crimine di carattere religioso, ma anche la rovina del popolo. Questa frase, staccata dal suo contesto in cui si denunzia la disgregazione causata dai matrimoni misti e dai facili divorzi, e collegata con il brano precedente, non fa altro che sottolineare la responsabilità dei sacerdoti, i quali vengono meno al loro ruolo di custodi dell’alleanza.

Linee interpretative
Nella società israelitica, profondamente orientata in senso teocratico, ai sacerdoti competeva un ruolo fondamentale nella guida non solo religiosa, ma anche politica di tutto il popolo. Malachia ha il pregio di aver messo in luce le responsabilità dei sacerdoti e i guasti che provoca un comportamento guidato unicamente dall’interesse personale o di gruppo. Il profeta pone l’accento anzitutto su quello che è l’atteggiamento “spirituale” del sacerdote, il quale deve avere la «conoscenza» di JHWH, cioè deve non solo conoscere i suoi comandamenti, ma essere essere personalmente fedele a Lui, in modo da esserne un efficace intermediario nei confronti del popolo. In sostanza il sacerdote deve essere impregnato dello spirito dell’alleanza e deve condividerne le idealità e la dinamica interna. Solo così potrà essere una guida efficace, capece non solo di non portare il popolo fuori strada, ma anche di aggregarlo e di sostenerlo nel difficile campo della giustizia sociale.
Il fatto che Malachia, un profeta, si rivolga con tanta libertà ai sacerdoti, dotati di un grande potere non solo religioso ma anche politico, mette in luce una peculiarità dell’antico Israele. Nessuna delle figure che esercitano una leadership nel popolo di Dio può essere considerata come autoreferenziale. È dalla dialettica interna di diversi carismi e poteri che deriva al popolo la possibilità di trovare la via giusta nella fedeltà al Dio dell’alleanza. Quando si dà per scontato che una categoria di responsabili comunitari sia superiore a ogni critica e contestazione, si crea facilmente una conduzione autoritaria del gruppo, il cui effetto immediato è il disimpegno dei più, e di conseguenza il blocco della ricerca e del progresso: il gruppo si chiude a riccio e cessa così di adattarsi a un mondo che cambia, venendo meno al compito di interpretare la volontà di Dio in nuovi contesti culturali e ambiti di vita.

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