Archive pour août, 2013

San Luca Evangelista

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XXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO ANNO C – COMMENTO ALLE LETTURE (29 AGOSTO 2010 PDF)

http://www.aclimilano.it/old/vitacristiana/documenti/liturgia/29_agosto_10_rm.pdf

 XXII DOMENICA TEMPO ORDINARIO ANNO C (29 AGOSTO 2010  PDF)

A CURA DI MARCO BONARINI – GRUPPO “VITA CRISTIANA” DELLE ACLI DI ROMA

Testi ed appunti per la liturgia domenicale possono diventare dono da offrire per maturare il nostro sacerdozio comune nella Parola di Dio. Nei circoli e tra cristiani che partecipano alla liturgia il testo può servire per una personale riflessione settimanale.

Siracide 3,19-21.30-31
19 Figlio, compi le tue opere con mitezza,
e sarai amato più di un uomo generoso.
20 Quanto più sei grande, tanto più fatti
umile,
e troverai grazia davanti al Signore.
Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi,
ma ai miti Dio rivela i suoi segreti.
21 Perché grande è la potenza del Signore,
e dagli umili egli è glorificato.
30 Per la misera condizione del superbo non
c’è rimedio,
perché in lui è radicata la pianta del male.
31 Il cuore sapiente medita le parabole,
un orecchio attento è quanto desidera il
saggio.

Siracide 3,19-21.30-31
Questo elogio dell’umile è un insegnamento sapienziale di grande rilevanza, soprattutto in tempo come il nostro in cui crediamo di avere in mano la vita, ma dove basta una piccola eruzione o un incidente su una piattaforma petrolifera dovuto a incuria degli uomini, che ci accorgiamo come siamo poca cosa di fronte alla creazione. Ma l’uomo è stato fatto poco meno degli angeli, dice il salmo 8. In questo oscillare tra miseria e grandezza, il Siracide ci mostra una via di sapienza: l’umiltà e la mitezza, che i vangeli ci mostrano essere caratteristiche importanti di Gesù («Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» Mt 11,29). Se uno agisce con mitezza, viene riconosciuto come un figlio di Dio e detto beato. Non è la grandezza umana che ci fa grandi davanti a Dio, ma l’umiltà, tanto più se siamo importanti agli occhi del mondo. Dio disprezza i superbi, ma si fa amico dei miti per confidare loro il suo disegno di salvezza. Dio è grande e solo gli umili possono riconoscerlo come tale, perché non lo sentono in concorrenza con la loro grandezza che si può mutare in superbia. I superbi, proprio perché tali, difficilmente possono convertirsi, perché manca loro la radice: riconoscere la loro creaturalità come dono gratuito di Dio. Solo il meditare le parabole e i proverbi dei sapienti rende umili, perché di fronte al mistero della sapienza di Dio, anche l’intelligenza dell’uomo ritrova le sue vere proporzioni: capaci di grandi cose nei vari campi del sapere, ma sempre fragili nella vita. Il saggio sa ascoltare la sapienza che viene dalla vita, se ne fa attento uditore, per poterla vivere e comunicare a chi ha un cuore in ricerca sincera della sapienza che viene da Dio.

Ebrei 12,18-19.22-24
Fratelli, 18 non vi siete avvicinati a qualcosa
di tangibile né a un fuoco ardente né a
oscurità, tenebra e tempesta, 19 né a squillo di
tromba e a suono di parole, mentre quelli che
lo udivano scongiuravano Dio di non
rivolgere più a loro la parola.
22 Voi invece vi siete accostati al monte Sion,
alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme
celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza
festosa 23 e all’assemblea dei primogeniti i
cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice
di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, 24 a
Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.

Ebrei 12,18-19.22-24
L’autore della lettera mostra in questo brano la differenza tra l’alleanza del Sinai e quella in Gesù. La prima è stata un avvicinarsi al Signore attraverso dei segni della sua presenza per ascoltare la sua voce: il monte Sinai, il fuoco ardente, squilli di tromba. Tutti i presenti erano presi dal timore di ascoltare direttamente la parola del Signore e preferivano una mediazione di cui fu incaricato Mosè: a lui Dio si rivolgeva nella tenda e poi riferiva al popolo.
Con Gesù ci si è accostati al monte Sion, il monte su cui è costruita Gerusalemme. Accostarsi alla Gerusalemme terrena implica accostarsi anche alla Gerusalemme celeste, dove gli angeli e i redenti – i primogeniti e i giusti resi perfetti – insieme celebrano la perenne liturgia di lode al Signore che salva in Gesù, il mediatore della nuova alleanza, perché compie l’antica e la rende definitiva. L’alleanza è nuova anche perché non è più mediante segni viene rivelato Dio, ma il mediatore stesso è Dio e uomo contemporaneamente. Gesù riunisce in sé la natura divina e quella umana, pertanto è in lui che la mediazione tra l’uomo e Dio si compie. A lui dobbiamo rivolgere i nostri occhi per contemplare questo mistero di salvezza che si manifesta a noi e che nella liturgia di lode eucaristica
celebriamo in comunione con la Gerusalemme celeste.

Luca 14,1.7-14
Avvenne che 1 un sabato Gesù si recò a casa
di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi
stavano a osservarlo.
7 Diceva agli invitati una parabola, notando
come sceglievano i primi posti: 8 «Quando sei
invitato a nozze da qualcuno, non metterti al
primo posto, perché non ci sia un altro
invitato più degno di te, 9 e colui che ha
invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il
posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare
l’ultimo posto. 10 Invece, quando sei invitato,
va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando
viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico,
vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore
davanti a tutti i commensali. 11 Perché
chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si
umilia sarà esaltato».
12 Disse poi a colui che l’aveva invitato:
«Quando offri un pranzo o una cena, non
invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi
parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta
non ti invitino anch’essi e tu abbia il
contraccambio. 13 Al contrario, quando offri
un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi,
ciechi; 14 e sarai beato perché non hanno da
ricambiarti. Riceverai infatti la tua
ricompensa alla risurrezione dei giusti».
modo esemplare la situazione che vuole illuminare.

Luca 14,1.7-14
La parabola in questione non è di difficile lettura, in quanto ricalca in modo esemplare la situazione che vuole illuminare Gli invitati guardano Gesù perché sono interessati alla sua persona e in particolare alla sua capacità di guarigione (14,2-6). Gesù prende poi la parola per far notare i criteri di scelti utilizzati dai presenti per sedersi a mensa. La parabola tuttavia usa la situazione presente per illuminare la situazione di quando il regno di Dio si realizzerà come un matrimonio. Non si può “sgomitare” per occupare i primi posti nel regno di Dio, perché essi sono destinati ai prediletti dal Signore: i piccoli e i poveri della storia, mentre coloro che in qualche modo hanno una posizione, anche nel regno, vengono dopo, perché l’unico criterio di merito è quello dell’amore per Dio che si fa amore concreto per i fratelli. Ora umiliarsi vuol dire che ci si rimette alla volontà del Padre per ricevere onore da lui, quell’onore che deriva dall’amore e tutti sappiamo quanto siamo tiepidi in questo amore per Dio che si fa servizio dei fratelli. Gesù poi si rivolge a colui che lo ha invitato, uno dei capi dei farisei, per indicargli il criterio con cui invitare a un pranzo o a una cena: non tanto gli amici, che si sentono in debito e possono ricambiare l’invito, quanto il gratuito accogliere chi non può ricambiare l’invito, perché non ne ha i mezzi. E’ così infatti che fa il Signore nei nostri confronti: noi non possiamo ripagarlo per l’invito a entrare nel suo regno, perché non abbiamo nulla che Dio non abbia già, e in questo il suo invito è veramente gratuito. Solo un amore sincero verso i fratelli è quanto si aspetta da noi il Signore perché possiamo così entrare tutti nella sua gioia che nasce dalla sua misericordia per i piccoli e i poveri.

1 SETTEMBRE 2013 – 22A DOMENICA – T. ORDINARIO C: « CON UNA CARITÀ UMILE »

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/05-Ordinario/Omelie/22-Domenica-2013_C/22-Domenica-2013_C-MP.html

 1 SETTEMBRE 2013  |  22A DOMENICA – T. ORDINARIO C  | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

« CON UNA CARITÀ UMILE »

Mi ritorna spesso alla mente la figura d’un vescovo al quale fui molto vicino nei nove anni che fu a guida della diocesi di Fossano, mons. Angelo Soracco. Quante volte, meditando sul motto da lui scelto per il suo stemma episcopale – « Humili caritate » – mi veniva spontaneo dire fra me: sono due parole che esprimono a meraviglia lo spirito che informa tutto il comportamento e l’azione del mio vescovo. Non so se egli avesse desunto questo motto programmatico da un altro grande vescovo che lo aveva caro e che lo realizzò meravigliosamente, s. Agostino. Non troviamo queste precise parole nelle letture bibliche di questa domenica, ma vi troviamo il senso profondo, norma di vita per chiunque voglia seguire Gesù.

Umiltà e modestia
La 1ª lettura presenta, dal libro del figlio di Sirach (il « Siracide » o l’ »Ecclesiastico »), una breve scelta di massime che inculcano l’umiltà, l’attenzione alla parola del saggio, l’elemosina. Un’esortazione alla modestia e all’umiltà: « Nella tua attività sii modesto » poi « quanto più sei grande, tanto più umiliati ». Una promessa: « Sarai amato dall’uomo gradito a Dio »; poi « così troverai grazia davanti al Signore, perché dagli umili egli è glorificato ». L’esortazione ritorna nelle parole di Gesù, nelle quali già s. Ambrogio, commentando questa pagina del Vangelo, notava come all’insegnamento sull’umiltà si collega da vicino il richiamo alla carità.
Gesù espone una « parabola », cioè un insegnamento dato in modo indiretto, con un paragone preso dalla vita di tutti i giorni, prima in forma negativa: « Non metterti al primo posto », poi in forma positiva: « Va’ a metterti all’ultimo posto ». Anche qui segue la motivazione: primo, evitare una brutta figura; poi, essere onorato da tutti i commensali. Esito negativo e positivo sono compendiati in una massima scultorea: « Chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato ». Chiunque abbia una conoscenza, anche sommaria e superficiale, della Parola di Dio, sa come sia frequente in essa la riprovazione della superbia, in tutte le sue forme, e come l’umiltà, nei rapporti con Dio e con il prossimo, sia raccomandata quale disposizione essenziale per chi vuole avvicinarsi al Signore. Ma più d’ogni esortazione, promessa o minaccia, dovrebbe valere per il cristiano l’esempio di Gesù presentato da Paolo, che riprende probabilmente un inno in uso nella comunità primitiva: « Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini: apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce » (Fil 2,5-8). Anche per Gesù, all’umiliazione segue l’esaltazione: « Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre » (Fil 2,9-11).
L’ »esaltazione », il premio promesso a chi è umile e modesto, fa arricciare il naso a qualcuno, che ci vede una morale interessata e in fondo egoista. Ma sarà bene notare che premio dell’umiltà è l’apertura all’amore di Dio e degli uomini: « Sarai amato dall’uomo gradito a Dio… troverai grazia davanti al Signore », e che tutto torna a gloria di Dio: « Dagli umili egli è glorificato », come la proclamazione che « Gesù è il Signore » è « a gloria di Dio Padre ». In fondo è sempre l’amore che conta; ora l’umiltà è frutto di amore e via all’amore.

« Invita i poveri »
Del resto, proprio in queste pagine l’esortazione all’umiltà non si può disgiungere dall’invito all’amore, alla carità. « Con umile carità ». Nella 1ª lettura, dove si dice: « L’acqua spegne un fuoco acceso, l’elemosina espia i peccati », non occorre vedere un nesso poiché i detti del saggio si susseguono senza un rigoroso filo logico. Ma nelle parole di Gesù è naturale scorgere un’integrazione di quanto ha detto prima nell’insegnamento rivolto « a colui che l’aveva invitato ». Abbiamo qui un’espressione di quella legge dell’amore che, mentre deve abbracciare tutti senza eccezione, riserva le sue preferenze per i più piccoli, per quelli che hanno più bisogno. « Poveri, storpi, zoppi, ciechi »: la corte dei miracoli. L’esemplificazione è eloquente, l’insegnamento è chiaro. L’invito rivolto ai parenti, agli amici, ai ricchi vicini, è troppo facilmente un invito interessato, come ci suggerisce il nostro proverbio: « ‘L pan mol l’è bôn a rendi – il pane fresco è buono a rendere », mentre non c’è pericolo che l’invito venga ricambiato dai « poveri, storpi, zoppi, ciechi ». Ma la ricompensa verrà dal Signore, e sarà ben più grande, « alla risurrezione dei giusti ». Vogliamo persuaderci che più di tutti i successi e le ricompense terrene vale quella che ci attende nel cielo?
Nel salmo Dio stesso è presentato come l’amico e il benefattore dei poveri: « Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio nella sua santa dimora. Ai derelitti Dio fa abitare una casa, fa uscire con gioia i prigionieri ». È un invito a riconoscerci poveri e ad amare i poveri.
Amarli col cuore e con le opere. Domandarci in qual modo li possiamo aiutare veramente, i vicini e i lontani. Anche con l’ »elemosina », intesa nel senso originario della parola, come atto o dono ispirato da una vera partecipazione alla sofferenza del povero, ma soprattutto nelle forme concrete suggerite dalla situazione in cui viviamo: pagare le imposte secondo il dovuto, riconoscere i diritti e le giuste rivendicazioni di quelli che stanno all’ultimo posto, prendere parte, ciascuno secondo la sua vocazione e le sue possibilità, alla vita politica e amministrativa della comunità. Partecipiamo nella Messa alla « adunanza festosa » di tutta la Chiesa, quella della terra e quella del cielo, evocata dalla lettera gli Ebrei, ci accostiamo « al Mediatore della Nuova Alleanza », Gesù, « sempre presente nella sua Chiesa, e in modo speciale nelle azioni liturgiche… presente nel sacrificio della Messa sia nella persona del ministro, « egli che, offertosi una volta sulla croce, offre ancora se stesso per il ministero dei sacerdoti », sia soprattutto sotto le specie eucaristiche… presente nella sua parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura… presente, infine, quando la Chiesa prega e loda, lui che ha promesso: « Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, là sono io, in mezzo a loro » (Mt 18,20) » (Sacrosanctum Concilium, 7).
L’ »umile carità » ci farà prendere parte con gioia e con frutto, in comunione di fede e di amore, alla nostra celebrazione, nella quale « partecipiamo, pregustandola, alla liturgia celeste [di cui parla la lettera agli Ebrei], che viene celebrata nella santa città di Gerusalemme, verso la quale tendiamo come pellegrini, dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro dei santi e del vero tabernacolo; con tutte le schiere della milizia celeste cantiamo al Signore l’inno di gloria » (Sacrosanctum Concilium, 8).

Da: PELLEGRINO M., Servire la Parola,

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Ildefonso Schuster, Arcivescovo di Milano

Ildefonso Schuster, Arcivescovo di Milano dans immagini sacre alfredo%20ildefonso%20schuster2

http://pierostradella.it/relic/A/alfredo%20ildefonso%20schuster2.html

Publié dans:immagini sacre |on 29 août, 2013 |Pas de commentaires »

ILDEFONSO SCHUSTER – MF 30 AGOSTO – INOS BIFFI

http://www.internetica.it/neocatecumenali/Biffi-teologia.htm

ILDEFONSO SCHUSTER – MF 30 AGOSTO

NON BASTA LA DOTTRINA

INOS BIFFI, L’OSSERVATORE ROMANO 19 GENNAIO 2008

TEOLOGIA

Uno dei compiti principali del pastore d’anime, o diciamo semplicemente del sacerdote, è quello di presiedere e di iniziare alla liturgia. Ma questo è possibile solo se, a sua volta, egli è stato introdotto alla sua comprensione, o alla sua teologia e spiritualità; solo se ha capito il mistero che è chiamato a celebrare e illustrare, facendone il cuore stesso del suo ministero.
Possiamo ancora una volta ricordare il diffuso affanno con cui si va alla ricerca di strategie inedite per l’evangelizzazione e la formazione cristiana: in realtà la più efficace, la più valida e, aggiungiamo, la più nuova rimane quella che da sempre accompagna, per istituzione divina, la vita della Chiesa, cioè la celebrazione dei santi misteri, che segue e traduce l’evangelizzazione e l’accoglienza della fede.
Se la liturgia risulta priva d’interesse e non avvincente, la ragione non sta nel contenuto che si sia logorato: l’occhio e la sensibilità della fede lo avverte sempre vivido ed esuberante.
Solo che quest’occhio e questa sensibilità devono anzitutto contrassegnare lo spirito e lo stile di colui che celebra.
Penso, in questo momento, a un grande liturgo che la Chiesa ebbe nel secolo passato, il cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, che edificava solo al vederlo celebrare. « La sua presenza dava a ogni celebrazione guidata da lui il senso quasi fisicamente percepibile della realtà salvifica che l’azione sacra efficacemente evocava. Non era un colosso, eppure la sua presidenza veniva percepita come qualcosa di determinante e di intenso.
La gente semplice correva a contemplare quest’uomo esiguo e fragile che, nelle vesti del liturgo, diventava un gigante. I suoi gesti erano sempre sciolti e misurati: non c’era niente di teatrale nella sua attitudine. Eppure il suo era davvero uno spettacolo, al tempo stesso spontaneo e affascinante. Intento insieme e assorto, era agli occhi di tutti un testimone eloquente dell’invisibile.
Si immergeva con naturalezza nel mondo del trascendente; tanto da sembrare più spaesato fuori, nella dimensione comune e secolare dell’esistenza. Non aveva bisogno di attardarsi nelle locuzioni e nei gesti per dare spessore e significanza ai riti. Nessuno era più sollecito di lui, che si muoveva entro i sacri misteri con la disinvoltura di chi si sente a casa. Niente perciò di quanto poteva dire o fare acquistava agli occhi dei fedeli maggiore rilevanza di questo « magistero visivo ».
Ciò che contava, ciò che era più prezioso, ciò che in definitiva si iscriveva nei cuori, era la sua testimonianza sacerdotale, che diventava per tutti la più autentica e valida delle « mistagogie »; diventava cioè un invito discreto ed efficace a entrare esistenzialmente nello splendore e nella gioia del mistero della salvezza » (cardinale Giacomo Biffi).
Ora, la prima condizione perché questo avvenga è la formazione teologica del presbitero, esattamente centrata sui punti fondamentali del dogma cristiano, da cui è generata la pietà.
L’impegno principale negli anni della preparazione al ministero non deve essere, infatti, quello di addestrare ai rapporti pre-pastorali, ma quello di iniziare – in un clima di silenzio, di studio prolungato e rigoroso e di orazione – all’assimilazione e alla contemplazione del mistero cristiano. Il resto verrà e sarà fecondo a suo tempo. Oggi, con discutibili e autorizzate motivazioni di avviamento all’apostolato, i seminaristi appaiono troppo distratti.
Passando ai contenuti: il cuore di tutta la formazione teologica deve riguardare la figura di Cristo e in particolare la professione della sua divinità, tanto maggiormente necessaria, quanto più oggi rischia di essere annebbiata. Un movimento di riduzione della figura di Gesù di Nazaret nei confini puramente umani, o una specie di inquietante arianesimo sembrano serpeggiare, come se l’assoluta originalità di Cristo sia il suo essere uomo, e non invece il suo essere un vero uomo che è personalmente Dio, quindi l’unico Rivelatore e, per tutti e in ogni tempo, l’unica via di salvezza.
Del resto, è quello che immediatamente appare dai Vangeli, che nascono dallo stupore suscitato da Colui nel quale, con l’ovvia umanità, constatano una dimensione inattesa e insospettata, quella che lo colloca sul piano stesso della divinità.
Non stupisce che in questo inquietante e serpeggiante offuscamento gli stessi miracoli di Gesù siano intesi come puri simboli, a cui la stessa risurrezione del Signore viene ricondotta.
Il secondo grande dogma al quale va iniziato chi studia teologia riguarda la Chiesa, « Opera di Dio », Corpo di Cristo e suo « sacramento », e quindi sua concreta visibilità, sua iniziale e fondamentale riuscita.
Anche al riguardo non si fatica a incontrare concezioni ecclesiologiche non affatto cattoliche, che interpretano la Chiesa come un insieme di fragili ed effimeri tentativi di esperienza cristiana, differenti l’uno dall’altro, ma alla fine equivalenti, invece che l’imprescindibile e storica mediazione di salvezza per ogni uomo.
Basterebbe vedere con quale leggerezza ne viene contestata l’unità e la santità e con quale compiacenza se ne faccia oggetto di denigrazione, che parrebbe la condizione per essere « profeti », dimenticando che ogni ferita alla Chiesa tocca Gesù Cristo stesso.
Poi viene la formazione teologica relativa ai sacramenti, dove è in atto l’opera della salvezza, a motivo della presenza in essi di Gesù Cristo e del suo Spirito, dai quali i segni ricevono efficacia.
In realtà, un’autentica e stabile educazione al dogma – che non può certo equivalere a una semplice e sterile ripetizione scolastica – deve abbracciare tutte le sue branche, e quindi anche la mariologia, la dottrina del peccato originale, i « Novissimi », con la preoccupazione di ascoltare e di comprendere la splendida Tradizione della fede, che è diventato d’uso emarginare per ascoltare le voci nuove, di teologi e di filosofi, che non raramente seducono con alcune loro dottrine brillanti, ma che, a una riflessione critica, dissolvono l’originalità della Rivelazione.
Ci si potrebbe anche chiedere se riguardo appunto alla mariologia e al peccato originale l’insegnamento sia dappertutto conforme alla dottrina di fede definita.
Si avverte subito che, senza questa formazione dogmatica del pastore d’anime, anche la celebrazione risulterà alterata e priva della sua sostanza, per cui consisterà non in una celebrazione da parte della Chiesa, Sposa di Cristo, della Grazia che redime e che ricrea; né in uno sguardo ammirato e adorante del disegno divino; né in un ministero svolto in persona Christi, e che introduce nel mondo soprannaturale; né in un elogio e in un ringraziamento per l’iniziativa di Dio per la salvezza dell’uomo; equivarrà, invece, alla celebrazione di una iniziativa dell’uomo, a una sua auto-glorificazione.
Senza dubbio, pur fondamentale, l’istruzione dottrinale non basta per l’iniziazione liturgica: occorrono l’esercizio e la coltivazione del gusto e della proprietà, che nulla hanno a che fare con un superficiale liturgismo estetico, ma che sono tanto più necessari quanto più sublime è il livello sul quale i pastori d’anime saranno chiamati a operare e quanto più prezioso è il dono che passa attraverso la loro mediazione rituale.
In ogni caso, se si incontrassero dei ministri della liturgia demotivati, indifferenti, trascurati, la prima ragione andrebbe individuata in una carenza di tipo teologico, nel senso che o si è rimasti alla periferia del dogma, o lo si è per qualche verso contaminato, in particolare per quanto concerne la figura di Gesù Cristo, l’immagine della Chiesa e la concezione dei sacramenti.
Da qui la grave responsabilità di quanti sovrintendono a questa educazione teologica.

L’Osservatore Romano – 19 gennaio 2008

Publié dans:c.CARDINALI, MILANO |on 29 août, 2013 |Pas de commentaires »

LA VIA DEL FRAMMENTO – CENTRALITÀ DELLA BELLEZZA NEL CRISTIANESIMO SECONDO BALTHASAR

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=149

(amo molto la teologia di Balthasar, se riesco, perché non è facile metto qualcosa di altro)

LA BELLEZZA CHE SALVA

CENTRALITÀ DELLA BELLEZZA NEL CRISTIANESIMO SECONDO BALTHASAR

LA VIA DEL FRAMMENTO

sintesi della relazione di Elio Guerriero
Verbania Pallanza, 10 febbraio 2001

Von Balthasar (1905-1988) ha cercato di dare una risposta alla grande domanda che attraversa tutto il 1900 e che oggi, con il processo di globalizzazione, è ancora più attuale: come è possibile che qualcosa di particolare, un frammento, possa avere una rilevanza universale? Come può la vicenda particolare di Gesù di Nazaret avere un valore per l’uomo di ogni luogo e di ogni tempo?
Interessato alla letteratura e alla musica von Balthasar si avvicina alla teologia soprattutto dopo l’incontro con Romano Guardini a Berlino, altro grande teologo che ricorreva alla letteratura per cogliere quelle domande a cui dare una risposta in termini teologici. Di Guardini condivide il rifiuto del soggettivismo di Kant e dell’idealismo tedesco. La realtà non è creata dal soggetto e deve essere percepita in maniera più obiettiva e completa.
Inoltre condivide la visione di Guardini secondo la quale vale la pena di guardare il reale in compagnia dei grandi maestri, come Socrate, Agostino, Dante, Pascal, Kirkegaard, Rilke, Dostoevskij. Insieme con loro si può percepire meglio il reale e accostarsi meglio a Cristo.
Laureatosi in letteratura, von Balthasar decide di diventare gesuita. Frequenta con disagio lo studentato di filosofia dove impera la filosofia scolastica. A Lione incontra De Lubac, che lo avvia alla conoscenza dei padri della Chiesa.
Nel 1939, diventato assistente degli studenti cattolici a Basilea, incontra Adrienne von Speyr che influenzerà profondamente la sua teologia. Cerca di capire- ripeteva spesso Adrienne – Dio non è così. Dio non tiene i conti. Dio è prodigo, è anzitutto colui che dà. Questa visione getta luce sul mistero trinitario: il Padre è colui che non tiene la divinità per sé, ma la dona completamente al Figlio, il quale la restituisce interamente al Padre in gratitudine, nello Spirito dell’agape. E’ questa la grande rivelazione di Adrienne.
Ma come mai vi è il peccato nel mondo e Dio lo permette? Il mondo, le creature, secondo Adrienne, sono il dono gratuito che il Padre fa al Figlio nel desiderio di donare sempre di più, sono come la rosa che l’amato dà all’amata. Di fronte al rifiuto delle creature, di fronte al peccato, il Figlio si offre spontaneamente per andare a riprenderle, per riportarle a casa. Gesù è come il pastore che va alla ricerca della pecorella smarrita.
In questa prospettiva Adrienne dà molta importanza alla discesa agli inferi, come annuncio di solidarietà totale con tutti gli uomini di tutti i tempi: Gesù vive totalmente la solidarietà con tutti.
A Basilea von Balthasar incontra Karl Barth, a cui attribuisce il merito di avere superato definitivamente la visione di Calvino secondo la quale Dio è venuto al mondo per dire sì e no. Dio, per Barth, è venuto al mondo per dire solo sì.
Per fare teologia secondo von Balthasar bisogna essere in qualche modo consanguinei di Dio, bisogna essere santi. Nasce da questa visione la polemica contro i « teologi a tavolino ». Solo nel dono si può capire che Dio non tiene nulla per se stesso, ma si dona. Apprezza di Bernanos la figura del santo che si fa carico del peccato di tanti e di Teresa di Lisieux la via dell’infanzia spirituale, la via del bambino che sta in braccio alla mamma, la via della fiducia gioiosa.
Siamo tutti frammenti, siamo tutti piccole creature, ma con un significato universale. Anche il più piccolo degli uomini è importante per Dio ed è importante per l’uomo.
Non invitato al concilio Vaticano secondo, dedicherà il suo tempo alla stesura della sua monumentale trilogia (Gloria, Teodrammatica e Teologica), che inizia proprio affrontando il tema della bellezza.

la bellezza che è Cristo
Von Balthasar critica severamente il mondo contemporaneo per avere abbandonato la bellezza e per averne smarrito il senso: « la bellezza disinteressata ha preso congedo in punta di piedi dal mondo moderno di interessi per abbandonarlo alla sua cupidità e alla sua tristezza » e, aggiunge « non è più amata e custodita nemmeno nella religione ».
Secondo Balthasar la bellezza è ciò che ha a che fare con la forma, tanto che in latino bello si dice « formosus ». Si coglie la forma percependo l’unità interna. Ciò che ha forma è armonico, ordinato e bello, è cosmo in opposizione a caos. Cogliendo la forma è possibile afferrare il principio organizzativo di ogni essere, che è tanto più strutturato quanto più è perfetto.
La forma – dice Balthasar – splende, si dà a conoscere. Per cercare di entrare nel cuore di una persona non si può fare a meno della sua forma, come per gustare un’opera d’arte.
Ma la luce della bellezza non solo illumina, ma anche nasconde. Quanto più si comprende un’opera d’arte tanto più ci avviciniamo al mistero. Quanto più ci avviciniamo ad una persona, tanto più scopriamo l’altro come alterità. Quanto più si tolgono i veli, tanto più ci avviciniamo a Dio.
Sono due aspetti del reale: da una parte la forma si dà a conoscere con lo splendore, dall’altra, quanto più splende, tanto più nasconde o rivela un mistero.

la liturgia del cosmo
Così quanto più noi ci avviciniamo alla realtà, ci avviciniamo all’altro, tanto più ci avviciniamo al mistero, alla trascendenza, a Dio. Ogni bellezza creata rimanda alla bellezza originaria di Dio, ne è una cifra: « I cieli narrano la gloria di Dio e l’opere delle sue mani annunzia il firmamento ». E’ la liturgia del cosmo. Il cosmo è un canto di bellezza, che può essere innalzato da ogni uomo.
Ma questa liturgia cosmica è come attraversata da una dissonanza, dalla presenza costante e in crescita del peccato, che ostacola sempre più l’uomo a scorgere la bellezza.
Di fronte al diffondersi del peccato Dio intraprende una paziente e straordinaria opera per riportare a casa l’uomo che si è allontanato e corre il rischio di perdersi. Poiché la bellezza del cosmo non basta, Dio decide di rendersi presente con la rivelazione in forme sempre più incisive e radicali. Innanzitutto nelle teofanie dell’Antico Testamento attraverso le quali si manifesta come un Dio che vuole entrare in dialogo con gli uomini rivelando il suo nome. Ma gli israeliti ne abusano.
Dio non si ritrae di fronte alla cattiveria degli uomini, ma si dona ancora di più, inviando i suoi profeti. Ma il popolo li ammazza.

la rivelazione di Dio
A Dio non resta che inviare il proprio Figlio. Ma anche il Figlio viene ucciso.
E’ questa la bellezza della rivelazione di Dio, che come il pastore della parabola, con infinita pazienza cerca in tutti i modi di riportare a casa la recalcitrante pecorella smarrita, senza ricorrere alla violenza, ma con un’opera illimitata di convinzione e di benevolenza.
La bellezza di Dio viene dalla sua azione buona, dal suo andare incontro alla creatura, dal suo venire al mondo per salvare la sua creatura.
Questo è possibile perché in Dio stesso, come svela il mistero trinitario, c’è in Dio fin dall’eternità questo dono. Il Padre, pur avendo la divinità, non la tenne per sé come tesoro geloso, ma la donò al Figlio. Questo gesto iniziale si ripete nella storia, con la venuta del Figlio nel mondo (kenosi), per convincere, come fa la mamma con il suo bambino, la creatura a tornare da lui.

la bellezza di Dio
La bellezza è il dono sproporzionato, la prodigalità di Dio che si manifesta a noi in particolare nella venuta del Figlio nel mondo. La bellezza è il viaggio del Figlio di Dio attraverso la terra per salire sulla croce. La bellezza cristiana è la non forma, è colui da cui si distoglie lo sguardo perché troppo brutto da vedere (canti del servo di Isaia). La bellezza è l’estremo amore di Dio nella gloria del suo morire.
Ma la vertigine di questo amore non termina sulla croce, ma scende sino agli inferi, nella solitudine della morte, nella solidarietà più estrema, per riportare a Dio quanto di imperfetto, di caotico e di deforme c’è nella creazione.
Il viaggio di Cristo nel mondo, di Dio che diventa senza forma per ridar forma al cosmo, per riportare ordine e pace lì dove aveva prevalso il caos e la violenza, è la risurrezione. La risurrezione è l’abbraccio tra Padre e Figlio nello Spirito dell’amore. Gli apostoli, e noi con loro, sono chiamati a rendere testimonianza e a vivere questa esperienza fondamentale di amore, di prodigalità estrema, di bellezza.

Martirio di San Giovanni Battista

Martirio di San Giovanni Battista dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 28 août, 2013 |Pas de commentaires »
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