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I LINGUAGGI DELLA PREGHIERA

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I LINGUAGGI DELLA PREGHIERA

Loris Della Pietra

Sia ben lungi dalla preghiera un’eccessiva quantità di parole, ma non venga meno l’abbondanza di suppliche, se perdura una tensione fervida. Parlare molto, infatti, vuol dire, nel caso della preghiera, compiere una cosa necessaria con parole inutili. Pregare molto, invece, è bussare con costante e devota mozione del cuore presso colui che preghiamo. In effetti questo si fa generalmente più con i lamenti che con i discorsi, con il pianto più che con le parole. Egli d’altra parte pone le nostre lacrime al proprio cospetto; il nostro lamento non è nascosto a colui che fece ogni cosa per mezzo del Verbo e che non cerca parole umane[1].
Definire la preghiera è operazione complessa sia nell’ambito dell’esperienza religiosa in genere, sia nel contesto del cristianesimo, soprattutto perché il momento orante non si lascia esaurire da un’unica definizione che potrebbe essere segnata da influssi culturali o da accentuazioni parziali[2]. Di certo, nel pregare si assiste a un fenomeno singolare per cui l’orante intende mettersi in contatto con l’Altro e l’Altrove e stabilire una comunicazione e un movimento. Siamo dunque nell’ordine del simbolico, per cui vi è una costante dialettica tra il qui e l’oltre, la terra e il cielo, la storia e l’eternità, l’umano e il divino, e dove chi prega si pone in relazione con colui che è pregato e a lui presenta le sue istanze in vista di un benessere globale, di un’autentica salute/salvezza[3].
In quest’ottica, piuttosto che tentare un’astrazione sul concetto di preghiera sembra più proficuo incontrare la preghiera nel terreno della sua manifestazione concreta ponendo particolare attenzione alle modalità “linguistiche” del pregare, ovvero i linguaggi della preghiera, e alle forme peculiari che il soggetto orante abita quando invoca o riconosce la salvezza.
1. Una rete di linguaggi
È proprio la connotazione simbolica dell’atto del pregare e la sua indole comunicativa a supporre una pluralità di linguaggi che coinvolge tutto l’uomo. La simbolicità è inscritta nella struttura corporea dell’essere umano che permette al soggetto di accedere al mondo e di conoscerlo e di percepire il dentro e il fuori, l’alto e il basso, l’io e il tu, rispetto a se stesso[4]. Sia che si tratti di preghiera comunitaria, sia che si tratti di preghiera individuale, l’orante non è mai ripiegato in se stesso, ma volto verso un Altro: qui si ha la ragione della natura gestuale di ogni atto di preghiera. Nel silenzio adorante, nell’espressione verbale o nelle braccia alzate verso il cielo, colui che prega si sporge oltre se stesso, si estroflette e si protende verso il divino. Piegando il proprio corpo o congiungendo le mani, l’orante disegna lo spazio così da creare un’apertura al divino, una possibilità per l’incontro, una premessa affidabile perché ha la forma del corpo[5]. Nell’atto di pregare il soggetto esce da se stesso e si proietta verso l’origine e il compimento della sua vita dilatandosi oltre i limiti e i condizionamenti della razionalità dove tutto è già conosciuto e frequentato:
Se vi è un legame stretto tra la preghiera e il gesto, è perché la preghiera estende l’uomo verso ciò che non è percepibile né pensabile, verso ciò che può essere posto solo come il gesto che muove verso una terra che non si conosce e non si percepisce ancora. Col gesto, con l’azione l’uomo osa andare verso il mondo che solo dopo essere stato raggiunto può venire percepito e conosciuto. Ed è per questo motivo che la preghiera si avvale spesso di metafore che sono tratte da gesti o, comunque, da fenomeni esterni che implicano il movimento con cui l’uomo si estende a tali fenomeni[6].
In questa prospettiva si comprende la multimedialità della preghiera in quanto azione che interessa la totalità della persona la quale, spingendosi oltre se stessa, si dispone all’incontro. Il corpo, nel quale è scritta la verità della persona, si prepara a ricevere il dono sorprendente della presenza di Dio. A questo proposito, è interessante notare come l’evangelista descriva la diversa gestualità del fariseo e del pubblicano nella celebre parabola (Lc 18,9-14): il primo, stando in piedi, di fatto recita un monologo, mentre il secondo, fermatosi a distanza, non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo e si batte il petto; il primo, pronuncia una preghiera piuttosto lunga e formalmente ineccepibile, mentre il secondo dice una sobria invocazione, aperta al novum di Dio. Due atteggiamenti che rivelano una diversa disponibilità all’incontro e alla relazione.
Se autentica premessa della preghiera è l’affidamento all’agire di Dio che precede e sovrasta ogni pretesa umana, anche la preghiera deve garantire il delicato rapporto tra l’attivazione dei linguaggi e la loro sospensione in modo che la relazione sia data dall’attività (parlare, protendere le mani, muoversi) e la docilità all’agire di Dio sia data dall’inattività (silenzio, moderazione nei gesti e nel movimento). Esemplare, in questo senso, è il guardare: azione più importante di quanto si pensi nella preghiera. La tradizione cristiana conosce la preghiera davanti al Santissimo Sacramento, alla croce e alle icone, preghiera che può avvenire anche senza parole, dove lo sguardo stesso si fa elevazione e non si fissa sull’immagine, ma va oltre puntando al contatto e alla partecipazione. Soltanto chi sa guardare e distogliere lo sguardo può pregare in questo modo pena la riduzione dello sguardo stesso a consumo vorace.
Nell’attivazione dei codici tutto l’uomo è coinvolto nell’incontro con Dio; nella loro sospensione l’uomo si apre all’inedito di Dio, sempre altro e sempre oltre rispetto alle pretese dell’uomo. In ogni parola e in ogni gesto della preghiera si avverte un senso d’incompiutezza: si dice e si agisce, ma è molto di più il non detto e il non fatto perché nell’insufficiente del dire e del fare si dà la possibilità che Dio operi la sua salvezza.
Poiché nella preghiera sono in atto una relazione e una comunicazione, anche la parola della preghiera deve essere colta innanzitutto come linguaggio prima ancora che come contenuto, come significante che precede il significato, come contatto che supera il concetto. È la non verbalità del verbale, il suo accadere, a operare il legame relazionale tra l’orante e il destinatario della preghiera e tra coloro che insieme pregano. Quando l’uomo pronuncia il nome di Dio nella preghiera non è interessato a definire con precisione il significato del termine poiché non si tratta di una parola su Dio, ma instaura un atteggiamento religioso, un’autentica conoscenza che non è procurata dall’acquisizione di dati, ma semmai dallo stare di fronte a Dio, dall’incontrarlo, dal percepire l’emozione nel dire e nell’ascoltare il nome di Dio. Infatti, è una parola rivolta a Dio. Nelle parole su Dio c’è il rischio di costringere le possibilità di Dio e di circoscriverle nelle idee della mente; nelle parole rivolte a Dio è possibile esprimere un desiderio “aperto”, una nostalgia vivibile, una mancanza che può farsi terreno buono per l’accoglienza dell’imponderabile.
2. «Vox orationis»: le parole della preghiera
Porgi l’orecchio, Signore, alle mie parole: intendi il mio lamento. Sii attento alla voce del mio grido, o mio re e mio Dio, perché a te, Signore, rivolgo la mia preghiera (Sal 5,2-3).Così prende avvio un’accorata invocazione mattutina del salterio. In essa l’orante esprime il suo anelito nei termini di un appello accorato nel quale l’uomo proferisce «parole» di lamento e il Signore «porge l’orecchio» per raccoglierle e comprenderle, l’uomo chiede attenzione a Dio per la «voce» e il «grido» (vox orationis secondo la Volgata) perché la preghiera a lui è «rivolta». Bocca e orecchie sono convocate per la relazione tra colui che prega e colui che è pregato e la preghiera possiede una voce, necessita di essere gridata e di raggiungere le «orecchie» di Dio.
La «parola» della preghiera è in primo luogo voce e suono che si distende nello spazio e nel tempo e, in quanto atto, trova la sua prima efficacia nel suo risuonare e nella carnalità del suono: è lì, infatti, che avviene l’impatto con l’altro, con lo spazio e con il tempo e la parola non è più rinchiusa nella sfera del privato e del nascosto, ma è ridata all’uomo e a Dio nella sua vitalità[7].
Se è noto che la preghiera nasce dal suono delle parole, è altrettanto noto che, nell’ambito del cristianesimo occidentale, si è radicata una presa di distanza dalla preghiera liturgica e vocale, accompagnata dalle tipiche antinomie tra individuale e collettivo, spontaneo e istituzionale, soggettivo ed oggettivo, dove a prevalere è l’aspetto individuale, interiore e anti-istituzionale. Nell’affermarsi della religio mentis della tarda antichità avviene il passaggio culturale verso una religione “spirituale”, dove l’autentico sacrificio è quello della preghiera, fino a spingersi alla devotio moderna medievale, preoccupata della cura dell’interiorità attraverso il rifugio in se stessi, la lettura spirituale e la sfiducia verso ciò che è esterno e corporeo[8]. Non a caso il movimento liturgico novecentesco opererà allo scopo di affermare la liturgia, in quanto azione divina e umana, interna ed esterna, vissuta nelle modalità simbolico-rituali, come vera «preghiera della Chiesa»[9]: una presa di posizione per certi aspetti troppo unilaterale, ma decisiva e feconda nel tentativo di guadagnare terreno alla vita liturgica e di riproporla come nutrimento spirituale di tutto il popolo di Dio.
Una riscoperta matura della preghiera, non distratta rispetto all’esperienza dell’orante che si pone di fronte a Dio, non può disattendere il valore dell’oralità, del dire le parole della preghiera. In altri termini, si tratta di riconoscere piena cittadinanza alla voce e alla parola nella preghiera interrompendo il fraintendimento per il quale la voce risente della materialità del corpo mentre la preghiera sincera dovrebbe abbandonare ogni appoggio corporeo o materiale. Se la preghiera è in primo luogo pronunciare il Nome, essa è e-vocazione: chiamare presso, condurre alla presenza, riconoscere; pertanto, è bisognosa di voce: «La denominazione degli oggetti non viene dopo il riconoscimento, ma è il riconoscimento stesso»[10]. Nella sintesi tra interno ed esterno, che è la vita spirituale, la parola della preghiera, anche quando cede il passo al silenzio adorante, rifugge ogni censura del corpo e affida proprio al corpo parlante la possibilità di rivelare se stesso e dischiudere la via all’incontro che salva. Non una parola che chiude e definisce, ma una parola che apre e stringe un’alleanza, che permette di vivere e di convivere[11].
È il carattere transitivo della preghiera, il suo essere tensione benefica tra l’uomo a Dio, a esigere una parola detta o taciuta, una parola che viene esplicitata affinché Qualcuno l’ascolti e sia premessa di un mondo nuovo, se è vero che è vincolata al credere e al desiderare ciò che ancora non c’è. E l’atto del dire la preghiera possiede una sua efficacia che le viene dall’inserimento in un quadro rituale le cui regole sono accettate e condivise da chi vi partecipa: è in questo contesto che davvero è possibile e plausibile dire Dio, nominarlo e chiamarlo[12].
L’orante compie un atto di esposizione verso Dio, consegnandosi all’azione della preghiera e allo sguardo di Dio, purché vengano custoditi a un tempo il pudore, che salvaguarda l’eccedenza del mistero divino su ogni umana espressione, e l’audacia («Audemus dicere»!) per pronunciare il Nome senza catturarlo.
3. Le forme della preghiera
In questo sforzo comunicativo tra l’uomo e Dio è quanto mai importante sottolineare che nella preghiera emerge la funzione linguistica dell’invocativo, modello originario che pone il soggetto di fronte all’Altro per intimargli qualcosa. Qui si dà la parola come atto linguistico del chiedere, del ringraziare, del pentirsi: in altri termini, la parola si conforma e dà forma alle possibilità della fede. Attingendo alla classificazione di John L. Austin la parola della preghiera è un «atto illocutorio», ovvero un azione che si compie nel dire attraverso il ricorso a un verbo che esprime il tipo di operazione (pregare, dire, chiedere). Il tutto entro un «contesto pragmatico» che permetta l’efficacia della preghiera dato da chi proferisce le parole, dalla circostanza in cui vengono dette e dal destinatario della preghiera[13].
Lo studio delle forme illocutorie della preghiera ridona fiducia all’atto stesso della preghiera troppe volte sottoposto a una sorta di verifica in ordine all’efficacia in base alla moralità dell’orante, alla bontà dell’oggetto della preghiera e al rapporto con la vita e la testimonianza. È nell’atto del pregare che l’uomo si pone davanti a Dio e agisce da credente.
Con questa consapevolezza è possibile esaminare rapidamente alcune forme illocutorie della preghiera per coglierne il respiro originario, la spinta primaria, che consente all’uomo di volgersi verso il divino prima di ogni tematizzazione o di ogni ricaduta pratica.
3.1. La domanda di grazie
Nello sguardo rivolto al tu che è Dio viene a cadere ogni forma di autonomia. Chi prega lo fa perché ha un bisogno e perché sa che la via d’uscita dai problemi quotidiani, come la salute, il cibo, il lavoro, sta in colui che rimane altro dall’uomo, ma comunque custode dei suoi beni. Come Ester, la quale «presa da un’angoscia mortale», vestita a lutto e coperta di cenere, supplica il Signore: «Vieni in aiuto a me che sono sola e non ho altro soccorso all’infuori di te, perché un grande pericolo mi sovrasta» (Est 4,17l); come Gesù nella preghiera insegnata e consegnata ai suoi: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» (Mt 6,11). Tale abbandono fiducioso, caricato della forza dell’intercessione, si registra anche nella tradizione ecclesiale come, ad esempio, nella formula litanica introdotta dall’ut: «Ut fructus terrae dare et conservare digneris, te rogamus audi nos». Constatata l’impotenza di fronte alle avversità della vita, il credente, ben consapevole della sua corporeità, osa chiedere ciò che da solo non può produrre. La richiesta di beni immediati come il pane, la guarigione, la pace, il bel tempo, si colloca nella fiducia totale nell’Onnipotente, il quale può dare ogni cosa fino al dono più grande, lo Spirito Santo (cf. Lc 11,13).
3.2. Ringraziamento
Rendere grazie è proprio di chi riconosce la manifestazione dell’opera di Dio e, pertanto, la celebra e la esalta. Il Figlio di Dio è modello di chi rende grazie al Padre: «Ti rendo grazie, Padre, Signore del cielo e della terra» (Mt 11,25) e la chiesa fa memoria dell’opera della salvezza in Cristo nella preghiera di rendimento di grazie. Ogni eucaristia, infatti, in quanto lode ecclesiale, è presenza di Dio perché ne vengono proclamate le azioni salvifiche: si tratta di una memoria cultuale della fedeltà di Dio dove la vicenda di salvezza che ha Dio e l’uomo per protagonisti viene narrata. Siamo nella linea delle berakhot giudaiche e delle tante azioni di grazie anticotestamentarie dove la lode del popolo fa riaffiorare l’azione misericordiosa di Dio (cf., tra gli altri, i Sal 100, 106 e 136). Se la preghiera di supplica affonda le sue radici nella crisi e nel particolare, la preghiera di lode e di ringraziamento procede dalla permanenza dell’amore di Dio ed è per questo che riaccende la scintilla dell’alleanza qualora si fosse affievolita. Questa è la ragione per cui nella tradizione liturgica la petitio è sostenuta e motivata dall’anamnesi come si evince dalla struttura della preghiera eucaristica e come si può cogliere anche nelle altre grandi preghiere della tradizione romana, in primis tra queste, le collette della messa. Ogni richiesta, e a maggior ragione l’invocazione di perdono, devono procedere dalla lode narrante, se è vero che la lode è attestazione stupita della differenza tra Dio e l’uomo.
3.3. Adorazione
«Entrate: prostràti, adoriamo, in ginocchio davanti al Signore che ci ha creati» (Sal 95,6). Lo stare alla presenza di Dio induce il credente ad atteggiamenti del corpo che indicano sottomissione, dipendenza, rispetto profondo, venerazione, quali il prostrarsi, il genuflettere, l’inchinarsi, il togliersi i sandali (cf. Es 3,5) o il coprirsi il volto (1Re 19,13). Non a caso il tacitare le parole sembra essere la via naturale dell’adorazione: quando ci si “arrende” di fronte alla Presenza e ci si lascia sorprendere dal mistero, ci si rende conto del limite umano e dell’ineffabilità di Dio. L’unica parola che conta è quella non detta. L’adorazione silente avviene quando ogni parola, gesto o azione dichiarano la loro incompetenza e si arrendono di fronte all’epifania di Dio. Adorare significa disporsi ad accogliere colui che si fa presente, colui che è presente pur nella sua indicibilità, colui che si manifesta nella ricerca affannosa dell’uomo. Trovarlo e riconoscerlo, oltre le umane aspettative, è atto di libertà che conduce alla comunione intima con Dio, a un faccia a faccia (cf. Es 33,11) che non squalifica la precarietà dell’uomo, ma la trasforma. Laddove la parola arretra e il concetto è inutile, la preghiera ha la forma del corpo che si piega e del silenzio che ospita.
3.4. Richiesta di perdono
Alla stregua della tradizione giudaica (cf. Ne 1,4-11; 9,6-37; Dn 3,26-35), anche nella tradizione cristiana si prega per avere il perdono dei peccati. Una preghiera che è confessione dell’amore di Dio e dell’infedeltà dell’uomo, della superiorità del primo e della piccolezza del secondo. La parola della confessione è «sempre una proclamazione esistenzialmente relazionata della superiorità assoluta dell’Altro, che emerge dal confronto, gioioso e a un tempo sofferto, con la nostra umanità necessariamente permeata di infedeltà e di peccato»[14]. Un testo particolarmente significativo è il Confiteor della messa dove la dichiarazione di peccato, fatta a Dio e ai fratelli, si salda con la richiesta dell’intercessione della Vergine, degli angeli, dei santi e dei fratelli stessi. Nelle preghiere del penitente (Atto di dolore) del Rito della penitenza è marcato l’illocutorio della richiesta: «Perdona tutti i miei peccati», «liberami dai miei peccati», «riconciliami con il Padre», «non guardare ai miei peccati», «abbi pietà di me peccatore»[15], mentre nella prima di queste è evidente l’atto che si compie nel dire il pentimento e il dolore insieme con il proposito di non peccare ulteriormente: «Mio Dio, mi pento e mi dolgo… Propongo con il tuo santo aiuto di non offenderti mai più». Già il riconoscere la propria infedeltà e di provarne dolore è azione che induce un cambiamento nella persona: in questo caso l’azione della
4. Una sinfonia di linguaggi
Se nella mentalità comune la parola sembra essere svalutata a favore di una presunta sostanza, del concetto o dell’intenzione, nella preghiera conta il fatto stesso di dire. In essa avvieneun evento nuovo nella misura in cui, in virtù della sua struttura linguistica di dialogo (struttura almeno implicita nel caso della preghiera non verbale), pone l’uomo orante in una relazione effettiva di dipendenza e di fiducia nei confronti di Dio[16].
Ciò che conta è l’estroversione del soggetto, il suo tendere a Dio e l’implicazione dell’esistenza del soggetto nell’esistenza dell’Altro.
È quanto Agostino ricordava a Proba a proposito della preghiera incessante e intensa: essa non si identifica con la quantità delle parole, ma è piuttosto persistente con il compito di mantenere la tensione fervida (fervens intentio) e lo scambio da cuore a cuore; non ha bisogno di espressioni lunghe, ma cerca una sinfonia di linguaggi che consenta l’esposizione di tutto ciò che umano allo sguardo di Dio.
Per questo dire Dio non nell’affermazione, ma nell’invocazione significa ravvivare la fiamma di un dialogo, che per il fatto di essere accesa è già fuoco che riscalda, brucia e purifica.

Publié dans:PREGHIERA (sulla) |on 29 octobre, 2018 |Pas de commentaires »

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