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SOGNO DI NATALE – DI LUIGI PIRANDELLO

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SOGNO DI NATALE – DI LUIGI PIRANDELLO

Sentivo da un pezzo sul capo inchinato tra le braccia come l’impressione d’una mano lieve, in atto tra di carezza e di protezione. Ma l’anima mia era lontana, errante pei luoghi veduti fin dalla fanciullezza, dei quali mi spirava ancor dentro il sentimento, non tanto però che bastasse al bisogno che provavo di rivivere, fors’anche per un minuto, la vita come immaginavo si dovesse in quel punto svolgere in essi.
Era festa dovunque: in ogni chiesa, in ogni casa: intorno al ceppo, lassù; innanzi a un Presepe, laggiù; noti volti tra ignoti riuniti in lieta cena; eran canti sacri, suoni di zampogne, gridi di fanciulli esultanti, contese di giocatori… E le vie delle città grandi e piccole, dei villaggi, dei borghi alpestri o marini, eran deserte nella rigida notte. E mi pareva di andar frettoloso per quelle vie, da questa casa a quella, per godere della raccolta festa degli altri; mi trattenevo un poco in ognuna, poi auguravo:
- Buon Natale – e sparivo…
Ero già entrato così, inavvertitamente, nel sonno e sognavo. E nel sogno, per quelle vie deserte, mi parve a un tratto d’incontrar Gesù errante in quella stessa notte, in cui il mondo per uso festeggia ancora il suo natale. Egli andava quasi furtivo, pallido, raccolto in sé, con una mano chiusa sul mento e gli occhi profondi e chiari intenti nel vuoto: pareva pieno d’un cordoglio intenso, in preda a una tristezza infinita.
Mi misi per la stessa via; ma a poco a poco l’immagine di lui m’attrasse così, da assorbirmi in sé; e allora mi parve di far con lui una persona sola. A un certo punto però ebbi sgomento della leggerezza con cui erravo per quelle vie, quasi sorvolando, e istintivamente m’arrestai. Subito allora Gesù si sdoppiò da me, e proseguì da solo anche più leggero di prima, quasi una piuma spinta da un soffio; ed io, rimasto per terra come una macchia nera, divenni la sua ombra e lo seguii.
Sparirono a un tratto le vie della città: Gesù, come un fantasma bianco splendente d’una luce interiore, sorvolava su un’alta siepe di rovi, che s’allungava dritta infinitamente, in mezzo a una nera, sterminata pianura. E dietro, su la siepe, egli si portava agevolmente me disteso per lungo quant’egli era alto, via via tra le spine che mi trapungevano tutto, pur senza darmi uno strappo.
Dall’irta siepe saltai alla fine per poco su la morbida sabbia d’una stretta spiaggia: innanzi era il mare; e, su le nere acque palpitanti, una via luminosa, che correva restringendosi fino a un punto nell’immenso arco dell’orizzonte. Si mise Gesù per quella via tracciata dal riflesso lunare, e io dietro a lui, come un barchetto nero tra i guizzi di luce su le acque gelide.
A un tratto, la luce interiore di Gesù si spense: traversavamo di nuovo le vie deserte d’una grande città. Egli adesso a quando a quando sostava a origliare alle porte delle case più umili, ove il Natale, non per sincera divozione, ma per manco di denari non dava pretesto a gozzoviglie.
- Non dormono… – mormorava Gesù, e sorprendendo alcune rauche parole d’odio e d’invidia pronunziate nell’interno, si stringeva in sé come per acuto spasimo, e mentre l’impronta delle unghie restavagli sul dorso delle pure mani intrecciate, gemeva: – Anche per costoro io son morto…
Andammo così, fermandoci di tanto in tanto, per un lungo tratto, finché Gesù innanzi a una chiesa, rivolto a me, ch’ero la sua ombra per terra, non mi disse:
- Alzati, e accoglimi in te. Voglio entrare in questa chiesa e vedere.
Era una chiesa magnifica, un’immensa basilica a tre navate, ricca di splendidi marmi e d’oro alla volta, piena d’una turba di fedeli intenti alla funzione, che si rappresentava su l’altar maggiore pomposamente parato, con gli officianti tra una nuvola d’incenso. Al caldo lume dei cento candelieri d’argento splendevano a ogni gesto le brusche d’oro delle pianete tra la spuma dei preziosi merletti del mensale.
- E per costoro – disse Gesù entro di me – sarei contento, se per la prima volta io nascessi veramente questa notte.
Uscimmo dalla chiesa, e Gesù, ritornato innanzi a me come prima posandomi una mano sul petto riprese:
- Cerco un’anima, in cui rivivere. Tu vedi ch’ìo son morto per questo mondo, che pure ha il coraggio di festeggiare ancora la notte della mia nascita. Non sarebbe forse troppo angusta per me l’anima tua, se non fosse ingombra di tante cose, che dovresti buttar via. Otterresti da me cento volte quel che perderai, seguendomi e abbandonando quel che falsamente stimi necessario a te e ai tuoi: questa città, i tuoi sogni, i comodi con cui invano cerchi allettare il tuo stolto soffrire per il mondo… Cerco un’anima, in cui rivivere: potrebbe esser la tua come quella d’ogn’altro di buona volontà.
- La città, Gesù? – io risposi sgomento. – E la casa e i miei cari e i miei sogni?
- Otterresti da me cento volte quel che perderai – ripeté Egli levando la mano dal mio petto e guardandomi fisso con quegli occhi profondi e chiari.
- Ah! io non posso, Gesù… – feci, dopo un momento di perplessità, vergognoso e avvilito, lasciandomi cader le braccia sulla persona.
Come se la mano, di cui sentivo in principio del sogno l’impressione sul mio capo inchinato, m’avesse dato una forte spinta contro il duro legno del tavolino, mi destai in quella di balzo, stropicciandomi la fronte indolenzita. E qui, è qui, Gesù, il mio tormento! Qui, senza requie e senza posa, debbo da mane a sera rompermi la testa.

(Racconto di Natale di Luigi Pirandello)

Publié dans:LETTERATURA, NATALE 2014 |on 3 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – IL MARTIRIO E L’EREDITÀ DI SAN PAOLO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2009/documents/hf_ben-xvi_aud_20090204_it.html

(meditazione su Paolo per Natale)

BENEDETTO XVI – IL MARTIRIO E L’EREDITÀ DI SAN PAOLO

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 4 febbraio 2009

San Paolo (20)

Il martirio e l’eredità di San Paolo

Cari fratelli e sorelle,

la serie delle nostre catechesi sulla figura di san Paolo è arrivata alla sua conclusione: vogliamo parlare oggi del termine della sua vita terrena. L’antica tradizione cristiana testimonia unanimemente che la morte di Paolo avvenne in conseguenza del martirio subito qui a Roma. Gli scritti del Nuovo Testamento non ci riportano il fatto. Gli Atti degli Apostoli terminano il loro racconto accennando alla condizione di prigionia dell’Apostolo, che poteva tuttavia accogliere tutti quelli che andavano da lui (cfr At 28,30-31). Solo nella seconda Lettera a Timoteo troviamo queste sue parole premonitrici: “Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele” (2 Tm 4,6; cfr Fil 2,17). Si usano qui due immagini, quella cultuale del sacrificio, che Paolo aveva usato già nella Lettera ai Filippesi interpretando il martirio come parte del sacrificio di Cristo, e quella marinaresca del mollare gli ormeggi: due immagini che insieme alludono discretamente all’evento della morte e di una morte cruenta.
La prima testimonianza esplicita sulla fine di san Paolo ci viene dalla metà degli anni 90 del secolo I, quindi poco più di tre decenni dopo la sua morte effettiva. Si tratta precisamente della Lettera che la Chiesa di Roma, con il suo Vescovo Clemente I, scrisse alla Chiesa di Corinto. In quel testo epistolare si invita a tenere davanti agli occhi l’esempio degli Apostoli, e, subito dopo aver menzionato il martirio di Pietro, si legge così: “Per la gelosia e la discordia Paolo fu obbligato a mostrarci come si consegue il premio della pazienza. Arrestato sette volte, esiliato, lapidato, fu l’araldo di Cristo nell’Oriente e nell’Occidente, e per la sua fede si acquistò una gloria pura. Dopo aver predicato la giustizia a tutto il mondo, e dopo essere giunto fino all’estremità dell’occidente, sostenne il martirio davanti ai governanti; così partì da questo mondo e raggiunse il luogo santo, divenuto con ciò il più grande modello di pazienza” (1 Clem 5,2). La pazienza di cui il testo parla è espressione della comunione di Paolo alla passione di Cristo, della generosità e costanza con la quale ha accettato un lungo cammino di sofferenza, così da poter dire: «Io porto le stigmate di Gesù sul mio corpo» (Gal 6,17). Abbiamo sentito nel testo di san Clemente che Paolo sarebbe arrivato fino all’«estremità dell’occidente». Si discute se questo sia un accenno a un viaggio in Spagna che san Paolo avrebbe fatto. Non esiste certezza su questo, ma è vero che san Paolo nella sua Lettera ai Romani esprime la sua intenzione di andare in Spagna (cfr Rm 15,24).
Molto interessante invece è nella lettera di Clemente il succedersi dei due nomi di Pietro e di Paolo, anche se essi verranno invertiti nella testimonianza di Eusebio di Cesarea del secolo IV, che parlando dell’imperatore Nerone scriverà: “Durante il suo regno Paolo fu decapitato proprio a Roma e Pietro vi fu crocifisso. Il racconto è confermato dal nome di Pietro e di Paolo, che è ancor oggi conservato sui loro sepolcri in quella città” (Hist. eccl. 2,25,5). Eusebio poi continua riportando l’antecedente dichiarazione di un presbitero romano di nome Gaio, risalente agli inizi del secolo II: “Io ti posso mostrare i trofei degli apostoli: se andrai al Vaticano o sulla Via Ostiense, vi troverai i trofei dei fondatori della Chiesa” (ibid. 2,25,6-7). I “trofei” sono i monumenti sepolcrali, e si tratta delle stesse sepolture di Pietro e di Paolo, che ancora oggi noi veneriamo dopo due millenni negli stessi luoghi: sia qui in Vaticano per quanto riguarda san Pietro, sia nella Basilica di San Paolo fuori le Mura sulla Via Ostiense per quanto riguarda l’Apostolo delle genti.
È interessante rilevare che i due grandi Apostoli sono menzionati insieme. Anche se nessuna fonte antica parla di un loro contemporaneo ministero a Roma, la successiva coscienza cristiana, sulla base del loro comune seppellimento nella capitale dell’impero, li assocerà anche come fondatori della Chiesa di Roma. Così infatti si legge in Ireneo di Lione, verso la fine del II secolo, a proposito della successione apostolica nelle varie Chiese: “Poiché sarebbe troppo lungo enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo” (Adv. haer. 3,3,2).
Lasciamo però da parte adesso la figura di Pietro e concentriamoci su quella di Paolo. Il suo martirio viene raccontato per la prima volta dagli Atti di Paolo, scritti verso la fine del II secolo. Essi riferiscono che Nerone lo condannò a morte per decapitazione, eseguita subito dopo (cfr 9,5). La data della morte varia già nelle fonti antiche, che la pongono tra la persecuzione scatenata da Nerone stesso dopo l’incendio di Roma nel luglio del 64 e l’ultimo anno del suo regno, cioè il 68 (cfr Gerolamo, De viris ill. 5,8). Il calcolo dipende molto dalla cronologia dell’arrivo di Paolo a Roma, una discussione nella quale non possiamo qui entrare. Tradizioni successive preciseranno due altri elementi. L’uno, il più leggendario, è che il martirio avvenne alle Aquae Salviae, sulla Via Laurentina, con un triplice rimbalzo della testa, ognuno dei quali causò l’uscita di un fiotto d’acqua, per cui il luogo fu detto fino ad oggi “Tre Fontane” (Atti di Pietro e Paolo dello Pseudo Marcello, del secolo V). L’altro, in consonanza con l’antica testimonianza, già menzionata, del presbitero Gaio, è che la sua sepoltura avvenne non solo “fuori della città… al secondo miglio sulla Via Ostiense”, ma più precisamente “nel podere di Lucina”, che era una matrona cristiana (Passione di Paolo dello Pseudo Abdia, del secolo VI). Qui, nel secolo IV, l’imperatore Costantino eresse una prima chiesa, poi grandemente ampliata tra il secolo IV e V dagli imperatori Valentiniano II, Teodosio e Arcadio. Dopo l’incendio del luglio 1823, fu qui eretta l’attuale basilica di San Paolo fuori le Mura.
In ogni caso, la figura di san Paolo grandeggia ben al di là della sua vita terrena e della sua morte; egli infatti ha lasciato una straordinaria eredità spirituale. Anch’egli, come vero discepolo di Gesù, divenne segno di contraddizione. Mentre tra i cosiddetti “ebioniti” – una corrente giudeo-cristiana – era considerato come apostata dalla legge mosaica, già nel libro degli Atti degli Apostoli appare una grande venerazione verso l’Apostolo Paolo. Vorrei prescindere ora dalla letteratura apocrifa, come gli Atti di Paolo e Tecla e un epistolario apocrifo tra l’Apostolo Paolo e il filosofo Seneca. Importante è constatare soprattutto che ben presto le Lettere di san Paolo entrano nella liturgia, dove la struttura profeta-apostolo-Vangelo è determinante per la forma della liturgia della Parola. Così, grazie a questa “presenza” nelle celebrazioni liturgiche della Chiesa, il pensiero dell’Apostolo diventa da subito nutrimento spirituale dei fedeli di tutti i tempi.
E’ ovvio che i Padri della Chiesa e poi tutti i teologi si siano nutriti delle Lettere di san Paolo e della sua spiritualità. Egli è così rimasto nei secoli, fino ad oggi, il vero maestro e apostolo delle genti. Il primo commento patristico, a noi pervenuto, su uno scritto del Nuovo Testamento è quello del grande teologo alessandrino Origene, che commenta la Lettera di Paolo ai Romani. Tale commento purtroppo è conservato solo in parte. San Giovanni Crisostomo, oltre a commentare le sue Lettere, ha scritto di lui sette Panegirici memorabili. Sant’Agostino dovrà a lui il passo decisivo della propria conversione, e a Paolo egli ritornerà durante tutta la sua vita. Da questo dialogo permanente con l’Apostolo deriva la sua grande teologia della grazia, che è rimasta fondamentale per la teologia cattolica e anche per quella protestante di tutti i tempi. San Tommaso d’Aquino ci ha lasciato un bel commento alle Lettere paoline, che rappresenta il frutto più maturo dell’esegesi medioevale. Una vera svolta si verificò nel secolo XVI con la Riforma protestante. Il momento decisivo nella vita di Lutero, fu il cosiddetto «Turmerlebnis» (forse 1517), nel quale in un attimo egli trovò una nuova interpretazione della dottrina paolina della giustificazione. Una interpretazione che lo liberò dagli scrupoli e dalle ansie della sua vita precedente e gli diede una nuova, radicale fiducia nella bontà di Dio che perdona tutto senza condizione. Da quel momento Lutero identificò il legalismo giudeo-cristiano, condannato dall’Apostolo, con l’ordine di vita della Chiesa cattolica. E la Chiesa gli apparve quindi come espressione della schiavitù della legge alla quale oppose la libertà del Vangelo. Il Concilio di Trento (1545 – 1563) interpretò in modo profondo la questione della giustificazione e trovò nella linea di tutta la tradizione cattolica la vera sintesi tra Legge e Vangelo, in conformità col messaggio della Sacra Scrittura letta nella sua totalità e unità.
Il secolo XIX, raccogliendo l’eredità migliore dell’Illuminismo, conobbe una nuova reviviscenza del paolinismo soprattutto sul piano del lavoro scientifico sviluppato dall’interpretazione storico-critica della Sacra Scrittura. Prescindiamo qui dal fatto che anche in quel secolo, come poi nel secolo ventesimo, emerse una vera e propria denigrazione di san Paolo. Penso soprattutto a Nietzsche che derideva la teologia dell’umiltà di san Paolo, opponendo ad essa la sua filosofia dell’uomo forte e potente: il superuomo. Prescindiamo da questo e vediamo la corrente essenziale della nuova interpretazione scientifica della Sacra Scrittura e del nuovo paolinismo del secolo XX. Qui è stato sottolineato soprattutto come centrale nel pensiero paolino il concetto di libertà: in esso è stato visto il cuore del pensiero paolino, come del resto aveva già intuito Lutero. Ora però il concetto di libertà veniva reinterpretato nel contesto del liberalismo moderno. E poi è sottolineata fortemente la differenziazione tra l’annuncio di san Paolo e l’annuncio di Gesù. E san Paolo appare quasi come un nuovo fondatore del cristianesimo. Vero è che in san Paolo la centralità del Regno di Dio, determinante per l’annuncio di Gesù, viene trasformata nella centralità della cristologia, il cui punto determinante è il mistero pasquale. E dal mistero pasquale risultano i Sacramenti del Battesimo e dell’Eucaristia, come presenza permanente di questo mistero, dal quale cresce il Corpo di Cristo, si costruisce la Chiesa. Ma direi, senza entrare adesso in dettagli, che proprio nella nuova centralità della cristologia e del mistero pasquale si realizza il Regno di Dio, diventa concreto, presente, operante l’annuncio autentico di Gesù. Abbiamo visto nelle catechesi precedenti che proprio questa novità paolina è la fedeltà più profonda all’annuncio di Gesù. Nel progresso dell’esegesi, soprattutto negli ultimi duecento anni, crescono anche le convergenze tra esegesi cattolica ed esegesi protestante realizzando così un notevole consenso proprio nel punto che fu all’origine del massimo dissenso storico: la giustificazione. Emerge così una grande speranza per la causa dell’ecumenismo, così centrale per il Concilio Vaticano II.
Brevemente vorrei alla fine ancora accennare ai vari movimenti religiosi, sorti in età moderna all’interno della Chiesa cattolica, che si rifanno al nome di san Paolo. Così è avvenuto nel secolo XVI con la “Congregazione di san Paolo” detta dei Barnabiti, nel secolo XIX con i “Missionari di san Paolo” o Paulisti, e nel secolo XX con la poliedrica “Famiglia Paolina” fondata dal Beato Giacomo Alberione, per non dire dell’Istituto Secolare della “Compagnia di san Paolo”. In buona sostanza, resta luminosa davanti a noi la figura di un apostolo e di un pensatore cristiano estremamente fecondo e profondo, dal cui accostamento ciascuno può trarre giovamento. In uno dei suoi panegirici, San Giovanni Crisostomo instaura un originale paragone tra Paolo e Noè, esprimendosi così: Paolo “non mise insieme delle assi per fabbricare un’arca; piuttosto, invece di unire delle tavole di legno, compose delle lettere e così strappò di mezzo ai flutti, non due, tre o cinque membri della propria famiglia, ma l’intera ecumene che era sul punto di perire” (Paneg. 1,5). Proprio questo può ancora e sempre fare l’apostolo Paolo. Attingere a lui, tanto al suo esempio apostolico quanto alla sua dottrina, sarà quindi uno stimolo, se non una garanzia, per il consolidamento dell’identità cristiana di ciascuno di noi e per il ringiovanimento dell’intera Chiesa.

Publié dans:MEDITAZIONI, NATALE 2014 |on 29 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – (TEMA PER IL NATALE, 22.12.2010)

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BENEDETTO XVI – (TEMA PER IL NATALE)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 22 dicembre 2010

Cari fratelli e sorelle!

Con quest’ultima Udienza prima delle Festività Natalizie, ci avviciniamo, trepidanti e pieni di stupore, al “luogo” dove per noi e per la nostra salvezza tutto ha avuto inizio, dove tutto ha trovato un compimento, là dove si sono incontrate e incrociate le attese del mondo e del cuore umano con la presenza di Dio. Possiamo già ora pregustare la gioia per quella piccola luce che si intravede, che dalla grotta di Betlemme comincia ad irradiarsi sul mondo. Nel cammino dell’Avvento, che la liturgia ci ha invitato a vivere, siamo stati accompagnati ad accogliere con disponibilità e riconoscenza il grande Avvenimento della venuta del Salvatore e a contemplare pieni di meraviglia il suo ingresso nel mondo.
L’attesa gioiosa, caratteristica dei giorni che precedono il Santo Natale, è certamente l’atteggiamento fondamentale del cristiano che desidera vivere con frutto il rinnovato incontro con Colui che viene ad abitare in mezzo a noi: Cristo Gesù, il Figlio di Dio fatto uomo. Ritroviamo questa disposizione del cuore, e la facciamo nostra, in coloro che per primi accolsero la venuta del Messia: Zaccaria ed Elisabetta, i pastori, il popolo semplice, e specialmente Maria e Giuseppe, i quali in prima persona hanno provato la trepidazione, ma soprattutto la gioia per il mistero di questa nascita. Tutto l’Antico Testamento costituisce un’unica grande promessa, che doveva compiersi con la venuta di un salvatore potente. Ce ne dà testimonianza in particolare il libro del profeta Isaia, il quale ci parla del travaglio della storia e dell’intera creazione per una redenzione destinata a ridonare nuove energie e nuovo orientamento al mondo intero. Così, accanto all’attesa dei personaggi delle Sacre Scritture, trova spazio e significato, attraverso i secoli, anche la nostra attesa, quella che in questi giorni stiamo sperimentando e quella che ci mantiene desti per l’intero cammino della nostra vita. Tutta l’esistenza umana, infatti, è animata da questo profondo sentimento, dal desiderio che quanto di più vero, di più bello e di più grande abbiamo intravisto e intuito con la mente ed il cuore, possa venirci incontro e davanti ai nostri occhi diventi concreto e ci risollevi.
“Ecco viene il Signore onnipotente: sarà chiamato Emmanuele, Dio-con-noi” (Antifona d’ingresso, S. Messa del 21 dicembre). Frequentemente, in questi giorni, ripetiamo queste parole. Nel tempo della liturgia, che riattualizza il Mistero, è ormai alle porte Colui che viene a salvarci dal peccato e dalla morte, Colui che, dopo la disobbedienza di Adamo ed Eva, ci riabbraccia e spalanca per noi l’accesso alla vita vera. Lo spiega sant’Ireneo, nel suo trattato “Contro le eresie”, quando afferma: “Il Figlio stesso di Dio scese «in una carne simile a quella del peccato» (Rm 8,3) per condannare il peccato, e, dopo averlo condannato, escluderlo completamente dal genere umano. Chiamò l’uomo alla somiglianza con se stesso, lo fece imitatore di Dio, lo avviò sulla strada indicata dal Padre perché potesse vedere Dio, e gli diede in dono lo stesso Padre” (III, 20, 2-3).
Ci appaiono alcune idee preferite di sant’Ireneo, che Dio con il Bambino Gesù ci richiama alla somiglianza con se stesso. Vediamo com’è Dio. E così ci ricorda che noi dovremmo essere simili a Dio. E dobbiamo imitarlo. Dio si è donato, Dio si è donato nelle nostre mani. Dobbiamo imitare Dio. E infine l’idea che così possiamo vedere Dio. Un’idea centrale di sant’Ireneo: l’uomo non vede Dio, non può vederlo, e così è nel buio sulla verità, su se stesso. Ma l’uomo che non può vedere Dio, può vedere Gesù. E così vede Dio, così comincia a vedere la verità, così comincia a vivere.
Il Salvatore, dunque, viene per ridurre all’impotenza l’opera del male e tutto ciò che ancora può tenerci lontani da Dio, per restituirci all’antico splendore e alla primitiva paternità. Con la sua venuta tra noi, Dio ci indica e ci assegna anche un compito: proprio quello di essere somiglianti a Lui e di tendere alla vera vita, di arrivare alla visione di Dio nel volto di Cristo. Ancora sant’Ireneo afferma: “Il Verbo di Dio pose la sua abitazione tra gli uomini e si fece Figlio dell’uomo, per abituare l’uomo a percepire Dio e per abituare Dio a mettere la sua dimora nell’uomo secondo la volontà del Padre. Per questo, Dio ci ha dato come «segno» della nostra salvezza colui che, nato dalla Vergine, è l’Emmanuele” (ibidem). Anche qui c’è un’idea centrale molto bella di sant’Ireneo: dobbiamo abituarci a percepire Dio. Dio è normalmente lontano dalla nostra vita, dalle nostre idee, dal nostro agire. È venuto vicino a noi e dobbiamo abituarci a essere con Dio. E audacemente Ireneo osa dire che anche Dio deve abituarsi a essere con noi e in noi. E che Dio forse dovrebbe accompagnarci a Natale, abituarci a Dio, come Dio si deve abituare a noi, alla nostra povertà e fragilità. La venuta del Signore, perciò, non può avere altro scopo che quello di insegnarci a vedere e ad amare gli avvenimenti, il mondo e tutto ciò che ci circonda, con gli occhi stessi di Dio. Il Verbo fatto bambino ci aiuta a comprendere il modo di agire di Dio, affinché siamo capaci di lasciarci sempre più trasformare dalla sua bontà e dalla sua infinita misericordia.
Nella notte del mondo, lasciamoci ancora sorprendere e illuminare da questo atto di Dio, che è totalmente inaspettato: Dio di fa Bambino. Lasciamoci sorprendere, illuminare dalla Stella che ha inondato di gioia l’universo. Gesù Bambino, giungendo a noi, non ci trovi impreparati, impegnati soltanto a rendere più bella la realtà esteriore. La cura che poniamo per rendere più splendenti le nostre strade e le nostre case ci spinga ancora di più a predisporre il nostro animo ad incontrare Colui che verrà a visitarci, che è la vera bellezza e la vera luce. Purifichiamo quindi la nostra coscienza e la nostra vita da ciò che è contrario a questa venuta: pensieri, parole, atteggiamenti e azioni, spronandoci a compiere il bene e a contribuire a realizzare in questo nostro mondo la pace e la giustizia per ogni uomo e a camminare così incontro al Signore.
Segno caratteristico del tempo natalizio è il presepe. Anche in Piazza San Pietro, secondo la consuetudine, è quasi pronto e idealmente si affaccia su Roma e sul mondo intero, rappresentando la bellezza del Mistero del Dio che si è fatto uomo e ha posto la sua tenda in mezzo a noi (cfr Gv 1,14). Il presepe è espressione della nostra attesa, che Dio si avvicina a noi, che Gesù si avvicina a noi, ma è anche espressione del rendimento di grazie a Colui che ha deciso di condividere la nostra condizione umana, nella povertà e nella semplicità. Mi rallegro perché rimane viva e, anzi, si riscopre la tradizione di preparare il presepe nelle case, nei posti di lavoro, nei luoghi di ritrovo. Questa genuina testimonianza di fede cristiana possa offrire anche oggi per tutti gli uomini di buona volontà una suggestiva icona dell’amore infinito del Padre verso noi tutti. I cuori dei bambini e degli adulti possano ancora sorprendersi di fronte ad essa.
Cari fratelli e sorelle, la Vergine Maria e san Giuseppe ci aiutino a vivere il Mistero del Natale con rinnovata gratitudine al Signore. In mezzo all’attività frenetica dei nostri giorni, questo tempo ci doni un po’ di calma e di gioia e ci faccia toccare con mano la bontà del nostro Dio, che si fa Bambino per salvarci e dare nuovo coraggio e nuova luce al nostro cammino. E’ questo il mio augurio per un santo e felice Natale: lo rivolgo con affetto a voi qui presenti, ai vostri familiari, in particolare ai malati e ai sofferenti, come pure alle vostre comunità e a quanti vi sono cari.

SE DIO È UN NEONATO SENZATETTO – GIANFRANCO RAVASI (2007)

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_ravasi12.htm

SE DIO È UN NEONATO SENZATETTO – GIANFRANCO RAVASI (2007)

I 21 versetti del « Vangelo di Luca » che descrivono la nascita del Cristo
sono stati sintetizzati da Paolo in una sola espressione:
«Quando venne la pienezza dei tempi,
Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge».
Il « neo-presidente » del « Pontificio Consiglio della Cultura »
spiega perché tutto, in questa storia,
parla di un povertà che racchiude il massimo della potenza, quella divina.

SE DIO È UN NEONATO SENZATETTO
«Il censimento romano, segno di schiavitù,
ci ricorda che Cristo nasce da un popolo oppresso,
e in mezzo a quei poveri che i potenti considerano pedine insignificanti
sullo scacchiere dei loro giuochi politici.
Eppure il figlio di Maria sarà il centro del tempo e della stessa famiglia umana.
Sarà proprio questo bambino povero
a segnare nella storia i secoli in un « prima » e in un « dopo » di lui».

GIANFRANCO RAVASI
(« Avvenire », 16/12/’07)
Il « Simbolo apostolico » professa la fede del Natale così: «Natus de Spiritu Sancto ex Maria Virgine» e il « Credo Niceno Costantinopolitano » che ogni domenica proclamiamo nella liturgia ripete: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». I ventun versetti del « Vangelo di Luca » (2,1-21), che descrivono gli eventi che accompagnano la nascita del Cristo erano già stati sintetizzati da Paolo in una sola espressione simile a un piccolo Credo: «Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4).
Prima di iniziare il nostro viaggio spirituale all’interno di questi versetti e dei loro temi principali, fermiamoci davanti all’icona della « Madonna del Natale » per abbozzarne e contemplarne i tratti essenziali attraverso alcuni versi della « XIX Ode di Salomone », appartenente a quei quaranta inni che furono ritrovati nel 1905 in un manoscritto siriaco e che costituiscono un documento importante dell’antica poesia cristiana. Anche nel testo di Luca il racconto della nascita di Gesù si allarga lungo due orizzonti « antitetici »: alla povertà estrema della cornice terrestre si associa un’eco cosmica e celeste. Mentre nella narrazione parallela della nascita del Battista la circoncisione era il dato fondamentale così da occupare ben otto versetti, per Gesù la circoncisione occupa un solo versetto contro i venti della nascita. Il Battista conduce al Cristo l’alleanza della circoncisione, il Cristo con la circoncisione accoglie il popolo della prima alleanza divenendone membro, compimento e salvezza. Il Natale è il centro anche del grandioso inno di apertura del « Vangelo di Giovanni »: «Il Verbo si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14).
Il verbo greco che allude alla tenda dell’arca dell’alleanza, « skenoun », contiene le tre consonanti radicali della parola ebraica « Shekinah » (« s-k-n »), il termine con cui il giudaismo definiva la « Presenza » divina nel tempio di Sion, come abbiamo già avuto occasione di ricordare. Il Natale è cantato anche dalla « Lettera agli Ebrei », una potente e monumentale omelia « neotestamentaria », che applica al Cristo il « Salmo 8″, un inno notturno destinato a celebrare l’uomo e la sua grandezza e ora applicato al Cristo, uomo perfetto che entra nella storia per redimerla, strappandola al male.
Il testo di Luca è poi alla base della creatività popolare che sui sobri versetti evangelici ha ricamato arabeschi spesso fantasiosi. Il riferimento scontato è ai vangeli apocrifi, in particolare al « Protovangelo di Giacomo » del III secolo, ma spunti affascinanti si possono cogliere in centinaia di testi cristiani antichi, come in questa dichiarazione messa in bocca a Gesù da parte di uno scritto « gnostico » egizio, l’ »Interpretazione della gnosi »: «Io divenni piccolo perché attraverso la mia piccolezza potessi portarvi in alto donde siete caduti… Io vi porterò sulle mie spalle» (XI, 10,27-34). Solo per evocare la fertilità poetica e spirituale di queste tradizioni popolari, pensiamo che cosa significhi il soggetto del Natale di Cristo nella storia dell’arte, che cosa rappresenti il presepio, quante siano le tipologie orientali e occidentali della Madre Maria col Bambino Gesù! Pensiamo all’accumulo dei particolari attorno a quella scena così essenziale. Ad esempio, il bue e l’asino sono introdotti solo da un apocrifo, lo « Pseudo-Matteo », redatto nel VI-VII secolo; ma già nel IV secolo l’arte li aveva presentati nel sarcofago romano del « Museo Pio » e in quello di « Stilicone » della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano.
Origene nel III secolo rimandava a un passo di Isaia (1,3: «Il bue conosce il padrone e l’asino la greppia del suo padrone»), mentre i Padri della Chiesa trovavano nei due animali un curioso simbolismo che San Gregorio di Nazianzo così definisce: «Tra il giovane toro (bue) che è attaccato alla Legge giudaica e l’asino che è gravato dal peccato dell’idolatria pagana giace il Figlio di Dio che libera da entrambi i pesi». Con Francesco e il suo presepio di Greccio i due animali diventano, invece, espressione dell’adorazione e della gioia cosmica per la nascita del Salvatore di ogni cosa. Un anonimo francescano del ’300, autore delle « Meditazioni sulla vita di Cristo » (« Città Nuova », Roma, 1982), immagina allora «il bue e l’asino piegarsi sulle zampe anteriori, sporgere i musi sulla mangiatoia soffiando con le narici, quasi fossero dotati di ragione e capissero che il bambino, così miseramente riparato in quella freddissima stagione, aveva bisogno di essere riscaldato». Secondo il « Physiologus », poi, nella notte del solstizio d’inverno, gli animali selvatici mandano due volte un forte raglio: sarebbe la reazione del diavolo che nella notte santa s’indigna perché col Bambino Gesù sorge il «nuovo giorno» e viene infranta la «potenza delle tenebre».
Il Natale ha poi alimentato la meditazione dei Padri della Chiesa (pensiamo ai « Sermoni del Natale » di Leone Magno), ha generato musiche colte e popolari (« Stille Nacht »; « Tu scendi dalle stelle »; « Adeste, fideles »…), ha trionfato nella liturgia, e nell’Occidente cristiano è divenuto la festa più sentita.

Dopo questa lunga premessa, torniamo al testo lucano per far affiorare lo spirito genuino del Natale del Figlio di Maria, spogliandolo dei rivestimenti fantasiosi e retorici. Cerchiamo anche noi il bimbo di Maria, non tanto per esprimergli tenerezza ma per conoscere il suo mistero. La maternità di Maria ha due coordinate esterne ben dichiarate dall’evangelista.
La prima coordinata è quella « spaziale », legata a Betlemme, «la città di Davide», come dice Luca, nonostante che nell’Antico Testamento questo sia il titolo ufficiale di Gerusalemme (2Sam 5,7.9). Gesù giunge a noi dallo spazio umano, fisico e spirituale della « promessa davidica ». È per questo che in alcune testimonianze dell’arte cristiana non si oppone solo la Gerusalemme terrestre a quella celeste, ma anche la Betlemme terrestre a quella del cielo. Da Betlemme l’umanità viene assunta in Dio. Nello spazio di Betlemme la nostra attenzione si fissa su due punti « topografici ». Il primo è quello del parto di Maria, una mangiatoia per animali probabilmente scavata nella roccia, perché il « katalyma » (in greco «albergo, casa, alloggio, stanza») non aveva spazio per il Signore dello spazio. La tradizione cristiana, sostenuta da San Girolamo che vivrà per decenni a Betlemme, parlerà di una grotta simile a quelle adiacenti alle povere case di allora. Giovanni era nato nella casa sacerdotale del padre, Cristo nasce nell’emarginazione, privo di un guanciale.
Eppure nel racconto di Luca c’è un particolare sottolineato con tenerezza: Maria «avvolse il bambino in fasce e lo depose nella mangiatoia» (v. 7). Del Battista si dice soltanto: «Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio» (1,57).
Attorno a quella grotta, a quel punto dello spazio di Betlemme si erge ora la solenne « Basilica Giustinianea », iniziata però da Elena nel IV secolo. Una basilica ancor oggi intatta perché non mai distrutta, diversamente dalle altre chiese di Terra Santa: i musulmani l’avevano risparmiata perché dedicata anche a Maria, che pure essi veneravano, e i persiani non l’avevano distrutta perché sul frontone avevano visto la sfilata dei Magi coi loro costumi persiani.
L’altro punto topografico che vogliamo evocare è il cosiddetto «campo dei pastori», la campagna circostante a Betlemme percorsa da « seminomadi » pastori. Due residenze provvisorie, due località misere, due segni di quotidiana miseria diventano il centro di una speranza cosmica. È famosa l’iscrizione greca di Priene che usa il termine « evangelo » per la nascita di Augusto: «La nascita del dio (Augusto) ha segnato l’inizio della « buona novella » (« evangelo ») per il mondo». Un evangelo, questo, proclamato in palazzi di marmo e nell’impero più potente del mondo; un evangelo, quello della nascita di Gesù, proclamato in una mangiatoia e tra nomadi: «Vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi, vi è nato un salvatore!» (vv. 10-11). Il primo evangelo ben presto genererà cattive notizie di oppressioni, di tasse, di guerre, di schiavitù: l’evangelo di Cristo è «liberazione per i prigionieri, lieto messaggio per i poveri, vista per i ciechi, libertà per gli oppressi» (Lc 4,18).
C’è una seconda coordinata da considerare, quella « temporale ». Essa è scandita dalle ore dell’imperatore Ottaviano Augusto (31 a.C.-14 d.C.) ed è precisata da Luca con l’indicazione del famoso « primo censimento », ordinato dal legato di Siria Quirinio. Non è il caso ora di entrare nel merito della secolare discussione su questa informazione che apparentemente sembra errata, essendo documentato solo un censimento di Quirinio del 6 d.C., quando Gesù aveva ormai dodici anni. È probabile che si tratti di una « prima » operazione censuale, ordinata durante un incarico straordinario ricoperto da Quirinio prima di essere formalmente nominato legato di Siria. Vogliamo solo ricordare che con questi dati appare nitidamente il valore dell’incarnazione, cioè dell’ingresso di Dio negli eventi e nel tempo umano. Efrem il Siro unirà i due estremi del parto da Maria e della morte in croce per esaltare l’incarnazione nella sua realtà: «La sua morte in croce attesta la sua nascita dalla donna. Infatti se un uomo muore, dev’essere pure nato… Perciò la concezione umana di Gesù è dimostrata dalla sua morte in croce. Se uno nega la sua nascita, venga smentito dalla croce» (« Sermone su Nostro Signore », 2). Il censimento romano, segno di schiavitù, ci ricorda che Cristo nasce da un popolo oppresso e in mezzo a quei poveri che i potenti considerano pedine insignificanti sullo scacchiere dei loro giuochi politici.
Eppure il figlio di Maria sarà il centro del tempo e della stessa famiglia umana. Sarà proprio questo bambino povero a segnare nella storia i secoli in un « prima » e in un « dopo » di lui. La liturgia bizantina canta per il Natale del Signore questa bella antifona…
« L’autore della vita è nato dalla nostra carne dalla madre dei viventi. Un bambino da lei è nato ed è il Figlio del Padre. Con le sue fasce scioglie i legami dei nostri peccati e asciuga per sempre le lacrime delle nostre madri. Danza e sussulta, creazione del Signore, poiché il tuo Salvatore è nato…
Contemplo un mistero strano e inatteso: la grotta è il cielo, la Vergine è il trono dei cherubini, la mangiatoia è il luogo dove riposa l’incomprensibile, il Cristo Dio.
Cantiamolo ed esaltiamolo! ».
Attorno al figlio di Maria si raccoglie una serie di spettatori diversi ma tutti convergenti verso quella scena e quella figura.
I primi sono « i pastori » ai quali è riservata una vera e propria annunciazione come a Maria, Giuseppe e Zaccaria: apparizione dell’angelo, l’invito a «non temere», l’annunzio di una nascita straordinaria, il segno della mangiatoia (vv. 9-12). Eppure i pastori erano considerati impuri dal giudaismo ufficiale di allora e quindi erano esclusi dalla vita religiosa pubblica. Essi cercano e trovano, come è indicato dai molti verbi di movimento che percorrono tutto il racconto: «Andiamo… vediamo… conosciamo… andarono senza indugio… trovarono… videro… riferirono… tornarono…». Una costellazione di verbi di ricerca, di rivelazione, di adorazione che rende i pastori primi missionari del Cristo, suoi « evangelizzatori ».
C’è poi un’altra classe di persone, «tutti quelli che udirono», cioè « la folla ». Essi «si stupiscono», restano solo colpiti, la reazione non ha seguito: «Essi ascoltano la parola, la ricevono con gioia, ma non hanno radici» (Lc 8,13).
Ci sono poi « gli angeli » col loro annunzio a cui fa seguito un inno. L’annunzio, presente nel v. 11, sviluppa cinque dati teologici significativi. Il testo suona così: «Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore». Innanzitutto l’«oggi», il presente costante della salvezza, vissuto nella liturgia, espressione della pienezza dei tempi. C’è poi la nascita, che è indizio di un inizio e quindi di una storia concreta; il terzo elemento è lo spazio, la «città di Davide». L’«oggi» eterno di Dio penetra nelle dimensioni « spazio-temporali » dell’uomo per fecondarle e trasfigurarle. Il quarto articolo di fede del Credo angelico è l’affermazione che Cristo è Salvatore (vedi Lc 1,69; Gv 4,42). Il quinto elemento è posto al vertice: Cristo è il « Kyrios », il Signore, il titolo che definiva il Dio dell’Antico Testamento. Come si vede, si proclama già la fede pasquale perché Gesù apparirà veramente come Signore nella sua risurrezione. È interessante notare che l’arte orientale ha reso questo aspetto pasquale del Natale in modo curioso: l’icona russa della « Natività », appartenente alla « Scuola di Novgorod » (XV secolo) rappresenta Gesù bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia che ha la forma di un sepolcro.
Accanto all’annunzio gli angeli pongono un inno, un altro dei cantici del vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca. È un « carme » che risuonerà nelle nostre liturgie festive: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (v. 14). La gloria è l’adorazione di Dio; Dio si manifesta agli uomini attraverso il suo amore, la sua « eudokía », la sua «buona volontà», il desiderio ardente del bene della sua creatura. Da questo atto di bontà nasce la «pace», il « shalôm » biblico che abbraccia prosperità, gioia, serenità, tranquillità, pienezza di vita. Il bambino di Maria, «principe della pace» (Is 9,5), «è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, per creare dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce. Egli è venuto, perciò, ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,14-17).
L’ultimo personaggio che è presente alla scena del Natale è la figura più importante, è lei, la « Theotókos », la Madre di Dio, come proclamerà il « Concilio di Efeso ». Maria «serbava tutte queste cose e le meditava nel suo cuore» (v. 19): essa «ha ascoltato la Parola e la conserva in un cuore onesto e buono» (Lc 8,15). Maria conserva e, come dice l’originale greco, «mette insieme», cioè dà un senso a tutto ciò che sta accadendo, scoprendo il piano divino sotteso agli eventi. È la sapiente per eccellenza, che penetra nei segreti della salvezza che Dio ci sta offrendo e che si attuano anche per suo tramite.
Concludiamo la nostra descrizione, associandoci al cantore siro Romano il Melode, nato in Siria attorno al 490, convertitosi al cristianesimo e vissuto come diacono tutta la vita presso il santuario mariano del quartiere «di Ciro» a Costantinopoli, ove fu sepolto dopo il 555 e prima del 562. Romano, secondo la tradizione, avrebbe composto un migliaio di inni; i codici ce ne hanno trasmesso solo 85 e non tutti autentici. Eppure anche questi bastano a rivelarci la statura poetica di questo artefice dell’innografia bizantina, venerato come santo dalle Chiese d’Oriente che lo ricordano il 1° ottobre. I suoi inni, appartenenti al genere detto « kontakion », sono in realtà omelie in poesia. Al Natale sono dedicati tre inni. Nel primo, Romano mette sulle labbra di Maria questo dolcissimo « monologo-dialogo » col Figlio…

« Dimmi, o Figlio, come sei stato seminato in me e come sei nato!
Ti vedo, o mie viscere, e stupisco.
Il mio seno è gonfio di latte e non sono sposa. Ti vedo avvolto nelle fasce e scorgo ancora intatto il sigillo della mia verginità.
Sei tu, infatti, che l’hai serbato tale quando ti sei degnato di nascere, o nuovo Bambino, Dio anteriore ai secoli!
O Re eccelso, che cosa c’è di comune tra te e le nostre miserie?
O creatore del cielo, perché vieni tra noi, uomini della terra?
Ti sei lasciato incantare da una grotta e un presepio ti è caro? (I, 2-3).
Lo Spirito stese le sue ali sul grembo della Vergine ed ella concepì e partorì e divenne madre-vergine con molta sollecitudine.
Rimase incinta e partorì senza dolore un figlio… Lo generò in esempio, lo possedette in grande potenza, lo amò in salvezza, lo custodì nella soavità, lo mostrò nella grandezza.
Alleluia! ».

TITO 2,11-14; 3,4-7

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Tito%202,11-3,7

TITO 2,11-14; 3,4-7

Carissimo, 11 è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, 12 che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, 13 nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo. 14 Egli ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formarsi un popolo puro che gli appartenga, zelante nelle opere buone.
3,4 Quando si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, 5 egli ci ha salvati non in virtù di opere di giustizia da noi compiute, ma per sua misericordia mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo, 6 effuso da lui su di noi abbondantemente per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro, 7 perché giustificati dalla sua grazia diventassimo eredi, secondo la speranza, della vita eterna.

COMMENTO
Tito 2,11-3,7

Battesimo e salvezza in Cristo
La lettera a Tito inizia con il prescritto (1,1-4) a cui fa seguito una breve introduzione riguardante la missione di Tito (1,5-9). Il corpo della lettera inizia e termina con la messa in guardia nei confronti dei falsi dottori (1,10-16; 3,9-11). Al centro si trovano alcune esortazioni pratiche che Tito deve rivolgere ai membri della comunità riguardanti i rapporti fra di loro (2,1-15) e con gli estranei (3,1-8). In ciascuno di questi due brani viene dato ampio spazio alla motivazione teologica. Il brano liturgico riporta anzitutto la motivazione teologica della prima esortazione, riguardante la manifestazione della grazia di Dio (2,11-14) e poi quella della seconda, nella quale è descritta l’opera salvifica di Dio (3,4-7).

La manifestazione della grazia di Dio (Tt 2,11-14)
Dopo aver dato a Tito l’incarico di portare sulla retta via tutti i membri della comunità, l’autore della lettera gli indica il motivo per cui deve impegnarsi a fondo nella sua opera pastorale. Egli si riferisce a un evento di importanza determinante per tutta l’umanità: «È apparsa infatti la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini» (v. 11). Tutto è cominciato per iniziativa di Dio, il quale ha manifestato (epefanê) la sua grazia (charis), cioè la sua bontà e il suo amore per gli uomini (cfr. Tt 3,4). Ci troviamo quindi davanti a una epifania divina, che ha avuto luogo nel tempo e nello spazio. Dio manifesta la sua grazia conferendo la «salvezza» a tutti gli uomini. Con il termine «salvezza» (hê sôtêrios) si allude a colui anche è il salvatore, Gesù Cristo (cfr. 2,13; 3,4-5), il quale ha attuato un piano divino di ampiezza universale. Per il Paolo autentico la salvezza di tutta l’umanità era prevalentemente un evento escatologico, cioè che si realizzerà alla fine dei tempi (cfr. Rm 5,1-11; 13,11). Ora invece è diventata una realtà già attuale a cui tutti possono accedere.
Mediante la sua grazia, Dio ha dato una profonda direttiva di vita: «e ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere in questo mondo con sobrietà, con giustizia e con pietà» (v. 12). L’insegnamento di Dio non consiste in norme o leggi imposte con la sua autorità, ma in una istruzione (paideuô), analoga a quella data dai saggi, che si incarna nella vita e nell’esperienza umana. L’insegnamento di Dio ha come effetto una rottura con il passato, che consiste nel rinnegamento dell’empietà (asebeia), cioè della negazione di Dio, e dei desideri mondani (kosmikai epithymiai), cioè dell’attaccamento alle cose di questo mondo. In positivo esso dà al credente la possibilità di vivere in questo mondo con sobrietà (sôfronôs), giustizia (dikaiôs) e pietà (eusebôs), cioè esercitando correttamente il proprio rapporto con se stesso, con il prossimo e con Dio. Per il Paolo autentico, sullo sfondo del 10° comandamento, la vita cristiana è una lotta contro i desideri della carne (Rm 8,5-8), visti come la manifestazione per eccellenza del peccato. In questa sintesi invece si tratta dei desideri di questo mondo, a cui corrisponde, come antidoto, l’adozione di tre virtù che sono tipiche anche dell’insegnamento morale dei filosofi.
Il comportamento dei credenti ha una forte valenza escatologica: «… nell’attesa della beata speranza (elpis) e della manifestazione (epifaneia) della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (v. 13). La vita cristiana è dunque connotata dalla speranza. Vi sono dunque due epifanie divine, una delle quali ha già avuto luogo mediante la prima venuta di Cristo, mentre la seconda si attuerà in un imprecisato momento futuro mediante il suo ritorno nella gloria. La prima manifestazione dà quindi fondamento alla speranza in un compimento finale. Nella seconda epifania la manifestazione del nostro grande Dio è abbinata a quella del salvatore Gesù Cristo. A prima vista sembra che Dio sia identificato con Cristo: ciò comporterebbe un’affermazione esplicita della divinità di Cristo. Questa interpretazione si fonda sul fatto che un solo e medesimo articolo determinato, tou, è posto davanti a due sostantivi, Dio e Gesù Cristo, collegati con un kai (e), dando così l’impressione che si tratti di due appellativi di un’unica persona. Questa interpretazione però non è condivisa da molti studiosi, secondo i quali l’identificazione di Gesù Cristo con Dio non fa ancora parte della teologia delle pastorali. Resta quindi incerto il significato esatto di questa espressione, la quale però apre comunque la strada a un’affermazione esplicita della divinità di Cristo.
Il motivo per cui è stato assegnato a Cristo il ruolo di salvatore è cosi formulato: «Egli ha dato se stesso per noi (edôken heauton hyper êmôn), per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone» (v. 14). Il dono di sé praticato da Gesù allude a una funzione sacerdotale, la quale però si attua non in un tempio, ma nella vita: con essa si indica una vita di servizio a Dio e agli uomini spinta fino alle sue ultime conseguenze. Il suo scopo è espresso con due termini: riscattare e purificare. Anzitutto Cristo ci riscatta (lytroô), cioè porta a termine l’opera di Dio descritta nell’AT come una liberazione degli schiavi di cui è autore JHWH in quanto go<el, cioè il parente prossimo che interviene in aiuto di chi è bisognoso, con riferimento agli israeliti schiavi in Egitto (cfr. Es 6,6; Is 41,14); qui però si attua non una liberazione politica, ma unicamente la liberazione dall’iniquità (anomia) (cfr. Rm 3,24; Mc 10,45). In secondo luogo, Cristo «forma» (katharizô, purificare) un popolo di sua proprietà (laos periousios): questa espressione richiama la particolare condizione del popolo eletto dell’AT (cfr. Es 19,5; Dt 7,6; 14,2; 26,18) che ora diventa prerogativa dei credenti in Cristo. Questo popolo nuovo si caratterizza per il fatto di essere pieno di zelo (zêlôtês) per le opere buone. Il compimento delle opere buone (non le «opere della legge») è quindi lo scopo della redenzione. Per ottenere questo scopo, Cristo diventa, con la sua totale dedizione al Padre, modello e guida di quanti credono in lui.
La motivazione teologica termina con una nuova esortazione: «Questo devi insegnare, raccomandare e rimproverare con tutta autorità. Nessuno ti disprezzi!» (v. 15).

L’opera salvifica di Dio (Tt 3,4-7)
La seconda esortazione inizia con la descrizione del comportamento che i cristiani sono tenuti ad avere con gli estranei. A tal fine viene riportato un piccolo catalogo che comprende le seguenti virtù: sottomissione alle autorità, compimento delle opere buone, non parlare male di nessuno, evitare le liti, mansuetudine e mitezza verso tutti (vv. 1-2). Per dare più consistenza alle sue parole, l’autore passa poi bruscamente a descrivere la situazione in cui i suoi interlocutori si trovavano prima di essere raggiunti dalla grazia di Dio. A tale scopo si serve di un altro catalogo, questa volta di vizi, ricordando che sia lui che loro un tempo erano «insensati, disobbedienti, corrotti, schiavi di ogni sorta di passioni e di piaceri, vivendo nella malvagità e nell’invidia, odiosi e odiandoci a vicenda» (v. 3). Con questi termini, in gran parte di repertorio, l’autore non intende descrivere il comportamento dei suoi interlocutori prima della loro conversione e neppure di alcuni di loro, ma semplicemente vuole circoscrivere un comportamento lontano da Dio, comunque si manifesti.
L’autore riprende poi il tema dell’intervento passato di Dio, in forza del quale la situazione dei destinatari è totalmente cambiata: «Ma quando apparvero la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini, egli ci ha salvati, non per opere giuste da noi compiute, ma per la sua misericordia (vv. 4-5a). In questo testo si tratta della prima manifestazione di Dio, presentato lui stesso come «salvatore» (sôtêr). Ciò che egli ha manifestato sono due dei più importanti attributi che gli competono: la sua «bontà» (chrêstotês) e «amore per gli uomini» (filanthrôpia). Sono essi infatti che lo spingono ad agire in favore dell’umanità.
Lo strumento di cui Dio si è servito per manifestare la sua bontà è stato «un’acqua che rigenera e rinnova nello Spirito Santo, che Dio ha effuso su di noi in abbondanza per mezzo di Gesù Cristo, salvatore nostro» (vv. 5b-6). Con questa frase si fa riferimento al battesimo, che si compie mediante l’acqua e lo Spirito Santo (cfr. Mc 1,8; At 8,36). Di questo dono il mediatore è Gesù Cristo (cfr. At 2,38). Infine viene indicato lo scopo finale di tutta l’opera divina: «affinché, giustificati per la sua grazia, diventassimo, nella speranza, eredi della vita eterna» (v. 7). L’eredità è il dono che Dio fa ai suoi figli in seguito alla giustificazione che ha dato loro per mezzo di Cristo. Essa non è ancora conferita nella sua pienezza, ma è oggetto di speranza. Il tema è certamente paolino, ma il Paolo autentico avrebbe parlato piuttosto di «giustificazione mediante la fede» (cfr. Rm 3,21-31).
Come conclusione l’autore sottolinea l’autorevolezza di ciò che ha detto e insiste sulla necessità che i credenti, praticando queste direttive, si sforzino di distinguersi nel fare il bene (v. 8).

Linee interpretative
Al centro di questo testo vi è l’intervento salvifico di Dio che ha avuto luogo una prima volta mediante Gesù Cristo. In esso la grazia di Dio si è manifestata come bontà e amore per gli uomini. Lo scopo di questa manifestazione è stata la formazione di un nuovo popolo redento e purificato mediante il battesimo, che comporta il dono dello Spirito. Ma un giorno ci sarà una nuova manifestazione di Dio mediante Gesù Cristo, che porterà a compimento le promesse, specialmente quella di conferire ai credenti l’eredità. Nel frattempo essi sono chiamati a vivere nella speranza: se Dio ha già dato loro tante grazie, non potrà non realizzare alla fine le promesse fatte.
Nell’attuazione del suo piano di salvezza Dio ha associato a sé Gesù Cristo, mediante il quale egli ha attuato e attuerà alla fine la sua manifestazione all’umanità. L’unione tra Dio e Gesù Cristo è talmente profonda da provocare il passaggio dall’uno all’altro dell’appellativo di salvatore. Anche se non si accetta l’identificazione di Gesù con Dio, bisogna tuttavia riconoscere che l’autore della lettera è già in possesso di una cristologia molto alta, in forza della quale il significato di Gesù si può cogliere solo nel suo rapporto con Dio. Egli però non perde di vista la sua esperienza umana, che si è espressa mediante il dono di sé a Dio in favore degli uomini. Nonostante l’orientamento cultuale di questa espressione, si può ancora intuire la percezione di una vita offerta a Dio in quanto è stata spesa per i fratelli.
Da questo dono di Dio in Cristo deriva per i credenti la possibilità di distaccarsi dai desideri egoistici tipici dell’umanità per vivere una vita santa. L’esercizio delle virtù non deriva dunque né dalla legge né dallo sforzo della volontà, ma da un dono interiore che trasforma l’uomo cambiando in profondità la sua mentalità e spingendolo spontaneamente al bene.
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Publié dans:Lettera a Tito, NATALE 2014 |on 23 décembre, 2014 |Pas de commentaires »

Omelia Per il Natale 2014: « In questi ultimi giorni Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/5-Natale/01b-Giorno/12-Natale-Giorno-B-2014-SC.htm

25 DICEMBRE 2014| NATALE DI GESÙ – ANNO B | APPUNTI PER LA LECTIO

« In questi ultimi giorni Dio ha parlato a noi per mezzo del Figlio »

Se la Liturgia delle due Messe precedenti (durante la notte e all’aurora) è tutta piena di commozione e di stupore per il mistero della nascita del Figlio di Dio, quella della terza Messa, oltre che di gioia, è carica di lirismo e di contemplazione teologica, la più ardita che si sia mai potuta fare: basti pensare ai due « prologhi » della lettera agli Ebrei e del quarto Vangelo, che ci vengono proposti come seconda e terza lettura!
Anche la colletta coglie in profondità il senso teologico di quanto è avvenuto oggi. Non è soltanto il Figlio di Dio che si è fatto uomo (e già questo è motivo di gioia immensa!), ma è l’uomo che, nel Figlio di Maria, è ormai assunto a vivere la vita stessa di Dio: « O Dio, che in modo mirabile ci hai creati a tua immagine, e in modo più mirabile ci hai rinnovati e redenti, fa’ che possiamo condividere la vita divina del tuo Figlio, che oggi ha voluto assumere la nostra natura umana ».
La redenzione, che oggi incomincia il suo fatidico itinerario, ci ha riportati a dignità più grande di quella che Dio già ci aveva concesso « creandoci » a sua immagine. In Gesù, « impronta della sostanza » del Padre, come ci dirà la lettera agli Ebrei (1,3), l’uomo riacquista anche più nitidamente la sua « rassomiglianza » con Dio.

« E il Verbo si fece carne »
In fin dei conti, è proprio questo messaggio del meraviglioso « prologo » del Vangelo di Giovanni, sul quale avremmo infinite cose da dire e che ora vogliamo leggere soprattutto in chiave natalizia, senza perderci in sottili dettagli esegetici.
E in chiave natalizia mi sembra che il punto culminante di tutto il brano sia rappresentato dal v. 14: « E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità ».
« Farsi carne » non è semplicemente « farsi uomo », diventare uno di noi. Infatti il termine sarx (= carne), corrispondente all’ebraico basàr, non designa tanto l’uomo in genere, quanto l’uomo nella sua condizione di debolezza, di friabilità, di morte, di limite, perfino di peccabilità. Non si poteva perciò esprimere in maniera più forte il realismo dell’Incarnazione e il volontario abbassamento di Cristo: Paolo parlerà addirittura di « svuotamento » o di « spogliamento », che il Figlio di Dio ha fatto di se stesso quando è diventato nostro fratello.
L’Incarnazione, inoltre, non è stata un gesto momentaneo, ma ha realizzato una permanenza di « abitazione » in mezzo a noi. Invece di « venne ad abitare » meglio sarebbe, secondo il testo greco, tradurre « pose la sua tenda (eskénosen) in mezzo a noi », per esprimere sia l’esperienza « peregrinante » di Gesù come gli Ebrei nel deserto, sia la presenza di Jahvè che, nella « tenda » dell’alleanza, convive con il suo popolo. Ormai, in Gesù, Dio si è talmente « avvicinato » all’uomo da diventare uno di noi.

« In principio era il Verbo »
Tutto questo tanto più ci sorprende, se adesso rileggiamo la prima parte del prologo, dove si parla della preesistenza del Verbo presso il Padre e della sua potenza creatrice: « In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste » (Gv 1,1-3).
In formule, via via ampliantisi circolarmente, san Giovanni ci dice che Gesù di Nazaret, che gli uomini hanno incrociato nelle loro strade, portava con sé un enorme mistero: era il Figlio stesso di Dio, di cui come « Parola » fedele (= Verbo) esprimeva e portava tutta la realtà, che da sempre esiste presso il Padre e con lui è l’autore stesso della creazione. Così che nel prodigio dell’Incarnazione egli diventa parte della sua stessa opera: egli, in un certo senso, diventa « fattura » di se stesso! Colui che trascende il tempo e lo spazio, si imprigiona nel tempo e nello spazio.

« E noi vedemmo la sua gloria »
Incarnandosi, perciò, Gesù non è stato promosso ma si è umiliato. Eppure abbiamo sentito che l’evangelista considera tutto questo come un’espressione di « gloria »: « E noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità » (v. 14).
In genere gli esegeti vedono in questo verso un riferimento a certi momenti di manifestazione gloriosa di Gesù, come la sua trasfigurazione, o i suoi « miracoli », che Giovanni chiama anche « segni » (2,11; 4,54; 6,30; ecc.). In realtà, abbiamo l’impressione che Giovanni veda la « gloria » di Dio in Cristo proprio in questo suo farsi uomo, in questo suo discendere nell’abisso della nostra miseria: è qui che si rivela la grandiosità dell’amore di Dio, che si esalta proprio nell’umiliazione che egli fa di se stesso.
Qualcosa di simile a quello che il quarto evangelo insegna della crocifissione che, prima e più della stessa risurrezione, è espressione della « glorificazione » del Figlio: « È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto » (Gv 12,23-24). La « gloria » di Cristo consiste in questo suo farsi « chicco di grano » che « muore », proprio perché solo così apporterà il « frutto » della salvezza a tutti gli uomini.

« Egli era nel mondo, eppure il mondo non lo riconobbe »
Ma proprio perché la « gloria » di Cristo si manifesta in una forma così paradossale e, in fin dei conti, anche ambigua, c’è la possibilità di rimanere scandalizzati davanti a lui e di respingere il « dono » di Dio. È quello che tragicamente si è verificato e che Giovanni mette in evidenza non solo nel prologo ma lungo tutto il suo Vangelo, che è la narrazione di un autentico scontro « drammatico » fra luce e tenebre, vita e morte, amore e odio.
« In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta… Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l’hanno accolto » (vv. 4-5.10-11). Il paradosso è che « il mondo » non respinge un estraneo, ma colui che « l’ha fatto »! Peggio ancora: sono quelli della sua stessa famiglia, la « sua gente », che non lo ricevono. Il riferimento, in queste ultime parole (« i suoi », in greco oi ìdioi), è evidentemente ai Giudei del tempo di Gesù, che non lo accolsero né quando venne alla luce a Betlemme di Giudea, né durante la sua vita pubblica, che anzi lo fecero appendere al legno della croce.
In realtà, non è facile « accogliere » Gesù nella pienezza di significato di questo termine: si tratta, infatti, di farne esperienza fino al punto di lasciarsi da lui trasfigurare in quello che è lui, cioè in « figli di Dio ». E questo è un processo che può avvenire solo in forza della « fede », per cui mentre vediamo davanti a noi un semplice fanciullo, o un puro essere umano, in realtà lo accettiamo come il Figlio di Dio che si è abbassato fino a noi per salvarci e farci partecipi della sua « pienezza ».

« A quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio »
È quanto ci dice con espressioni altissime Giovanni verso la fine del prologo: « A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati » (vv. 12-13). Il processo generativo, per cui diventiamo figli di Dio, non avviene per la via naturale, a cui alludono i vari elementi qui ricordati (« sangue », « volere di carne », ecc.), ma solo per la potenza dello Spirito, che è stato all’origine della nascita stessa di Cristo.
La « fede », intesa come radicale disponibilità a Dio e al suo disegno di amore, ci permette di entrare in comunione con lui, di accettare la salvezza che egli ci offre in Cristo, « rinascendo » anche noi con lui a vita nuova. È il dono che Cristo ci fa nel suo Natale: qualcosa della sua « pienezza » si travasa anche in noi che così gli diventiamo veramente « fratelli »: « Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto e grazia su grazia. Perché la legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo » (vv. 16-17).
Nella festa del Natale perciò noi celebriamo non soltanto la nascita di Gesù, ma anche la rinascita di ciascuno di noi nello spirito dell’adozione « filiale », come insegnerà anche più insistentemente san Paolo.
È questa la grande « rivelazione » che ci ha fatto Gesù venendo in mezzo a noi: « Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato » (v. 18). In lui non abbiamo conosciuto soltanto il volto del Padre, ma abbiamo riconosciuto anche il « nostro » volto, perché ci ha assimilati in tutto a se stesso, fino a farci vivere la sua stessa vita.

« Dio, che aveva già parlato per mezzo dei profeti… »
Anche il prologo della lettera agli Ebrei ci dice che in Cristo è avvenuta la rivelazione ultima e definitiva: « Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo » (Eb 1,1-2).
A differenza della prospettiva giovannea, che tendeva a far vedere l’inabissamento del Verbo, la lettera agli Ebrei vuol farne vedere la grandezza, nonostante l’umiliazione. Perciò ne sottolinea tutti gli elementi di trascendenza. Viene dopo tutti i profeti, perché lui soltanto è la « parola » definitiva; è il « Figlio », e in quanto tale ha il dominio e « l’eredità » di tutto, anche perché è il « creatore » dell’universo (v. 2).

« Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria… »
Riprendendo alcune espressioni che si ritrovano nell’Antico Testamento per descrivere la « sapienza », l’autore della lettera continua: « Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati, si è assiso alla destra della maestà nell’alto dei cieli, ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato » (vv. 3-4).
Le immagini dell’ »irradiazione », che ha origine dalla stessa sorgente di luce, e dell’ »impronta » che viene riprodotta fedelmente sulla cera, premendo il sigillo, stanno a dire l’identità di natura tra il Padre e il Figlio, e nello stesso tempo la distinzione delle persone. Proprio per questo, pur essendosi abbassato alla nostra condizione umana per « purificare i nostri peccati » (v. 3), ha diritto di assidersi « alla destra della maestà » di Dio, infinitamente al di sopra degli « angeli » (v. 4).
In fin dei conti, anche se per vie diverse, l’autore della lettera agli Ebrei e san Giovanni convergono nel dirci che l’Incarnazione, pur rappresentando il gesto estremo di umiliazione del Figlio di Dio, è nello stesso tempo la « gloria » più vera e più autentica che Dio poteva procurare a se stesso.

« Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi! »
Si capisce allora anche la gioia prorompente della prima lettura, che nel suo significato più immediato si riferisce al grande annunzio della liberazione degli Ebrei dalla schiavitù babilonese e della restaurazione di Gerusalemme. Si immagina poeticamente che un messaggero venga a darne in anticipo la lieta notizia: « Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: « Regna il tuo Dio »… Prorompete insieme in canti di gioia, rovine di Gerusalemme, perché il Signore ha consolato il suo popolo, ha riscattato Gerusalemme… » (Is 52,7.9).
Il « regno », di cui hanno parlato a lungo i profeti e i salmisti, è finalmente arrivato con Gesù di Nazaret, che nasce però in maniera tutt’altro che regale. Ma proprio in questa « regalità » velata si manifesta la « potenza » di Dio, che ormai estende la sua salvezza fino agli estremi confini della terra, ben al di là della Gerusalemme terrena: « Il Signore ha snudato il suo santo braccio davanti a tutti i popoli; tutti i confini della terra vedranno la salvezza del nostro Dio » (Is 52,10).
Il Natale è davvero la festa dei « paradossi »: nella umiliazione del suo Figlio Dio rivela la sua « gloria », nella debolezza la sua « potenza ». La fede ci aiuta a scoprire in tutto questo lo stile di Dio, che ama più « proporsi » nella semplicità che « imporsi » nella forza agli uomini.

Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche, Anno B

VERSO IL NATALE CON SAN PAOLO (Anno Paolino)

http://www.stpauls.it/coopera/0810cp/0810cp02.htm

VERSO IL NATALE CON SAN PAOLO (Anno Paolino)

Cari cooperatori e amici,
quest’anno la festività del Natale cade nel mezzo dell’Anno dedicato a San Paolo, voluto da papa Benedetto XVI per la ricorrenza del bimillenario della nascita dell’Apostolo. Al riguardo, nel giugno scorso, ho già proposto su queste pagine alcune riflessioni, richiamando il mandato del beato Giacomo Alberione alla Famiglia Paolina a essere « San Paolo vivo oggi » e invitando « a mostrare, nei fatti e nelle riflessioni, che San Paolo incarna anche oggi un modello affascinante di vivere e comunicare l’esperienza di Cristo ». Aggiungevo che il « farsi tutto a tutti » dell’Apostolo è di indirizzo per la nostra attività pastorale che « valorizza in pieno tutte le forme e i linguaggi della comunicazione attuale per permettere che il Cristo integrale, Via e Verità e Vita, si incontri con la totalità della personalità, mente e cuore e volontà ».

« Quando venne la pienezza del tempo »
Ora, attraverso alcuni testi paolini della liturgia natalizia, vogliamo farci accompagnare da San Paolo e con lui accostarci al mistero che contempliamo: « Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge… perché ricevessimo l’adozione a figli » (Gal 4,4-5). L’Apostolo medita sul mistero, che vela e rivela « la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini » (Tt 2,11); si coinvolge nel mirabile scambio per il quale il Figlio di Dio assume la nostra umanità e la eleva alla dignità divina; vive in sé la gioia dell’uomo fatto figlio di Dio.
Nell’Incarnazione – giacché il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo – trova vera luce il mistero stesso dell’uomo: « Se uno è in Cristo è una creatura nuova »(2Cor 5,17); nell’Incarnazione è radicata l’unità e la solidarietà della famiglia umana: « Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché voi tutti siete uno in Cristo Gesù » (Gal 3,28); la creazione stessa, sottomessa alla caducità (Rm 8,20), è reintegrata nel disegno divino di « ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra » (Ef 1,10).
Annota il nostro Fondatore: « Il Figlio di Dio si fa uomo, si umanizza, e la Chiesa vuole che noi domandiamo la grazia di diventare consorti della divinità, mentre il Figlio di Dio ha voluto essere partecipe della nostra umanità » (Per un rinnovamento spirituale, p. 314).

« Vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo »
Risuoneranno nella Notte santa queste parole dell’Apostolo, che costituiscono un vero programma di vita cristiana. La venuta del Figlio di Dio non può lasciare indifferente il suo discepolo, anzi – dice San Paolo – lo impegna alla conversione: « c’insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo »; e all’orientamento costante della vita verso Dio: « nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo » (Tt 2,12-13).
Commenta Don Alberione: «È volontà di Gesù Cristo che noi viviamo in questo mondo con temperanza, con giustizia e con pietà. Con temperanza: mortificare, cioè, le passioni sregolate; frenare gli occhi, la lingua; frenare ogni cupidigia; frenare l’orgoglio, la sensualità. Bisogna che la letizia sia sempre temperata da quello che è giusto, da quello che è il limite segnato da Dio stesso. Con giustizia. Giustizia verso Dio: « A Dio l’onore e la gloria » (1Tm 1,17). Giustizia verso il prossimo: rispetto vicendevole, rispetto nelle parole e nelle opere. Giustizia che riguarda l’onore e i doni spirituali e i beni corporali. Con pietà: vivere piamente! Questi devono essere giorni di grande pietà: buone Confessioni, buone Comunioni. Sobrie et iuste ac pie vivamus» (Per un rinnovamento spirituale, pp. 308-309).

« Annunziare a tutti le imperscrutabili ricchezze di Cristo »
Mentre i Magi s’appresseranno alla grotta di Betlemme, ci accompagnerà l’assillo di San Paolo per far risplendere il mistero nascosto da secoli nella mente di Dio, e ora rivelato: « i pagani sono chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della promessa per mezzo del Vangelo » (Ef 3,6). Non ci è difficile immaginare l’Apostolo « con l’occhio al panorama geografico del mondo pagano, l’anima tesa giorno e notte agli uomini tutti per comunicare a tutti l’ardore santo che lo consuma e lo trasforma in Gesù Cristo », come scrive il nostro Fondatore (L’Apostolato dell’Edizione, p.350).
Nella missione Paolo sposa le prospettive universali di Gesù, il cui cuore è aperto a tutti; « Venite tutti a me », egli ripete con Gesù percependo la fame spirituale dei popoli e delle nazioni. Direi che il suo ardore deve divorare ciascuno di noi, suoi discepoli e cooperatori nell’apostolato; è lui stesso a dirci: « Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo » (1Cor 11,1).
Guardando all’Apostolo delle genti nell’Anno a lui dedicato (cf Proposizioni 1 e 49), il recente Sinodo sulla Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa ha sollecitato il compito dell’annuncio ai vicini e ai lontani. « I laici – ha detto – sono chiamati a riscoprire la responsabilità di esercitare il loro compito profetico, che deriva loro direttamente dal battesimo, e testimoniare il Vangelo, nella vita quotidiana: in casa, nel lavoro e dovunque si trovino » (Proposizione 38). E riferendosi ai mezzi di comunicazione sociale: « L’annuncio della Buona Notizia trova nuova ampiezza nella comunicazione odierna caratterizzata dall’intermedialità… Il nuovo contesto comunicativo ci consente di moltiplicare i modi di proclamazione e di approfondimento della sacra Scrittura. Questa, con la sua ricchezza, esige di poter raggiungere tutte le comunità, arrivando ai lontani anche attraverso questi nuovi strumenti… Sono, in ogni caso, forme che possono facilitare l’esercizio dell’ascolto obbediente della Parola di Dio (Proposizione 44).
Come vedete, ci sta davanti un campo immenso. Alla nostra ricchezza interiore e creatività pastorale, intinte nella passione paolina per Dio e per l’uomo, è dato il dono di raggiungere i cuori e disporli all’ascolto dell’unico Maestro, Gesù, Via Verità e Vita.

Vi auguro un santo Natale e un proficuo Anno 2009, mentre prego per voi e ringrazio Dio « a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del Vangelo » (Fil 1,3).

Don Silvio Sassi
Superiore generale SSP

 

Publié dans:ANNO PAOLINO, NATALE 2014 |on 22 décembre, 2014 |Pas de commentaires »
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