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Maria capolavoro di Dio e nuova creatura: in Lei l’uomo contempla il suo vero volto. (sulla Redemptoris Mater, riferimenti a Paolo)

dal sito:

http://www.kolbemission.org/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/136

Chiamati ad essere santi e immacolati

Maria capolavoro di Dio e nuova creatura: in Lei l’uomo contempla il suo vero volto. (sulla Redemptoris Mater)
 
Pensati, amati e creati

   Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Mater (n. 7-8) ci indica come la Chiesa interpreta il testo della lettera di san Paolo agli Efesini, dove l’apostolo dice: «Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo» (Ef 1,3). Parole che rivelano l’eterno progetto di Dio al cui centro emerge la figura di Gesù, il Verbo di Dio fatto uomo. L’Apostolo non ha dubbi sul credere che nel Cristo tutti siamo stati pensati, amati e creati perché Lui è l’inizio, il centro e il fine di tutta la creazione.
   L’Antico Testamento non si era posto la domanda sul fine della creazione. Essa era stata voluta da Dio e l’uomo, con il peccato, aveva condotto tutte le creature lontane da Dio, nella disarmonia con il Creatore. La venuta del Messia completò la rivelazione iniziata con Abramo e, grazie al dono dello Spirito Santo, la Comunità ecclesiale fu condotta verso una conoscenza sempre più piena del mistero di Dio e della creazione. E in questo mistero rifulge il disegno divino di espandere il suo amore a tutte le creature tramite un essere che fosse ad immagine e somiglianza di Dio.
   Questo essere è l’uomo e la donna, Adamo ed Eva che sono, come insegna da sempre la Chiesa, prefigurazione di Cristo e di Maria. Anzi, quando il Padre progetta il Figlio fatto uomo, in quel medesimo e unico progetto, quando pensa il «Figlio» allo stesso momento non può non pensare anche alla «Madre». Così, dice ancora Giovanni Paolo II, «Nel mistero di Cristo è presente, già « prima della creazione del mondo », colei che il Padre « ha scelto » come Madre del suo Figlio nell’incarnazione ed insieme al Padre l’ha scelta il Figlio, affidandola eternamente allo Spirito di santità» (Redemptoris Mater, n. 8).
   Maria, insieme al Figlio, sono la prima umanità che Dio ha amato, tanto che Maria è stata la prima creatura ad essere amata dal Padre con quello stesso amore che il Padre nutre per il Figlio. Si può allora dire che l’umanità è stata amata in Gesù e Maria, in coloro che sono i prototipi dell’uomo e della donna e a cui dobbiamo conformarci per essere in sintonia con il progetto di Dio. Ciò è testimoniato dalla saggezza dei santi che intuirono perfettamente che per realizzare la propria vocazione bisogna seguire le orme dei due grandi prototipi dell’umanità nuova, come ebbe a dire Francesco d’Assisi: «Io Frate Francesco piccolino voglio seguire la vita e la povertà dell’altissimo Signore nostro Gesù Cristo e della sua santissima madre e perseverare in essa sino alla fine» (Ultime volontà a Chiara).
  
Scoprire se stessi

   «Alla sequela di Cristo e Maria» divenne il motto di tutti coloro che hanno voluto impegnare la propria vita in pienezza. Amare, conoscere e imitare la coppia divina significa scoprire se stessi per potersi realizzare secondo Dio. È la convinzione della Chiesa che ha intuito come il mistero di Maria illumina il suo proprio mistero e viceversa. Ma il mistero di entrambe non è altro che l’unico mistero di Cristo, nel quale tutto trova il suo senso e il suo significato, perciò il Concilio Vaticano II poté affermare: «nel mistero del Verbo Incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo» (Gaudium et spes, n. 22), assioma che venne completato da Paolo VI quando disse: «la conoscenza della vera dottrina cattolica su Maria costituirà sempre una chiave per l’esatta comprensione del mistero di Cristo e della Chiesa» ( Discorso di Paolo VI a chiusura del terzo periodo del Concilio Ecumenico).
   Tutte queste affermazioni si rincorrono per dire che le tre realtà: Cristo, Maria e la Chiesa sono le tre fondamentali chiavi di lettura della creazione, esse si intrecciano sul senso della vita dell’uomo, del suo ruolo nella storia e del suo rapporto con le creature. La Chiesa, pertanto, entra nella storia dell’umanità con il compito di evangelizzarne la cultura di ogni popolo, avendo sempre davanti a sé come modello il Cristo, uomo nuovo, e Maria la prima redenta, l’Immacolata, la «stella dell’evangelizzazione».
   È questa la ragione per cui la Comunità ecclesiale si sforza di conoscere il proprio mistero in quello di Cristo e della Madre. Infatti Maria e la Chiesa hanno lo stesso compito di condurre l’uomo a Dio, a quel Dio che ha donato il suo Figlio attraverso Maria. Noi, dice ancora Paolo VI, «lo abbiamo ricevuto da lei; se vogliamo perciò essere veri cristiani, dobbiamo riconoscere il rapporto essenziale, vitale, che unisce la Vergine a Gesù e che apre a noi la via che a lui conduce»(PAOLO VI, «Discorso al Congresso Mariologico Mariano Internazionale di Roma nell’Aula dell’Antonianum (16 maggio 1975)», Insegnamenti XIII (1975) 526). «Se vogliamo trovare Cristo, aveva detto san Bonaventura, prima dobbiamo avvicinarci a Maria»(BONAVENTURA DI BAGNOREGIO, «Commentarium in Lucam» (Opera Omnia VII) 52). Certamente il dottore francescano aveva in mente la chiesina di Santa Maria degli Angeli, dove la tradizione vuole che Francesco abbia voluto far scrivere «questa è la porta della vita eterna», così che Bonaventura aggiunse: «perché nessuno può entrare in cielo se non passa attraverso Maria come per una porta. Come Dio infatti venne a noi attraverso di lei, così bisogna che torniamo a Dio attraverso di lei»(Id., «Commentarius Evangelii S. Lucae» (Opera Omnia VII) 27).
  
Nell’amore

   La sua vita e la sua santità ci sono additate come modello a cui conformarci per poter raggiungere il Cristo, il senso della nostra esistenza. I santi non hanno dubbi! Per questo Massimiliano Kolbe ci indica che cosa dobbiamo fare: «Avvicinarci a Lei, renderci simili a Lei, permettere che Ella prenda possesso del nostro cuore e di tutto il nostro essere, che Ella viva e operi in noi e per mezzo nostro, che Ella stessa ami Dio con il nostro cuore, che noi apparteniamo a Lei senza alcuna restrizione: ecco il nostro ideale»(Gli scritti di Massimiliano Kolbe, eroe di Oswiecim e beato dalla Chiesa (Firenze 1975-1978) III, 475).
   Se l’Immacolata è stata la prima amata dal Padre dopo il Figlio e certamente la prima creatura amata dal Figlio, Lei diventa per noi la «maestra dell’amore» perché ci insegna come amare e come dobbiamo lasciarci amare da Dio.
   Se, come sottolinea la scuola francescana, Dio vive per amare e il senso della creazione è la dilatazione di questo amore, quando egli pensa al Figlio che si sarebbe fatto uomo in quello stesso istante pensa alla Madre che diventa così la prima creatura che dona al Creatore la gioia di poter donare il suo amore. Maria, nel progetto di Dio è pensata come colei che procura al Figlio la «gioia di poter amare» e poi di «poter essere amato».
   È così che «la gioia dell’amore» diventa il fondamento della natura umana. Questa gioia si ritrova nella tenerezza dei fidanzati, nell’amore della coppia, nell’affetto dei genitori verso i figli e viceversa e soprattutto nella carità che ogni persona deve nutrire verso ogni suo prossimo. Dio, infatti, ci ha progettati dall’eternità per essere «santi e immacolati al suo cospetto». Questo, come spiega l’Apostolo, si realizza in noi «nell’amore» (Ef 1,14), perché Dio ci ha creati per essere come Lui e con Lui: «Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1Gv 4,16). L’uomo e la donna «santi e immacolati» sono coloro che si sono lasciati amare da Dio, riempire dell’amore, per poterlo donare agli altri e così dilatarlo a tutta la creazione.
   L’Immacolata Madre di Dio rifulge per essere stata la «prima amata», che ricevette un dono speciale, «preservata dal peccato originale», per poter accogliere in Lei lo stesso Figlio di Dio che, facendosi figlio dell’uomo, fece in modo che nel cuore umano potesse battere il cuore di Dio, così che l’uomo divenisse, in questa maniera, capace di amare come Dio ama.
   Kolbe ancora ci insegna che Maria è Immacolata perché «non ebbe mai nessuna macchia, cioè il suo amore fu sempre totale senza alcun detrimento, amò Dio con tutto il suo essere e l’amore la unì fin dal primo istante di vita così perfettamente con Dio». Essere immacolati, perciò, significa essere «totalmente amanti» di Dio a tal punto che Dio stesso viene a dimorare in noi e allora con l’apostolo Paolo potremo dire: «non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20).
   Il senso del nostro essere santi e immacolati si trova proprio in questa capacità (nella nostra buona volontà) di volerci conformare in coloro che per primi sono stati amati e che per primi hanno amato. Essi sono i capostipiti di quella nuova umanità a cui noi tutti siamo stati predestinati se vogliamo che si realizzi il senso stesso della creazione.
 
Stefano M. Cecchin

Jean Galot : La Vergine Maria, Madre di Dio e Madre nostra

dal sito:

http://www.gesuiti.it/moscati/Ital4/Galot_Maria2.html

La Vergine Maria, Madre di Dio e Madre nostra

Madre di Dio
 
Jean Galot s.j.

Un titolo audace

Quando l’angelo si era rivolto a Maria per rivelarle il disegno del Padre e chiedere il suo consenso alla venuta del Salvatore nel mondo, l’aveva chiamata « colmata di grazia ». Riconosceva in lei una dignità singolare, altissima, che non avrebbe potuto appartenere a un’altra creatura. In un primo momento, non la chiamava con il suo nome, perché il suo vero nome consisteva nella grazia eccezionale che aveva ricevuto e che, agli occhi di Dio e di tutto il cielo, la distingueva da tutte le altre persone umane.

Quando riprendiamo nella nostra preghiera l’espressione formulata dall’angelo, dicendo a Maria « piena di grazia », alziamo il nostro sguardo verso una donna in cui si è sviluppata la grazia con una totale pienezza. In Maria lo Spirito Santo ha spinto all’estremo la sua potenza santificatrice e ha fatto sorgere nella più segreta profondità dell’anima un amore puro e perfetto. Scoprendo in lei questo capolavoro di grazia, possiamo entrare più facilmente nel vasto universo della grazia e partecipare allo sviluppo del più autentico amore.

Eppure il vertice che costituisce Maria nell’universo spirituale è ancora più alto. Questo vertice, lo raggiungiamo quando chiamiamo Maria « Madre di Dio ». Il titolo è molto audace, perché se Dio designa l’Essere supremo, che gioisce di una autorità sovrana su tutti gli esseri, come ammettere che possa avere una madre? Attribuire a una donna la dignità di Madre di Dio sembra collocare una creatura al di sopra del Creatore, riconoscere una certa superiorità di una donna su Dio stesso.

Si capisce che un titolo così audace non sia stato accettato facilmente da tutti. All’inizio non fu in uso nella pietà cristiana e non fu adoperato nel linguaggio di coloro che nel primo secolo si dedicarono alla diffusione della buona novella. Nella Scrittura, e più precisamente nei testi evangelici, è assente. E’ dunque ignorato nei primi tempi della Chiesa. Questo fatto sembra essere il segno che tale titolo non era necessario per esprimere la dottrina cristiana.

Il titolo più necessario sarebbe stato « Madre di Gesù » o « Madre di Cristo ». Era inseparabilmente affermato nel mistero dell’Incarnazione. Per affermare che il Figlio di Dio è venuto sulla terra per vivere come uomo e con gli uomini, si deve ammettere che è nato dalla Vergine Maria e che una donna è madre di questo Figlio. L’intervento di una donna è stato necessario per una nascita veramente umana; la maternità di questa donna appartiene al mistero dell’Incarnazione.

Gesù è un uomo, di sesso maschile, ma indissolubilmente legato al sesso femminile, perché una donna l’ha partorito e perché questa donna ha pienamente svolto il ruolo di madre nei suoi riguardi.

S. Paolo ha sottolineato la portata del mistero, ricordando il grande gesto del Padre che ha mandato il Figlio all’umanità: « Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna… » (Galati 4,4). Il nome di Maria non è pronunziato, ma l’importanza essenziale del contributo della donna è posta in luce. Senza questa donna, il Padre non avrebbe potuto dare il suo Figlio come egli l’ha fatto con la nascita di Gesù. « Nato da donna » è una proprietà caratteristica dell’identità del Salvatore, che fa scoprire in un uomo, con la debolezza della carne, la personalità di colui che prima, nell’eternità, era nato dal Padre.

In questa nascita « da donna », Paolo discerne l’umiltà della venuta del Figlio, che ha accettato le condizioni abituali della nascita umana. Non considera esplicitamente la grandezza della donna che interviene in una nascita di carattere straordinario. Ma fa capire che questa donna è stata associata in virtù della sua maternità, al progetto divino di comunicazione ella filiazione divina a tutti gli uomini: il Figlio è nato da donna « perché ricevessimo, l’adozione a figli ».

Così, la maternità di Maria viene elevata a un livello divino, dal punto di vista del suo orientamento fondamentale. La dignità di Maria come madre appare più chiaramente: il Figlio che la donna ha partorito è destinato a condividere la sua figliolanza divina personale con tutti gli uomini. Il Padre che, mandando il suo Figlio nel mondo, ha suscitato questa maternità eccezionale, si serve di essa per diffondere nell’umanità la propria paternità, che fa sorgere i figli adottivi. Mai una maternità avrebbe potuto rivendicare una efficacia così alta e così universale.

Questo livello divino attribuito alla maternità di Maria non esprime ancora il vertice della sua dignità. Solo il titolo « Madre di Dio » può definire questo vertice. S.Paolo non ha mai usato questo titolo, perché la sua attenzione non si portava sulla dignità propria a Maria nella nascita di Cristo, ma sull’abbassamento di Dio che manifestava così un estremo amore verso gli uomini.


« Madonna della Strada » venerata
nella chiesa del Gesù di Roma
« Il salto »

Un salto era necessario se la comunità cristiana voleva raggiungere questo vertice significato dal titolo « Madre di Dio ». Il titolo esprime una verità che viene enunciata nella rivelazione evangelica: se Gesù, essendo il Figlio di Dio, è Dio lui stesso, dobbiamo affermare che questo Dio è nato da Maria, e in conseguenza Maria è madre di Dio. Maria non è madre del Dio Padre; è madre di Dio Figlio. Pur essendo evidente agli occhi della fede cristiana, l’attribuzione del titolo ha richiesto un tempo prima che fosse avvenuto il salto, perché in se stesso il titolo appare molto audace. Una riflessione sul dato rivelato è stata necessaria per giustificare il suo uso.

Il titolo sembra in un senso attribuire a Maria una certa superiorità su Dio stesso. Abbiamo già notato che non poteva essere una superiorità su Dio Padre, perché Maria non è madre di lui. La superiorità deve essere anche esclusa riguardo al Figlio, se viene considerato nella sua natura divina, identica a quella del Padre. Il Figlio è soltanto figlio di Maria nella sua natura umana. In questa natura « era sottomesso » a Maria e Giuseppe, come dice il vangelo (Luca 2,51).

La maternità di Maria viene spesso chiamata « maternità divina », perché è una maternità in relazione con la persona divina del Figlio; ma in realtà è una maternità umana, maternità che si è prodotta e sviluppata nella natura umana della Vergine di Nazaret. A questa maternità appartiene la ricchezza dei sentimenti umani: il cuore materno di Maria è un cuore umano, molto sensibile a tutti gli avvenimenti che toccavano o colpivano il proprio Figlio. Il carattere verginale della sua maternità non ha tolto niente alla tenerezza del suo affetto materno; anzi l’ha reso più ardente, più puro, più perfetto.

L’espressione « Madre di Dio » pone in luce la relazione stupenda di una persona umana con Dio. La maternità è una relazione di persona a persona. Una madre è madre della persona del suo figlio; siccome nel caso di Gesù la persona è divina in una natura umana, Maria è madre di una persona divina, persona che in virtù della generazione umana verginale è suo Figlio.

Sull’origine dell’attribuzione del titolo « Madre di Dio » a Maria nella preghiera cristiana e nel culto cristiano, abbiamo poca informazione. È pure significativo che la più antica preghiera mariana che conosciamo sia rivolta alla Madre di Dio. La preghiera è stata scoperta su un papiro egiziano che è stato datato del terzo secolo; il papiro era molto danneggiato, ma portava chiaramente l’invocazione Theotokos: « Sotto il tuo patrocinio cerchiamo rifugio, santa Madre di Dio… ».

La preghiera, formulata in somiglianza di altre preghiere rivolte a Dio, chiede il soccorso di Maria nei pericoli. Essa testimonia che in Egitto, nel terzo secolo, il titolo « Madre di Dio » era in uso in alcuni ambienti cristiani.

Questo uso viene confermato per un ambiente più dottrinale: sappiamo che nel suo commento della lettera ai Romani, il grande teologo Origene (253-255) aveva dato una lunga spiegazione del termine Theotokos. Non possediamo il testo di questo commento, ma è il segno che in Egitto, nel terzo secolo, il titolo era in uso nell’esposizione della dottrina.

Gli storici hanno cercato di determinare i motivi per i quali il titolo ha avuto una diffusione particolare in Egitto. Sembra infatti che l’Egitto sia stato il luogo di origine dell’uso del titolo. Nella religione pagana esisteva il culto della dea Isis. Questa dea era venerata, sotto il titolo di « madre del dio », perché era considerata come la madre del dio Oro. Clemente d’Alessandria usa a questo proposito l’espressione: « madre degli dei ». I cristiani dell’Egitto vedevano nel linguaggio dei pagani un omaggio alla « madre del dio ». Come non avrebbero reagito, pensando che loro conoscevano l’unica Madre di Dio, che non era una dea, ma una donna? Possiamo supporre che sotto l’influsso del culto pagano hanno affermato il loro proprio culto di venerazione della Madre di Dio. La religione pagana, in cui si esercitava l’azione dello Spirito Santo, aveva preparato gli Egiziani alla venuta del cristianesimo e al culto della vera « Madre di Dio ».

Il salto che si è prodotto per rivolgersi a Maria, chiamandola « Madre di Dio », non è stato l’effetto di un ragionamento dottrinale. È venuto da un bisogno popolare di riconoscere in una donna, secondo la rivelazione, la vera madre di Dio, madre del Figlio incarnato, che apriva la porta a tutte le speranze. Il valore del ruolo di Maria era stato capito e accolto dal popolo cristiano, che, invocando la madre di Dio, poteva aspettare la migliore risposta ai suoi problemi e l’aiuto nei pericoli.

Obiezione e risposta

Quando, nell’anno 428, Nestorio diventò Patriarca di Costantinopoli, la controversia a proposito del titolo « Madre di Dio » era scoppiata. Diversi pareri si erano manifestati; alcuni volevano riconoscere Maria come madre dell’uomo Gesù e non come madre di Dio. Nestorio si limitava al titolo: « Madre di Cristo ». Egli non ammetteva il titolo « Madre di Dio », perché pensava che Maria non poteva essere madre di una persona divina.

Abbiamo osservato che il titolo è audace e che un salto è stato necessario, nel terzo secolo, per introdurre l’invocazione nella preghiera cristiana. Nestorio non ha voluto fare questo passo avanti, non ha accettato un titolo che si era diffuso ampiamente nel linguaggio della Chiesa e che costituiva un progresso nell’espressione della fede. Infatti non accoglieva il valore della tradizione che si era formata per invocare Maria sotto il nome di « Madre di Dio ».

Rifiutando questo titolo, doveva ammettere in Cristo una divisione fra l’uomo generato da Maria e il soggetto divino che era il Figlio; questa divisione avrebbe implicato l’esistenza di due persone in Cristo, cioè un dualismo che non poteva essere compatibile con l’unità di Cristo secondo la verità rivelata nel vangelo.

La Chiesa aveva sempre creduto che l’uomo Gesù era Dio, secondo la dimostrazione che Gesù stesso aveva fatto della propria identità. Nel vangelo, non ci sono due personaggi, uno che fosse l’uomo e l’altro che fosse il Figlio di Dio. La meraviglia dell’Incarnazione consiste nel fatto che il Figlio di Dio è divenuto personalmente uomo, nascendo da una donna.

Al momento dell’Incarnazione, questo Figlio non si è spaccato in due persone. Rimanendo persona divina, è divenuto uomo, assumendo una natura umana; non si è associato una persona umana. La sua unica persona è persona divina, persona che esiste dall’eternità e non può cambiare nel suo essere eterno. Questo spiega che Maria, diventando madre di Gesù, sia madre della persona divina del Figlio e dunque Madre di Dio.


La Vergine Maria « Theotokos », cioè « Madre di Dio », come l’ha proclamata
il Concilio di Efeso.
Così l’affermazione di Maria come Madre di Dio è la garanzia dell’affermazione della persona divina di Cristo. Il problema posto dalla crisi nestoriana non era soltanto mariologico; era più fondamentalmente cristologico. La verità contestata era l’unità di Cristo.

Questa unità fu riconosciuta dal concilio di Efeso, che condannò Nestorio. In base alla seconda lettera di Cirillo di Alessandria a Nestorio, che fu approvata dal concilio, il Figlio eterno del Padre è colui che, secondo la generazione carnale, è nato dalla Vergine Maria. Da questa verità su Cristo, deriva la conseguenza per Maria: « Per questo, Maria è legittimamente chiamata Theotokos, Madre di Dio ».

Dopo la proclamazione di questa dottrina, i Padri del concilio furono accolti con entusiasmo dalla popolazione di Efeso. Il popolo cristiano si rallegrava dell’onore reso alla Madre di Dio.

Quattro secoli prima, la città pagana di Efeso aveva manifestato il suo attaccamento alla dea Artemide. Gli Atti degli Apostoli ci riferiscono l’episodio in cui Paolo aveva incontrato ad Efeso una forte ostilità della folla, che l’accusava di aver voluto porre fine al culto della dea. Le grida « grande è l’Artemide degli Efesini! » (Atti 19,28) mostravano la potenza di un culto che ha indotto Paolo a lasciare la città. Ma il loro ricordo fa anche capire la preparazione adoperata dallo Spirito Santo alla proclamazione di una donna come Madre di Dio. Il culto alla dea Artemide era una via che finalmente doveva porre in luce il volto della Madre di Dio.

In quattro secoli, il culto reso a una dea pagana si è trasformato in culto reso a Maria. Nella religione pagana si era rivelato il bisogno fondamentale degli uomini di avere una donna veramente ideale per aprire la via della salvezza. Nel cristianesimo, questa donna ideale è stata riconosciuta in tutta la sua perfezione a un livello molto superiore, come quella che meritava il nome di Madre di Dio.

Dimostrazione del più alto amore divino

Il titolo che dal terzo secolo è stato pronunziato dalla pietà cristiana nel culto mariano porta con sé la dimostrazione del più alto amore divino. Maria è Madre di Dio perché Dio ha voluto una madre. Il Dio che l’ha voluto è prima di tutto il Padre: la sua intenzione era di esprimere, con questa maternità, in un volto umano, la propria paternità divina. Anche il Figlio di Dio l’ha voluto, perché voleva essere integralmente uomo simile agli altri uomini, nascere da una madre e crescere con l’aiuto e la cura di una madre.

Il vocabolo greco usato per designare la maternità di Maria ha un significato che secondo la sua origine è abbastanza ristretto. « Theotokos » significa « quella che ha generato Dio ». L’atto di generazione ha un valore essenziale per la maternità, ma è soltanto un inizio. La madre ha il compito di contribuire alla crescita del figlio e di educarlo in vista della sua vita futura di adulto. Maria è stata impegnata in questo compito, con questo aspetto stupendo della sua maternità che consisteva in una educazione di colui che era Dio.

Educare Dio sembra un compito paradossale. Dobbiamo precisare che si tratta del Figlio di Dio nella sua natura umana: è l’uomo Gesù che Maria ha educato, aiutandolo a crescere e a svilupparsi. Ma siccome questo uomo era Dio, con una persona divina, l’educazione che concerneva tutti gli aspetti umani della sua esistenza era una educazione di Dio, di un Dio fatto uomo.

Quella che era stata la generatrice di Dio era anche, in tutta verità, l’educatrice di Dio. Questo compito fa meglio scoprire la grandezza singolare della maternità di Maria.

Dobbiamo osservare che nell’attività educatrice, Maria condivideva con Giuseppe la responsabilità. L’evangelista Luca lo ricorda quando dice, per descrivere la vita di Gesù a Nazaret: « Stava loro sottomesso » (2,51). Gesù cresceva sotto la duplice autorità di Giuseppe e di Maria. La loro unione era un contributo all’efficacia dell’educazione di colui che avrebbe insegnato più tardi il valore dell’amore mutuo.

Conosciamo un frutto dell’educazione data da Giuseppe. Gesù che era « figlio del carpentiere » (Matteo 13,55) è divenuto « il carpentiere » (Marco 6, 3) di Nazaret, perché aveva imparato da Giuseppe questo mestiere. I frutti dell’educazione data da Maria non sono così evidenti, perché non conosciamo gli umili segreti della vita di Gesù a Nazaret.

Nel suo compito di educazione, Maria ha avuto molti contatti intimi con Gesù, che hanno contribuito allo sviluppo di tutte le sue qualità umane. Infatti riceviamo nei racconti evangelici i frutti di questa educazione nascosta, data da quella che fu la più perfetta educatrice e che preparò il Salvatore al compimento della sua missione.

La donna che, essendo Madre di Dio, ha educato il Figlio di Dio, esercita ancora un influsso sulla vita spirituale dell’umanità con i frutti prodotti in Cristo dalla sua educazione materna.

Maria Santissima Madre di Dio

dal sito:

http://www.santorosario.net/mariologia/2.htm

Maria Santissima Madre di Dio

Mariologia e Cristologia

La Vergine Maria è innanzitutto la Madre del Verbo Incarnato, la Madre di Dio. Questo è il suo titolo principale e il fondamento di tutti i suoi privilegi. Possiamo quindi dire che la mariologia, almeno nel suo aspetto essenziale, è una parte della cristologia. Già S. Tommaso infatti tratta di Maria Santissima nella parte della Somma Teologica dedicata al mistero di Cristo. Il fatto poi che la trattazione di Maria sia stata inserita dal Concilio nella Costituzione Lumen Gentium sulla Chiesa non deve trarre in inganno. Scrive G. Söll:

 «L’inserimento della dottrina mariana nello schema della Costituzione sulla Chiesa avvenne in conseguenza della volontà della maggioranza del Concilio di non elaborare alcuno schema proprio per Maria, e il fatto non può perciò essere inteso come un’assegnazione, confermata dal Magistero, della dottrina mariana all’ecclesiologia. Il luogo genuino della trattazione di questa parte della dogmatica, giustificato dalla storia dei dogmi, resta il trattato sulla persona e l’opera salvifica del Redentore».
 

Del resto questo fatto è ricordato anche dai Sommi Pontefici, come ad esempio da Pio XII, che scrive:

 «Da questo sublime ufficio di Madre di Dio, come da arcana fonte limpidissima, sembrano derivare tutti quei privilegi e quelle grazie che adornarono in modo e misura straordinaria la sua anima e la sua vita».
 

Identico il pensiero di Paolo VI:

 «Questa dignità e gloria della Madre di Dio non ha pari tra le creature, ed è per Maria un sommo titolo di onore, poiché nella divina maternità trovano fondamento tutti i privilegi e le prerogative di Maria».
 

Il Cardinale Suenens riporta il pensiero di un teologo ortodosso, Aleksander Schmeman:

 «Affrontando il tema in modo alquanto paradossale, dirò che se null’altro fosse rivelato nella Scrittura all’infuori del fatto puro e semplice dell’esistenza di Maria, e cioè che Cristo, Dio e uomo, ha una madre e che il nome di questa era Maria, già questo fatto sarebbe sufficiente perché la Chiesa l’ami, la pensi in relazione al figlio e tragga conclusioni teologiche da questa contemplazione. Non abbiamo nessun bisogno di rivelazioni supplementari o speciali: Maria è una dimensione evidente ed essenziale del Vangelo stesso».
 

Vogliamo vedere dunque se, e perché, e in che senso Maria può e deve essere detta Madre di Dio, e cominciamo a esaminare la Sacra Scrittura.

I fondamenti biblici del titolo «Madre di Dio»

La formula «Madre di Dio» non appare esplicitamente nella Sacra Scrittura, ma in essa sono affermate nel modo più chiaro due verità: la prima è che Gesù è veramente Dio; la seconda è che Gesù è veramente figlio di Maria. A questo punto la logica ci obbliga a porre questo sillogismo:

Gesù è Dio;
Maria è la madre di Gesù:
quindi Maria è la madre di Dio.

Tuttavia possiamo trovare nella Scrittura anche delle formulazioni praticamente equivalenti a quella di «Madre di Dio». E procediamo secondo il probabile ordine cronologico dei testi scritturali.

In S. Paolo, come già abbiamo visto nel Primo Capitolo della Prima Parte, leggiamo (Gal 4,4): «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna». Ora, qui il termine «Figlio» è usato in senso forte. Gesù di Nazaret non è soltanto un uomo particolarmente caro a Dio, ma è il Figlio di Dio in senso vero e proprio. È l’Unigenito del Padre. Ora, questo Figlio è nato da una donna: quindi questa donna è sua madre. Così questa donna, madre del Figlio di Dio, che è Dio lui stesso, è la madre di Dio.

In S. Paolo c’è anche un altro testo bellissimo (Rm 9,5): «Da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli». Questo Dio benedetto nei secoli, che è Gesù, proviene dagli Israeliti secondo la carne, cioè secondo la generazione umana, e ciò avviene attraverso Maria, di cui egli è figlio. Quindi Maria è la Madre di colui che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. È quindi Madre di Dio.

In Mc 6,3 leggiamo: «Non è costui il figlio di Maria?». Gesù è il figlio di Maria. Ma Gesù, come noi sappiamo, è Dio. Quindi Maria è la Madre di Dio.

Nel passo di S. Matteo dedicato all’annunzio a Giuseppe (1,18-25) appare chiaramente che il bambino concepito da Maria ha caratteri divini. «Egli salverà il suo popolo dai suoi peccati». L’espressione «il suo popolo» è molto forte. Il popolo di Dio è diventato il popolo di Gesù. Quindi Gesù è quello stesso Dio a cui apparteneva il popolo di Israele.

«Dai suoi peccati». Chi può salvare dai peccati se non Dio solo? (cf. Mc 2,7). Qui appare chiaramente che Gesù è il Dio Salvatore, che redime dal peccato il popolo di sua proprietà.

«Emmanuele… Dio con noi». È veramente Dio colui che dirà: «Ecco, io sono con voi tutti i giorni sino alla fine del mondo» (Mt 28,20).

In S. Luca, come abbiamo già visto a suo tempo, Maria è presentata come madre di Dio o attraverso allusioni all’Antico Testamento (la nuova tenda in 1,35 e la nuova arca in 1,39-44.56), oppure con una professione esplicita da parte di Elisabetta. Infatti, come abbiamo visto, l’espressione «la madre del mio Signore» è equivalente a «la madre del mio Dio». Fra tutti i testi biblici è questo il più diretto e formale.

In S. Giovanni infine Maria è sempre indicata dall’Evangelista come «la madre». La madre di chi? Del Verbo incarnato, di quel Verbo che era presso Dio e che è Dio (1,1.14).

I Santi Padri

Le due verità che abbiamo enunciato, che cioè Gesù è veramente Dio e Maria è la sua vera madre sono presenti nei Santi Padri sin dagli inizi, anche se non compare subito l’espressione «Madre di Dio». Come abbiamo già accennato a suo tempo, forse questa formula compare in Origene, quindi nella prima metà del III secolo. Essa è attestata anche dalla più antica preghiera mariana che si conosca: «Sub tuum praesidium confugimus, sancta Dei genetrix…» (Sotto la tua protezione ci rifugiamo, o santa Madre di Dio…), che risale probabilmente al III secolo. All’inizio e nel corso del IV secolo la formula viene usata, soprattutto nell’ambiente alessandrino, anche con l’aggiunta di spiegazioni. La troviamo in Alessandro di Alessandria, Eusebio di Cesarea, Costantino Imperatore, Giuliano l’Apostata («Voi non cessate di chiamare Maria Madre di Dio», egli scrive), S. Atanasio, S. llario, S. Efrem, S. Basilio, S. Cirillo di Gerusalemme, S. Gregorio Nazianzeno, S. Zeno di Verona, S. Gregorio Nisseno, S. Ambrogio, S. Epifanio. Nel V secolo poi, anche prima del Concilio di Efeso (431), l’uso diventa comunissimo e frequente.

L’eresia di Nestorio

Nestorio, eletto patriarca di Costantinopoli nel 428, a un certo punto, nelle sue prediche, inizia a combattere il titolo di Theotókos (Madre di Dio). Per quale motivo? Sentiamo le sue parole:

 «Dovunque le Scritture fanno menzione dell’economia del Signore, esse attribuiscono sempre la nascita e la sofferenza non alla divinità, ma all’umanità di Cristo, di modo che, a voler parlare esattamente, si deve chiamare la Vergine Madre di Cristo (Christotókos) e non Madre di Dio (Theotókos). Ascolta il Vangelo che grida: « Libro della generazione di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo » (Mt 1,11). È evidente che il Dio Verbo non era figlio di Davide. Ascolta ancora, se vuoi, un’altra testimonianza: « Giacobbe generò Giuseppe, sposo di Maria, dalla quale nacque Gesù, chiamato Cristo » (Mt 1,16) (…)».

«È bene e conforme alla tradizione evangelica confessare che il corpo è il tempio della divinità del Figlio, tempio che gli è unito da una suprema e divina congiunzione, fino al punto che la natura divina fa proprio ciò che appartiene a questo tempio. Ma, col pretesto di questa appropriazione, l’attribuire (al Verbo) le proprietà della carne che gli è unita, voglio dire la nascita, la sofferenza e la morte, questo è, fratello mio, il fatto di una mente fuorviata dagli errori dei Greci, o malata della follia di Apollinare, di Ario o di altre eresie, o di qualche malattia ancora più grave. Infatti, coloro che si lasciano attrarre da questa parola di appropriazione dovranno necessariamente dire che il Dio Verbo, per appropriazione, è stato allattato, è cresciuto un po’ alla volta, e nel momento della passione ha avuto paura e ha avuto bisogno dell’aiuto di un angelo. E non parlo della circoncisione, del sudore, della fame; tutto ciò che ha subito per noi nella carne che gli è unita è adorabile; ma l’attribuirlo alla divinità è una menzogna che ci farebbe giustamente accusare di calunnia».
 

Da questo brano risulta chiaramente che Nestorio non ha un’esatta nozione dell’Incarnazione del Verbo. Noi diciamo che la persona del Verbo, che dall’eternità possedeva la natura divina, ha veramente assunto anche una natura umana («il Verbo si è fatto carne», Gv 1,14), per cui ciò che appartiene alla natura umana va attribuito alla persona divina del Verbo che la ha assunta. Così noi possiamo e dobbiamo dire che il Verbo è nato a Betlemme, ha patito, è morto, è risorto (naturalmente non in quanto Verbo, ma in quanto uomo). Ma siccome il Verbo è Dio, così noi possiamo e dobbiamo dire che Dio è nato a Betlemme, ha patito, è morto, è risorto (sempre secondo la natura umana assunta).

Ciò che Nestorio nega è quindi la «comunicazione degli idiomi» (communicatio idiomatum), cioè la possibilità di attribuire all’unica Persona del Verbo non solo le proprietà della natura divina, ma anche quelle della natura umana. Nestorio nega tale possibilità poiché pone in Cristo non solo due nature, ma anche due persone, una divina e una umana. Ciò che compete alla natura umana va quindi attribuito alla sola persona umana, e non a quella divina. Così dobbiamo dire, secondo Nestorio, che colui che nasce a Betlemme, che patisce, che muore, che risorge, è la persona umana di Gesù, non la sua persona divina. Quindi la persona divina del Verbo, sempre secondo Nestorio, non è nata a Betlemme. Quindi Maria non è sua madre. Maria è madre soltanto della persona umana di Gesù, è madre dell’uomo Gesù. Quindi non è madre di Dio.

Da ciò si vede facilmente come la negazione della maternità divina di Maria non è che un caso particolare, un’applicazione concreta della negazione della comunicazione degli idiomi.

La risposta di S. Cirillo Alessandrino

A questa tesi di Nestorio si contrappone il suo grande avversario, S. Cirillo Alessandrino, che insiste invece sull’unità del Verbo incarnato. Il suo pensiero traspare chiaramente da questo passo della sua seconda lettera a Nestorio, che riportiamo:

 «Noi non diciamo che la natura del Verbo si è trasformata in un uomo completo composto di anima e di corpo, ma piuttosto questo: il Verbo, unendo a sé secondo l’ipostasi (cioè la persona) una carne animata da un’anima razionale, è divenuto uomo in modo indicibile e incomprensibile, e si è chiamato Figlio dell’uomo, non soltanto per volontà, né per compiacenza, e neppure assumendone solo il personaggio (prósopon). Differenti sono le nature che si sono incontrate in una vera unità, ma dalle due risulta un solo Cristo e Figlio; la differenza delle nature non è soppressa dall’unione, ma anzi, la divinità e l’umanità formano per noi un solo Signore e Figlio e Cristo, per il loro incontro indicibile e ineffabile nell’unità».

«Così, quantunque sussista prima dei secoli e sia stato generato dal Padre, è anche detto che è stato generato secondo la carne da una donna; non che la natura divina abbia cominciato a essere nella Vergine, né che abbia avuto necessariamente bisogno di una seconda nascita per mezzo di essa, dopo quella che aveva ricevuto dal Padre (infatti è leggerezza e ignoranza dire che Colui che esiste prima dei secoli e che è coeterno con il Padre abbia bisogno di una seconda generazione per esistere), ma siccome è stato per noi e per la nostra salvezza che ha unito a sé l’umanità secondo l’ipostasi, ed è nato da una donna, si dice che è stato generato da lei secondo la carne. Infatti non è stato un uomo ordinario a venire prima generato da Maria e sul quale poi sarebbe venuto a posarsi il Verbo, ma il Verbo, essendosi unito all’umanità fin dal grembo di Maria, si dice che ha accettato una nascita carnale, avendo rivendicato per sé la nascita dalla sua carne (…)».

«Ecco perché hanno osato chiamare Theotókos la Vergine Maria: non nel senso che la natura del Verbo, ossia la sua divinità, abbia preso da Maria il principio della sua esistenza, ma siccome è nato da lei questo santo corpo animato da un’anima razionale a cui il Verbo si è unito secondo l’ipostasi, si dice che da lei il Verbo è stato generato secondo la carne».
 

Il Concilio di Efeso

Il Concilio di Efeso (431) fa sostanzialmente sua la tesi di S. Cirillo e condanna quella di Nestorio: afferma innanzitutto il dogma dell’unità di Cristo, in un’unità secondo l’ipostasi, cioè secondo la persona, e di conseguenza afferma che Maria deve essere detta «Madre di Dio» (Theotókos).

È importante notare che «la definizione dogmatica di Efeso fu prima di tutto cristologica, ma in conseguenza fu anche mariologica. Quando fu definito il carattere personale divino dell’uomo Cristo, la maternità di Maria fu definita come divina».

Scrive molto bene Max Thurian:

 «Il dogma di Efeso ha essenzialmente una portata cristologica: Maria non è chiamata « Madre di Dio » per glorificare la sua persona, ma a causa di Cristo, affinché la verità sulla persona di Cristo sia pienamente messa in luce. Anche là Maria è Serva del Signore; il dogma che la concerne è al servizio della verità che riguarda suo Figlio, il Signore. Il Concilio di Efeso, chiamandola Madre di Dio, riconosce in Cristo due nature, umana e divina, e una sola Persona: esso riconosce così la realtà dell’Incarnazione fin dal concepimento miracoloso del Figlio di Dio nella Vergine Maria».
 

Il Concilio di Calcedonia, nel 451, riprenderà l’affermazione di Efeso:

 «Seguendo i Santi Padri noi proclamiamo tutti con una sola voce un solo e medesimo Figlio, il Signore nostro Gesù Cristo (…), generato dal Padre prima dei secoli quanto alla sua divinità, ma negli ultimi giorni, per noi e per la nostra salvezza, generato da Maria Vergine, Madre di Dio, quanto alla sua umanità» (DS 301).
 

Il medesimo insegnamento verrà ripreso da Giovanni II († 535), dai Concili Costantinopolitano II (553) e III (681) (DS 401, 427, 555) fino al Vaticano II compreso.

Non si tratta di una definizione diretta e formale dal punto di vista giuridico, ma dato che il termine Theotókos è stato assunto solennemente dai Concili ecumenici e accolto senza discussione, esso appartiene senza dubbio al deposito della Rivelazione. Che Maria sia Madre di Dio è quindi una verità di fede.

Volendo a questo punto riassumere ed esprimere l’insegnamento della Chiesa in una formulazione semplice possiamo dire così: Che cosa significa che Maria è Madre di Dio? Non significa certamente che ha generato la divinità, cosa che sarebbe priva di senso, perché la creatura viene sempre dopo il Creatore. Significa invece che ha dato la natura umana al Verbo di Dio, cioè alla seconda Persona della Santissima Trinità, che è Dio. Ma dare la natura umana al Verbo significa generarlo secondo la natura umana, significa essergli Madre. Quindi Maria è Madre del Verbo, che è Dio, cioè è Madre di Dio. Più brevemente ancora: che Maria sia Madre di Dio significa semplicemente che gli ha dato la natura umana.

Ricchezza della formula «Madre di Dio»

C’è un detto antichissimo, e che entrò anche nel Breviario Romano, secondo cui Maria è la vincitrice di tutte le eresie: «Tu sola cunctas haereses interemisti in universo mundo» (Tu sola hai distrutto tutte le eresie in tutto quanto il mondo). Ora, ciò si verifica perfettamente rispetto alle prime tre grandi eresie cristologiche, che Maria distrugge col suo essere proclamata «Madre di Dio».

La prima grande eresia cristologica fu l’Arianesimo. Secondo Ario il Verbo, la seconda Persona della Santissima Trinità, non sarebbe veramente Dio, ma solo una creatura eccelsa, una specie di superangelo. In questo caso Maria non può evidentemente essere detta Madre di Dio, poiché il Verbo, di cui è Madre, non è Dio. Quindi quando noi diciamo che Maria è Madre di Dio distruggiamo l’eresia di Ario.

La seconda grande eresia fu il Nestorianesimo, di cui abbiamo già parlato. Nestorio ammette sì che il Verbo sia Dio, ma dice che non ha assunto la natura umana nell’unità della persona, per cui in Cristo vi sono due persone, quella umana e quella divina, unite solo in senso morale. Maria sarebbe così la madre della persona umana di Gesù, ma non del Verbo, quindi non di Dio. Infatti, come abbiamo visto, Nestorio rifiutava decisamente questa formula. Dicendo quindi che Maria è Madre di Dio noi distruggiamo l’eresia di Nestorio (ed è proprio quello che ha fatto il Concilio di Efeso).

Qualche anno dopo sorge un’altra grande eresia, di segno opposto, l’eresia monofisita. Secondo i monofisiti (monofisismo significa: una sola natura), in Gesù Cristo c’è la persona divina del Verbo con la sua natura divina, ma non c’è una vera umanità, poiché la natura umana è stata come assorbita da quella divina. L’umanità di Gesù è quindi un’umanità apparente. Gesù sembra un uomo, ma non è un vero uomo. In lui c’è soltanto la natura divina e non c’è quella umana. Ora, se le cose stanno così, come fa Maria a essere sua madre? Una donna per essere madre deve comunicare una vera umanità, una vera natura umana. Se l’umanità di Gesù è un’umanità apparente, anche la maternità di Maria nei suoi riguardi sarà una maternità apparente. Quindi se noi accettiamo il monofisismo non possiamo dare a Maria il titolo di «Madre di Dio». Se invece noi affermiamo questo titolo, veniamo a distruggere anche questa eresia.

Così dunque Maria, quando viene proclamata Madre di Dio, distrugge davvero tutte le eresie cristologiche.

La ricchezza e la profondità della formula «Madre di Dio» appare anche considerando le cose da un punto di vista positivo.

Tutta la fede cristiana riguardo al Verbo Incarnato può essere sintetizzata così: Gesù è insieme vero Dio e vero uomo. Dicendo che Maria è Madre «di Dio» diciamo che Gesù è vero Dio; dicendo che Maria è «Madre» di Dio diciamo che Gesù è vero uomo; e diciamo anche che in lui la divinità e l’umanità sono unite nella stessa persona.

Il fondamento della relazione di maternità

Se Maria è Madre di Dio, ciò significa che vi è una relazione fra lei e Dio, più precisamente fra lei e la persona divina del Verbo. Qual è il fondamento di questa relazione? È l’atto generativo di Maria riguardo a Gesù, al Verbo incarnato. Vogliamo quindi considerare qual è l’apporto dato da Maria nella formazione dell’umanità di Cristo. Grazie a questo apporto ella è detta Madre di Cristo, e quindi Madre di Dio.

Ci chiediamo innanzitutto: qual è l’apporto dei genitori nelle generazioni ordinarie? Esso comporta tre elementi: a) l’azione dei genitori (causa seconda) per la formazione del corpo; b) l’azione divina motrice riguardo a questa azione (causa prima); c) l’azione divina creatrice che produce e infonde l’anima. I genitori sono insieme la causa seconda di questa generazione: la causalità di ciascuno è parziale e complementare rispetto a quella dell’altro.

Nel caso di Maria vi è il miracolo della concezione verginale. Con tale miracolo Dio fa sì che l’azione generatrice della donna, che per sua natura è parziale, incapace di produrre quell’effetto che è un nuovo vivente, produca da sola la cellula iniziale del nuovo organismo. Nell’istante stesso della formazione di questa cellula avviene la creazione dell’anima, e con ciò la costituzione di tutta la natura umana, da parte di Dio. Maria è così la Madre di questo nuovo essere vivente che è comparso nel mondo, di questo nuovo uomo: ella è quindi la Madre del Verbo, poiché quest’uomo è il Verbo.

Non è necessario immaginare qualche sopraelevazione dell’azione generatrice di Maria: per il fatto stesso che il Verbo ha assunto una natura umana individuata e del tutto simile alla nostra, ne viene di conseguenza che questa umanità è stata formata da un’azione generatrice naturale (a parte il miracolo della concezione verginale). Questa generazione, anche se verginale, avrebbe prodotto un semplice uomo se non vi fosse stata l’assunzione della natura umana da parte del Verbo.

La relazione di maternità in se stessa

In base al fondamento che abbiamo visto (l’apporto di Maria nella formazione dell’umanità di Gesù), Maria è sua Madre, cioè ha con lui una relazione di maternità. Ma Gesù è Dio, quindi questa relazione rapporta Maria a Dio, o più precisamente al Verbo, alla seconda Persona della Santissima Trinità.

Questa relazione è reale in Maria. Cioè il fatto di essere diventata la Madre del Verbo aggiunge in lei qualcosa, le dona una perfezione che prima non aveva. Viene a questo punto spontaneo chiedersi: nel Verbo sorge una relazione di figliolanza (o di filiazione, per usare un termine più filosofico) nei riguardi di Maria? E se sorge, è una relazione reale o soltanto di ragione? Dobbiamo rispondere che questa relazione sorge, ma è soltanto di ragione, poiché essendo il Verbo Dio, cioè l’Essere perfettissimo, Egli non può ricevere alcun perfezionamento dalle creature. È questa una legge generale che non ammette eccezioni: tutte le relazioni fra Dio e le creature sono relazioni di ragione, a cominciare dalla relazione stessa che nasce dall’atto creativo di Dio. Cioè Dio non ha una relazione reale con il mondo da lui creato. La relazione del Creatore verso la creatura è soltanto di ragione.

Ma allora uno dirà: se la relazione del Creatore verso la creatura è soltanto di ragione e non è reale, ne viene di conseguenza che Dio non è realmente Creatore. Non è vero: Dio è veramente e realmente Creatore, ma non in forza di una relazione reale fra Lui e la creatura, bensì in forza della reale, realissima relazione fra la creatura e Lui.

E così è nel caso di Maria: il Verbo è realmente Figlio di Maria anche se la sua relazione verso di Lei è soltanto di ragione. Infatti è vero Figlio di Maria grazie alla reale, realissima relazione di maternità di Maria verso di Lui.

Che cos’è dunque questa relazione di maternità che si trova in Maria? È qualcosa di straordinario e di unico, per cui il Cardinale Gaetano, il grande commentatore di S. Tommaso, arriva a dire che «Maria ha toccato con la sua operazione i confini stessi della divinità, quando ha concepito, dato alla luce e generato Dio». Qualcosa di simile aveva già detto S. Tommaso, quando aveva scritto che

 «l’umanità di Cristo, in quanto è unita a Dio, la beatitudine creata, in quanto è il godimento di Dio, e la Beata Vergine, in quanto è la Madre di Dio, hanno una dignità in certo qual modo infinita, che deriva ad esse dal bene infinito che è Dio. Da ciò consegue che non può essere fatto nulla che sia migliore di queste tre cose, poiché non c’è nulla che sia migliore di Dio» (S. Th., I, q. 25, a. 6, ad 4).
 

Così da una parte l’azione generatrice di Maria è «naturale» (a parte la concezione verginale), ma da un’altra la maternità che essa fonda è «soprannaturale», poiché raggiunge Dio stesso.

Finora abbiamo considerato la maternità di Maria da un punto di vista puramente fisico e biologico. Ma una maternità che sia veramente umana non si ferma a questo aspetto. Innanzitutto essa comporta l’implicazione di una volontà mossa dall’amore. Una vera madre accoglie liberamente suo figlio con amore. Una madre degna di questo nome deve mettere tutta se stessa in questa maternità.

Inoltre la maternità umana non comporta solo il concepimento, la gestazione e il parto. Essa comporta tutte le cure che il bambino richiede sin da quando viene alla luce, e in seguito la sua educazione da tutti i punti di vista.

Nel caso di Maria poi tutto ciò risulta accentuato dal fatto che Maria è madre vergine, il che significa che l’umanità di Gesù viene unicamente da lei, è un dono esclusivo della madre al figlio. E questo dono è stato fatto nella più totale e perfetta libertà e nel più ardente amore. Da quando ha pronunciato il suo Fiat, Maria è tutta e soltanto di Gesù, e Gesù, come uomo, è tutto e soltanto di Maria. Relazione mirabile!

Scrive molto bene il Melotti: «La genetica moderna ha messo in luce la profondità di azione della madre su tutto l’essere del figlio. Questo influsso ha qui un’intensità eccezionale, poiché Maria è una madre resa feconda da Dio, perfettamente santa ed equilibrata, unica « genitrice ». Non si deve temere di dire che Maria ha fornito al Verbo, oltre alla sua carne (caro Christi; caro Mariae, dice S. Agostino) e oltre ai suoi lineamenti fisici, tutto ciò che nell’essere spirituale è condizionato dalla carne: abitudini mentali, una certa qualità di immaginazione, di sensibilità, un dato carattere e temperamento. A partire di qui Maria ha assunto in pienezza il compito materno che va molto più in là della concezione-gestazione-nascita: l’educazione di suo figlio, la formazione della sua anima, come pure quella del suo corpo. Educatrice perfetta di un figlio perfettamente docile (cf. Lc 2,51), quantunque sottomesso innanzitutto al Padre trascendente, Maria lo ha fatto crescere « in statura e in sapienza »: iniziazione pratica all’obbedienza, alla sofferenza, il tutto nella luce dell’insegnamento biblico (Gesù è religiosamente istruito dall’Antico Testamento, cf. Lc 2,46-47)».

Scrive a sua volta Ortensio da Spinetoli:

 «L’umanità di Gesù, per sé integra e ideale, va assumendo i segni, le note somatiche, ma più ancora le impronte fisico-psichiche, le eredità in una parola, della madre. Anche nel suo spirito, oltre che nel suo fisico, Gesù assomiglia a Maria».
 

La coscienza di Maria

Trattando della maternità di Maria nei riguardi di Gesù non si può evitare di porsi questo problema: la Vergine Maria era sin dall’inizio cosciente della divinità del bambino da lei concepito e da lei nato? Secondo alcuni autori Maria Santissima era cosciente che quel bambino era il Messia, e anche il Figlio di Dio, intendendo però l’espressione «Figlio di Dio» nel senso di una figliolanza secondo la grazia e l’elezione, com’era nell’uso abituale dell’Antico Testamento.

Romano Guardini, ad esempio, scrive:

 «Durante la vita terrena di Gesù Maria non ha ancora riconosciuto in lui il Figlio di Dio nel senso totale della rivelazione cristiana. Prendere parte coscientemente alla vita di un tale essere sarebbe stato al di sopra delle sue forze».
 

Così la pensano anche altri autori, come Feuillet, Zedda, Galot, Schelkle.

Diversa è invece l’opinione di Laurentin, Lyonnet e altri. Il ragionamento di questi autori si basa sia su motivi esegetici, sia su motivi teologici. I motivi esegetici li abbiamo già accennati nella parte biblica, quando abbiamo visto che dalle parole dell’Angelo, dal saluto di Elisabetta e da altre circostanze Maria poteva intuire che quel bambino da lei concepito era di natura divina. E ciò tenuto conto soprattutto della ricchezza di grazia di cui Maria era ricolma, e quindi della presenza in lei dei doni dello Spirito Santo, in particolare di quelli riguardanti la conoscenza soprannaturale, come i doni della sapienza, dell’intelletto e della scienza. Maria Santissima quindi non soltanto conosceva bene la Bibbia, ma ne coglieva il senso profondo attraverso la sua illuminazione interiore.

Il motivo teologico è che una maternità che sia veramente umana esige di essere consapevole e cosciente. Se Maria non avesse saputo che il suo bambino era veramente Dio, essa sarebbe stata Madre di Dio in senso puramente biologico, non in senso pienamente umano. Per usare il linguaggio filosofico, sarebbe stata Madre di Dio materialmente, non formalmente (materialiter, non formaliter). Scrive M. D. Philippe:

 «Se si pretende che Maria nell’Annunciazione non ha creduto alla divinità del Figlio dell’Altissimo, ma soltanto al suo carattere messianico di inviato di Dio, allora bisogna affermare che Maria è soltanto materialmente Madre di Dio».
 

Si potrebbe anche aggiungere che in questo caso Dio l’avrebbe, in certo qual modo, … ingannata, facendo sì che divenisse la Madre di Dio senza saperlo, in modo incosciente. Non sembra che questo sia un modo di comportarsi conveniente a Dio, e in particolare al Dio della Rivelazione cristiana, profondamente rispettoso della dignità della persona.

Concedendo dunque che Maria all’Annunciazione comprese che quel bambino che ella era chiamata a concepire era Figlio di Dio nel senso forte della parola, ci chiediamo: quale tipo di conoscenza era quella di Maria, almeno nella fase iniziale? Possiamo rispondere con A. George:

 «Maria conosce il legame che esiste tra il Figlio suo e Dio, legame inaudito, unico, che le viene rivelato nella concezione verginale, Essa non ha, però, i concetti intellettuali che le permettano di esprimerlo con chiarezza: ignora gli ulteriori sviluppi teologici, non conosce i termini dei simboli degli Apostoli o di Nicea. Ora, è proprio qui che si trova la risposta alla domanda posta tante volte: Al momento dell’Annunciazione Maria ha creduto nella divinità di suo Figlio? Io rispondo sì senza riserva alcuna. Però essa l’ha pensata nel linguaggio che le era allora accessibile. Non le è stato impartito un corso di teologia mariana; non è questo il modo di Dio… Maria è una mistica che sa, ma non ha la teologia scientifica che le permetta di esprimere la sua esperienza».
 

Appurato questo punto, possiamo dire che Maria fu la donna unica in cui due sentimenti, in qualche modo apparentati, troveranno la loro esatta coincidenza: l’amore di una madre nei riguardi di suo figlio, e l’amore di una creatura nei riguardi del suo Dio. L’amore materno talvolta diventa adorazione. Il Laurentin riporta due belle citazioni a tale riguardo. La prima è tratta da Basilio di Seleucia († 459):

 «Quando ella contemplò quel divino infante, io immagino che, vinta dall’amore e dal timore, parlasse così tra sé: Che nome posso trovare che si convenga a te, figlio mio? Uomo? Ma la tua concezione è divina. Dio? Ma tu hai assunto l’umana incarnazione. Che farò dunque per te? Ti nutrirò di latte o ti celebrerò come un Dio? Avrò cura di te come una madre, o ti servirò come una serva? Ti abbraccerò come un figlio o ti supplicherò come un Dio? Ti offrirò del latte o ti porterò degli aromi?».
 

L’altro testo è di un autore che mai avremmo pensato che potesse scrivere in questo modo. Si tratta niente meno che di Jean Paul Sartre, il campione dell’ateismo del XX secolo, l’uomo che ha distrutto la fede in intere generazioni di giovani, l’uomo che tanto male ha fatto con i suoi romanzi.

Come mai Jean Paul Sartre ha scritto sulla Madonna? Si era in tempo di guerra, e Sartre era prigioniero. In occasione del Natale fu pregato dai suoi compagni di prigionia di descrivere una scena natalizia. Sartre, il grande romanziere ateo, mosso da un senso di solidarietà verso i suoi compagni, accetta la proposta e scrive, tra l’altro, questa pagina:

 «La Vergine è pallida e guarda il bambino. Quel che bisognerebbe dipingere sul suo volto è una meraviglia ansiosa che non è comparsa che una volta su una fisionomia umana. Perché il Cristo è suo figlio, la carne della sua carne e il frutto delle sue viscere. Ella lo ha portato nove mesi e gli darà il seno, e il suo latte diventerà il sangue di Dio. E sul momento la tentazione è così forte che dimentica che è Dio. Lo stringe nelle sue braccia e gli dice: « Piccolo mio »».

«Ma in altri momenti, resta interdetta e pensa: « Dio è qui », ed è presa da un timore religioso per questo Dio muto, per questo bambino terrificante. Perché tutte le madri si arrestano a momenti, davanti a questo frammento ribelle della loro carne che è il loro figlio, e si sentono in esilio davanti a questa vita nuova che si è fatta con la loro vita e che è abitata da strani pensieri. Ma nessun figlio è stato più crudelmente e più rapidamente strappato a sua madre, perché egli è Dio e supera da ogni lato ciò che ella può immaginare…».

«Ma io penso che vi siano anche degli altri momenti, rapidi e fuggevoli, in cui lei sente al tempo stesso che il Cristo è suo Figlio, il suo piccolo, e che è Dio. Lo guarda e pensa: « Questo Dio è il mio bambino. Questa carne divina è la mia carne. Egli è fatto di me, ha i miei occhi, e questa forma della sua bocca è la forma della mia, mi assomiglia. Egli è Dio e mi assomiglia ». E nessuna donna ha avuto in tal modo il suo Dio per sé sola, un Dio piccolino che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio tutto caldo che sorride e che respira, un Dio che si può toccare e che ride: ed è in uno di questi momenti che io dipingerei Maria se fossi un pittore».
 

La maternità «divina»

Per esprimere il fatto che Maria Santissima è vera Madre di Dio la teologia, sembra a partire dal XVII secolo, ha coniato l’espressione «maternità divina». La maternità di Maria è una maternità divina. Si tratta di una formula astratta, che tende a far considerare la relazione in se stessa, indipendentemente dal suo soggetto, che è la persona di Maria. Ma a parte questo inconveniente, la formula si presenta assai ricca di contenuto, poiché dice qualcosa di più del semplice fatto che Maria, attraverso la sua maternità, si relaziona in modo tutto speciale, diretto e immediato, al Verbo, che è Dio. Infatti la maternità di Maria appare «divina» anche se è considerata alla luce delle tre Persone della Santissima Trinità.

a) Essa è divina se è vista nella luce del Padre. Infatti la Beata Vergine, in forza della divina maternità, ha conseguito una singolare somiglianza con il Padre. Come il Padre infatti ha generato dall’eternità il Verbo secondo la natura divina, così Maria Santissima lo ha generato nel tempo secondo la natura umana. Come il Padre lo ha generato dalla sua sostanza divina, così la Madre lo ha generato dalla sua sostanza umana. Come il Verbo è l’unico Figlio del Padre, da lui generato verginalmente, così è anche l’unico Figlio della Madre, da lei generato verginalmente. Il tutto è sintetizzato dalle bellissime parole di S. Anselmo: «Il Padre e la Vergine ebbero naturalmente uno stesso Figlio comune» (Naturaliter fuit unus idemque communis Dei Patris et Virginis Filius). Conseguentemente sia il Padre che la Madre, rivolti allo stesso Figlio, possono dirgli in piena verità: «Tu sei mio Figlio». Nessun’altro lo può fare.

b) La maternità di Maria è divina anche se è vista nella luce del Figlio, anzi, lo è soprattutto e in primo luogo sotto questo aspetto. Maria è veramente Madre di Dio, quindi la sua maternità è divina nel suo termine. Qualcuno però potrebbe obiettare: l’attività materna di Maria si esercita nell’ordine corporeo, e non solo essa non genera in alcun modo la divinità, ma Gesù Cristo non riceve da essa la sua personalità divina, che è eterna e preesistente.

A ciò rispondiamo che anche le altre madri non danno ai loro figli né l’anima, che è creata da Dio, né la personalità, che è legata all’anima. Eppure vengono dette madri non del corpo dei loro figli, ma dei loro figli in quanto persone e in quanto dotate di anima e di corpo. Allo stesso modo Maria non è Madre della sola carne di Gesù, ma è Madre di questo Figlio che essa ha concepito e generato. E anche se la persona di Gesù è divina, Maria è veramente Madre di questa Persona, che sussiste nella carne. Ella non è solo Madre del corpo di suo Figlio, ma è, come ogni altra madre, Madre di suo Figlio. È Madre di Gesù, che è Dio.

c) Infine la maternità di Maria è divina anche se è vista nella luce dello Spirito Santo. Gesù infatti fu concepito per opera dello Spirito Santo, il quale agì come causa efficiente nella formazione del suo corpo nel seno di Maria. Maternità divina quindi in quanto operata direttamente da Dio non solo quanto alla creazione dell’anima, ma anche quanto alla formazione del corpo.

La dignità della maternità divina

Vogliamo adesso considerare l’aspetto per così dire «morale» della maternità divina, cioè quello riguardante la dignità che compete alla Beata Vergine per il fatto di essere la Madre di Dio.

Dobbiamo dire che questa dignità è così grande che, dopo quella che compete all’umanità di Gesù, Dio non potrebbe crearne una maggiore. Perché infatti vi possa essere una madre più grande e più perfetta di Maria bisognerebbe che ci fosse un figlio più grande e più perfetto di Gesù, cosa impossibile, non potendovi essere nulla di più grande di Dio. Con la divina maternità Dio ha concesso alla creatura tutto ciò che ad essa si può concedere, dopo l’unione ipostatica.

Ciò risulta anche dal confronto fra questa e le altre dignità create. Ora, è fuori dubbio che la maternità divina supera in dignità tutte le realtà naturali (minerali, vegetali, animali, uomini e angeli considerati secondo la loro natura, prescindendo dalla grazia santificante). Il problema però si pone riguardo alle realtà della grazia. L’ordine della grazia infatti supera talmente l’ordine della natura che S. Tommaso è arrivato a dire che «il bene della grazia di un solo uomo è superiore al bene naturale di tutto l’universo» (S. Th., I-II, q. 113, a. 9, ad 2). Si impone allora il confronto fra la dignità della grazia santificante (che è il germe della gloria) e quella della maternità divina.

È chiaro che se noi consideriamo la maternità divina arricchita di tutte le grazie che la accompagnano, essa è superiore al bene della grazia e della gloria. Ma il problema si pone se consideriamo la maternità divina in astratto, cioè solo in quanto è formalmente maternità e nient’altro. Non mancano in questo caso dei teologi (Vasquez, i Salmanticesi e altri) i quali affermano che l’unione con Dio mediante la grazia e la gloria supera l’unione con Dio mediante la maternità divina. Essi si basano principalmente su due motivi. Il primo si fonda sulla risposta che Gesù diede all’anonima donna del popolo che aveva lodato sua madre «Beato il seno che ti ha portato…»): Gesù infatti risponde che è beato piuttosto «chi ascolta la parola di Dio e la custodisce» (Lc 11,28). Con questa risposta il Signore avrebbe indicato che l’unione della mente con Dio mediante la grazia supera l’unione della creatura con Dio mediante la maternità. Il secondo motivo è che la visione beatifica unisce a Dio in modo immediato, mentre la maternità divina unisce a Dio attraverso l’umanità data al Figlio.

Ciò nonostante la maggioranza dei teologi afferma comunemente che la maternità divina supera incomparabilmente l’ordine stesso della grazia e della gloria. Infatti essa appartiene all’ordine ipostatico, e perciò contiene in sé virtualmente ed esige tutti i privilegi della grazia. Quanto poi alle difficoltà sollevate, dobbiamo dire che la donna anonima del Vangelo non conosceva la maternità divina di Maria, per cui Gesù le risponde mettendosi dal suo punto di vista. Ma anche prescindendo da ciò, bisogna notare che Gesù non parla di dignità, ma di beatitudine. Ora, è chiaro che la beatitudine massima si ha nella visione di Dio, e la maternità divina non è in se stessa beatificante. All’altra difficoltà si risponde invece dicendo che l’unione con Dio data dalla maternità divina è un’unione ontologica e fisica, mentre quella della visione è un’unione intenzionale, cioè posta sul piano conoscitivo. Ora un’unione fisica, anche se mediata, è superiore a un’unione intenzionale, anche se immediata.

Possiamo quindi concludere che la divina maternità supera in dignità ed eccellenza qualsiasi altra dignità creata, compresa la grazia e la gloria.

SU MARIA – PAPA BENEDETTO, UDIENZA 2 GENNAIO 2008: DIVINA MATERNITÀ DI MARIA

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080102_it.html 

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 2 gennaio 2008

Divina Maternità di Maria

Cari fratelli e sorelle!

Un’antichissima formula di benedizione, riportata nel Libro dei Numeri, recita: « Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il suo volto e ti conceda pace » (Nm 6,24–26). Con queste parole che la liturgia ci ha fatto riascoltare ieri, primo giorno dell’anno, vorrei formulare cordiali auguri a voi, qui presenti, e a quanti in queste feste natalizie mi hanno fatto pervenire attestati di affettuosa vicinanza spirituale.

Ieri abbiamo celebrato la solenne festa di Maria, Madre di Dio. « Madre di Dio », Theotokos, è il titolo attribuito ufficialmente a Maria nel V secolo, esattamente nel Concilio di Efeso del 431, ma affermatosi nella devozione del popolo cristiano già a partire dal III secolo, nel contesto delle accese discussioni di quel periodo sulla persona di Cristo. Si sottolineava, con quel titolo, che Cristo è Dio ed è realmente nato come uomo da Maria: veniva così preservata la sua unità di vero Dio e di vero uomo. In verità, quantunque il dibattito sembrasse vertere su Maria, esso riguardava essenzialmente il Figlio. Volendo salvaguardare la piena umanità di Gesù, alcuni Padri suggerivano un termine più attenuato: invece del titolo di Theotokos, proponevano quello di Christotokos, « Madre di Cristo »; giustamente però ciò venne visto come una minaccia alla dottrina della piena unità della divinità con l’umanità di Cristo. Perciò, dopo ampia discussione, nel Concilio di Efeso del 431, come ho detto, venne solennemente confermata, da una parte, l’unità delle due nature, quella divina e quella umana, nella persona del Figlio di Dio (cfr DS, n. 250) e, dall’altra, la legittimità dell’attribuzione alla Vergine del titolo di Theotokos, Madre di Dio (ibid., n. 251).

Dopo questo Concilio si registrò una vera esplosione di devozione mariana e furono costruite numerose chiese dedicate alla Madre di Dio. Tra queste primeggia la Basilica di Santa Maria Maggiore , qui a Roma. La dottrina concernente Maria, Madre di Dio, trovò inoltre nuova conferma nel Concilio di Calcedonia (451) in cui Cristo fu dichiarato « vero Dio e vero uomo (…) nato per noi e per la nostra salvezza da Maria, Vergine e Madre di Dio, nella sua umanità » (DS, n. 301). Com’è noto, il Concilio Vaticano II ha raccolto in un capitolo della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium , l’ottavo, la dottrina su Maria, ribadendone la divina maternità. Il capitolo s’intitola: « La Beata Maria Vergine, Madre di Dio, nel mistero di Cristo e della Chiesa ».

La qualifica di Madre di Dio, così profondamente legata alle festività natalizie, è pertanto l’appellativo fondamentale con cui la Comunità dei credenti onora, potremmo dire, da sempre la Vergine Santa. Essa esprime bene la missione di Maria nella storia della salvezza. Tutti gli altri titoli attribuiti alla Madonna trovano il loro fondamento nella sua vocazione ad essere la Madre del Redentore, la creatura umana eletta da Dio per realizzare il piano della salvezza, incentrato sul grande mistero dell’incarnazione del Verbo divino. In questi giorni di festa ci siamo soffermati a contemplare nel presepe la rappresentazione della Natività. Al centro di questa scena troviamo la Vergine Madre che offre Gesù Bambino alla contemplazione di quanti si recano ad adorare il Salvatore: i pastori, la gente povera di Betlemme, i Magi venuti dall’Oriente. Più tardi, nella festa della « Presentazione del Signore », che celebreremo il 2 febbraio, saranno il vecchio Simeone e la profetessa Anna a ricevere dalle mani della Madre il piccolo Bambino e ad adorarlo. La devozione del popolo cristiano ha sempre considerato la nascita di Gesù e la divina maternità di Maria come due aspetti dello stesso mistero dell’incarnazione del Verbo divino e perciò non ha mai considerato la Natività come una cosa del passato. Noi siamo « contemporanei » dei pastori, dei magi, di Simeone e di Anna, e mentre andiamo con loro siamo pieni di gioia, perchè Dio ha voluto essere il Dio con noi ed ha una madre, che è la nostra madre.

Dal titolo di « Madre di Dio » derivano poi tutti gli altri titoli con cui la Chiesa onora la Madonna, ma questo è il fondamentale. Pensiamo al privilegio dell’ »Immacolata Concezione », all’essere cioè immune dal peccato fin dal suo concepimento: Maria fu preservata da ogni macchia di peccato perché doveva essere la Madre del Redentore. La stessa cosa vale per il titolo di « Assunta »: non poteva essere soggetta alla corruzione derivante dal peccato originale Colei che aveva generato il Salvatore. E sappiamo che tutti questi privilegi non sono concessi per allontanare Maria da noi, ma al contrario per renderla vicina; infatti, essendo totalmente con Dio, questa Donna è vicinissima a noi e ci aiuta come madre e come sorella. Anche il posto unico e irripetibile che Maria ha nella Comunità dei credenti deriva da questa sua fondamentale vocazione ad essere la Madre del Redentore. Proprio in quanto tale, Maria è anche la Madre del Corpo Mistico di Cristo, che è la Chiesa. Giustamente, pertanto, durante il Concilio Vaticano II, il 21 novembre 1964 , Paolo VI attribuì solennemente a Maria il titolo di « Madre della Chiesa ».

Proprio perché Madre della Chiesa, la Vergine è anche Madre di ciascuno di noi, che siamo membra del Corpo mistico di Cristo. Dalla Croce Gesù ha affidato la Madre ad ogni suo discepolo e, allo stesso tempo, ha affidato ogni suo discepolo all’amore della Madre sua. L’evangelista Giovanni conclude il breve e suggestivo racconto con le parole: « E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa » (Gv 19,27). Così è la traduzione italiana del testo greco: « εiς tά íδια », egli l’accolse nella realtà propria, nel suo proprio essere. Così che fa parte della sua vita e le due vite si compenetrano; e questo accettarla (εiς tά íδια) nella propria vita è il testamento del Signore. Dunque, al momento supremo del compimento della missione messianica, Gesù lascia a ciascuno dei suoi discepoli, come eredità preziosa, la sua stessa Madre, la Vergine Maria.

Cari fratelli e sorelle, in questi primi giorni dell’anno, siamo invitati a considerare attentamente l’importanza della presenza di Maria nella vita della Chiesa e nella nostra esistenza personale. Affidiamoci a Lei perchè guidi i nostri passi in questo nuovo periodo di tempo che il Signore ci dona da vivere, e ci aiuti ad essere autentici amici del suo Figlio e così anche coraggiosi artefici del suo Regno nel mondo, Regno della luce e della verità. Buon Anno a tutti! È questo l’augurio che desidero rivolgere a voi qui presenti e ai vostri cari in questa prima Udienza generale del 2008. Che il nuovo anno, iniziato sotto il segno della Vergine Maria, ci faccia sentire più vivamente la sua presenza materna, così che, sostenuti e confortati dalla protezione della Vergine, possiamo contemplare con occhi rinnovati il volto del suo Figlio Gesù e camminare più speditamente sulle vie del bene.

Ancora una volta, Buon Anno a tutti!

La tomba di Maria a Gerusalemme (Custordia Terra Santa)

La tomba di Maria a Gerusalemme (Custordia Terra Santa) dans GEOGRAFIA, STORIA, STORIA ANTICA, ARCHEOLOGIA - VARIE GoesVirgin

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La tomba di Maria a Gerusalemme

G.Claudio Bottini, ofm

E’ proprio vero–come ripete la saggezza popolare–che ‘non tutti i mali vengono per nuocere’. Una violenta alluvione il 7 febbraio 1972 allagò completamente la chiesa che racchiude il sepolcro vuoto della Madonna presso il Getsemani, a pochi passi dal celebre Orto degli Ulivi. Fu un allagamento provvidenziale, perché costrinse i greci ortodossi e gli armeni ortodossi, attuali custodi del santuario, a smantellare le sovrastrutture, che nascondevano la tomba di Maria, e a intraprendere lavori di restauro.

Grazie all’ecumenismo fatto di gesti piccoli e silenziosi – a Gerusalemme è forse l’unico tipo di ecumenismo che non rischia di aggravare le divisioni già esistenti – l’abuna (= padre) greco Macarios e il sacrestano armeno Hagop invitarono padre Bellarmino Bagatti, il decano degli archeologi francescani in Terra Santa, a visitare e a studiare la tomba e il complesso sepolcrale e architettonico che la circondano. P. Bagatti, fedele al metodo, cui si è sempre ispirato, di accostare reperti archeologici e fonti letterarie, non si limitò ad esaminare il monumento, ma rilesse con attenzione la letteratura antica sulla morte e la sepoltura della Madonna.

Si sa che il Nuovo Testamento parla di Maria per l’ultima volta dopo l’Ascensione di Gesù presentandola circondata dagli apostoli e dalla primitiva comunità cristiana (Atti 1, 14). Nessun testo canonico ci dice come Maria trascorse gli ultimi anni e come lasciò la terra. Invece non pochi libri apocrifi, che vanno sotto il nome di ciclo sulla Dormizione della Madonna, molto diffusi nel mondo cristiano, tramandano tutta una serie di informazioni che, passate al vaglio della critica storica e teologica, si rivelano di primissima importanza. I diversi testi sugli ultimi giorni e sulla morte di Maria sembrano tutti riconducibili a un documento originario, ad un prototipo giudeocristiano redatto intorno al II secolo nell’ambito della Chiesa Madre di Gerusalemme, per la commemorazione liturgica annuale presso la tomba della Vergine. Nella redazione della Dormizione attribuita a Giovanni il teologo si legge:

‘…gli apostoli trasportarono la lettiga e deposero il suo corpo santo e prezioso in una tomba nuova del Getsemani’.

In un altro testo conservato in siriaco si trovano indicazioni topografiche ancora più precise:

‘Stamattina prendete la Signora Maria e andate fuori di Gerusalemme nella via che conduce al capo valle oltre il Monte degli Ulivi, ecco, vi sono tre grotte: una larga esterna, poi un’altra dentro e una piccola camera interna con un banco alzato di argilla nella parte di est. Andate e mettete la Benedetta su quel banco e mettetela lì e servitela finché io non ve lo dica’.

Con la verifica dei fatti Padre Bagatti ha dimostrato che l’accordo tra documento e monumento non poteva risultare maggiore.

Effettivamente la tomba di Maria al Getsemani è situata in una zona cimiteriale in uso nel I secolo. Essa corrisponde molto bene sia al tipo di tombe usate in Palestina in quel tempo, sia ai dati topografici indicati nelle differenti redazioni della Dormizione della Vergine, specialmente per ciò che riguarda la camera sepolcrale nuova e la sua posizione rispetto alle altre. Il fatto che si trovi accanto all’Orto degli Ulivi e alla Grotta dove Gesù era solito passare la notte (Giovanni 18, 2), fa pensare che l’anonimo discepolo proprietario della zona vi abbia accolto anche la sepoltura di Maria. La tomba, custodita e venerata dai giudeo-cristiani fin verso la fine del IV secolo, quando passò nelle mani dei gentilocristiani fu isolata dalle altre e racchiusa in una chiesa. La venerazione e il culto a Maria in questo luogo non sono venuti mai meno, nonostante tutte le trasformazioni, ed è intorno a questa tomba vuota che è nata e si è alimentata la fede del popolo cristiano nell’Assunzione di Maria al cielo. Per citare un esempio, così è espressa questa fede nel testo già ricordato di Giovanni il teologo: ‘Per tre giorni si udirono voci di Angeli invisibili che glorificavano Cristo, Dio nostro, nato da Lei. Dopo il terzo giorno le voci non si udirono più: tutti allora compresero che il puro e prezioso corpo di lei era stato trasportato in Paradiso’.

Oggi delle diverse chiese erette lungo i secoli sul luogo santo resta la cripta che attraverso un’ampia scala di quarantotto gradini conduce alla tomba per un dislivello di circa quindici metri rispetto alla strada. L’edicola che racchiude la cameretta funeraria con il banco roccioso ancora visibile è appena rischiarata dalla luce che filtra dall’esterno e dalle lampade ad olio. Nell’interno si respira l’atmosfera tipica delle chiese orientali caratterizzate dall’odore forte dell’incenso, dalle numerose immagini e dalle tante candele e lampade ad olio. Il pellegrino che vi entra con fede riesce a percepire anche l’eco delle preghiere incessanti che vi effondono cristiani di tutte le denominazioni, visitatori di ogni parte del mondo e persino i musulmani.

E commovente e istruttivo sostare accanto alla tomba di Maria rileggendo i deliziosi racconti popolari della Dormizione o contemplando l’icona che li traduce in immagini. La figura di Maria è quella stessa del Nuovo Testamento e della Tradizione divino-apostolica. Maria è insieme la Madre di Cristo Signore e la creatura che vive immersa nella realtà quotidiana, la Vergine-Sposa-Madre scelta da Dio e la donna partecipe del comune destino di lotta e di dolore che giunge alla piena glorificazione dopo le prove della vitaterrena e passando per il sonno della morte. Sul piano umano, moralee spirituale lei appare dopo e con Gesù modello e guida di autentica vita cristiana. Come l’Ascensione non èstata una partenza di Gesù, ma l’inizio di una presenza nuova nella sua Chiesa, così Maria nella sua Assunzione non si allontana dai nuovi figli che le sono donati dal Figlio primogenito. Il discepolo amato la chia-ma: ‘Sorella mia Maria, divenuta madre dei dodici rami’ e gli apostoli la salutano: ‘Maria, sorella nostra,madre di tutti i salvati’. Negli apocrifi della Dormizione Maria è proclamata anche ‘tempio di Dio e porta del cielo’, ‘signora e regina’ che esplica la sua mediazione e intercessione sia prima che dopo l’Assunzione. Tutto ciò immerso in un mondo carico di immagini e di simboli: dalla palma dell’immortalità che Gesù le consegna preannunciandole il passaggio alla vita eterna ai sette cieli che Maria attraversa per giungere presso il Figlio, dalle nubi sulle quali giungono gli apostoli dalle quattro parti del mondo, alla ‘bambina luminosa’ simbolo dell’anima di Maria che Gesù prende fra le sue braccia, fino all’albero della vita, ai profumi, ai canti e alle luci del paradiso. Allora la preghiera che spontaneamente dal cuore affiora sulle labbra si confonde con quella dell’autore estasiato o del devoto traduttore dei manoscritti della Dormizione: ‘Celebrando misticamente la festa della sua gloriosa dormizione, troveremo misericordia e grazia in questo secolo e nel futuro, in virtù della bene-volenza e benignità del Signore nostro Gesù Cristo, al quale sia gloria e dominazione con il suo Padre, che è senza principio, e il santissimo e vi-vificante Spirito, ora e sempre, e nei secoli dei secoli. Amen’.

Il cuore materno dell’Ortodossia – Una piccola introduzione al culto mariano

ci sono solo citazioni, ma San Paolo è, abbastanza evidentemente, presente, dal sito:

http://www.esarcato.it/index.html

ARCIVESCOVADO PER LE CHIESE ORTODOSSSE RUSSE IN EUROPA OCCIDENTALE
DECANATO D’ITALIA

Il cuore materno dell’Ortodossia

Una piccola introduzione al culto mariano

di p. Vladimir Zelinskij

I volti di Maria

«Il cuore dell’ortodossia (soprattutto dell’ortodossia russa), forse, non si è mai espresso così pienamente, come nella venerazione della Madre di Dio e dei santi», dice il filosofo del XX secolo Vladimir Iliyn. «Tutta la nostalgia dell’umanità sofferente che non ha l’audacia di aprire il proprio animo davanti a Cristo per il timore di Dio, – fa eco un altro grande pensatore, Georgij Fedotov, – liberamente e con amore si versa sulla Madre di Dio. Assunta nel ramo divino fino alla dissoluzione con l’Altissimo, lei rimane, a differenza di Cristo, legata con il mondo umano, una madre compassionevole e protettrice».

Il volto ortodosso di Maria ha tante immagini che si trovano in una permanente correlazione. La Sua presenza riempie tutta la vita liturgica della Chiesa, ma anche la devozione personale dei fedeli. Sono davvero innumerevoli le espressioni della pietà mariana nell’anima ortodossa che con tante sfaccettature e sfumature portano verso lo stesso mistero: l’Incarnazione del Figlio di Dio. La Madre rivela che il senso del Verbo che si è fatto carne è davvero inesauribile e Lei fa vedere nella Sua persona la santità della carne della Creazione. La radice della venerazione di Maria è centrata nella fede e nell’amore verso il Suo Figlio, «la luce vera, quella che illumina ogni uomo» (Gv 1,9), ma in mezzo agli uomini la luce assume la sostanza «materiale» di questo mondo. E la sua prima «materia» è stata la carne di sua Madre, piena dello Spirito. La luce di Cristo arriva come mistero insondabile, come Buona Notizia, come Volto di Cristo tornato a noi, ma anche come purezza della Vergine, tenerezza e protezione della Madre, Sua intercessione ed amore. Tutte queste sono le «sostanze» della Parola (o «impronte» dello Spirito) che entrano nell’anima e nel senso primordiale si fanno carne nell’anima come nella Chiesa.

«La maternità di Dio»

Maria è sempre presente accanto a Gesù ed illumina ciò che il grande teologo russo Sergej Bulgakov chiamò «la maternità di Dio». La rivelazione della maternità di Dio è un altro volto dell’amore di Dio. Maria è come «il canale» privilegiato dell’amore che sgorga sugli uomini. Perciò il fiume della lode e della gratitudine nei confronti di Maria non si esaurisce, anzi, con il tempo trova espressioni sempre nuove; di volta in volta si fa più ricco, più abbondante. Così i nomi delle icone esprimono a modo loro le varie sfaccettature dell’amore di Dio che parla attraverso la Vergine-Madre. Sembra che questi nomi cerchino di indovinare il Suo segreto : «La gioia inaspettata», «La ricerca dei perduti», «La Sollecitatrice per i peccatori», «Il fiume divino d’acqua viva»; «Odighitria» (Colei che guida), «Orante» (Colei che prega), «La Regina dei cieli»… e cosi via. La «fonte vivificante» delle immagini e delle parole nate in seno della fede ortodossa rivela il rapporto intimo con Dio che prende origine nella parola della Scrittura e ci porta altre immagini, che da secoli sono legate indissolubilmente con profezia a Maria : «il paradiso terrestre» (Gn 2,8-10), «il roveto ardente» (Es 3,1-8), «l’acqua dalla roccia» (Es 17,5-7) e tante altre. La fede ortodossa riconosce la Sua presenza ovunque il mistero del Dio Vivente e Misericordioso ci avvicina veramente.

Nella più profonda vita con Dio c’è un rapporto segreto fra il Figlio e la Madre, fra la Parola ed il silenzio, fra la fede fissata e conservata nelle formule conciliari ed il mistero, nascosto nella fonte stessa della fede. Dalla Parola andiamo al silenzio, da Cristo a Maria, dalla Chiesa all’anima e torniamo indietro perché lo Spirito della verità unisce queste realtà in sé come qualche cosa di inseparabile, ma anche di distinto. Il Padre stesso manda il Suo Spirito «che il Cristo abiti per la fede nei vostri cuori» (Ef 3,17) e Gesù diventa concepito nei nostri cuori per mezzo della maternità di Maria. In Maria ogni cuore che «vive mediante la fede» (Rom 1,17) diventa madre e dimora della Parola.

Come dice San Massimo il Confessore: «Ogni anima che crede, concepisce e partorisce il Verbo di Dio, secondo la fede. Il Cristo è il frutto e noi tutti, siamo madri del Cristo».
 

La gioia del creato

Tutti i credenti hanno Maria come Madre e Cristo come fratello, ma questa maternità e questa fratellanza si aprono nella rivelazione dello Spirito Santo. È lo Spirito che fa vedere anche il miracolo della creazione nella figura umana di Maria.

«In Te gioisce, Colmata di grazia, tutto il creato, la compagine degli Angeli e la progenie degli uomini, o Tempio santificato e Paradiso razionale…» (Liturgia di San Basilio). Nel pensiero liturgico Maria è vista anche come incarnazione della gioia del creato. Ella porta sempre nella Sua memoria il momento eterno quando la creazione fu proclamata dalle labbra del Signore: «la cosa buona» – e il peccato non ancora l’aveva toccata. In Maria tutto il creato si ricapitola, torna alla sua bontà iniziale, sapienziale, quella dello Spirito. In Lei il mondo appare trasfigurato.

Perciò, oltre la preghiera, una delle espressioni principali della sapienza della fede è quella dell’icona. L’icona è l’autentica voce di Maria, l’immagine di ciò che è stato veramente visto e vissuto dalla Chiesa. L’icona è un ricordo escatologico di quel Regno che Dio ci ha preparato, di quelle cose «che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo…» (1 Cor. 2,9). Queste cose si scoprono con amore e l’icona cerca di vederle. L’icona in sostanza deve divenire il luogo visibile dell’abitazione dello Spirito che entra nel cuore degli uomini. Pregare con le icone vuol dire entrare in dialogo interiore con l’immagine – nel nostro caso quella della Madre di Dio. In altre parole: con il Verbo che parla tramite il Suo silenzio, con lo Spirito che si manifesta nel volto umano. E quel volto lascia il proprio sigillo nell’esistenza di colui che entra in rapporto con Dio.

L’icona è una «teofania» che procede dalla fonte sempre nascosta della fede; essa rende testimonianza di questa fonte con la luce che essa risveglia in noi e con la quale caccia «la tristezza dei peccati». La vera immagine di Maria è quella che fa scoprire il «progetto» di Dio su di noi. Quel «progetto» è di creare un uomo aperto a Dio, trasparente per Lui stesso, un «essere deificato» – e si realizza nella santità.

Il modello della santità

La santità nella visione ortodossa, se cerchiamo di esprimerla con la formula trinitaria, è anzitutto l’adozione nel Padre, la vita in Cristo, l’acquisizione dello Spirito Santo, ma anche la parentela con la Santa Vergine.

Uno che era davvero «carne della propria Madre», fu San Serafino di Sarov, uno dei più grandi mistici e santi russi. La figura di San Serafino porta in sé il suo segreto teologico. Egli conosceva non per sentito dire la presenza e la protezione di Maria: tante volte durante la sua vita, Ella stessa, circondata da molti santi, entrava nella sua cella (fatto attestato da molti testimoni oculari), per parlare con lui o per guarirlo. In ogni momento della sua vita Ella gli era sempre vicino.

In San Serafino dire «vita» equivaleva dire «la preghiera». La sua preghiera fu sempre «triado-centrica» e, secondo la tradizione ortodossa, con moltissime invocazioni mariane. San Serafino pregava il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, ma sempre davanti ad un’immagine della Madre, come se Ella dovesse portare la sua preghiera alla Santissima Trinità, come se Lei fosse mediatrice della sua supplica. Egli ha pregato per anni davanti alla sola icona chiamata «tenerezza» («u m i l e n i e» – La Vergine con le mani conserte, con gli occhi abbassati e senza il Bambino divino) e davanti ad essa morì. Un giorno la Madre di Dio apparve a Serafino in compagnia di San Giovanni Teologo e di altri santi. Rivolgendosi all’Evangelista definì il santo monaco come uno «della nostra razza» (o della nostra stirpe). La stirpe dei santi e della Madre di Dio era quella dello Spirito. Perciò tutti i doni dello Spirito – e per primo quello della fede –, sono portati o piuttosto «riempiti» da Maria, soprattutto nella vita dei santi.

Non si può neanche contare tutte le apparizioni di Maria ai santi, tutti i miracoli legati alle sue immagini nella storia della Chiesa ortodossa. A volte queste immagini nascono da un miracolo, come la salvezza inaspettata da un pericolo imminente. Le icone miracolose, quelle di Vladimir, di Kazan, di Pociaev, di Tichvin (solo in Russia si trovano alcune centinaia d’icone miracolose), tutte esprimono – in modo ogni volta diverso – il «messaggio» dell’intercessione, il segno della protezione, il mistero della mediazione.

La protezione

«La protezione», in russo «Pokrov», non è soltanto la memoria di un miracolo accaduto in passato, ma è la protezione materna – la quale fa parte della fede stessa che ci mette davanti l’occhio di Dio. Come tutte le feste, essa si ricollega ad un avvenimento mistico e storico: l’apparizione della Madre di Dio nella chiesa di Blacherne, nella Costantinopoli del X secolo. Accompagnata da una nutrita schiera di santi guidati da Giovanni Battista, Maria sarebbe stata vista da un «folle in Cristo», Andrea, e dal suo compagno Ephraim. Sollevato il suo velo (Pokrov), l’avrebbe poi disteso sui due uomini e sulla città di Costantinopoli in segno della protezione contro un attacco imminente delle nave nemiche.

L’idea della protezione è particolare nell’anima dell’ortodossia russa. Fra tutte le feste mariane (la Natività della Madre di Dio, l’Ingresso nel Tempio, L’Annunciazione, la Dormizione) anche dogmaticamente più importanti, «Pokrov» rimane una delle più amate. Nella maggior parte della Russia del Nord il «Pokrov», festeggiato il 14 ottobre (1 ott. secondo il calendario giuliano) coincide spesso con la prima nevicata. La terra si copre di un lenzuolo bianco. La bianchezza del manto di neve è come icona della purezza, di Colei che è senza macchia. Ma nello stesso tempo l’arrivo dell’inverno cela in sé una vaga angoscia: il freddo, la fame (il contadino russo doveva sempre pensare a come sopravvivere durante l’inverno). E questa angoscia si fonde con l’immagine della purezza e insieme danno origine ad una terza immagine, quella della morte. La neve è come negazione della vita precedente, un’altra vita nella prova. Ma il mistero della protezione è ancora più profondo, e la logica razionale non può esprimerlo che con il paradosso. Una delle preghiere mariane più amate nella Chiesa ortodossa, che il popolo canta spesso spontaneamente dopo il vespro, quando l’ufficio è finito, contiene la confessione: «Non abbiamo un altro aiuto, non abbiamo un’altra speranza oltre Te, la nostra Signora, speriamo in Te, lodiamo Te, siamo i tuoi servitori e non ne abbiamo vergogna.» Unico aiuto, unica speranza? Si può chiedere: ma dov’è il Cristo? Il Cristo è visto in Maria e Maria appare nel Cristo, senza confusione e senza divisione, nello stesso mistero della salvezza.

L’Eucarestia ed il tempo liturgico

Il mistero della protezione non si spiega, ma si chiarisce in un altro, quello dell’Eucaristia. La comunione con il Figlio nello Spirito Santo è rivolta a Dio-Padre e si svolge nella memoria e nel cuore di Maria, in cui l’unione perfetta con Dio, fu e rimane pienamente realizzata. Come dice la preghiera: «Facendo memoria della Tuttasanta, intemerata, più che benedetta, gloriosa Sovrana nostra la Madre di Dio e Semprevergine Maria insieme con tutti i santi, affidiamo noi stessi gli uni gli altri e tutta la nostra vita a Cristo Dio».

Gli ortodossi affidano a Maria anche il tempo della Chiesa con i suoi confini ben delineati. Quel tempo serve (diciamo con le parole di Platone) come «immagine mobile dell’eternità». È Maria che apre la finestra all’eternità condensata nella storia del Dio-uomo. Lei è l’accompagnatrice alla salvezza, perciò ogni preghiera indirizzata a Dio si rivolge anche a Maria, come se fosse Lei a fare sempre la mediazione di questa preghiera – che a volte può dire cose che il fedele non ha il coraggio di confessare al suo Giudice e Salvatore. Per questo motivo le preghiere, che dogmaticamente possono essere rivolte solo al Cristo, vanno spesso a Maria. In generale nell’ortodossia il linguaggio del cuore è più eloquente, più impegnativo di quello della ragione e la preghiera liturgica si azzarda spesso a pronunciare cose su cui la dogmatica tace o si esprime in modo un po’ diverso o più discreto. Questa piccola «divergenza» non è mai proclamata come principio, ma è vissuta proprio nel foro interno dell’esperienza spirituale e dà spazio al mistero mariano.

L’anno liturgico che inizia il primo settembre si apre con la prima festa mariana, quella della nascita della Madre di Dio (celebrata l’8 settembre) e finisce con la festa della Dormizione (il 15 agosto). Fra queste due feste passa tutta la storia della nascita, della vita terrestre, della Passione e della Risurrezione di Gesù Cristo. Liturgicamente tutto il tempo della Chiesa ortodossa ed il dramma della Redenzione si svolgono nell’ambito mariano creato dalle feste, dalle preghiere e dalle immagini. La preghiera e l’immagine sono i due modi umani per creare il mondo dove Dio manifesta la Sua presenza all’uomo, il tempio dell’incontro in cui il mistero dell’Incarnazione continua a vivere nella moltitudine delle sue dimore umane.

 «Dimora santa», porta della salvezza

Fra di esse Maria è vista sempre come prima immagine dell’ineffabile presenza di Dio, l’abitazione splendida della divina Trinità:

«Vergine pura, – dice un inno bizantino, – noi ti esaltiamo con cantici, quale castissima dimora del Verbo, ricettacolo dello Spirito Santo e oggetto della compiacenza del Padre: per tuo mezzo, infatti, avvenne il contratto della nostra salvezza».

Questa dimora è anche un luogo dove l’uomo scopre sempre il mistero dell’amore di Dio rivolto a noi uomini. Di più: questo amore ci salva fino al punto che il nome di Maria diventa il nome della salvezza:

«Maria venerabile dimora del Signore, risolleva noi caduti nell’abisso di paurosa disperazione, di colpe e di afflizioni, perché Tu sei la salvezza dei peccatori, loro aiuto e sicura difesa, e Tu salvi i Tuoi servi» (Icona «Gioia inaspettata»).

La parola «dimora» cela in sé un triplice senso: cristocentrico, escatologico e soteriologico. Cristocentrico: perché «in Cristo… abita tutta la pienezza della divinità» (Col.2, 9) e noi adoriamo la Madre di Dio come abitazione, come luogo sacro di questa pienezza. Escatologico: perché «la pienezza della divinità» è il destino del «mondo che verrà» e noi vediamo in Maria il segno e la promessa di questa deificazione della stirpe umana quando Dio sarà «tutto in tutti» (1 Cor. 15,28). Soteriologico: perché «non vi è, infatti, altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati» (Atti, 4,12), ma il tempio dove questo nome è venerato «nello Spirito» è Maria.

Nel mondo liturgico ortodosso Maria ha tantissimi nomi che riflettono non soltanto il miracolo inesauribile della Sua presenza, ma tramite i Suoi nomi tutta la Chiesa di Cristo si fa intravedere. Così Cristo dice nel Vangelo : «Io sono la via» (cf. Gv 14,6), e la Chiesa si riversa in Maria: «Salve, o Priva di macchia, che hai generato la via della vita….» Cristo dice : «Io sono la verità» e la Chiesa in uno dei suoi inni ricorda le parole paoline (cf. Col 1,26): «Il mistero da secoli nascosto ed agli angeli stessi sconosciuto, per Te, o Madre di Dio, è stato manifestato agli uomini…». Cristo dice: «Io sono la vita» e la Chiesa canta : «Sappiamo Vergine, che sei l’albero della vita…». Alla verità aperta, proclamata rispetto al Cristo ed alla Redenzione si aggiunge un’altra verità che riguarda Maria. E spesso si tratta della stessa verità, ma che trova la sua espressione nelle preghiere mariane, poiché solo in questo modo discreto ed intimo si può esprimere la profondissima certezza della fede. Questa fede, a volte, venera Maria come un «alter ego» materno del Suo Figlio. Cristo dice: «Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo; entrerà e uscirà e troverà pascolo» (Gv. 10,9), e la Chiesa glorifica continuamente Maria come porta mistica:

«Salve, unica porta per la quale solo il Verbo è passato…»
«O mistica porta della vita, purissima genitrice di Dio…»
«Madre di Dio, porta del cielo, aprici la porta della Tua misericordia…».

La salvezza entra per questa porta che è nello stesso tempo il dono fatto a Dio dagli uomini, come dice un inno del mattutino ortodosso.

«Cosa Ti offriremo, o Cristo, per esserTi mostrato sulla terra? Ognuna delle creature create da Te, Ti offre infatti la Sua riconoscenza: gli Angeli il canto; i cieli la stella; la terra una grotta; il deserto un presepio; ma noi una Vergine Madre!»

Quel segno della Tutta Santa; La Grande Panaghia

Quel segno della Tutta Santa; La Grande Panaghia  dans immagini e testi, panagia2
http://digilander.libero.it/bianco14/02.html

dal sito:
http://www.stpauls.it/madre/0807md/0807md08.htm

ARTE – La Grande Panaghia

(per l’immagine originale vedere il sito, io metto un’immagine da una altro sito)

 di JEAN-PAUL HERNANDEZ sj
Quel segno della Tutta Santa
  

Detta anche la Vergine del Segno, la Grande Panaghia indica una figura frontale di Maria in piedi con le braccia aperte, nel gesto dell’orante, e che porta nel seno il Figlio. L’icona della Panaghia è una catechesi sulla santità come segno e ostensione del Dio incarnato. Chi vede la santità umana, vede Dio.
 

Uno degli schemi teologicamente più ricchi nella storia dell’iconografia mariana è quello della Grande Panaghia. Si indica così una figura frontale di Maria in piedi con le braccia aperte (nel gesto dell’orante) e che porta nel seno il Figlio, rappresentato all’interno di un medaglione (o clipeo). Da parte e dall’altra della testa di Maria si situano due angeli, anche loro all’interno del rispettivo clipeo.

Troviamo un famoso esempio di questo schema nella Grande Panaghia di Yaroslav, icona scritta all’inizio del secolo XIII per la cattedrale di Kiev (vedi illustrazione a destra). All’ostensione di una simile immagine si era attribuito nel 1170 la miracolosa salvezza della città di Novgorod dopo un feroce assedio intrapreso dai soldati di Suzdal.

Da allora la Panaghia viene chiamata anche Vergine del Segno. Segno di protezione contro l’assediante, certo, ma prima di tutto segno di pace profetizzato da Isaia: «Il Signore stesso vi darà un segno: ecco, la Vergine concepirà e partorirà un figlio che chiamerà Emmanuele» (Is 7,15). Che una vergine diventi madre pur rimanendo vergine, questo è il «segno» dell’intervento divino. Per il Nuovo Testamento Maria di Nazareth è il compimento di questa profezia (cf Mt 1,22-23). Il «Segno» è la sua verginità. Panaghia significa infatti « Tutta santa ». Così la tradizione accosta santità e segno, santità e compimento visibile delle promesse. Sant’Ireneo commenta: «Perciò il Signore stesso ci dette un segno, in profondità e in altezza, segno che l’uomo non domandò, perché non si sarebbe mai aspettato che una vergine potesse concepire e partorire un figlio continuando ad essere vergine, e il frutto di questo parto fosse Dio-con-noi».

La presenza del Dio-con-noi diventa «segno», cioè diventa visibile, nella santità di Maria, e in seguito in ogni santità umana. L’icona della Panaghia è così una catechesi sulla santità come segno, come « ostensione » del Dio incarnato che vediamo nel clipeo. Chi vede la Tutta Santa vede il Verbo incarnato, chi vede la santità umana vede Dio. Ma in quali gesti si realizza questa santità?

Le braccia alzate

Il gesto più evidente nella Vergine del Segno è la sua posizione orante, cioè con le braccia alzate. Per i primi cristiani questo gesto richiama il Crocifisso. Ma già in epoca pre-cristiana troviamo questo gesto come gesto pagano della preghiera e dell’invocazione. Gli stessi templi greci con le loro colonne calcolate secondo le proporzioni dell’avambraccio umano sono stati molto presto interpretati come «foreste di avambracci alzati per la preghiera». E Tertulliano lancia ai pagani: «Senza saperlo, quando pregate, voi fate il gesto del nostro Salvatore sulla croce».

Anche la tradizione ebraica conosce lo stesso gesto di preghiera. Quando Israele combatte contro Amalek, Mosè sale sul monte e la sua preghiera con le braccia alzate garantisce la vittoria del suo popolo. Il suo gesto è così indispensabile che quando sentirà le sue braccia stanche, Mosè chiederà ad Aronne e a Cur di reggergli le braccia in alto (cf Es 17). Così il gesto della Panaghia era già in Mosè sinonimo di vittoria sul nemico. Ma nell’Antico Testamento, Dio stesso ha «steso le mani» per implorare «verso un popolo ribelle» (Is 65,2). Perciò i primi cristiani vedranno nelle braccia tese del Crocifisso la preghiera di Dio all’uomo prima della preghiera dell’uomo a Dio. La croce di Cristo è la preghiera di quel Padre misericordioso che davanti alla tristezza del fratello maggiore «uscì fuori a pregarlo» (Lc 15,28). A pregarlo di entrare nella festa.

Il mistero della preghiera

Allora ogni nostra preghiera non è che un partecipare all’unica preghiera che è la croce. Perciò la Panaghia non fa altro che prolungare lo stesso gesto che il Figlio compie nel suo seno. Essa è Vergine del Segno perché formata, plasmata, dall’unico segno di salvezza che è quello della croce. Ma per lei il gesto della croce coincide con l’accogliere nel grembo il Dio-con-noi, coincide cioè con l’incarnazione. Croce e incarnazione sono così riuniti nel mistero della preghiera. Perciò pregare è il più grande gesto di amore che possiamo fare. Pregare è una passione, ma è anche proseguire l’incarnazione.  
    
Perciò l’arte paleocristiana ha rappresentato la figura dell’orante in molti contesti che richiamano al tempo stesso la Passione e l’immedesimazione fra il Cristo e il cristiano (l’incarnazione continuata). Una delle varianti più frequenti è il Daniele orante nella fossa dei leoni. Daniele è una prefigurazione di Cristo (già nel vangelo di Matteo il sepolcro di Cristo viene descritto con un implicito accenno alla fossa di Daniele). Ma Daniele offre anche un’immedesimazione con il cristiano pre-costantiniano che nelle persecuzioni si ritrova concretamente fra le belve. Quando questo schema è rappresentato su un sarcofago, allora è il defunto quel nuovo Daniele (e nuovo « Cristo ») che attraverserà la fossa della morte per arrivare al giorno della risurrezione.

Ma nell’arte paleocristiana, il gesto dell’orante è anche attribuito a personaggi come Noè, i tre giovani nella fornace, o a singole figure femminili che rappresentano la comunità. A Sant’Apollinare in Classe (Ravenna), nel secolo VI, esso diventa il gesto liturgico del pastore.

La figura di Maria nell’atteggiamento dell’orante è attestata già nel sec. IV, nel mausoleo di sant’Agnese a Roma. Alla fine del secolo VI la troviamo sulla croce in argento di Agnello conservata nel Museo diocesano di Ravenna; nel secolo VIII a Bawit, in Egitto; verso l’anno 1000 a Sant’Angelo in Formis (Caserta).

Nel Medioevo bizantino, la più celebre immagine della Vergine orante era venerata dal secolo VII a Costantinopoli, in fondo al Corno d’oro, nel quartiere di Blacherne. Si trovava in una chiesa costruita per ricevere la reliquia del santo velo della Vergine, il maforion, portato da Gerusalemme sotto il regno di Leone I (457-474). Presto il gesto della Blachernitissa viene interpretato come gesto di protezione contro i nemici. Il patriarca Fozio (secolo IX) la descrive come «muro incrollabile». E l’imperatore Andronico II Paleologo (secolo XIII) esprime la sua gratitudine verso «colei che vigila sulla nostra tranquillità in mille circostanze e respinge i nostri nemici».

Erede di questa tradizione, la Grande Panaghia offre un gesto orante, rinforzato dalla lieve inflessione delle mani che orienta il palmo verso l’alto. È un atteggiamento di attesa che fa di Maria un ricettacolo. La preghiera, e dunque la santità, è prima di tutto un atteggiamento di attesa e una disponibilità a essere colmato.

La Grande Panaghia è però quella variante di Vergine orante che porta nel seno il medaglione del Figlio. La nostra figura è dunque la sintesi di due tipi iconografici: l’orante e il portascudo. Ma nella nostra immagine lo scudo è diventato grembo. E in esso vediamo il Figlio, anche lui in posizione orante.

Superiore a tutta la creazione

Il clipeo sta a indicare la radicale alterità di Cristo rispetto a Maria. Si tratta della presenza di Dio stesso. La liturgia bizantina canta: «Colui che le immensità celesti non possono contenere, tu lo hai accolto nel tuo seno, o Pura». Perciò questa figura viene anche chiamata la Platytera, cioè la «Più vasta». Più vasta dei cieli, si intende. La liturgia di san Basilio esclama: «O Vergine, superiore ai cherubini e ai serafini, più vasta del cielo e della terra, tu sei apparsa superiore, senza confronto, a tutta la creazione visibile e invisibile». La porpora dell’omoforion (manto) sottolinea questa dignità regale.

Maria nell’atteggiamento dell’orante: affreschi di Bawit (Egitto), secolo VIII.

Diventare portatori di Cristo

«Tenda dell’Infinito», «Dimora di Colui che non abita in nessun luogo», la Platytera rappresenta il mistero dell’inabitazione divina nel fedele. «Chiunque fa la volontà del Padre mio, che è nei cieli, mi è fratello, sorella e madre», aveva detto Gesù (Mt 12,50). Allora pregare significa diventare portatori di Cristo, « madre » di Gesù. Questa è la santità. San Paolo potrà dire: «Io sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). La preghiera è il gesto più vicino a questo «essere stato crocifisso con Cristo» e dunque a questa inabitazione.

È interessante notare che il Figlio rappresentato nel clipeo non è la figura di un bambino, bensì piuttosto di un adulto, e in certe varianti addirittura di un anziano. Si tratta del Verbo eterno del Padre, che esiste prima di ogni creatura. Con la sua mano destra egli fa il gesto della benedizione, che è anche il gesto dell’oratore quando prende la parola. Egli è appunto la Parola fatta carne e in questo diventata Parola di benedizione per ogni carne. Nella sua mano sinistra la maggior parte delle varianti rappresenta un rotolo. Egli è la Parola vivente che porta a compimento la Parola scritta, il rotolo della Torah, le promesse di Israele. I colori rosso e blu dei suoi vestiti rimandano rispettivamente alla sua divinità e alla sua umanità.

Gli altri due medaglioni, in alto a sinistra e in alto a destra dell’immagine, rappresentano due angeli. Essi portano la sfera del cosmo segnata da una croce. Queste due figure possono rappresentare Gabriele e Michele. Nelle basiliche paleocristiane essi erano messi da parte e dall’altra dell’arco trionfale per richiamare i due « passaggi » della vita di Cristo: l’incarnazione (Gabriele è l’angelo dell’Annunciazione) e la Pasqua (Michele simboleggia la vittoria pasquale). Maria, abbiamo visto, riunisce questi due passaggi nella sua preghiera.

Ma alcuni studiosi vedono in questi due clipei l’immagine dei due angeli dell’episodio dell’Ascensione (At 1,10). Essi allora sono anche i due angeli che delimitano il «luogo della manifestazione», sul kaporet (propiziatorio) che copre l’arca dell’alleanza nel Santo dei Santi del tempio di Gerusalemme. Allora Maria è quell’arca dell’alleanza che diventa «luogo della manifestazione», epifania. Segno nel senso più forte della parola.

Jean-Paul Hernandez   

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