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BENEDETTO XVI – SALMO 110 (109), IL RE MESSIA (2011)

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BENEDETTO XVI – SALMO 110 (109), IL RE MESSIA (2011)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 16 novembre 2011

Cari fratelli e sorelle,

vorrei oggi terminare le mie catechesi sulla preghiera del Salterio meditando uno dei più famosi “Salmi regali”, un Salmo che Gesù stesso ha citato e che gli autori del Nuovo Testamento hanno ampiamente ripreso e letto in riferimento al Messia, a Cristo. Si tratta del Salmo 110 secondo la tradizione ebraica, 109 secondo quella greco-latina; un Salmo molto amato dalla Chiesa antica e dai credenti di ogni tempo. Questa preghiera era forse inizialmente collegata all’intronizzazione di un re davidico; tuttavia il suo senso va oltre la specifica contingenza del fatto storico aprendosi a dimensioni più ampie e diventando così celebrazione del Messia vittorioso, glorificato alla destra di Dio.

Il Salmo inizia con una dichiarazione solenne:
Oracolo del Signore al mio signore: «Siedi alla mia destra
finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi» (v. 1).

Dio stesso intronizza il re nella gloria, facendolo sedere alla sua destra, un segno di grandissimo onore e di assoluto privilegio. Il re è ammesso in tal modo a partecipare alla signoria divina, di cui è mediatore presso il popolo. Tale signoria del re si concretizza anche nella vittoria sugli avversari, che vengono posti ai suoi piedi da Dio stesso; la vittoria sui nemici è del Signore, ma il re ne è fatto partecipe e il suo trionfo diventa testimonianza e segno del potere divino.
La glorificazione regale espressa in questo inizio del Salmo è stata assunta dal Nuovo Testamento come profezia messianica; perciò il versetto è tra i più usati dagli autori neotestamentari, o come citazione esplicita o come allusione. Gesù stesso ha menzionato questo versetto a proposito del Messia per mostrare che il Messia è più che Davide, è il Signore di Davide (cfr Mt 22,41-45; Mc 12,35-37; Lc 20,41-44). E Pietro lo riprende nel suo discorso a Pentecoste, annunciando che nella risurrezione di Cristo si realizza questa intronizzazione del re e che da adesso Cristo sta alla destra del Padre, partecipa alla Signoria di Dio sul mondo (cfr Atti 2,29-35). È il Cristo, infatti, il Signore intronizzato, il Figlio dell’uomo seduto alla destra di Dio che viene sulle nubi del cielo, come Gesù stesso si definisce durante il processo davanti al Sinedrio (cfr Mt 26,63-64; Mc 14,61-62; cfr anche Lc 22,66-69). È Lui il vero re che con la risurrezione è entrato nella gloria alla destra del Padre (cfr Rom 8,34; Ef 2,5; Col 3,1; Ebr 8,1; 12,2), fatto superiore agli angeli, seduto nei cieli al di sopra di ogni potenza e con ogni avversario ai suoi piedi, fino a che l’ultima nemica, la morte, sia da Lui definitivamente sconfitta (cfr 1 Cor 15,24-26; Ef 1,20-23; Ebr 1,3-4.13; 2,5-8; 10,12-13; 1 Pt 3,22). E si capisce subito che questo re che è alla destra di Dio e partecipa della sua Signoria, non è uno di questi uomini successori di Davide, ma solo il nuovo Davide, il Figlio di Dio che ha vinto la morte e partecipa realmente alla gloria di Dio. E’ il nostre re, che ci dà anche la vita eterna.
Tra il re celebrato dal nostro Salmo e Dio esiste quindi una relazione inscindibile; i due governano insieme un unico governo, al punto che il Salmista può affermare che è Dio stesso a stendere lo scettro del sovrano dandogli il compito di dominare sui suoi avversari, come recita il versetto 2:

Lo scettro del tuo potere stende il Signore da Sion:
domina in mezzo ai tuoi nemici!

L’esercizio del potere è un incarico che il re riceve direttamente dal Signore, una responsabilità che deve vivere nella dipendenza e nell’obbedienza, diventando così segno, all’interno del popolo, della presenza potente e provvidente di Dio. Il dominio sui nemici, la gloria e la vittoria sono doni ricevuti, che fanno del sovrano un mediatore del trionfo divino sul male. Egli domina sui nemici trasformandoli, li vince con il suo amore.
Perciò, nel versetto seguente, si celebra la grandezza del re. Il versetto 3, in realtà, presenta alcune difficoltà di interpretazione. Nel testo originale ebraico si fa riferimento alla convocazione dell’esercito a cui il popolo risponde generosamente stringendosi attorno al suo sovrano nel giorno della sua incoronazione. La traduzione greca dei LXX, che risale al III-II secolo prima di Cristo, fa riferimento invece alla filiazione divina del re, alla sua nascita o generazione da parte del Signore, ed è questa la scelta interpretativa di tutta la tradizione della Chiesa, per cui il versetto suona nel modo seguente:

A te il principato nel giorno della tua potenza
tra santi splendori;
dal seno dell’aurora, come rugiada, io ti ho generato.

Questo oracolo divino sul re affermerebbe dunque una generazione divina soffusa di splendore e di mistero, un’origine segreta e imperscrutabile, legata alla bellezza arcana dell’aurora e alla meraviglia della rugiada che nella luce del primo mattino brilla sui campi e li rende fecondi. Si delinea così, indissolubilmente legata alla realtà celeste, la figura del re che viene realmente da Dio, del Messia che porta al popolo la vita divina ed è mediatore di santità e di salvezza. Anche qui vediamo che tutto questo non è realizzato dalla figura di un re davidico, ma dal Signore Gesù Cristo, che realmente viene da Dio; Egli è la luce che porta la vita divina al mondo.
Con questa immagine suggestiva ed enigmatica termina la prima strofa del Salmo, a cui fa seguito un altro oracolo, che apre una nuova prospettiva, nella linea di una dimensione sacerdotale connessa alla regalità. Recita il versetto 4:

Il Signore ha giurato e non si pente:
«Tu sei sacerdote per sempre al modo di Melchìsedek».

Melchìsedek era il sacerdote re di Salem che aveva benedetto Abramo e offerto pane e vino dopo la vittoriosa campagna militare condotta dal patriarca per salvare il nipote Lot dalle mani dei nemici che lo avevano catturato (cfr Gen 14). Nella figura di Melchìsedek, potere regale e sacerdotale convergono e ora vengono proclamati dal Signore in una dichiarazione che promette eternità: il re celebrato dal Salmo sarà sacerdote per sempre, mediatore della presenza divina in mezzo al suo popolo, tramite della benedizione che viene da Dio e che nell’azione liturgica si incontra con la risposta benedicente dell’uomo.
La Lettera agli Ebrei fa esplicito riferimento a questo versetto (cfr. 5,5-6.10; 6,19-20) e su di esso incentra tutto il capitolo 7, elaborando la sua riflessione sul sacerdozio di Cristo. Gesù, così ci dice la Lettera agli Ebrei nella luce del salmo 110 (109), Gesù è il vero e definitivo sacerdote, che porta a compimento i tratti del sacerdozio di Melchìsedek rendendoli perfetti.
Melchìsedek, come dice la Lettera agli Ebrei, era «senza padre, senza madre, senza genealogia» (7,3a), sacerdote dunque non secondo le regole dinastiche del sacerdozio levitico. Egli perciò «rimane sacerdote per sempre» (7,3c), prefigurazione di Cristo, sommo sacerdote perfetto che «non è diventato tale secondo una legge prescritta dagli uomini, ma per la potenza di una vita indistruttibile» (7,16). Nel Signore Gesù risorto e asceso al cielo, dove siede alla destra del Padre, si attua la profezia del nostro Salmo e il sacerdozio di Melchìsedek è portato a compimento, perché reso assoluto ed eterno, divenuto una realtà che non conosce tramonto (cfr 7,24). E l’offerta del pane e del vino, compiuta da Melchìsedek ai tempi di Abramo, trova il suo adempimento nel gesto eucaristico di Gesù, che nel pane e nel vino offre se stesso e, vinta la morte, porta alla vita tutti i credenti. Sacerdote perenne, «santo, innocente, senza macchia» (7,26), egli, come ancora dice la Lettera agli Ebrei, «può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si avvicinano a Dio; egli infatti è sempre vivo per intercedere a loro favore» (7,25).
Dopo questo oracolo divino del versetto 4, col suo solenne giuramento, la scena del Salmo cambia e il poeta, rivolgendosi direttamente al re, proclama: «Il Signore è alla tua destra!» (v. 5a). Se nel versetto 1 era il re a sedersi alla destra di Dio in segno di sommo prestigio e di onore, ora è il Signore a collocarsi alla destra del sovrano per proteggerlo con lo scudo nella battaglia e salvarlo da ogni pericolo. Il re è al sicuro, Dio è il suo difensore e insieme combattono e vincono ogni male.
Si aprono così i versetti finali del Salmo con la visione del sovrano trionfante che, appoggiato dal Signore, avendo ricevuto da Lui potere e gloria (cfr v. 2), si oppone ai nemici sbaragliando gli avversari e giudicando le nazioni. La scena è dipinta con tinte forti, a significare la drammaticità del combattimento e la pienezza della vittoria regale. Il sovrano, protetto dal Signore, abbatte ogni ostacolo e procede sicuro verso la vittoria. Ci dice: sì, nel mondo c’è tanto male, c’è una battaglia permanente tra il bene e il male, e sembra che il male sia più forte. No, più forte è il Signore, il nostro vero re e sacerdote Cristo, perché combatte con tutta la forza di Dio e, nonostante tutte le cose che ci fanno dubitare sull’esito positivo della storia, vince Cristo e vince il bene, vince l’amore e non l’odio.
È qui che si inserisce la suggestiva immagine con cui si conclude il nostro Salmo, che è anche una parola enigmatica.

lungo il cammino si disseta al torrente,
perciò solleva alta la testa (v. 7).

Nel mezzo della descrizione della battaglia, si staglia la figura del re che, in un momento di tregua e di riposo, si disseta ad un torrente d’acqua, trovando in esso ristoro e nuovo vigore, così da poter riprendere il suo cammino trionfante, a testa alta, in segno di definitiva vittoria. E’ ovvio che questa parola molto enigmatica era una sfida per i Padri della Chiesa per le diverse interpretazioni che si potevano dare. Così, per esempio, sant’Agostino dice: questo torrente è l’essere umano, l’umanità, e Cristo ha bevuto da questo torrente facendosi uomo, e così, entrando nell’umanità dell’essere umano, ha sollevato il suo capo e adesso è il capo del Corpo mistico, è il nostro capo, è il vincitore definitivo (cfr Enarratio in Psalmum CIX, 20: PL 36, 1462).
Cari amici, seguendo la linea interpretativa del Nuovo Testamento, la tradizione della Chiesa ha tenuto in grande considerazione questo Salmo come uno dei più significativi testi messianici. E, in modo eminente, i Padri vi hanno fatto continuo riferimento in chiave cristologica: il re cantato dal Salmista è, in definitiva, Cristo, il Messia che instaura il Regno di Dio e vince le potenze del mondo, è il Verbo generato dal Padre prima di ogni creatura, prima dell’aurora, il Figlio incarnato morto e risorto e assiso nei cieli, il sacerdote eterno che, nel mistero del pane e del vino, dona la remissione dei peccati e la riconciliazione con Dio, il re che solleva la testa trionfando sulla morte con la sua risurrezione. Basterebbe ricordare un passo ancora una volta del commento di sant’Agostino a questo Salmo dove scrive: «Era necessario conoscere l’unico Figlio di Dio, che stava per venire tra gli uomini, per assumere l’uomo e per divenire uomo attraverso la natura assunta: egli è morto, risorto, asceso al cielo, si è assiso alla destra del Padre ed ha adempiuto tra le genti quanto aveva promesso … Tutto questo, dunque, doveva essere profetizzato, doveva essere preannunciato, doveva essere segnalato come destinato a venire, perché, sopravvenendo improvviso, non facesse spavento, ma fosse preannunciato, piuttosto accettato con fede, gioia ed atteso. Nell’ambito di queste promesse rientra codesto Salmo, il quale profetizza, in termini tanto sicuri ed espliciti, il nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, che noi non possiamo minimamente dubitare che in esso sia realmente annunciato il Cristo» (cfr Enarratio in Psalmum CIX, 3: PL 36, 1447)
L’evento pasquale di Cristo diventa così la realtà a cui ci invita a guardare il Salmo, guardare a Cristo per comprendere il senso della vera regalità, da vivere nel servizio e nel dono di sé, in un cammino di obbedienza e di amore portato “fino alla fine” (cfr. Gv 13,1 e 19,30). Pregando con questo Salmo, chiediamo dunque al Signore di poter procedere anche noi sulle sue vie, nella sequela di Cristo, il re Messia, disposti a salire con Lui sul monte della croce per giungere con Lui nella gloria, e contemplarlo assiso alla destra del Padre, re vittorioso e sacerdote misericordioso che dona perdono e salvezza a tutti gli uomini. E anche noi, resi, per grazia di Dio, «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa» (cfr 1 Pt 2,9), potremo attingere con gioia alle sorgenti della salvezza (cfr Is 12,3) e proclamare a tutto il mondo le meraviglie di Colui che ci ha «chiamato dalle tenebre alla sua luce meravigliosa» (cfr 1 Pt 2,9).
Cari amici, in queste ultime Catechesi ho voluto presentarvi alcuni Salmi, preziose preghiere che troviamo nella Bibbia e che riflettono le varie situazioni della vita e i vari stati d’animo che possiamo avere verso Dio. Vorrei allora rinnovare a tutti l’invito a pregare con i Salmi, magari abituandosi a utilizzare la Liturgia delle Ore della Chiesa, le Lodi al mattino, i Vespri alla sera, la Compieta prima di addormentarsi. Il nostro rapporto con Dio non potrà che essere arricchito nel quotidiano cammino verso di Lui e realizzato con maggior gioia e fiducia. Grazie.

BENEDETTO XVI – IL GRANDE CANTO DELLA « LEGGE » SALMO 119 (118) (2011)

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BENEDETTO XVI – IL GRANDE CANTO DELLA « LEGGE » SALMO 119 (118) (2011)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 9 novembre 2011

Cari fratelli e sorelle,

nelle passate catechesi abbiamo meditato su alcuni Salmi che sono esempi dei generi tipici della preghiera: lamento, fiducia, lode. Nella catechesi di oggi vorrei soffermarmi sul Salmo 119 secondo la tradizione ebraica, 118 secondo quella greco-latina: un Salmo molto particolare, unico nel suo genere. Anzitutto lo è per la sua lunghezza: è composto infatti da 176 versetti divisi in 22 strofe di otto versetti ciascuna. Poi ha la peculiarità di essere un “acrostico alfabetico”: è costruito, cioè, secondo l’alfabeto ebraico, che è composto di 22 lettere. Ogni strofa corrisponde ad una lettera di quell’alfabeto, e con tale lettera inizia la prima parola degli otto versetti della strofa. Si tratta di una costruzione letteraria originale e molto impegnativa, in cui l’autore del Salmo ha dovuto dispiegare tutta la sua bravura.
Ma ciò che per noi è più importante è la tematica centrale di questo Salmo: si tratta infatti di un imponente e solenne canto sulla Torah del Signore, cioè sulla sua Legge, termine che, nella sua accezione più ampia e completa, va compreso come insegnamento, istruzione, direttiva di vita; la Torah è rivelazione, è Parola di Dio che interpella l’uomo e ne provoca la risposta di obbedienza fiduciosa e di amore generoso. E di amore per la Parola di Dio è tutto pervaso questo Salmo, che ne celebra la bellezza, la forza salvifica, la capacità di donare gioia e vita. Perché la Legge divina non è giogo pesante di schiavitù, ma dono di grazia che fa liberi e porta alla felicità. «Nei tuoi decreti è la mia delizia, non dimenticherò la tua parola», afferma il Salmista (v. 16); e poi: «Guidami sul sentiero dei tuoi comandi, perché in essi è la mia felicità» (v. 35); e ancora: «Quanto amo la tua legge! La medito tutto il giorno» (v. 97). La Legge del Signore, la sua Parola, è il centro della vita dell’orante; in essa egli trova consolazione, ne fa oggetto di meditazione, la conserva nel suo cuore: «Ripongo nel cuore la tua promessa per non peccare contro di te» (v. 11), è questo il segreto della felicità del Salmista; e poi ancora: «Gli orgogliosi mi hanno coperto di menzogne, ma io con tutto il cuore custodisco i tuoi precetti» (v. 69).
La fedeltà del Salmista nasce dall’ascolto della Parola, da custodire nell’intimo, meditandola e amandola, proprio come Maria, che «custodiva, meditandole nel suo cuore» le parole che le erano state rivolte e gli eventi meravigliosi in cui Dio si rivelava, chiedendo il suo assenso di fede (cfr Lc 2,19.51). E se il nostro Salmo inizia nei primi versetti proclamando “beato” «chi cammina nella Legge del Signore» (v. 1b) e «chi custodisce i suoi insegnamenti» (v. 2a), è ancora la Vergine Maria che porta a compimento la perfetta figura del credente descritto dal Salmista. E’ Lei, infatti, la vera “beata”, proclamata tale da Elisabetta perché «ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,45), ed è a Lei e alla sua fede che Gesù stesso dà testimonianza quando, alla donna che aveva gridato «Beato il grembo che ti ha portato», risponde: «Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano!» (Lc 11,27-28). Certo, Maria è beata perché il suo grembo ha portato il Salvatore, ma soprattutto perché ha accolto l’annuncio di Dio, perché è stata attenta e amorosa custode della sua Parola.
Il Salmo 119 è dunque tutto intessuto intorno a questa Parola di vita e di beatitudine. Se il suo tema centrale è la “Parola” e la “Legge” del Signore, accanto a questi termini ricorrono in quasi tutti i versetti dei sinonimi come “precetti”, “decreti”, “comandi”, “insegnamenti”, “promessa”, “giudizi”; e poi tanti verbi ad essi correlati come osservare, custodire, comprendere, conoscere, amare, meditare, vivere. Tutto l’alfabeto si snoda attraverso le 22 strofe di questo Salmo, e anche tutto il vocabolario del rapporto fiducioso del credente con Dio; vi troviamo la lode, il ringraziamento, la fiducia, ma anche la supplica e il lamento, sempre però pervasi dalla certezza della grazia divina e della potenza della Parola di Dio. Anche i versetti maggiormente segnati dal dolore e dal senso di buio rimangono aperti alla speranza e sono permeati di fede. «La mia vita è incollata alla polvere: fammi vivere secondo la tua parola» (v. 25), prega fiducioso il Salmista; «Io sono come un otre esposto al fumo, non dimentico i tuoi decreti» (v. 83), è il grido di credente. La sua fedeltà, anche se messa alla prova, trova forza nella Parola del Signore: «A chi mi insulta darò una risposta, perché ho fiducia nella tua parola» (v. 42), egli afferma con fermezza; e anche davanti alla prospettiva angosciante della morte, i comandi del Signore sono il suo punto di riferimento e la sua speranza di vittoria: «Per poco non mi hanno fatto sparire dalla terra, ma io non ho abbandonato i tuoi precetti» (v. 87).
La legge divina, oggetto dell’amore appassionato del Salmista e di ogni credente, è fonte di vita. Il desiderio di comprenderla, di osservarla, di orientare ad essa tutto il proprio essere è la caratteristica dell’uomo giusto e fedele al Signore, che la «medita giorno e notte», come recita il Salmo 1 (v. 2); è una legge, quella di Dio, da tenere «sul cuore», come dice il ben noto testo dello Shema nel Deuteronomio:
Ascolta, Israele … Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai (6,4.6-7).
Centro dell’esistenza, la Legge di Dio chiede l’ascolto del cuore, un ascolto fatto di obbedienza non servile, ma filiale, fiduciosa, consapevole. L’ascolto della Parola è incontro personale con il Signore della vita, un incontro che deve tradursi in scelte concrete e diventare cammino e sequela. Quando gli viene chiesto cosa fare per avere la vita eterna, Gesù addita la strada dell’osservanza della Legge, ma indicando come fare per portarla a completezza: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!» (Mc 10,21 e par.). Il compimento della Legge è seguire Gesù, andare sulla strada di Gesù, in compagnia di Gesù.
Il Salmo 119 ci porta dunque all’incontro con il Signore e ci orienta verso il Vangelo. C’è in esso un versetto su cui vorrei ora soffermarmi: è il v. 57: «La mia parte è il Signore; ho deciso di osservare le tue parole». Anche in altri Salmi l’orante afferma che il Signore è la sua “parte”, la sua eredità: «Il Signore è mia parte di eredità e mio calice», recita il Salmo 16 (v. 5a), «Dio è roccia del mio cuore, mia parte per sempre» è la proclamazione del fedele nel Salmo 73 (v. 23 b), e ancora, nel Salmo 142, il Salmista grida al Signore: «Sei tu il mio rifugio, sei tu la mia eredità nella terra dei viventi» (v. 6b).
Questo termine “parte” evoca l’evento della ripartizione della terra promessa tra le tribù d’Israele, quando ai Leviti non venne assegnata alcuna porzione del territorio, perché la loro “parte” era il Signore stesso. Due testi del Pentateuco sono espliciti a tale riguardo, utilizzando il termine in questione: «Il Signore disse ad Aronne: “Tu non avrai alcuna eredità nella loro terra e non ci sarà parte per te in mezzo a loro. Io sono la tua parte e la tua eredità in mezzo agli Israeliti”», così dichiara il Libro dei Numeri (18,20), e il Deuteronomio ribadisce: «Perciò Levi non ha parte né eredità con i suoi fratelli: il Signore è la sua eredità, come gli aveva detto il Signore, tuo Dio» (Dt 10,9; cfr. Dt 18,2; Gs 13,33; Ez 44,28).
I sacerdoti, appartenenti alla tribù di Levi, non possono essere proprietari di terre nel Paese che Dio donava in eredità al suo popolo portando a compimento la promessa fatta ad Abramo (cfr. Gen 12,1-7). Il possesso della terra, elemento fondamentale di stabilità e di possibilità di sopravvivenza, era segno di benedizione, perché implicava la possibilità di costruire una casa, di crescervi dei figli, di coltivare i campi e di vivere dei frutti del suolo. Ebbene i Leviti, mediatori del sacro e della benedizione divina, non possono possedere, come gli altri israeliti, questo segno esteriore della benedizione e questa fonte di sussistenza. Interamente donati al Signore, devono vivere di Lui solo, abbandonati al suo amore provvidente e alla generosità dei fratelli, senza avere eredità perché Dio è la loro parte di eredità, Dio è la loro terra, che li fa vivere in pienezza.
E ora, l’orante del Salmo 119 applica a sé questa realtà: «La mia parte è il Signore». Il suo amore per Dio e per la sua Parola lo porta alla scelta radicale di avere il Signore come unico bene e anche di custodire le sue parole come dono prezioso, più pregiato di ogni eredità, e di ogni possesso terreno. Il nostro versetto infatti ha la possibilità di una doppia traduzione e potrebbe essere reso pure nel modo seguente: «La mia parte, Signore, io ho detto, è di custodire le tue parole». Le due traduzioni non si contraddicono, ma anzi si completano a vicenda: il Salmista sta affermando che la sua parte è il Signore ma che anche custodire le parole divine è la sua eredità, come dirà poi nel v. 111: «Mia eredità per sempre sono i tuoi insegnamenti, perché sono essi la gioia del mio cuore». È questa la felicità del Salmista: a lui, come ai Leviti, è stata data come porzione di eredità la Parola di Dio.
Carissimi fratelli e sorelle, questi versetti sono di grande importanza anche oggi per tutti noi. Innanzitutto per i sacerdoti, chiamati a vivere solo del Signore e della sua Parola, senza altre sicurezze, avendo Lui come unico bene e unica fonte di vera vita. In questa luce si comprende la libera scelta del celibato per il Regno dei cieli da riscoprire nella sua bellezza e forza. Ma questi versetti sono importanti anche per tutti i fedeli, popolo di Dio appartenente a Lui solo, “regno di sacerdoti” per il Signore (cfr. 1Pt 2,9; Ap 1,6; 5,10), chiamati alla radicalità del Vangelo, testimoni della vita portata dal Cristo, nuovo e definitivo “Sommo Sacerdote” che si è offerto in sacrificio per la salvezza del mondo (cfr. Ebr 2,17; 4,14-16; 5,5-10; 9,11ss). Il Signore e la sua Parola: questi sono la nostra “terra”, in cui vivere nella comunione e nella gioia.
Lasciamo dunque che il Signore ci metta nel cuore questo amore per la sua Parola, e ci doni di avere sempre al centro della nostra esistenza Lui e la sua santa volontà. Chiediamo che la nostra preghiera e tutta la nostra vita siano illuminate dalla Parola di Dio, lampada per i nostri passi e luce per il nostro cammino, come dice il Salmo 119 (cfr v. 105), così che il nostro andare sia sicuro, nella terra degli uomini. E Maria, che ha accolto e generato la Parola, ci sia di guida e di conforto, stella polare che indica la via della felicità.
Allora anche noi potremo gioire nella nostra preghiera, come l’orante del Salmo 16, dei doni inaspettati del Signore e dell’immeritata eredità che ci è toccata in sorte:

Il Signore è mia parte di eredità e mio calice …
Per me la sorte è caduta su luoghi deliziosi:
la mia eredità è stupenda (Sal 16,5.6).

BENEDETTO XVI – « SORGI, SIGNORE! SALVAMI! »: SALMO 3 (2011)

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BENEDETTO XVI – « SORGI, SIGNORE! SALVAMI! »: SALMO 3

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 7 settembre 2011

Cari fratelli e sorelle,

riprendiamo oggi le Udienze in Piazza San Pietro e, nella “scuola della preghiera” che stiamo vivendo insieme in queste Catechesi del mercoledì, vorrei iniziare a meditare su alcuni Salmi, che, come dicevo nel giugno scorso, formano il “libro di preghiera” per eccellenza. Il primo Salmo su cui mi soffermo è un Salmo di lamento e di supplica pervaso di profonda fiducia, in cui la certezza della presenza di Dio fonda la preghiera che scaturisce da una condizione di estrema difficoltà in cui si trova l’orante. Si tratta del Salmo 3, riferito dalla tradizione ebraica a Davide nel momento in cui fugge dal figlio Assalonne (cfr v. 1): è uno degli episodi più drammatici e sofferti nella vita del re, quando suo figlio usurpa il suo trono regale e lo costringe a lasciare Gerusalemme per salvarsi la vita (cfr 2Sam 15ss). La situazione di pericolo e di angoscia sperimentata da Davide fa dunque da sottofondo a questa preghiera e aiuta a comprenderla, presentandosi come la situazione tipica in cui un tale Salmo può essere recitato. Nel grido del Salmista, ogni uomo può riconoscere quei sentimenti di dolore, di amarezza e insieme di fiducia in Dio che, secondo la narrazione biblica, avevano accompagnato la fuga di Davide dalla sua città. Il Salmo inizia con un’invocazione al Signore:

«Signore, quanti sono i miei avversari! Molti contro di me insorgono. Molti dicono della mia vita: “Per lui non c’è salvezza in Dio!”» (vv. 2-3).

La descrizione che l’orante fa della sua situazione è quindi segnata da toni fortemente drammatici. Per tre volte si ribadisce l’idea di moltitudine – “numerosi”, “molti”, “tanti” – che nel testo originale è detta con la stessa radice ebraica, così da sottolineare ancora di più l’enormità del pericolo, in modo ripetitivo, quasi martellante. Questa insistenza sul numero e la grandezza dei nemici serve a esprimere la percezione, da parte del Salmista, dell’assoluta sproporzione esistente tra lui e i suoi persecutori, una sproporzione che giustifica e fonda l’urgenza della sua richiesta di aiuto: gli oppressori sono tanti, prendono il sopravvento, mentre l’orante è solo e inerme, in balìa dei suoi aggressori. Eppure, la prima parola che il Salmista pronuncia è “Signore”; il suo grido inizia con l’invocazione a Dio. Una moltitudine incombe e insorge contro di lui, generando una paura che ingigantisce la minaccia facendola apparire ancora più grande e terrificante; ma l’orante non si lascia vincere da questa visione di morte, mantiene saldo il rapporto con il Dio della vita e a Lui per prima cosa si rivolge, in cerca di aiuto. Però i nemici tentano anche di spezzare questo legame con Dio e di incrinare la fede della loro vittima. Essi insinuano che il Signore non può intervenire, affermano che neppure Dio può salvarlo. L’aggressione quindi non è solo fisica, ma tocca la dimensione spirituale: “il Signore non può salvarlo” – dicono -, il nucleo centrale dell’animo del Salmista va aggredito. È l’estrema tentazione a cui il credente è sottoposto, è la tentazione di perdere la fede, la fiducia nella vicinanza di Dio. Il giusto supera l’ultima prova, resta saldo nella fede e nella certezza della verità e nella piena fiducia in Dio, e proprio così trova la vita e la verità. Mi sembra che qui il Salmo ci tocchi molto personalmente: in tanti problemi siamo tentati di pensare che forse anche Dio non mi salva, non mi conosce, forse non ne ha possibilità; la tentazione contro la fede è l’ultima aggressione del nemico, e a questo dobbiamo resistere così troviamo Dio e troviamo la vita. L’orante del nostro Salmo è quindi chiamato a rispondere con la fede agli attacchi degli empi: i nemici – come ho detto – negano che Dio possa aiutarlo, egli invece Lo invoca, Lo chiama per nome, “Signore”, e poi si rivolge a Lui con un “tu” enfatico, che esprime una rapporto saldo, solido, e racchiude in sé la certezza della risposta divina:

«Ma tu sei mio scudo Signore, sei la mia gloria e tieni alta la mia testa. A gran voce grido al Signore ed egli mi risponde dalla sua santa montagna» (vv. 4-5).

La visione dei nemici ora scompare, non hanno vinto perché chi crede in Dio è sicuro che Dio è il suo amico: resta solo il “Tu” di Dio, ai “molti” si contrappone ora uno solo, ma molto più grande e potente di molti avversari. Il Signore è aiuto, difesa, salvezza; come scudo protegge chi si affida a Lui, e gli fa sollevare la testa, nel gesto di trionfo e di vittoria. L’uomo non è più solo, i nemici non sono imbattibili come sembravano, perché il Signore ascolta il grido dell’oppresso e risponde dal luogo della sua presenza, dal suo monte santo. L’uomo grida, nell’angoscia, nel pericolo, nel dolore; l’uomo chiede aiuto, e Dio risponde. Questo intrecciarsi di grido umano e risposta divina è la dialettica della preghiera e la chiave di lettura di tutta la storia della salvezza. Il grido esprime il bisogno di aiuto e si appella alla fedeltà dell’altro; gridare vuol dire porre un gesto di fede nella vicinanza e nella disponibilità all’ascolto di Dio. La preghiera esprime la certezza di una presenza divina già sperimentata e creduta, che nella risposta salvifica di Dio si manifesta in pienezza. Questo è rilevante: che nella nostra preghiera sia importante, presente, la certezza della presenza di Dio. Così, il Salmista, che si sente assediato dalla morte, confessa la sua fede nel Dio della vita che, come scudo, lo avvolge all’intorno con una protezione invulnerabile; chi pensava di essere ormai perduto può sollevare il capo, perché il Signore lo salva; l’orante, minacciato e schernito, è nella gloria, perché Dio è la sua gloria. La risposta divina che accoglie la preghiera dona al Salmista una sicurezza totale; è finita anche la paura, e il grido si acquieta nella pace, in una profonda tranquillità interiore:

«Io mi corico, mi addormento e mi risveglio: il Signore mi sostiene. Non temo la folla numerosa che intorno a me si è accampata» (vv. 6-7).

L’orante, pur in mezzo al pericolo e alla battaglia, può addormentarsi tranquillo, in un inequivocabile atteggiamento di abbandono fiducioso. Intorno a lui gli avversari si accampano, lo assediano, sono tanti, si ergono contro di lui, lo deridono e tentano di farlo cadere, ma egli invece si corica e dorme tranquillo e sereno, sicuro della presenza di Dio. E al risveglio, trova Dio ancora accanto a sé, come custode che non dorme (cfr Sal 121,3-4), che lo sostiene, lo tiene per mano, non lo abbandona mai. La paura della morte è vinta dalla presenza di Colui che non muore. E proprio la notte, popolata di timori atavici, la notte dolorosa della solitudine e dell’attesa angosciata, ora si trasforma: ciò che evoca la morte diventa presenza dell’Eterno. Alla visibilità dell’assalto nemico, massiccio, imponente, si contrappone l’invisibile presenza di Dio, con tutta la sua invincibile potenza. Ed è a Lui che di nuovo il Salmista, dopo le sue espressioni di fiducia, rivolge la preghiera: «Sorgi, Signore! Salvami, Dio mio!» (v. 8a). Gli aggressori “si innalzavano” (cfr v. 2) contro la loro vittima, chi invece “si alzerà” è il Signore, e sarà per abbatterli. Dio lo salverà, rispondendo al suo grido. Perciò il Salmo si chiude con la visione della liberazione dal pericolo che uccide e dalla tentazione che può far perire. Dopo la richiesta rivolta al Signore di alzarsi a salvare, l’orante descrive la vittoria divina: i nemici che, con la loro ingiusta e crudele oppressione, sono simbolo di tutto ciò che si oppone a Dio e al suo piano di salvezza vengono sconfitti. Colpiti alla bocca, non potranno più aggredire con la loro distruttiva violenza e non potranno più insinuare il male del dubbio nella presenza e nell’azione di Dio: il loro parlare insensato e blasfemo è definitivamente smentito e ridotto al silenzio dall’intervento salvifico del Signore (cfr v. 8bc). Così, il Salmista può concludere la sua preghiera con una frase dalle connotazioni liturgiche che celebra, nella gratitudine e nella lode, il Dio della vita: «La salvezza viene dal Signore, sul tuo popolo la tua benedizione» (v. 9). Cari fratelli e sorelle, il Salmo 3 ci ha presentato una supplica piena di fiducia e di consolazione. Pregando questo Salmo, possiamo fare nostri i sentimenti del Salmista, figura del giusto perseguitato che trova in Gesù il suo compimento. Nel dolore, nel pericolo, nell’amarezza dell’incomprensione e dell’offesa, le parole del Salmo aprono il nostro cuore alla certezza confortante della fede. Dio è sempre vicino – anche nelle difficoltà, nei problemi, nelle oscurità della vita – ascolta, risponde e salva nel suo modo. Ma bisogna saper riconoscere la sua presenza e accettare le sue vie, come Davide nella sua fuga umiliante dal figlio Assalonne, come il giusto perseguitato del Libro della Sapienza e, ultimamente e compiutamente, come il Signore Gesù sul Golgota. E quando, agli occhi degli empi, Dio sembra non intervenire e il Figlio muore, proprio allora si manifesta, per tutti i credenti, la vera gloria e la definitiva realizzazione della salvezza. Che il Signore ci doni fede, venga in aiuto della nostra debolezza e ci renda capaci di credere e di pregare in ogni angoscia, nelle notti dolorose del dubbio e nei lunghi giorni del dolore, abbandonandoci con fiducia a Lui, che è nostro “scudo” e nostra “gloria”. Grazie.

GIOVANNI PAOLO II – (Sal 148, 1-6)

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GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 17 luglio 2002

Salmo 148: Glorificazione di Dio Signore e Creatore Lodi della Domenica della 3a settimana (Sal 148, 1-6)

1. Il Salmo 148 che ora si è levato a Dio costituisce un vero «cantico delle creature», una sorta di Te Deum dell’Antico Testamento, un alleluia cosmico che coinvolge tutto e tutti nella lode divina. Così lo commenta un esegeta contemporaneo: «Il salmista, chiamandoli per nome, mette in ordine gli esseri: sopra il cielo, due astri secondo i tempi, e a parte le stelle; da un lato gli alberi da frutto, dall’altro i cedri; su di un piano i rettili, e su un altro gli uccelli; qui i principi e là i popoli; in due file, forse dandosi la mano, giovani e fanciulle… Dio li ha stabiliti dando loro posto e funzione; l’uomo li accoglie, dando loro posto nel linguaggio, e così disposti li conduce alla celebrazione liturgica. L’uomo è « pastore dell’essere » o liturgo della creazione» (L. Alonso Schökel, Trenta salmi: poesia e preghiera, Bologna 1982, p. 499). Seguiamo anche noi questo coro universale, che risuona nell’abside del cielo e che ha come tempio il cosmo intero. Lasciamoci conquistare dal respiro della lode che tutte le creature innalzano al loro Creatore. 2. Nel cielo troviamo i cantori dell’universo stellare: gli astri più lontani, le schiere degli angeli, il sole e la luna, le stelle lucenti, i «cieli dei cieli» (cfr v. 4), cioè lo spazio stellare, le acque superiori che l’uomo della Bibbia immagina conservate in serbatoi prima di riversarsi come piogge sulla terra. L’alleluia, cioè l’invito a «lodare il Signore», echeggia almeno otto volte e ha come meta finale l’ordine e l’armonia degli esseri celesti: «Ha posto una legge che non passa» (v. 6). Lo sguardo si volge poi all’orizzonte terrestre dove si snoda una processione di cantori, almeno ventidue, cioè una specie di alfabeto di lode, disseminato sul nostro pianeta. Ecco i mostri marini e gli abissi, simboli del caos acquatico su cui è fondata la terra (cfr Sal 23,2), secondo la concezione cosmologica degli antichi semiti. Il Padre della Chiesa san Basilio osservava: «Neppure l’abisso fu giudicato spregevole dal salmista, che lo ha accolto nel coro generale della creazione, anzi con un linguaggio suo proprio completa anch’egli armoniosamente l’inno al Creatore» (Homiliae in hexaemeron, III, 9: PG 29,75). 3. La processione continua con le creature dell’atmosfera: il fuoco delle folgori, la grandine, la neve, la nebbia e il vento tempestoso, considerato un veloce messaggero di Dio (cfr Sal 148,8). Subentrano poi i monti e le colline, ritenute popolarmente le creature più antiche della terra (cfr v. 9a). Il regno vegetale è rappresentato dagli alberi da frutto e dai cedri (cfr v. 9b). Il mondo animale, invece, è presente attraverso le fiere, il bestiame, i rettili ed i volatili (cfr v. 10). E infine, ecco l’uomo che presiede la liturgia della creazione. Egli è definito secondo tutte le età e distinzioni: fanciulli, giovani e vecchi, principi, re e nazioni (cfr vv. 11-12). 4. Affidiamo ora a san Giovanni Crisostomo il compito di gettare uno sguardo complessivo su questo immenso coro. Egli lo fa con parole che rimandano anche al Cantico dei tre giovani nella fornace ardente, da noi meditato nella scorsa catechesi. Il grande Padre della Chiesa e patriarca di Costantinopoli afferma: «Per la loro grande rettitudine d’animo i santi, quando si accingono a rendere grazie a Dio, usano chiamare molti a partecipare alla loro lode, esortandoli a intraprendere insieme con loro questa bella liturgia. Questo fecero anche i tre fanciulli nella fornace, quando chiamarono l’intera creazione a dar lode per il beneficio ricevuto e a cantare inni a Dio (Dn 3). Lo stesso fa anche questo Salmo, chiamando ambedue le parti del mondo, quella che sta in alto e quella che sta in basso, quella sensibile e quella intelligibile. Così fece anche il profeta Isaia, quando disse: « Giubilino i cieli e si rallegri la terra, perché Dio ha avuto pietà del suo popolo » (Is 49,13). E di nuovo così si esprime il Salterio: « Quando Israele uscì dall’Egitto, la casa di Giacobbe da un popolo barbaro, i monti saltellarono come arieti e le colline come agnelli di un gregge » (Sal 113,1.4). E altrove in Isaia: « Le nubi facciano piovere la giustizia » (Is 45,8). Infatti i santi, non ritenendosi sufficienti essi soli nel dar lode al Signore, si volgono da ogni parte coinvolgendo tutti nell’innodia comune» (Expositio in psalmum CXLVIII: PG 55, 484-485). 5. Siamo invitati anche noi ad associarci a questo immenso coro, divenendo voce esplicita di ogni creatura e lodando Dio nelle due dimensioni fondamentali del suo mistero. Da un lato, dobbiamo adorare la sua grandezza trascendente, «perché solo il suo nome è sublime, la sua gloria risplende sulla terra e nei cieli», come dice il nostro Salmo (v. 13). D’altro lato, riconosciamo la sua bontà condiscendente, poiché Dio è vicino alle sue creature e viene specialmente in aiuto al suo popolo: «Egli ha sollevato la potenza del suo popolo… popolo che egli ama» (v. 14), come ancora afferma il Salmista. Di fronte al Creatore onnipotente e misericordioso raccogliamo, allora, l’invito di sant’Agostino a lodarlo, esaltarlo e celebrarlo attraverso le sue opere: «Quando tu osservi queste creature e ne godi e ti sollevi all’Artefice di tutto e dalle cose create per via d’intelletto contempli i suoi attributi invisibili, allora si leva la sua confessione sulla terra e nel cielo… Se son belle le creature, quanto non sarà più bello il Creatore?» (Esposizioni sui Salmi, IV, Roma 1977, pp. 887-889).

 

SALMI – A CURA DI ENZO BIANCHI

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SALMI – A CURA DI ENZO BIANCHI

IL CONTENUTO
Il Salterio si presenta suddiviso in cinque libri scanditi da una dossologia finale; il Quinto libro è concluso da una piccola collezione di Salmi (dal 146 al 150), detti alleluyatici perché hanno come titolo l’espressione «Lodate il Signore» (halelûyah), che fungono da dossologia conclusiva non solo del Quinto libro ma dell’intero Salterio (dal greco psaltérion, lo strumento a corde che accompagnava i Salmi).
Questa antica suddivisione, risalente almeno al Il secolo a.C. ma probabilmente più antica, riproduce la suddivisione in cinque libri della Torah (Genesi, Esodo, Levitico, Numeri, Deuteronomio) e sottolinea l’autorevolezza dei Salterio: anch’esso è una Torah! La dossologia finale di ciascun libro si accompagna a una beatitudine che troviamo all’interno di ognuno dei Salmi che chiudono i cinque libri: 41,2; 72,17; 89,16; 106,3; 146,5 (all’inizio della collezione alleluyatica conclusiva dei Salterio). Il doppio registro della «beatitudine dell’uomo» e della «lode di Dio» scandisce così ciascuno dei libri dei Salterio. Ma si può dire di più: visto che i Salmi 1 e 2 costituiscono il «prologo» dell’intero Salterio e sono racchiusi dal concetto della beatitudine dell’uomo (1,1; 2,12), e visto che i Salmi 146-150, che costituiscono l’epilogo laudativo del Salterio, sono interamente pervasi dalla lode di Dio, è l’intero libro dei Salterio a essere racchiuso – secondo un tipico procedimento stilistico della letteratura ebraica detto «inclusione» -dal doppio registro della beatitudine dell’uomo e della lode di Dio. li Salterio è cosi un libro dell’uomo e di Dio, un libro teandrico, che indica all’uomo la via della felicità affermando che questa si compie nella lode di Dio: nei Salmi 146-150 la radice hll, «lodare», ricorre ben 31 volte e il Salmo 145, che di fatto è l’ultimo del corpo del Salterio – essendo i Salmi 146-150 l’epilogo – è, come recita la sua soprascritta al versetto 1, una «lode», una tehillâ.
La testimonianza di un popolo che sapeva pregare. Il Salterio è forse il libro biblico più particolare. Si tratta di una raccolta di 150 componimenti poetico-religiosi, differenti per autore, data di composizione, ambiente di origine, tonalità letteraria, lunghezza, modalità di composizione. Accanto al brevissimo Salmo 117 con i suoi due soli versetti, vi è il maestoso Salmo 119 composto da ben 176 versetti. Vi sono Salmi «studiati a tavolino», redatti da capo a fondo con l’elaborato ricorso ad artifici letterari raffinati, come il già ricordato 119; altri, invece, mostrano le tracce e il peso della storia nella stratificazione letteraria di cui sono portatori, come il Salmo 68, costituito da un nucleo originario antichissimo che celebrava una vittoria militare all’epoca dei giudici, da una successiva «rilettura» che lo ha adattato al tempo della monarchia di Giuda, e infine dall’intervento con glosse e ampliamenti di una terza «mano» nell’epoca postesilica. Tutto ciò rende impossibile parlare di una teologia dei Salmi compatta e unitaria.
Tuttavia tali componimenti hanno in comune il fatto di essere preghiere, di essere le parole che hanno retto il dialogo fra Israele e il suo Dio. È con questa prospettiva particolare che essi si collocano all’interno della struttura teologica centrale con cui Israele ha letto il proprio rapporto con Jhwh: «l’alleanza». I Salmi costituiscono la risposta di Israele alla parola di Dio, al suo intervento nella storia: essi sono «preghiere», e la «teologia del Salterio», se cosi si può dire, è essenzialmente una teologia della preghiera biblica. Questa preghiera conosce una grande quantità di inflessioni e modulazioni, parallela all’estrema diversità delle situazioni esistenziali e storiche: il Salterio è preghiera nella vita e nella storia, anzi, è storia e vita messe in preghiera. Esso può dunque essere giustamente considerato la migliore «Scuola di preghiera» in quanto tende a unificare vita e preghiera, storia e preghiera: esso insegna che «la preghiera è vivere alla presenza di Dio». Anche in una prospettiva cristiana, la quale ha al suo centro l’incarnazione e individua la storia e il mondo come il luogo della risposta a Dio, essi restano la preghiera per eccellenza: la Liturgia delle ore, vale a dire la preghiera ufficiale della chiesa, è intessuta essenzialmente di Salmi e afferma la sostanziale irrinunciabilità dei Salmi per la chiesa. E non sarebbe difficile mostrare come le grandi tematiche che attraversano la preghiera salmica (la confessione del nome salvifico di Dio, il riconoscimento della fraternità che lega i credenti nel Signore, la preghiera per l’avvento dei suo Regno, la confessione di peccato e la richiesta di perdono ecc.) sfociano quasi come in un compendio nella preghiera che Gesù ha insegnato ai suoi discepoli, il Padre nostro (cf. E. Beaucamp, Israël en prière. Dès Psaumes au Notre Père, Cerf, Paris 1985). Né si deve dimenticare che i Salmi, essendo pregati in tutte le confessioni cristiane, sono preghiera «ecumenica» per eccellenza.
I Salmi sono lode di Dio. I Salmi attestano che i due polmoni della preghiera biblica sono «la supplica» e «la lode». O forse, meglio, la lode e la supplica. Infatti, la lode costituisce l’orizzonte inglobante di tutta la preghiera di Israele. «La lode non è soltanto una « forma letteraria » all’interno del Salterio; la lode di Dio risuona in tutti i Salmi ed è pronunciata anche de profundis, dal profondo dell’angoscia. Lodare Dio: questa è la peculiarità di Israele, poiché nella lode è espresso il riconoscimento che il popolo di Dio è consapevole di essere « semplicemente dipendente » dal suo Dio e, al tempo stesso, che deve se stesso e tutto ciò che ha ricevuto e riceve alla bontà di Dio creatore. La lode è quindi la risposta tipica di Israele» (H. J. Kraus, Teologia dei Salmi, Paideia, Brescia 1989, p. 109). La supplica implica sempre la lode (perché la lode è anzitutto confessione di fede nel nome di Dio e questo è sempre presente nelle suppliche, anche le più disperate, come invocazione del volto e dei nome che solo può salvare) e la supplica tende sempre alla lode, com’è ben visibile nei Salmi di supplica che terminano con tonalità di lode (cf. le due parti dei Salmo 22, la prima sotto il segno dell’angoscia – versetti 2-22 – e la seconda impregnata di gioia e di esultanza – versetti 23-32; si veda anche l’espressione «ancora lo celebrerò! » dei levita esiliato che si esprime con tono di lamento in Salmi 42-43). Così, sebbene le suppliche siano il genere di preghiera più presente nel Salterio, si comprende il nome di «Lodi» (Tehillîm) che la tradizione ebraica ha attribuito all’insieme del libro. L’intersecarsi di questi diversi registri di preghiera e di atteggiamenti davanti a Dio (domanda e ringraziamento, lamento ed esultanza, grido angosciato e fiducia, lacrime e risa) dice l’intrinsecità del rapporto fra lode e supplica: « Quando ho levato il mio grido a lui, / la mia bocca già cantava la sua lode» (66,17).
I Salmi sono preghiera personale e collettiva. L’interscambio colto a proposito della lode e della supplica riguarda anche la dimensione personale e collettiva della preghiera del Salterio. Spesso queste dimensioni sono compresenti ìn uno stesso Salmo (cf. 22; 51; 130): a volte forse perché l’orante è il re, dunque una personalità corporativa che abbraccia in sé il destino del popolo, altre volte forse perché un Salmo originariamente individuale è stato rimaneggiato in senso collettivo per meglio adattarlo alla preghiera comunitaria. In ogni caso, al di là delle spiegazioni di dettaglio, va rilevato che la dimensione teologica dell’alleanza implica una intrinsecità fra «io» e «noi». Nei Salmi di ringraziamento l’orante invita i presenti al tempio a unirsi alla sua lode nella piena coscienza che il beneficio che il Signore gli ha procurato gli è stato ottenuto non grazie ai propri meriti, ma alla propria appartenenza al popolo con cui Dio ha stretto alleanza (cf. 34,4); la supplica dell’orante che invoca il perdono dei proprio peccato in vista della propria restaurazione personale e della propria riammissione alla presenza di Dio è seguita dall’invocazione a Dio per la ricostruzione delle mura di Gerusalemme e la ripresa del culto al tempio (51,3-19 e 20-21). La stessa utilizzazione comunitaria e liturgica di Salmi composti da un individuo fa sì che « io » del singolo e «io» di Israele si collochino in situazione di circolarità e non di esclusione. In ogni caso, il fatto che le preghiere contenute nel Salterio siano destinate a essere cantate e musicate indica che esse trovavano nella liturgia il loro luogo di destinazione. La qual cosa non ha impedito che divenissero testi usati anche nella pietà personale. Il Salterio tuttavia lascia trasparire numerose situazioni liturgiche, rituali e cultuali in cui venivano utilizzati i Salmi: processioni (48,13-15; 68,25-26; 118,26-27), pellegrinaggi (84; la collezione dei 15 Canti delle salite, espressione presente nelle soprascritte dei Salmi 120-134), sacrifici (50,23; 66,13-15; 116,17 ecc.), liturgie di ingresso al tempio (15; 24), benedizioni sacerdotali (115,14-15; 118,26; 128,5; 134,3), oracoli (12,6; 60,8-10; 81,7-17).
I Salmi sono musica e gestualità. Il riferimento a numerosi strumenti musicali (cf. 150,3-5) mostra l’estrema vivezza di queste liturgie: strumenti a corda (arpa, lira, cetra), fiati (flauti, liuti, oboe), corni (sia naturali che artificiali, cioè di bronzo o rame o argento), e poi cimbali, tamburi, campanelle… Ma lo strumento per eccellenza della preghiera salmica, e biblica in genere, è il corpo: «Il fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all’anima, ma al contrario perché l’anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di « mormorio », « sussurro ». Il corpo è il luogo dell’anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: « Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore? » » (P. Beauchamp, « La prière à l’école des Psaumes », in O. Odelain – R. Séguineau, Concordance de la Bible. Les Psaumes, Desclée de Brouwer, Paris 1980, P. XVII). Ecco dunque che il corpo si esprime nella preghiera inginocchiandosi (95,6), levando in alto le mani (141,2), protendendo in avanti le mani (143,6), sciogliendo le membra in danze (149,3), battendo le mani (47,2), prostrandosi faccia a terra (29,2), alzando gli occhi verso l’alto in segno di supplica (123) ecc. È cosi che i Salmi strappano la preghiera ai rischi di cerebralità e la presentano come linguaggio globale, di tutto l’uomo.
I Salmi sono poesia. Questa totalità di espressione dell’uomo trova la sua più adeguata manifestazione nella forma poetica: non bisogna dimenticare che i Salmi sono poesia e che pertanto la musicalità e il ritmo, le assonanze e le allitterazioni, cosi come tutti gli altri elementi stilistici della poetica ebraica che compongono la trama dei Salmi, sono essenziali per penetrarli, o meglio, per lasciarsene penetrare. Senza addentrarsi nella grande ricchezza della poetica ebraica, basti qui ricordare che la regola fondamentale della poesia ebraica si basa sul fatto che la lingua ebraica è accentuale, regolata dall’accento tonico distribuito fra pause e cesure. Ogni parola ha un accento su cui cade il tono della voce nel canto o nella recitazione, e il ritmo si adatta al carattere proprio di ciascun Salmo: i Salmi sapienziali, meditativi, avranno più frequentemente un ritmo pacato e disteso di 3+3 accenti (per esempio 1); le suppliche hanno spesso il ritmo detto qinâ («lamento»), un ritmo strozzato di 3+2 accenti che riproduce il parlare sincopato di chi è preso da singhiozzi e pianto (42-43). Tuttavia molti Salmi non presentano affatto una regolare struttura ritmica o per la lunga e stratificata storia letteraria che li ha prodotti, o per le corruzioni e lacune che si possono essere prodotte nel corso della tradizione manoscritta.
Altra regola essenziale della poesia ebraica è quella del «parallelismo»: un concetto è ripetuto una o più volte con parole diverse, con espressioni variate, per ottenere lo scopo di una adeguata interiorizzazione. I Salmi delle salite (120-134), tutti databili all’epoca postesilica – eccetto il Salmo 132, di origine più antica – sono redatti facendo ricorso al procedimento della «ripetizione»: una stessa parola o espressione è ripetuta più volte per aiutare la memorizzazione del testo, tra l’altro sempre molto breve (tranne, ancora, il Salmo 132). Si trattava infatti di componimenti che dovevano essere recitati durante il pellegrinaggio a Sion (detto «la salita», poiché a Gerusalemme, data la sua collocazione geografica, «si sale»: cf. Vangelo secondo Marco 10,33), e dunque dovevano essere semplici, adatti a tutti i livelli della popolazione, e facilmente memorizzabili.
Al «parallelismo sinonimico» (6,2) si affianca il «parallelismo antitetico», in cui un’idea è rafforzata dal suo contrario: «Gli uni contano sui carri, gli altri sui cavalli; / noi invochiamo il nome di Jhwh nostro Dio; / quelli si piegano e cadono, / noi restiamo in piedi e siamo saldi» (20,8-9).
Il « parallelismo sintetico » si riferisce a un concetto che, espresso nel primo membro di un versetto, viene completato dal secondo: « La volontà del Signore è luminosa / dà trasparenza allo sguardo » (1 9,9cd).
Il «parallelismo ascendente» mostra il continuo e progressivo accrescimento dell’idea fondamentale espressa: «Riconoscete a Jhwh, figli di Dio, / riconoscete a Jhwh gloria e potenza / riconoscete a Jhwh la gloria del suo nome» (29,1-2a).
Preghiera di tutto l’uomo, i Salmi rivelano la grande quantità di linguaggi che può esprimere la relazione con il Signore. Il sussurro, il brusio sommesso della meditazione (1,2), i singhiozzi e le lacrime del pianto del supplice (6,7-8; 56,9), la protesta nei confronti di un agire di Dio che non si riesce a comprendere («Perché, Signore?», 88,15), il silenzio (65,2), il grido e l’urlo (22,6; 61,2; 69,4), l’invettiva (58; 83,10ss), il lamento (5,2), la riflessione e il dialogo interiore (4,5; 42,6.12; 43,5; 73,16), il riso incontenibile della gioia straripante (126,2). Ogni linguaggio rinvia a una situazione esistenziale e storica che l’orante cerca di leggere davanti a Dio.
La molteplicità di situazioni e di atteggiamenti espressa nei Salmi si riflette sulla variegata gamma di generi letterari presenti nel Salterio che di seguito analizzeremo. Occorre però dapprima premettere che in realtà molti Salmi presentano una tale mescolanza di generi al loro interno che risulta quasi impossibile rinchiuderli in una sola griglia. Così il 36 combina il registro sapienziale con quello della supplica; il 52 contiene elementi sapienziali, ma anche i toni dell’invettiva e della requisitoria, del lamento personale e del ringraziamento; il 75 può essere annoverato tra i ringraziamenti, benché vi emerga la tematica della regalità di Jhwh e presenta elementi liturgico-profetici; il 95 e il 115 sembrano tradire un’origine liturgica senza che sia possibile specificare il tipo di liturgia; il 125 unisce il tono della supplica a quello della fiducia; il 126 è un Salmo di ringraziamento che diviene lamentazione e supplica; il 129 vede coabitare in sé i toni della supplica, della fiducia e del ringraziamento… E questo, che potrebbe essere verificato su molti altri Salmi, da un lato dice la precarietà dell’attribuzione di un Salmo a un determinato genere (mentre spesso si tratta piuttosto di giudicare la preponderanza di un tono rispetto a un altro), dall’altro attesta che i Salmi riflettono anzitutto la complessità e la non linearità della vita e della storia più ancora che la regolarità ingessata di forme e moduli letterari rigidi.

N.B.: Questo testo è solo una piccola parte dell’introduzione ai Salmi
curata da Enzo Bianchi e riportata nel volume citato più sopra.

GIOVANNI PAOLO II – Sir 36, 1-5.10-13 – Preghiera per il popolo santo di Dio

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GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì 23 gennaio 2002

Cantico: Sir 36, 1-5.10-13 – Preghiera per il popolo santo di Dio
Lodi Lunedì 2a Settimana (Lettura: Sir 36, 1-2.4-5.12-13).

1. All’interno dell’Antico Testamento non esiste solo il libro ufficiale della preghiera del Popolo di Dio, cioè il Salterio. Molte pagine bibliche sono costellate di cantici, inni, salmi, suppliche, orazioni, invocazioni che salgono al Signore, come in risposta alla sua parola. La Bibbia si rivela, così, un dialogo tra Dio e l’umanità, un incontro che è posto sotto il sigillo della parola divina, della grazia, dell’amore.
È il caso della supplica che ora abbiamo rivolto al « Signore Dio dell’universo » (v. 1). Essa è contenuta nel libro del Siracide, un sapiente che raccolse le sue riflessioni, i suoi consigli, i suoi canti probabilmente attorno al 190-180 a.C., alle soglie dell’epopea di liberazione vissuta da Israele sotto la guida dei fratelli Maccabei. Un nipote di questo sapiente nel 138 a.C. tradusse in greco, come si narra nel prologo apposto al volume, l’opera del nonno così da offrire questi insegnamenti a una cerchia più ampia di lettori e discepoli.
Il libro del Siracide è chiamato « Ecclesiastico » dalla tradizione cristiana. Non essendo stato accolto nel canone ebraico, questo libro finì col caratterizzare, insieme ad altri, la cosiddetta « veritas christiana ». In tal modo i valori proposti da quest’opera sapienziale entrarono nell’educazione cristiana dell’età patristica, soprattutto in ambito monastico, divenendo come un manuale del comportamento pratico dei discepoli di Cristo.
2. L’invocazione del capitolo 36 del Siracide, assunta come preghiera delle Lodi dalla Liturgia delle Ore in una forma semplificata, si muove lungo alcune linee tematiche.
Vi troviamo, dapprima, l’implorazione che Dio intervenga a favore d’Israele e contro le nazioni straniere che l’opprimono. Nel passato, Dio ha mostrato la sua santità quando ha castigato le colpe del suo popolo, mettendolo in mano ai nemici. Adesso l’orante prega Dio di mostrare la sua grandezza col reprimere la prepotenza degli oppressori e con l’instaurare una nuova era dai colori messianici.
Certo, la supplica riflette la tradizione orante di Israele, ed in realtà è carica di reminiscenze bibliche. Per certi versi, essa può considerarsi come un modello di preghiera da usare per il tempo della persecuzione e dell’oppressione, com’era quello in cui viveva l’autore, sotto il dominio piuttosto aspro e severo dei sovrani stranieri siro-ellenistici.
3. La prima parte di questa orazione è aperta da un appello ardente rivolto al Signore perché abbia pietà e guardi (cfr v. 1). Ma subito l’attenzione è protesa verso l’azione divina, che è esaltata attraverso una serie di verbi molto suggestivi: « Abbi pietà… guarda… infondi il timore… alza la mano… mostrati grande… rinnova i segni… compi prodigi… glorifica la tua mano e il tuo braccio destro… ».
Il Dio della Bibbia non è indifferente nei confronti del male. E anche se le sue vie non sono le nostre vie, i suoi tempi e progetti sono diversi dai nostri (cfr Is 55, 8-9), tuttavia Egli si schiera dalla parte delle vittime e si presenta come giudice severo dei violenti, degli oppressori, dei trionfatori che non conoscono pietà.
Ma questo suo intervento non tende alla distruzione. Mostrando la sua potenza e la sua fedeltà nell’amore, Egli può generare anche nella coscienza del malvagio un fremito che lo porti a conversione. « Ti riconoscano, come noi abbiamo riconosciuto che non c’è un Dio fuori di te, Signore » (v. 4).
4. La seconda parte dell’inno apre una prospettiva più positiva. Infatti, mentre la prima parte chiede l’intervento di Dio contro i nemici, la seconda non parla più dei nemici, ma chiede i favori di Dio per Israele, implora la sua pietà per il popolo eletto e per la città santa, Gerusalemme.
Il sogno di un ritorno di tutti gli esiliati, compresi quelli del regno settentrionale, diventa l’oggetto della preghiera: « Raduna tutte le tribù di Giacobbe, rendi loro il possesso come era al principio » (v. 10). Viene richiesta così una specie di rinascita dell’intero Israele, come ai tempi felici dell’occupazione di tutta la Terra Promessa.
Per rendere la preghiera più pressante, l’orante insiste sulla relazione che lega Dio a Israele e a Gerusalemme. Israele viene designato come « il popolo chiamato con il tuo nome », quello « che hai trattato come un primogenito »; Gerusalemme è la « tua città santa », la « tua dimora ». Il desiderio espresso poi è che la relazione diventi ancor più stretta e quindi più gloriosa: « Riempi Sion della tua maestà, il tuo popolo della tua gloria » (v. 13). Col riempire della sua maestà il Tempio di Gerusalemme, che attirerà a sé tutte le nazioni (cfr Is 2, 2-4; Mic 4, 1-3), il Signore riempirà il suo popolo della sua gloria.
5. Nella Bibbia il lamento dei sofferenti non si esaurisce mai nella disperazione, ma è sempre aperto alla speranza. Alla base c’è la certezza che il Signore non abbandona i suoi figli, non lascia cadere dalle sue mani coloro che Egli ha plasmato.
La selezione fatta dalla Liturgia ha tralasciato un’espressione felice nella nostra preghiera. Essa chiede a Dio di rendere « testimonianza alle creature che sono tue fin dal principio » (v. 14). Fin dall’eternità Dio ha un progetto di amore e di salvezza destinato a tutte le creature, chiamate a divenire suo popolo. È un disegno che san Paolo riconoscerà « rivelato ai suoi santi apostoli e profeti per mezzo dello Spirito:… disegno eterno che Dio ha attuato in Cristo Gesù nostro Signore » (Ef 3, 5-11).

SALMI 113-118: L’HALLEL EGIZIANO

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SALMI 113-118: L’HALLEL EGIZIANO

Rita Torti Mazzi

I Sal 113-118 costituiscono l’Hallel, che già nel Talmud babilonese è detto «egiziano», in quanto, come commenta Rashi a bBerakot 56a[1], è detto a Pasqua per celebrare l’uscita dall’Egitto. Secondo i maestri furono scelti questi salmi, perché contengono cinque temi fondamentali della fede giudaica: l’esodo (Sal 114,1), la divisione del Mar Rosso (Sal 114,3), il dono della Torah al Sinai (Sal 114,4; cf. Gdc 5,4-5), la risurrezione dei morti (Sal 116,9) e la sofferenza che precede la venuta del Messia (Sal 115,1) (bPesachim 118a). Tutto converge verso la Pasqua ultima, verso la redenzione messianica.
L’Hallel è nato per la Pasqua e la sua origine sarebbe molto antica: «Al tempo in cui Israele uscì dall’Egitto, uscì dalla sua schiavitù di fango e mattoni, fu allora che dissero l’Hallel» (Midrash Salmi 113,2). Se Rabbi Eleazaro l’attribuiva a Mosè e al popolo d’Israele «quando erano risaliti dal mare», altri invece l’attribuivano a Davide, ma si preferiva la prima opinione, perché non sembrava possibile «che il popolo d’Israele avesse offerto l’agnello pasquale o preso i rami di palma [il lulav, composto da palma, mirto, salice e cedro, che si agita a Sukkot], senza avere mai detto canto [di lode]» (bPesachim 117a).

L’Hallel nella liturgia di Israele
Si sa dalla Mishnah che l’Hallel era cantato nel tempio durante gli otto giorni della festa delle Capanne (Sukkah IV 5), il 14 Nisan, nel momento in cui nel tempio si offriva il sacrificio pasquale (Pesachim V 7), e nelle case durante il Seder pasquale (Pesachim X 6). Dopo la distruzione del tempio divenne parte integrante della liturgia sinagogale. Il Talmud stabilisce che si reciti completo, dopo la camidah (preghiera delle Diciotto benedizioni) del mattino, negli otto giorni della festa delle Capanne (Sukkot), negli otto giorni della «festa delle luci» (o della «Dedicazione», Chanukkah), nel primo giorno di Pasqua (Pesach) e della festa delle Settimane (Shavucot) [nella diaspora nei primi due giorni] e nel Seder pasquale (bArachin 10b). Si recita invece abbreviato (omettendo i Sal 115,1-11 e 116,1-11) negli ultimi sei giorni di Pesach (secondo il Midrash Dio rimproverò gli angeli che si apprestavano a intonare canti di giubilo mentre gli egiziani perivano nel mare, dicendo: «Le opere delle mie mani periscono nel mare e voi osate cantare canti di giubilo?») e anche all’inizio di ogni mese (Rosh Chodesh), secondo un uso sviluppatosi prima in Babilonia e poi in Israele (bTaanit 28b).
Nel Seder pasquale si recita l’Hallel diviso. Prima di bere la seconda coppa, chi presiede ricorda che in ogni generazione ognuno ha l’obbligo di considerarsi come se egli stesso fosse uscito dall’Egitto (cf. Es 13,8) e per questo deve «ringraziare, lodare, glorificare, esaltare colui che ha fatto ai nostri padri e a noi tutti questi miracoli […]. Diciamo dunque davanti a lui: Alleluia!» (Pesachim X 5). Seguono i Sal 113-114 e poi la benedizione della «redenzione», di cui la seconda parte, attribuita a Rabbi Aqiba (verso il 135 d.C.), ha un evidente carattere messianico (Pesachim X 6).
La seconda parte dell’Hallel (Sal 115-118) si recita invece dopo il pasto sulla quarta coppa e si conclude con la «benedizione del canto» (bPesachim 118a).
Non si sarebbe potuto recitare l’Hallel al di fuori della festa: chi lo dice ogni giorno lo svilisce e lo profana (bShabbat 118b). La gioia che vi si esprime è incontenibile: deve essere cantato «con bellezza» (Cantico Rabba II 31) e cioè con forza, con entusiasmo. Si dice: «La Pasqua “nella casa” e l’Hallel fora il tetto» (Cantico Rabba, II 31)[2]. Uno dei modi più comuni e antichi di recitarlo comporta la ripetizione di «alleluia» da parte dell’assemblea a ogni mezzo versetto dei salmi: complessivamente 123 volte[3].

Unità e molteplicità
L’Hallel è sempre stato sentito nella tradizione ebraica come un unico poema, con cui Israele loda il Signore per le meraviglie da lui compiute e lo ringrazia. È composto secondo un ordine; se non si leggesse secondo quest’ordine non si adempirebbe il precetto (bMeghillah 17a). Riassume tutta la storia della salvezza:
«Quando Israele uscì dall’Egitto» [Sal 114,1] si riferisce al passato. «Non per noi, Signore, non per noi» [Sal 115,1] alle presenti generazioni; «Amo, perché il Signore ascolta la mia voce» [116,1] ai giorni del Messia; «Legate la festa con funi» [118,27] ai giorni di Gog e Magog; «Mio Dio sei tu e ti rendo grazie» [118,28] al secolo futuro (jBerakot II 4; jMegillah II 1. et al.).
Ma, pur facendo parte di un insieme, i singoli salmi che costituiscono l’Hallel (Sal 113-118), restano evidentemente dei testi a sé stanti, ciascuno collocato nel proprio tempo e ciascuno con il proprio genere letterario.

Salmo 113: invito alla lode universale
Apre l’Hallel il Sal 113, che nel v. 1 invita «‘i servi del Signore» (possono esserlo, perché sono stati liberati dalla «schiavitù» d’Egitto) a una lode universale, che abbraccia il tempo («ora e sempre», v. 2) e lo spazio («dal sorgere del sole al suo tramonto», v. 3, e quindi dall’est all’ovest, su tutta la terra).
1 Alleluia
Lodate, servi del Signore,
lodate il nome del Signore.
2 Sia benedetto il nome del Signore
ora e sempre.
3 Dal sorgere del sole al suo tramonto,
sia lodato il nome del Signore.
4 Su tutti i popoli eccelso è il Signore
più alta dei cieli è la sua gloria.
5 Chi è pari al Signore nostro Dio
che siede nell’alto
6 e si china a guardare
nei cieli e sulla terra?
7 Solleva l’indigente dalla polvere,
dall’immondizia rialza il povero
8 per farlo sedere tra i principi
tra i principi del suo popolo
9 fa abitare la sterile nella sua casa
quale madre gioiosa di figli.

In ebraico il salmo inizia e termina con l’alleluia, che abbraccia a un tempo la lode e il nome divino (Hallelu-Yah = «Lodate YHWH»), unificando la composizione in una grande inclusione. E l’alleluia risuona ancora due volte nel v. 1, nell’imperativo hallelu («lodate»). Nei vv. 2-3, disposti chiasticamente, si riprende l’invito, esortando a «benedire», a «lodare» il nome del Signore (cf. Zc 14,9).
La motivazione della lode è la «grandezza» del Signore, su cui si insiste nella seconda strofa, affermandone con forza l’incomparabilità (v. 5): è «eccelso» sopra tutti i popoli; la sua gloria (kabod) arriva fin sopra i cieli (v. 4: cf. Is 6,3; Sal 29), ma mentre «sta in alto (siede per giudicare)» allo stesso tempo «si abbassa per guardare» (vv. 5-6; cf. Is 57,15). Cerca gli ultimi della terra e ne capovolge la situazione: i vv. 7-9 mostrano che il Signore è grande perché esalta gli umili, i poveri (cf. Is 66,2). La maestà di Dio si manifesta nella sua misericordia.
«Chi è pari al Signore nostro Dio?», chiede il salmista con una domanda retorica nel Sal 113,5. Che nessuno sia pari al Dio d’Israele lo dicono chiaramente i due salmi che seguono immediatamente, i Sal 114 e 115, considerati nella LXX un’unità (113A e 113B): il primo mostra il cosmo intero sconvolto dalla presenza del Signore accanto al suo popolo, il secondo ne proclama la superiorità assoluta sugli idoli dei pagani.

Salmo 114
1 Alleluia
Quando Israele uscì dall’Egitto,
la casa di Giacobbe da un popolo barbaro,
2 Giuda divenne il suo santuario,
Israele il suo dominio.
3 Il mare vide e si ritrasse,
il Giordano si volse indietro;
4 i monti saltellarono come arieti,
le colline come agnelli di un gregge.
5 Che hai tu, mare, per fuggire
E tu, Giordano, perché torni indietro?
6 Perché voi, monti, saltellate come arieti?
E voi, colline, come agnelli di un gregge?
7 Trema, o terra, davanti al Signore,
davanti al Dio di Giacobbe,
8 che muta la rupe in un lago,
la roccia in sorgenti d’acqua.

Nei primi quattro versi si riassume il cammino che porta il popolo di Dio dall’Egitto alla terra promessa: il mare e il Giordano si fanno da parte per lasciarlo passare; montagne e colline tremano, quando Dio si manifesta sul Sinai per dare la Torah a Israele.
Il locutore sa cosa sta succedendo, ma finge di non sapere per suscitare una certa attesa, mettendo così in evidenza l’eccezionalità dell’avvenimento: perché il mare, il fiume, le montagne sono sconvolti da questo popolo in marcia? Il salmista non cerca una risposta alla sua domanda, né si preoccupa di darla, ma nel v. 7 invita la terra a tremare davanti al Dio di Giacobbe. Allora tutto diventa chiaro: lo sconvolgimento cosmico è provocato dalla presenza di Dio accanto al suo popolo[4].
Il Signore è il Dio creatore, che fa sgorgare l’acqua dalla roccia (v. 8). La sua potenza creatrice trasforma tutto: la roccia diventa stagno e il granito sorgente (v. 8: cf. Es 17,6): anche in altri passi l’episodio di Meriba è descritto come un prodigio di Dio (Is 48,21; Sal 107,35) come una figura dell’esodo futuro, una nuova creazione (Is 35,6s; 41,18; 43,20). Anche a Israele Dio dà una nuova identità, ne fa il suo popolo e lo conduce nella terra promessa ai Padri: il v. 1 sottolinea sia la sua separazione dall’Egitto, sia la relazione di appartenenza a Dio (cf. v. 7).

Salmo 115
1 Non a noi, Signore, non a noi,
ma al tuo nome da’ gloria,
per la tua fedeltà, per la tua grazia.
2 Perché i popoli dovrebbero dire:
«Dov’è il loro Dio?»
3 Il nostro Dio è nei cieli,
egli opera tutto ciò che vuole.
4 Gli idoli delle genti sono argento e oro
opera delle mani dell’uomo.
5 Hanno bocca e non parlano,
hanno occhi e non vedono,
6 hanno orecchi e non odono,
hanno narici e non odorano.
7 Hanno mani e non palpano,
hanno piedi e non camminano;
dalla gola non emettono suoni.
8 Sia come loro chi li fabbrica
e chiunque in essi confida.
9 Israele confida nel Signore:
egli è loro aiuto e loro scudo.
10 Confida nel Signore la casa di Aronne:
egli è loro aiuto e loro scudo.
11 Confida nel Signore chiunque lo teme:
egli è loro aiuto e loro scudo.
12 Il Signore si ricorda di noi, ci benedice:
benedice la casa d’Israele,
benedice la casa di Aronne.
13 Il Signore benedice quelli che lo temono,
benedice i piccoli e i grandi.
14 Vi renda fecondi il Signore,
voi e i vostri figli.
15 Siate benedetti dal Signore
che ha fatto cieli e terra.
16 I cieli sono i cieli del Signore
ma ha dato la terra l’ha data ai figli dell’uomo.
17 Non i morti lodano il Signore
né quanti scendono nella tomba.
18 ma noi, i viventi, benediciamo il Signore
ora e per sempre

L’inizio è insolito: un grido improvviso rivolto al destinatario della lode, il cui nome (YHWH) è invocato fin dal v. 1 e ripetuto poi in ogni verso nei vv. 9-18. Si vuole scuotere il Signore, sottolineando che sono in gioco il suo onore, la sua fama. Dio non può venire meno, senza perdere di credibilità, alle qualità essenziali su cui si fonda l’alleanza: l’amore, la magnanimità, la fedeltà, la lealtà, la verità.
Nel duplice «Non a noi!» risuona il desiderio di uscire dalla vergogna: se Dio glorifica il suo nome, anche i suoi fedeli verranno glorificati[5].

Se gli altri popoli dubitano delle capacità del Dio d’Israele ed esprimono il loro scherno con la domanda: «Dov’è il loro Dio?» (v. 2), l’orante col suo «perché?» esorta il suo Dio a intervenire e, replicando in base al significato letterale dell’interrogativa degli avversari, li mette a tacere con una stupenda risposta: «Il nostro Dio è nei cieli e opera tutto ciò che vuole!» (v. 3).
Reagendo all’insulto, si glorifica Dio, riuscendo a ribaltare la situazione: non il Signore, ma gli idoli dei pagani sono un nulla; nei vv. 4-8 se ne sottolinea l’impotenza con sette negazioni enfatiche. Gli idoli sono opera delle mani dell’uomo: chi confida in essi resta confuso. Possono invece confidare nel Signore, Israele, la casa di Aronne, coloro che lo temono: per tre volte si ripete che egli è veramente «loro aiuto» e «loro scudo» (vv. 9-11). Se gli idoli sono impotenti (vv. 4-8), non lo è certamente il Signore, che si ricorda del suo popolo e lo benedice (vv. 12-13). È il Creatore del cielo e della terra, e, come ha benedetto in passato, così benedirà anche in futuro: una benedizione che è fecondità (vv. 14-15). E la fede diventa lode, una lode che dura per tutta la vita, costituendo l’atteggiamento fondamentale del credente (vv. 17-18).

Salmo 116: l’azione di grazie
La lode è concatenata alla supplica nel Sal 116, nel quale LXX e Vulgata vedono due blocchi distinti (i vv. 1-9 costituiscono il Sal 114; i vv. 10-19 il Sal 115).
1 Alleluia.
Amo il Signore perché ascolta
il grido della mia preghiera.
2 Verso di me ha teso l’orecchio
nel giorno in cui lo invocavo.
3 Mi stringevano funi di morte,
ero preso nei lacci degli inferi.
Mi opprimevano tristezza e angoscia.
4 e ho invocato il nome del Signore:
ti prego, Signore, salvami!
5 Buono e giusto è il Signore,
il nostro Dio è misericordioso.
6 Il Signore protegge gli umili;
ero misero ed egli mi ha salvato.
7 Ritorna, anima mia, alla tua pace,
poiché il Signore ti ha beneficato;
8 egli mi ha sottratto dalla morte,
ha liberato i miei occhi dalle lacrime,
ha preservato i miei piedi dalla caduta.
9 Camminerò alla presenza del Signore
sulla terra dei viventi.
10 Alleluia.
Ho creduto anche quando dicevo:
«Sono troppo infelice».
11 Ho detto con sgomento:
«Ogni uomo è inganno».
12 Che cosa renderò al Signore
per quanto mi ha dato?
13 Alzerò il calice della salvezza,
e invocherò il nome del Signore.
14 Adempierò i miei voti al Signore,
davanti a tutto il suo popolo.
15 Preziosa agli occhi del Signore
è la morte dei suoi fedeli.
16 Sì, io sono il tuo servo, Signore,
io sono tuo servo, figlio della tua ancella;
hai spezzato le mie catene.
17 A te offrirò sacrifici di lode
e invocherò il nome del Signore.
18 Adempirò i miei voti al Signore
davanti a tutto il suo popolo,
19 negli atri della casa del Signore
in mezzo a te, Gerusalemme

Si può considerare il salmo una composizione unitaria, racchiusa dal termine «invocare» nei vv. 2 e 17. Lo stesso verbo ricorre anche nei vv. 4 e 13, ma la prima volta il salmista ha invocato il nome del Signore per essere salvato dalla morte (v. 3), la seconda volta, invece, lo invoca per rendergli grazie. I vv. 8-9 in posizione centrale[6] mettono bene a fuoco la situazione: l’orante ha attraversato una prova mortale, ma è stato liberato; resterà in vita. Cosa potrà dare al Signore in cambio di quanto ha ricevuto? (v. 12).
Ha ricevuto la vita e pertanto deve offrire la vita che gli è stata donata. L’orante comprende che il fatto di non morire gli permette di continuare a invocare il nome di YHWH e questa volta non per chiedere aiuto, ma semplicemente per rendere grazie[7].
La supplica era il grido della sua fede; la stessa fede viene ora espressa nell’azione di grazie: alzerà «il calice della salvezza» invocando il nome del Signore davanti al suo popolo (questa seconda parte del Sal 116 è diventata nella liturgia cristiana il salmo eucaristico per eccellenza).

Salmo 117
In questo salmo, il più breve di tutto il Salterio, l’invito alla lode è universale, anche se la motivazione è nazionale:
1 Alleluia.
Lodate il Signore, popoli tutti,
Voi tutte nazioni, dategli gloria;
2 perché forte è il suo amore per noi
e la fedeltà del Signore dura in eterno.

Israele parla alle nazioni: «La lode ha per contenuto un avvenimento annunciato da Israele, annunciato fuori di Israele. Israele che loda è Israele che testimonia»[8]. In Rm 15,9 Paolo, citando questo salmo in una catena di citazioni bibliche, dirà che le nazioni pagane «glorificano Dio per la sua misericordia».
Salmo 118
L’Hallel termina col Sal 118, che ricorda agli ebrei la liberazione dall’Egitto, la salvezza operata dalla destra del Signore: la Pasqua è il giorno fatto dal Signore per il suo popolo (v. 24), il giorno in cui Israele è stato scelto come pietra angolare (v. 22) per costruire la dimora di Dio in mezzo agli uomini.
Il salmo si apre e si chiude con l’invito a celebrare il Signore «perché è buono, perché eterna è la sua misericordia» (vv. 1.29). I diversi gruppi a cui viene rivolto l’invito (cf. Sal 115,9-11) rispondono in coro: «Eterna è la sua misericordia» (vv. 2.3.4), ritornello ripetuto in ogni versetto anche nel Sal 136.
Un personaggio principale (il re? Il popolo rappresentato da un individuo?), superato un grave pericolo, rende grazie pubblicamente: loda il Signore perché l’ha esaudito, l’ha salvato (vv. 14-15.21). L’intera comunità chiede: hoshya-na = salvaci! (v. 25). È l’Osanna (cf. Mc 11,9), utilizzato dopo l’esilio (in particolare nella festa delle Capanne) essenzialmente come domanda. Si rinnova la domanda per il futuro, acclamando il Signore, l’unico capace di salvare. Al culmine della cerimonia (vv. 28-29) il personaggio principale pronuncia il suo atto di fede e di fedeltà verso il Signore («Sei tu il mio Dio») e, al tempo stesso, la sua azione di grazie, a cui tutti sono invitati a unirsi.

[1] I testi del Talmud babilonese sono preceduti dalla lettera b, quelli del Talmud palestinese (o di Gerusalemme) dalla lettera j.
[2] Oppure: «La Pasqua “come un’oliva” [la porzione di agnello pasquale che spetta a ciascuno è piccola come un’oliva] e l’Hallel fora il tetto» (jPesachim VII 12).
[3] Cf. U. Neri (ed.), Alleluia. Interpretazioni ebraiche dell’Hallel di Pasqua (Sal 113-118), Città Nuova, Roma 1981.
[4] R. Torti Mazzi, Quando interrogare è pregare. La domanda nel Salterio alla luce della letteratura accadica, San Paolo, Cinisello B. 2003, 276.
[5] Torti Mazzi, Quando interrogare è pregare, 249.
[6] Per l’analisi della struttura, cf. J.N. Aletti – J. Trublet, Approche poétique et théologique des Psaumes. Analyses et methodes, Cerf, Paris 1983, 38-39.
[7] Torti Mazzi, Quando interrogare è pregare, 263.
[8] P. Beauchamp, Salmi notte e giorno, Cittadella, Assisi 1983, 115.

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