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SOLENNITÀ DI PENTECOSTE 2006 – OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

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SOLENNITÀ DI PENTECOSTE 2006 – OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Sagrato della Basilica Vaticana
Domenica, 4 giugno 2006

Cari fratelli e sorelle!

Il giorno di Pentecoste lo Spirito Santo scese con potenza sugli Apostoli; ebbe così inizio la missione della Chiesa nel mondo. Gesù stesso aveva preparato gli Undici a questa missione apparendo loro più volte dopo la sua risurrezione (cfr At 1,3). Prima dell’ascensione al Cielo, ordinò di « non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre » (cfr At 1,4-5); chiese cioè che restassero insieme per prepararsi a ricevere il dono dello Spirito Santo. Ed essi si riunirono in preghiera con Maria nel Cenacolo nell’attesa dell’evento promesso (cfr At 1,14).
Restare insieme fu la condizione posta da Gesù per accogliere il dono dello Spirito Santo; presupposto della loro concordia fu una prolungata preghiera. Troviamo in tal modo delineata una formidabile lezione per ogni comunità cristiana. Si pensa talora che l’efficacia missionaria dipenda principalmente da un’attenta programmazione e dalla successiva intelligente messa in opera mediante un impegno concreto. Certo, il Signore chiede la nostra collaborazione, ma prima di qualsiasi nostra risposta è necessaria la sua iniziativa: è il suo Spirito il vero protagonista della Chiesa. Le radici del nostro essere e del nostro agire stanno nel silenzio sapiente e provvido di Dio.
Le immagini che usa san Luca per indicare l’irrompere dello Spirito Santo – il vento e il fuoco – ricordano il Sinai, dove Dio si era rivelato al popolo di Israele e gli aveva concesso la sua alleanza (cfr Es 19,3ss). La festa del Sinai, che Israele celebrava cinquanta giorni dopo la Pasqua, era la festa del Patto. Parlando di lingue di fuoco (cfr At 2,3), san Luca vuole rappresentare la Pentecoste come un nuovo Sinai, come la festa del nuovo Patto, in cui l’Alleanza con Israele è estesa a tutti i popoli della Terra. La Chiesa è cattolica e missionaria fin dal suo nascere. L’universalità della salvezza viene significativamente evidenziata dall’elenco delle numerose etnie a cui appartengono coloro che ascoltano il primo annuncio degli Apostoli (cfr At 2,9-11).
Il Popolo di Dio, che aveva trovato al Sinai la sua prima configurazione, viene quest’oggi ampliato fino a non conoscere più alcuna frontiera né di razza, né di cultura, né di spazio né di tempo. A differenza di quanto era avvenuto con la torre di Babele (cfr Gn 11,1-9), quando gli uomini, intenzionati a costruire con le loro mani una via verso il cielo, avevano finito per distruggere la loro stessa capacità di comprendersi reciprocamente, nella Pentecoste lo Spirito, con il dono delle lingue, mostra che la sua presenza unisce e trasforma la confusione in comunione. L’orgoglio e l’egoismo dell’uomo creano sempre divisioni, innalzano muri d’indifferenza, di odio e di violenza. Lo Spirito Santo, al contrario, rende i cuori capaci di comprendere le lingue di tutti, perché ristabilisce il ponte dell’autentica comunicazione fra la Terra e il Cielo. Lo Spirito Santo è l’Amore.
Ma come entrare nel mistero dello Spirito Santo, come comprendere il segreto dell’Amore? La pagina evangelica ci conduce oggi nel Cenacolo dove, terminata l’ultima Cena, un senso di smarrimento rende tristi gli Apostoli. La ragione è che le parole di Gesù suscitano interrogativi inquietanti: Egli parla dell’odio del mondo verso di Lui e verso i suoi, parla di una sua misteriosa dipartita e ci sono molte altre cose ancora da dire, ma per il momento gli Apostoli non sono in grado di portarne il peso (cfr Gv 16,12). Per confortarli spiega il significato del suo distacco: se ne andrà, ma tornerà; nel frattempo non li abbandonerà, non li lascerà orfani. Manderà il Consolatore, lo Spirito del Padre, e sarà lo Spirito a far conoscere che l’opera di Cristo è opera di amore: amore di Lui che si è offerto, amore del Padre che lo ha dato.
Questo è il mistero della Pentecoste: lo Spirito Santo illumina lo spirito umano e, rivelando Cristo crocifisso e risorto, indica la via per diventare più simili a Lui, essere cioè « espressione e strumento dell’amore che da Lui promana » (Deus caritas est, 33). Raccolta con Maria, come al suo nascere, la Chiesa quest’oggi prega: « Veni Sancte Spiritus! – Vieni, Spirito Santo, riempi i cuori dei tuoi fedeli e accendi in essi il fuoco del tuo amore! ». Amen.

 

Publié dans:PAPA BENEDETTO: OMELIE |on 28 mai, 2020 |Pas de commentaires »

GLI ARCANGELI MICHELE, GABRIELE E RAFFAELE – BENEDETTO XVI – FRAMMENTI DI UN’OMELI

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GLI ARCANGELI MICHELE, GABRIELE E RAFFAELE – BENEDETTO XVI

FRAMMENTI DI UN’OMELIA PRONUNCIATA IL 29 SETTEMBRE 2007

Celebriamo la festa dei tre Arcangeli che nella Scrittura sono menzionati per nome: Michele, Gabriele e Raffaele. Ma che cosa è un Angelo? La Sacra Scrittura e la tradizione della Chiesa ci lasciano scorgere due aspetti.
Da una parte, l’Angelo è una creatura che sta davanti a Dio, orientata con l’intero suo essere verso Dio. Tutti e tre i nomi degli Arcangeli finiscono con la parola « El », che significa « Dio ». Dio è iscritto nei loro nomi, nella loro natura. La loro vera natura è l’esistenza in vista di Lui e per Lui.
Proprio così si spiega anche il secondo aspetto che caratterizza gli Angeli: essi sono messaggeri di Dio. Portano Dio agli uomini, aprono il cielo e così aprono la terra. Proprio perché sono presso Dio, possono essere anche molto vicini all’uomo. Dio, infatti, è più intimo a ciascuno di noi di quanto non lo siamo noi stessi.

Come un angelo per gli altri
Gli Angeli parlano all’uomo di ciò che costituisce il suo vero essere, di ciò che nella sua vita tanto spesso è coperto e sepolto. Essi lo chiamano a rientrare in se stesso, toccandolo da parte di Dio. In questo senso anche noi esseri umani dovremmo sempre di nuovo diventare angeli gli uni per gli altri – angeli che ci distolgono da vie sbagliate e ci orientano sempre di nuovo verso Dio.

San Michele,
San Michele, « Tre Arcangeli con Tobia » (dettaglio), Botticini, Galleria degli Uffizi – Firenze
Se la Chiesa antica chiama i Vescovi « angeli » della loro Chiesa, intende dire proprio questo: i Vescovi stessi devono essere uomini di Dio, devono vivere orientati verso Dio. « Multum orat pro populo » – « Prega molto per il popolo », dice il Breviario della Chiesa a proposito dei santi Vescovi. Il Vescovo deve essere un orante, uno che intercede per gli uomini presso Dio. Più lo fa, più comprende anche le persone che gli sono affidate e può diventare per loro un angelo – un messaggero di Dio, che le aiuta a trovare la loro vera natura, se stesse, e a vivere l’idea che Dio ha di loro.
San Michele: fare spazio a Dio nel mondo
Tutto ciò diventa ancora più chiaro se ora guardiamo le figure dei tre Arcangeli la cui festa la Chiesa celebra oggi. C’è innanzitutto Michele. Lo incontriamo nella Sacra Scrittura soprattutto nel Libro di Daniele, nella Lettera dell’Apostolo san Giuda Taddeo e nell’Apocalisse. Di questo Arcangelo si rendono evidenti in questi testi due funzioni. Egli difende la causa dell’unicità di Dio contro la presunzione del drago, del « serpente antico », come dice Giovanni. È il continuo tentativo del serpente di far credere agli uomini che Dio deve scomparire, affinché essi possano diventare grandi; che Dio ci ostacola nella nostra libertà e che perciò noi dobbiamo sbarazzarci di Lui.
Ma il drago non accusa solo Dio. L’Apocalisse lo chiama anche « l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusa davanti a Dio giorno e notte » (12, 10). Chi accantona Dio, non rende grande l’uomo, ma gli toglie la sua dignità. Allora l’uomo diventa un prodotto mal riuscito dell’evoluzione. Chi accusa Dio, accusa anche l’uomo. La fede in Dio difende l’uomo in tutte le sue debolezze ed insufficienze: il fulgore di Dio risplende su ogni singolo.

L’Arcangelo Gabriele
È compito del cristiano di far spazio a Dio nel mondo contro le negazioni e di difendere così la grandezza dell’uomo. E che cosa si potrebbe dire e pensare di più grande sull’uomo del fatto che Dio stesso si è fatto uomo? L’altra funzione di Michele, secondo la Scrittura, è quella di protettore del Popolo di Dio (cfr Dn 10, 21; 12, 1). Cari amici, siate veramente « angeli custodi » delle Chiese che vi saranno affidate! Aiutate il Popolo di Dio, che dovete precedere nel suo pellegrinaggio, a trovare la gioia nella fede e ad imparare il discernimento degli spiriti: ad accogliere il bene e rifiutare il male, a rimanere e diventare sempre di più, in virtù della speranza della fede, persone che amano in comunione col Dio-Amore.
San Gabriele: Dio che chiama
Incontriamo l’Arcangelo Gabriele soprattutto nel prezioso racconto dell’annuncio a Maria dell’incarnazione di Dio, come ce lo riferisce san Luca (1, 26 – 38). Gabriele è il messaggero dell’incarnazione di Dio. Egli bussa alla porta di Maria e, per suo tramite, Dio stesso chiede a Maria il suo « sì » alla proposta di diventare la Madre del Redentore: di dare la sua carne umana al Verbo eterno di Dio, al Figlio di Dio.
Ripetutamente il Signore bussa alle porte del cuore umano. Nell’Apocalisse dice all’ »angelo » della Chiesa di Laodicea e, attraverso di lui, agli uomini di tutti i tempi: « Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me » (3, 20). Il Signore sta alla porta – alla porta del mondo e alla porta di ogni singolo cuore. Egli bussa per essere fatto entrare: l’incarnazione di Dio, il suo farsi carne deve continuare sino alla fine dei tempi.
Tutti devono essere riuniti in Cristo in un solo corpo: questo ci dicono i grandi inni su Cristo nella Lettera agli Efesini e in quella ai Colossesi. Cristo bussa. Anche oggi Egli ha bisogno di persone che, per così dire, gli mettono a disposizione la propria carne, che gli donano la materia del mondo e della loro vita, servendo così all’unificazione tra Dio e il mondo, alla riconciliazione dell’universo.
Cari amici, è vostro compito bussare in nome di Cristo ai cuori degli uomini. Entrando voi stessi in unione con Cristo, potrete anche assumere la funzione di Gabriele: portare la chiamata di Cristo agli uomini.

San Raffaele: recuperare la vista
San Raffaele ci viene presentato soprattutto nel Libro di Tobia come l’Angelo a cui è affidata la mansione di guarire. Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, al compito dell’annuncio del Vangelo vien sempre collegato anche quello di guarire. Il buon Samaritano, accogliendo e guarendo la persona ferita giacente al margine della strada, diventa senza parole un testimone dell’amore di Dio. Quest’uomo ferito, bisognoso di essere guarito, siamo tutti noi. Annunciare il Vangelo, significa già di per sé guarire, perché l’uomo necessita soprattutto della verità e dell’amore.
Dell’Arcangelo Raffaele si riferiscono nel Libro di Tobia due compiti emblematici di guarigione. Egli guarisce la comunione disturbata tra uomo e donna. Guarisce il loro amore. Scaccia i demoni che, sempre di nuovo, stracciano e distruggono il loro amore. Purifica l’atmosfera tra i due e dona loro la capacità di accogliersi a vicenda per sempre. Nel racconto di Tobia questa guarigione viene riferita con immagini leggendarie.
Nel Nuovo Testamento, l’ordine del matrimonio, stabilito nella creazione e minacciato in modo molteplice dal peccato, viene guarito dal fatto che Cristo lo accoglie nel suo amore redentore. Egli fa del matrimonio un sacramento: il suo amore, salito per noi sulla croce, è la forza risanatrice che, in tutte le confusioni, dona la capacità della riconciliazione, purifica l’atmosfera e guarisce le ferite. Al sacerdote è affidato il compito di condurre gli uomini sempre di nuovo incontro alla forza riconciliatrice dell’amore di Cristo. Deve essere « l’angelo » risanatore che li aiuta ad ancorare il loro amore al sacramento e a viverlo con impegno sempre rinnovato a partire da esso.
In secondo luogo, il Libro di Tobia parla della guarigione degli occhi ciechi. Sappiamo tutti quanto oggi siamo minacciati dalla cecità per Dio. Quanto grande è il pericolo che, di fronte a tutto ciò che sulle cose materiali sappiamo e con esse siamo in grado di fare, diventiamo ciechi per la luce di Dio.
Guarire questa cecità mediante il messaggio della fede e la testimonianza dell’amore, è il servizio di Raffaele affidato giorno per giorno al sacerdote e in modo speciale al Vescovo. Così, spontaneamente siamo portati a pensare anche al sacramento della Riconciliazione, al sacramento della Penitenza che, nel senso più profondo della parola, è un sacramento di guarigione. La vera ferita dell’anima, infatti, il motivo di tutte le altre nostre ferite, è il peccato. E solo se esiste un perdono in virtù della potenza di Dio, in virtù della potenza dell’amore di Cristo, possiamo essere guariti, possiamo essere redenti.
« Rimanete nel mio amore », ci dice oggi il Signore nel Vangelo (Gv 15, 9). Rimanete in quell’amicizia con Lui piena di amore che Egli in quest’ora vi dona di nuovo! Allora la vostra vita porterà frutto – un frutto che rimane (Gv 15, 16). 

IL TESORO NASCOSTO DI PAPA RATZINGER: LE OMELIE SUL BATTESIMO – di Sandro Magister

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IL TESORO NASCOSTO DI PAPA RATZINGER: LE OMELIE SUL BATTESIMO

L’ultima è di pochi giorni fa, quindicesima della serie. Con un passaggio folgorante contro le « pompe del diavolo » che trionfano nella mentalità corrente. Uno « spettacolo » al quale ogni battezzato ha promesso di rinunciare

di Sandro Magister

ROMA, 18 giugno 2012 – È passata quasi inosservata al grande pubblico. Ma la « lectio divina » che Benedetto XVI ha tenuto la sera di lunedì 11 giugno nella basilica di San Giovanni in Laterano, la cattedrale di Roma, è stata uno dei momenti più alti di quel capolavoro d’insieme che sono le sue omelie sul Battesimo.
Che Benedetto XVI sia destinato a passare alla storia per la sua predicazione liturgica, come prima di lui papa Leone Magno, è un’ipotesi ormai più che consolidata.
Ma nel grande « corpus » della sue omelie, quelle dedicate al Battesimo hanno un posto di rilevanza unica.
Il mandato a battezzare « nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo » è nelle ultime parole di Gesù su questa terra. La Chiesa le ha prese tremendamente sul serio, ed è così che genera i suoi figli, da sempre. Di conseguenza, il Battesimo è l’atto di nascita e il documento d’identità di ogni cristiano.
Per questo è così centrale nella predicazione di Benedetto XVI. In un’epoca di diffuso analfabetismo religioso, di fede tremolante e di battesimi in calo nei paesi di antica cristianità, papa Joseph Ratzinger vuole ripartire dai fondamenti della vita cristiana e restituirli allo sguardo di tutti nella loro splendente bellezza.
Le sue omelie battesimali ne sono un esempio lampante. E così la « lectio divina » che ha tenuto lo scorso 11 giugno ai fedeli di Roma che gremivano la cattedrale.
Benedetto XVI ha parlato a braccio, come gli antichi Padri della Chiesa. Sopra di lui gli ascoltatori potevano ammirare, al centro dell’antico mosaico dell’abside, una croce gemmata dalla quale scaturivano fiumi di acqua viva.
Ed è stato proprio il nesso tra il Battesimo e la croce uno dei punti salienti della « lectio divina » del papa, che ha preso le mosse dal « mandato » dato da Gesù agli apostoli prima di salire al cielo: « Andate, fate discepoli tutti i popoli e battezzateli nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo ».
Un altro passaggio della « lectio » che ha molto colpito i presenti è là dove il papa ha ridato significato e freschezza attuale a un’antica formula del rito: la rinuncia del battezzando « a Satana e alle sue pompe », formula oggi annacquata in rinuncia « alle seduzioni del male ».
Da quando è stato eletto papa, sette anni fa, Benedetto XVI ha amministrato il Battesimo quattordici volte, ogni volta dedicandovi l’omelia.
Sette volte nella domenica che ogni anno segue l’Epifania, la domenica che festeggia il Battesimo di Gesù nel Giordano.
E altre sette volte nella veglia pasquale.
Nel primo caso battezzando dei bambini, quasi sempre di Roma, nella Cappella Sistina, e nel secondo caso battezzando degli adulti, provenienti da ogni parte del mondo, nella basilica di San Pietro.
Ecco qui di seguito la trascrizione integrale della « lectio divina » tenuta dal papa nella basilica di San Giovanni in Laterano l’11 giugno 2012, aprendo un convegno della diocesi di Roma, la sua diocesi, dedicato precisamente al Battesimo e alla sua « pastorale ».
Ma a seguire, il lettore troverà i link all’intero « corpus » delle omelie battesimali di Benedetto XVI: le sette da lui fin qui pronunciate nelle domeniche del Battesimo di Gesù e le altre sette delle veglie pasquali.
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IMMERSI NEL PADRE, NEL FIGLIO, NELLO SPIRITO SANTO

di Benedetto XVI
Cari fratelli e sorelle, [...] le ultime parole del Signore su questa terra ai suoi discepoli, sono state: « Andate, fate discepoli tutti i popoli e battezzateli nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo » (cfr. Mt 28, 19).
Fate discepoli e battezzate. Perché non è sufficiente per il discepolato conoscere le dottrine di Gesù, conoscere i valori cristiani? Perché è necessario essere battezzati? Questo è il tema della nostra riflessione, per capire la realtà, la profondità del sacramento del Battesimo.
Una prima porta si apre se leggiamo attentamente queste parole del Signore. La scelta della parola « nel nome del Padre » nel testo greco è molto importante: il Signore dice « eis » e non « en », cioè non « in nome » della Trinità, come noi diciamo che un viceprefetto parla « in nome » del prefetto, un ambasciatore parla « in nome » del governo. No. Dice: « eis to onoma », cioè una immersione nel nome della Trinità, un essere inseriti nel nome della Trinità, una interpenetrazione dell’essere di Dio e del nostro essere, un essere immerso nel Dio Trinità, Padre, Figlio e Spirito Santo, così come nel matrimonio, per esempio, due persone diventano una carne, diventano una nuova, unica realtà, con un nuovo, unico nome.
Il Signore ci ha aiutato a capire ancora meglio questa realtà nel suo colloquio con i sadducei circa la risurrezione. I sadducei riconoscevano dal canone dell’Antico Testamento solo i cinque Libri di Mosè e in questi non appare la risurrezione; perciò la negavano. Il Signore, proprio da questi cinque Libri dimostra la realtà della risurrezione e dice: Voi non sapete che Dio si chiama Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe? (cfr. Mt 22, 31-32).
Quindi, Dio prende questi tre e proprio nel suo nome essi diventano « il » nome di Dio. Per capire chi è questo Dio si devono vedere queste persone che sono diventate il nome di Dio, un nome di Dio, sono immersi in Dio. E così vediamo che chi sta nel nome di Dio, chi è immerso in Dio, è vivo, perché Dio – dice il Signore – è un Dio non dei morti, ma dei vivi, e se è Dio di questi, è Dio dei vivi. I vivi sono vivi perché stanno nella memoria, nella vita di Dio.
E proprio questo succede nel nostro essere battezzati: diventiamo inseriti nel nome di Dio, così che apparteniamo a questo nome e il suo nome diventa il nostro nome e anche noi potremo, con la nostra testimonianza – come i tre dell’Antico Testamento –, essere testimoni di Dio, segno di chi è questo Dio, nome di questo Dio.
Quindi, essere battezzati vuol dire essere uniti a Dio. In un’unica, nuova esistenza apparteniamo a Dio, siamo immersi in Dio stesso.
Pensando a questo, possiamo subito vedere alcune conseguenze.
La prima è che Dio non è più molto lontano per noi, non è una realtà da discutere – se c’è o non c’è –, ma noi siamo in Dio e Dio è in noi. La priorità, la centralità di Dio nella nostra vita è una prima conseguenza del Battesimo. Alla questione: « C’è Dio? », la risposta è: « C’è ed è con noi; c’entra nella nostra vita questa vicinanza di Dio, questo essere in Dio stesso, che non è una stella lontana, ma è l’ambiente della mia vita ». Questa sarebbe la prima conseguenza e quindi dovrebbe dirci che noi stessi dobbiamo tenere conto di questa presenza di Dio, vivere realmente nella sua presenza.
Una seconda conseguenza di quanto ho detto è che noi non ci facciamo cristiani. Divenire cristiani non è una cosa che segue da una mia decisione: « Io adesso mi faccio cristiano ». Certo, anche la mia decisione è necessaria, ma soprattutto è un’azione di Dio con me: non sono io che mi faccio cristiano, io sono assunto da Dio, preso in mano da Dio e così, dicendo « sì » a questa azione di Dio, divento cristiano.
Divenire cristiani, in un certo senso, è « passivo »: io non mi faccio cristiano, ma Dio mi fa un suo uomo, Dio mi prende in mano e realizza la mia vita in una nuova dimensione. Come io non mi faccio vivere, ma la vita mi è data; sono nato non perché io mi sono fatto uomo, ma sono nato perché l’essere umano mi è donato. Così anche l’essere cristiano mi è donato, è un « passivo » per me, che diventa un « attivo » nella nostra, nella mia vita. E questo fatto del « passivo », di non farsi da se stessi cristiani, ma di essere fatti cristiani da Dio, implica già un po’ il mistero della croce: solo morendo al mio egoismo, uscendo da me stesso, posso essere cristiano.
Un terzo elemento che si apre subito in questa visione è che, naturalmente, essendo immerso in Dio, sono unito ai fratelli e alle sorelle, perché tutti gli altri sono in Dio e se io sono tirato fuori dal mio isolamento, se io sono immerso in Dio, sono immerso nella comunione con gli altri.
Essere battezzati non è mai un atto solitario di « me », ma è sempre necessariamente un essere unito con tutti gli altri, un essere in unità e solidarietà con tutto il corpo di Cristo, con tutta la comunità dei suoi fratelli e sorelle. Questo fatto che il Battesimo mi inserisce in comunità, rompe il mio isolamento. Dobbiamo tenerlo presente nel nostro essere cristiani.
E finalmente ritorniamo alla parola di Cristo ai sadducei: « Dio è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe » (cfr. Mt 22, 32), e quindi questi non sono morti; se sono di Dio sono vivi. Vuol dire che con il Battesimo, con l’immersione nel nome di Dio, siamo anche noi già immersi nella vita immortale, siamo vivi per sempre.
Con altre parole, il Battesimo è una prima tappa della risurrezione: immersi in Dio, siamo già immersi nella vita indistruttibile, comincia la risurrezione. Come Abramo, Isacco e Giacobbe essendo « nome di Dio » sono vivi, così noi, inseriti nel nome di Dio, siamo vivi nella vita immortale. Il Battesimo è il primo passo della risurrezione, l’entrare nella vita indistruttibile di Dio.
Così, in un primo momento, con la formula battesimale di san Matteo, con l’ultima parola di Cristo, abbiamo visto già un po’ l’essenziale del Battesimo.
Adesso vediamo il rito sacramentale, per poter capire ancora più precisamente che cosa è il Battesimo.
Questo rito, come il rito di quasi tutti i sacramenti, si compone da due elementi: da materia – acqua – e dalla parola.
Questo è molto importante. Il cristianesimo non è una cosa puramente spirituale, una cosa solamente soggettiva, del sentimento, della volontà, di idee, ma è una realtà cosmica. Dio è il Creatore di tutta la materia, la materia entra nel cristianesimo, e solo in questo grande contesto di materia e spirito insieme siamo cristiani. Molto importante è, quindi, che la materia faccia parte della nostra fede, il corpo faccia parte della nostra fede. La fede non è puramente spirituale, ma Dio ci inserisce così in tutta la realtà del cosmo e trasforma il cosmo, lo tira a sé.
E con questo elemento materiale – l’acqua – entra non soltanto un elemento fondamentale del cosmo, una materia fondamentale creata da Dio, ma anche tutto il simbolismo delle religioni, perché in tutte le religioni l’acqua ha qualcosa da dire. Il cammino delle religioni, questa ricerca di Dio in diversi modi – anche sbagliati, ma sempre ricerca di Dio – diventa assunta nel sacramento. Le altre religioni, con il loro cammino verso Dio, sono presenti, sono assunte, e così si fa la sintesi del mondo. Tutta la ricerca di Dio che si esprime nei simboli delle religioni, e soprattutto – naturalmente – il simbolismo dell’Antico Testamento, che così, con tutte le sue esperienze di salvezza e di bontà di Dio, diventa presente. Su questo punto ritorneremo.
L’altro elemento è la parola, e questa parola si presenta in tre elementi: rinunce, promesse, invocazioni.
Importante è che queste parole quindi non siano solo parole, ma siano cammino di vita. In queste si realizza un decisione, in queste parole è presente tutto il nostro cammino battesimale, sia pre-battesimale, sia post-battesimale. Quindi, con queste parole, e anche con i simboli, il Battesimo si estende a tutta la nostra vita.
Questa realtà delle promesse, delle rinunce, delle invocazioni è una realtà che dura per tutta la nostra vita, perché siamo sempre in cammino battesimale, in cammino catecumenale, tramite queste parole e la realizzazione di queste parole. Il sacramento del Battesimo non è un atto di un’ora, ma è una realtà di tutta la nostra vita, è un cammino di tutta la nostra vita. In realtà, dietro c’è anche la dottrina delle due vie, che era fondamentale nel primo cristianesimo: una via alla quale diciamo « no » e una via alla quale diciamo « sì ».
Cominciamo con la prima parte, le rinunce. Sono tre e prendo anzitutto la seconda: « Rinunciate alle seduzioni del male per non lasciarvi dominare dal peccato? ».
Che cosa sono queste seduzioni del male? Nella Chiesa antica, e ancora per secoli, qui c’era l’espressione: « Rinunciate alla pompa del diavolo? », e oggi sappiamo che cosa era inteso con questa espressione « pompa del diavolo ». La pompa del diavolo erano soprattutto i grandi spettacoli cruenti, in cui la crudeltà diventa divertimento, in cui uccidere uomini diventa una cosa spettacolare: spettacolo, la vita e la morte di un uomo. Questi spettacoli cruenti, questo divertimento del male è la « pompa del diavolo », dove appare con apparente bellezza e, in realtà, appare con tutta la sua crudeltà.
Ma oltre a questo significato immediato della parola « pompa del diavolo », si voleva parlare di un tipo di cultura, di una « way of life », di un modo di vivere, nel quale non conta la verità ma l’apparenza, non si cerca la verità ma l’effetto, la sensazione, e, sotto il pretesto della verità, in realtà, si distruggono uomini, si vuole distruggere e creare solo se stessi come vincitori.
Quindi, questa rinuncia era molto reale: era la rinuncia ad un tipo di cultura che è un’anti-cultura, contro Cristo e contro Dio. Si decideva contro una cultura che, nel Vangelo di san Giovanni, è chiamata « kosmos houtos », « questo mondo ». Con « questo mondo », naturalmente, Giovanni e Gesù non parlano della creazione di Dio, dell’uomo come tale, ma parlano di una certa creatura che è dominante e si impone come se fosse questo il mondo, e come se fosse questo il modo di vivere che si impone.
Lascio adesso ad ognuno di voi di riflettere su questa « pompa del diavolo », su questa cultura alla quale diciamo « no ». Essere battezzati significa proprio sostanzialmente un emanciparsi, un liberarsi da questa cultura. Conosciamo anche oggi un tipo di cultura in cui non conta la verità. Anche se apparentemente si vuol fare apparire tutta la verità, conta solo la sensazione e lo spirito di calunnia e di distruzione. Una cultura che non cerca il bene, il cui moralismo è, in realtà, una maschera per confondere, creare confusione e distruzione. Contro questa cultura, in cui la menzogna si presenta nella veste della verità e dell’informazione, contro questa cultura che cerca solo il benessere materiale e nega Dio, diciamo « no ». Conosciamo bene anche da tanti Salmi questo contrasto di una cultura nella quale uno sembra intoccabile da tutti i mali del mondo, si pone sopra tutti, sopra Dio, mentre, in realtà, è una cultura del male, un dominio del male.
E così, la decisione del Battesimo, questa parte del cammino catecumenale che dura per tutta la nostra vita, è proprio questo « no », detto e realizzato di nuovo ogni giorno, anche con i sacrifici che costa opporsi alla cultura in molte parti dominante, anche se si imponesse come se fosse il mondo, questo mondo: non è vero. E ci sono anche tanti che desiderano realmente la verità.
Così passiamo alla prima rinuncia: « Rinunciate al peccato per vivere nella libertà dei figli di Dio? ».
Oggi libertà e vita cristiana, osservanza dei comandamenti di Dio, vanno in direzioni opposte. Essere cristiani sarebbe come una schiavitù; libertà è emanciparsi dalla fede cristiana, emanciparsi – in fin dei conti – da Dio. La parola peccato appare a molti quasi ridicola, perché dicono: « Come! Dio non possiamo offenderlo! Dio è così grande, che cosa interessa a Dio se io faccio un piccolo errore? Non possiamo offendere Dio, il suo interesse è troppo grande per essere offeso da noi ».
Sembra vero, ma non è vero. Dio si è fatto vulnerabile. Nel Cristo crocifisso vediamo che Dio si è fatto vulnerabile, si è fatto vulnerabile fino alla morte. Dio si interessa a noi perché ci ama e l’amore di Dio è vulnerabilità, l’amore di Dio è interessamento dell’uomo, l’amore di Dio vuol dire che la nostra prima preoccupazione deve essere non ferire, non distruggere il suo amore, non fare nulla contro il suo amore perché altrimenti viviamo anche contro noi stessi e contro la nostra libertà. E, in realtà, questa apparente libertà nell’emancipazione da Dio diventa subito schiavitù di tante dittature del tempo, che devono essere seguite per essere ritenuti all’altezza del tempo.
E finalmente: « Rinunciate a Satana? ». Questo ci dice che c’è un « sì » a Dio e un « no » al potere del Maligno che coordina tutte queste attività e si vuol fare dio di questo mondo, come dice ancora san Giovanni. Ma non è Dio, è solo l’avversario, e noi non ci sottomettiamo al suo potere. Noi diciamo « no » perché diciamo « sì », un « sì » fondamentale, il « sì » dell’amore e della verità.
Queste tre rinunce, nel rito del Battesimo, nell’antichità, erano accompagnate da tre immersioni: immersione nell’acqua come simbolo della morte, di un « no » che realmente è la morte di un tipo di vita e risurrezione ad un’altra vita. Su questo ritorneremo.
Poi, la confessione in tre domande: « Credete in Dio Padre onnipotente, creatore, in Cristo e, infine, nello Spirito Santo e la Chiesa? ».
Questa formula, queste tre parti, sono state sviluppate a partire dalla Parola del Signore: « Battezzare in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ». Queste parole sono concretizzate ed approfondite: che cosa vuol dire Padre, cosa vuol dire Figlio – tutta la fede in Cristo, tutta la realtà del Dio fattosi uomo – e che cosa vuol dire credere di essere battezzati nello Spirito Santo, cioè tutta l’azione di Dio nella storia, nella Chiesa, nella comunione dei Santi.
Così, la formula positiva del Battesimo è anche un dialogo: non è semplicemente una formula. Soprattutto la confessione della fede non è soltanto una cosa da capire, una cosa intellettuale, una cosa da memorizzare – certo, anche questo –, ma tocca anche l’intelletto, tocca anche il nostro vivere, soprattutto. E questo mi sembra molto importante. Non è una cosa intellettuale, una pura formula. È un dialogo di Dio con noi, un’azione di Dio con noi, e una risposta nostra, è un cammino. La verità di Cristo si può capire soltanto se si è capita la sua via. Solo se accettiamo Cristo come via incominciamo realmente ad essere nella via di Cristo e possiamo anche capire la verità di Cristo. La verità non vissuta non si apre; solo la verità vissuta, la verità accettata come modo di vivere, come cammino, si apre anche come verità in tutta la sua ricchezza e profondità.
Quindi, questa formula è una via, è espressione di una nostra conversione, di un’azione di Dio. E noi vogliamo realmente tenere presente questo anche in tutta la nostra vita: che siamo in comunione di cammino con Dio, con Cristo. E così siamo in comunione con la verità: vivendo la verità, la verità diventa vita e vivendo questa vita troviamo anche la verità.
Adesso passiamo all’elemento materiale: l’acqua.
È molto importante vedere due significati dell’acqua. Da una parte, l’acqua fa pensare al mare, soprattutto al Mar Rosso, alla morte nel Mar Rosso. Nel mare si rappresenta la forza della morte, la necessità di morire per arrivare ad una nuova vita. Questo mi sembra molto importante. Il Battesimo non è solo una cerimonia, un rituale introdotto tempo fa, e non è nemmeno soltanto un lavaggio, un’operazione cosmetica. È molto più di un lavaggio: è morte e vita, è morte di una certa esistenza e rinascita, risurrezione a nuova vita.
Questa è la profondità dell’essere cristiano: non solo è qualcosa che si aggiunge, ma è una nuova nascita. Dopo aver attraversato il Mar Rosso, siamo nuovi. Così il mare, in tutte le esperienze dell’Antico Testamento, è divenuto per i cristiani simbolo della croce. Perché solo attraverso la morte, una rinuncia radicale nella quale si muore ad un certo tipo di vita, può realizzarsi la rinascita e può realmente esserci vita nuova.
Questa è una parte del simbolismo dell’acqua: simboleggia – soprattutto nelle immersioni dell’antichità – il Mar Rosso, la morte, la croce. Solo dalla croce si arriva alla nuova vita e questo si realizza ogni giorno. Senza questa morte sempre rinnovata, non possiamo rinnovare la vera vitalità della nuova vita di Cristo.
Ma l’altro simbolo è quello della fonte. L’acqua è origine di tutta la vita; oltre al simbolismo della morte, ha anche il simbolismo della nuova vita. Ogni vita viene anche dall’acqua, dall’acqua che viene da Cristo come la vera vita nuova che ci accompagna all’eternità.
Alla fine rimane la questione – solo una parolina – del Battesimo dei bambini. È giusto farlo, o sarebbe più necessario fare prima il cammino catecumenale per arrivare ad un Battesimo veramente realizzato?
E l’altra questione che si pone sempre è: « Ma possiamo noi imporre ad un bambino quale religione vuole vivere o no? Non dobbiamo lasciare a quel bambino la scelta? ».
Queste domande mostrano che non vediamo più nella fede cristiana la vita nuova, la vera vita, ma vediamo una scelta tra altre, anche un peso che non si dovrebbe imporre senza aver avuto l’assenso del soggetto.
La realtà è diversa. La vita stessa ci viene data senza che noi possiamo scegliere se vogliamo vivere o no. A nessuno può essere chiesto: « vuoi essere nato o no? ». La vita stessa ci viene data necessariamente senza consenso previo, ci viene donata così e non possiamo decidere prima « sì o no, voglio vivere o no ».
E, in realtà, la vera domanda è: « È giusto donare vita in questo mondo senza avere avuto il consenso: vuoi vivere o no? Si può realmente anticipare la vita, dare la vita senza che il soggetto abbia avuto la possibilità di decidere? ». Io direi: è possibile ed è giusto soltanto se, con la vita, possiamo dare anche la garanzia che la vita, con tutti i problemi del mondo, sia buona, che sia bene vivere, che ci sia una garanzia che questa vita sia buona, sia protetta da Dio e che sia un vero dono.
Solo l’anticipazione del senso giustifica l’anticipazione della vita. E perciò il Battesimo come garanzia del bene di Dio, come anticipazione del senso, del « sì » di Dio che protegge questa vita, giustifica anche l’anticipazione della vita.
Quindi, il Battesimo dei bambini non è contro la libertà. È proprio necessario dare questo, per giustificare anche il dono – altrimenti discutibile – della vita. Solo la vita che è nelle mani di Dio, nelle mani di Cristo, immersa nel nome del Dio trinitario, è certamente un bene che si può dare senza scrupoli.
E così siamo grati a Dio che ci ha donato questo dono, che ci ha donato se stesso. E la nostra sfida è vivere questo dono, vivere realmente, in un cammino post-battesimale, sia le rinunce che il « sì », e vivere sempre nel grande « sì » di Dio, e così vivere bene.

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – PENTECOSTE 2011 ANNO A

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OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI – PENTECOSTE 2011 ANNO A

Basilica Vaticana

Domenica, 12 giugno 2011

Cari fratelli e sorelle!

Celebriamo oggi la grande solennità della Pentecoste. Se, in un certo senso, tutte le solennità liturgiche della Chiesa sono grandi, questa della Pentecoste lo è in una maniera singolare, perché segna, raggiunto il cinquantesimo giorno, il compimento dell’evento della Pasqua, della morte e risurrezione del Signore Gesù, attraverso il dono dello Spirito del Risorto. Alla Pentecoste la Chiesa ci ha preparato nei giorni scorsi con la sua preghiera, con l’invocazione ripetuta e intensa a Dio per ottenere una rinnovata effusione dello Spirito Santo su di noi. La Chiesa ha rivissuto così quanto è avvenuto alle sue origini, quando gli Apostoli, riuniti nel Cenacolo di Gerusalemme, «erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui» (At 1,14). Erano riuniti in umile e fiduciosa attesa che si adempisse la promessa del Padre comunicata loro da Gesù: «Voi, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo…riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi» (At 1,5.8).
Nella liturgia della Pentecoste, al racconto degli Atti degli Apostoli sulla nascita della Chiesa (cfr At 2,1-11), corrisponde il salmo 103 che abbiamo ascoltato: una lode dell’intera creazione, che esalta lo Spirito Creatore il quale ha fatto tutto con sapienza: «Quante sono le tue opere, Signore! Le hai fatte tutte con saggezza; la terra è piena delle tue creature…Sia per sempre la gloria del Signore; gioisca il Signore delle sue opere» (Sal 103,24.31). Ciò che vuol dirci la Chiesa è questo: lo Spirito creatore di tutte le cose, e lo Spirito Santo che Cristo ha fatto discendere dal Padre sulla comunità dei discepoli, sono uno e il medesimo: creazione e redenzione si appartengono reciprocamente e costituiscono, in profondità, un unico mistero d’amore e di salvezza. Lo Spirito Santo è innanzitutto Spirito Creatore e quindi la Pentecoste è anche festa della creazione. Per noi cristiani, il mondo è frutto di un atto di amore di Dio, che ha fatto tutte le cose e del quale Egli si rallegra perché è “cosa buona”, “cosa molto buona” come dice il racconto della creazione (cfr Gen 1,1-31). Dio perciò non è il totalmente Altro, innominabile e oscuro. Dio si rivela, ha un volto, Dio è ragione, Dio è volontà, Dio è amore, Dio è bellezza. La fede nello Spirito Creatore e la fede nello Spirito che il Cristo Risorto ha donato agli Apostoli e dona a ciascuno di noi, sono allora inseparabilmente congiunte.
La seconda Lettura e il Vangelo odierni ci mostrano questa connessione. Lo Spirito Santo è Colui che ci fa riconoscere in Cristo il Signore, e ci fa pronunciare la professione di fede della Chiesa: “Gesù è Signore” (cfr 1 Cor 12,3b). Signore è il titolo attribuito a Dio nell’Antico Testamento, titolo che nella lettura della Bibbia prendeva il posto del suo impronunciabile nome. Il Credo della Chiesa è nient’altro che lo sviluppo di ciò che si dice con questa semplice affermazione: “Gesù è Signore”. Di questa professione di fede san Paolo ci dice che si tratta proprio della parola e dell’opera dello Spirito. Se vogliamo essere nello Spirito Santo, dobbiamo aderire a questo Credo. Facendolo nostro, accettandolo come nostra parola, accediamo all’opera dello Spirito Santo. L’espressione “Gesù è Signore” si può leggere nei due sensi. Significa: Gesù è Dio, e contemporaneamente: Dio è Gesù. Lo Spirito Santo illumina questa reciprocità: Gesù ha dignità divina, e Dio ha il volto umano di Gesù. Dio si mostra in Gesù e con ciò ci dona la verità su noi stessi. Lasciarsi illuminare nel profondo da questa parola è l’evento della Pentecoste. Recitando il Credo, noi entriamo nel mistero della prima Pentecoste: dallo scompiglio di Babele, da quelle voci che strepitano una contro l’altra, avviene una radicale trasformazione: la molteplicità si fa multiforme unità, dal potere unificatore della Verità cresce la comprensione. Nel Credo che ci unisce da tutti gli angoli della Terra, che, mediante lo Spirito Santo, fa in modo che ci si comprenda pur nella diversità delle lingue, attraverso la fede, la speranza e l’amore, si forma la nuova comunità della Chiesa di Dio.
Il brano evangelico ci offre poi una meravigliosa immagine per chiarire la connessione tra Gesù, lo Spirito Santo e il Padre: lo Spirito Santo è rappresentato come il soffio di Gesù Cristo risorto (cfr Gv 20,22). L’evangelista Giovanni riprende qui un’immagine del racconto della creazione, là dove si dice che Dio soffiò nelle narici dell’uomo un alito di vita (cfr Gen 2,7). Il soffio di Dio è vita. Ora, il Signore soffia nella nostra anima il nuovo alito di vita, lo Spirito Santo, la sua più intima essenza, e in questo modo ci accoglie nella famiglia di Dio. Con il Battesimo e la Cresima ci è fatto questo dono in modo specifico, e con i sacramenti dell’eucaristia e della Penitenza esso si ripete di continuo: il Signore soffia nella nostra anima un alito di vita. Tutti i Sacramenti, ciascuno in maniera propria, comunicano all’uomo la vita divina, grazie allo Spirito Santo che opera in essi.
Nella liturgia di oggi cogliamo ancora un’ulteriore connessione. Lo Spirito Santo è Creatore, è al tempo stesso Spirito di Gesù Cristo, in modo però che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo ed unico Dio. E alla luce della prima Lettura possiamo aggiungere: lo Spirito Santo anima la Chiesa. Essa non deriva dalla volontà umana, dalla riflessione, dall’abilità dell’uomo o dalla sua capacità organizzativa, poiché se così fosse essa già da tempo si sarebbe estinta, così come passa ogni cosa umana. La Chiesa invece è il Corpo di Cristo, animato dallo Spirito Santo. Le immagini del vento e del fuoco, usate da san Luca per rappresentare la venuta dello Spirito Santo (cfr At 2,2-3), ricordano il Sinai, dove Dio si era rivelato al popolo di Israele e gli aveva concesso la sua alleanza; “il monte Sinai era tutto fumante – si legge nel Libro dell’Esodo –, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco” (19,18). Infatti Israele festeggiò il cinquantesimo giorno dopo Pasqua, dopo la commemorazione della fuga dall’Egitto, come la festa del Sinai, la festa del Patto. Quando san Luca parla di lingue di fuoco per rappresentare lo Spirito Santo, viene richiamato quell’antico Patto, stabilito sulla base della Legge ricevuta da Israele sul Sinai. Così l’evento della Pentecoste viene rappresentato come un nuovo Sinai, come il dono di un nuovo Patto in cui l’alleanza con Israele è estesa a tutti i popoli della Terra, in cui cadono tutti gli steccati della vecchia Legge e appare il suo cuore più santo e immutabile, cioè l’amore, che proprio lo Spirito Santo comunica e diffonde, l’amore che abbraccia ogni cosa. Allo stesso tempo la Legge si dilata, si apre, pur diventando più semplice: è il Nuovo Patto, che lo Spirito “scrive” nei cuori di quanti credono in Cristo. L’estensione del Patto a tutti i popoli della Terra è rappresentata da san Luca attraverso un elenco di popolazioni considerevole per quell’epoca (cfr At 2,9-11). Con questo ci viene detta una cosa molto importante: che la Chiesa è cattolica fin dal primo momento, che la sua universalità non è il frutto dell’inclusione successiva di diverse comunità. Fin dal primo istante, infatti, lo Spirito Santo l’ha creata come la Chiesa di tutti i popoli; essa abbraccia il mondo intero, supera tutte le frontiere di razza, classe, nazione; abbatte tutte le barriere e unisce gli uomini nella professione del Dio uno e trino. Fin dall’inizio la Chiesa è una, cattolica e apostolica: questa è la sua vera natura e come tale deve essere riconosciuta. Essa è santa, non grazie alla capacità dei suoi membri, ma perché Dio stesso, con il suo Spirito, la crea, la purifica e la santifica sempre.
Infine, il Vangelo di oggi ci consegna questa bellissima espressione: «I discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20,20). Queste parole sono profondamente umane. L’Amico perduto è di nuovo presente, e chi prima era sconvolto si rallegra. Ma essa dice molto di più. Perché l’Amico perduto non viene da un luogo qualsiasi, bensì dalla notte della morte; ed Egli l’ha attraversata! Egli non è uno qualunque, bensì è l’Amico e insieme Colui che è la Verità che fa vivere gli uomini; e ciò che dona non è una gioia qualsiasi, ma la gioia stessa, dono dello Spirito Santo. Sì, è bello vivere perché sono amato, ed è la Verità ad amarmi. Gioirono i discepoli, vedendo il Signore. Oggi, a Pentecoste, questa espressione è destinata anche a noi, perché nella fede possiamo vederLo; nella fede Egli viene tra di noi e anche a noi mostra le mani e il fianco, e noi ne gioiamo. Perciò vogliamo pregare: Signore, mostrati! Facci il dono della tua presenza, e avremo il dono più bello: la tua gioia. Amen!

MERCOLEDÌ DELLE CENERI 2012 (non è anno A) PAPA BENEDETTO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20120222_ceneri_it.html

STATIO E PROCESSIONE PENITENZIALE DALLA CHIESA DI SANT’ANSELMO
ALLA BASILICA DI SANTA SABINA ALL’AVENTINO
SANTA MESSA, BENEDIZIONE E IMPOSIZIONE DELLE CENERI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica di Santa SabinDE
Mercoledì delle Ceneri, 22 febbraio 2012 – non è anno A (B credo)

Venerati Fratelli,
cari fratelli e sorelle!

Con questo giorno di penitenza e di digiuno – il Mercoledì delle Ceneri – iniziamo un nuovo cammino verso la Pasqua di Risurrezione: il cammino della Quaresima. Vorrei soffermarmi brevemente a riflettere sul segno liturgico della cenere, un segno materiale, un elemento della natura, che diventa nella Liturgia un simbolo sacro, molto importante in questa giornata che dà inizio all’itinerario quaresimale. Anticamente, nella cultura ebraica, l’uso di cospargersi il capo di cenere come segno di penitenza era comune, abbinato spesso al vestirsi di sacco o di stracci. Per noi cristiani, invece, vi è quest’unico momento, che ha peraltro una notevole rilevanza rituale e spirituale.
Anzitutto, la cenere è uno di quei segni materiali che portano il cosmo all’interno della Liturgia. I principali sono evidentemente quelli dei Sacramenti: l’acqua, l’olio, il pane e il vino, che diventano vera e propria materia sacramentale, strumento attraverso cui si comunica la grazia di Cristo che giunge fino a noi. Nel caso della cenere si tratta invece di un segno non sacramentale, ma pur sempre legato alla preghiera e alla santificazione del Popolo cristiano: è prevista infatti, prima dell’imposizione individuale sul capo, una specifica benedizione delle ceneri – che faremo tra poco -, con due possibili formule. Nella prima esse sono definite «austero simbolo»; nella seconda si invoca direttamente su di esse la benedizione e si fa riferimento al testo del Libro della Genesi, che può anche accompagnare il gesto dell’imposizione: «Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai» (cfr Gen 3,19).
Fermiamoci un momento su questo passo della Genesi. Esso conclude il giudizio pronunciato da Dio dopo il peccato originale: Dio maledice il serpente, che ha fatto cadere nel peccato l’uomo e la donna; poi punisce la donna annunciandole i dolori del parto e una relazione sbilanciata con il marito; infine punisce l’uomo, gli annuncia la fatica nel lavorare e maledice il suolo. «Maledetto il suolo per causa tua!» (Gen 3,17), a causa del tuo peccato. Dunque, l’uomo e la donna non sono maledetti direttamente come lo è invece il serpente, ma, a causa del peccato di Adamo, è maledetto il suolo, da cui egli era stato tratto. Rileggiamo il magnifico racconto della creazione dell’uomo dalla terra: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato» (Gen 2,7-8); così nel Libro della Genesi.
Ecco dunque che il segno della cenere ci riporta al grande affresco della creazione, in cui si dice che l’essere umano è una singolare unità di materia e di soffio divino, attraverso l’immagine della polvere del suolo plasmata da Dio e animata dal suo respiro insufflato nelle narici della nuova creatura. Possiamo osservare come nel racconto della Genesi il simbolo della polvere subisca una trasformazione negativa a causa del peccato. Mentre prima della caduta il suolo è una potenzialità totalmente buona, irrigata da una polla d’acqua (Gen 2,6) e capace, per l’opera di Dio, di germinare «ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare» (Gen 2,9), dopo la caduta e la conseguente maledizione divina esso produrrà «spine e cardi» e solo in cambio di «dolore» e «sudore del volto» concederà all’uomo i suoi frutti (cfr Gen 3,17-18). La polvere della terra non richiama più solo il gesto creatore di Dio, tutto aperto alla vita, ma diventa segno di un inesorabile destino di morte: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai» (Gen 3,19).
E’ evidente nel testo biblico che la terra partecipa della sorte dell’uomo. Dice in proposito san Giovanni Crisostomo in una sua omelia: «Vedi come dopo la sua disobbedienza tutto viene imposto su di lui [l’uomo] in un modo contrario al suo precedente stile di vita» (Omelie sulla Genesi 17, 9: PG 53, 146). Questa maledizione del suolo ha una funzione medicinale per l’uomo, che dalle «resistenze» della terra dovrebbe essere aiutato a mantenersi nei suoi limiti e riconoscere la propria natura (cfr ibid.). Così, con una bella sintesi, si esprime un altro antico commento, che dice: «Adamo fu creato puro da Dio per il suo servizio. Tutte le creature gli furono concesse per servirlo. Egli era destinato ad essere il signore e re di tutte le creature. Ma quando il male giunse a lui e conversò con lui, egli lo ricevette per mezzo di un ascolto esterno. Poi penetrò nel suo cuore e si impadronì del suo intero essere. Quando così fu catturato, la creazione, che lo aveva assistito e servito, fu catturata con lui» (Pseudo-Macario, Omelie 11, 5: PG 34, 547).
Dicevamo poco fa, citando san Giovanni Crisostomo, che la maledizione del suolo ha una funzione «medicinale». Ciò significa che l’intenzione di Dio, che è sempre benefica, è più profonda della maledizione. Questa, infatti, è dovuta non a Dio ma al peccato, però Dio non può non infliggerla, perché rispetta la libertà dell’uomo e le sue conseguenze, anche negative. Dunque, all’interno della punizione, e anche all’interno della maledizione del suolo, permane una intenzione buona che viene da Dio. Quando Egli dice all’uomo: «Polvere tu sei e in polvere ritornerai!», insieme con la giusta punizione intende anche annunciare una via di salvezza, che passerà proprio attraverso la terra, attraverso quella «polvere», quella «carne» che sarà assunta dal Verbo. E’ in questa prospettiva salvifica che la parola della Genesi viene ripresa dalla Liturgia del Mercoledì delle Ceneri: come invito alla penitenza, all’umiltà, ad avere presente la propria condizione mortale, ma non per finire nella disperazione, bensì per accogliere, proprio in questa nostra mortalità, l’impensabile vicinanza di Dio, che, oltre la morte, apre il passaggio alla risurrezione, al paradiso finalmente ritrovato. In questo senso ci orienta un testo di Origene, che dice: «Ciò che inizialmente era carne, dalla terra, un uomo di polvere (cfr 1 Cor 15,47), e fu dissolto attraverso la morte e di nuovo reso polvere e cenere – infatti è scritto: sei polvere, e nella polvere ritornerai – viene fatto risorgere di nuovo dalla terra. In seguito, secondo i meriti dell’anima che abita il corpo, la persona avanza verso la gloria di un corpo spirituale» (Sui Princìpi 3, 6, 5: Sch, 268, 248).
I «meriti dell’anima», di cui parla Origene, sono necessari; ma fondamentali sono i meriti di Cristo, l’efficacia del suo Mistero pasquale. San Paolo ce ne ha offerto una formulazione sintetica nella Seconda Lettera ai Corinzi, oggi seconda Lettura: «Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio» (2 Cor 5,21). La possibilità per noi del perdono divino dipende essenzialmente dal fatto che Dio stesso, nella persona del suo Figlio, ha voluto condividere la nostra condizione, ma non la corruzione del peccato. E il Padre lo ha risuscitato con la potenza del suo Santo Spirito e Gesù, il nuovo Adamo, è diventato, come dice san Paolo, «spirito datore di vita» (1 Cor 15,45), la primizia della nuova creazione. Lo stesso Spirito che ha risuscitato Gesù dai morti può trasformare i nostri cuori da cuori di pietra in cuori di carne (cfr Ez 36,26). Lo abbiamo invocato poco fa con il Salmo Miserere: «Crea in me, o Dio, un cuore puro, / rinnova in me uno spirito saldo. / Non scacciarmi dalla tua presenza / e non privarmi del tuo santo spirito» (Sal 50,12-13). Quel Dio che scacciò i progenitori dall’Eden, ha mandato il proprio Figlio nella nostra terra devastata dal peccato, non lo ha risparmiato, affinché noi, figli prodighi, possiamo ritornare, pentiti e redenti dalla sua misericordia, nella nostra vera patria. Così sia, per ciascuno di noi, per tutti i credenti, per ogni uomo che umilmente si riconosce bisognoso di salvezza. Amen.

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA QUARESIMA 2013

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI PER LA QUARESIMA 2013

Credere nella carità suscita carità «Abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16)                                  

Cari fratelli e sorelle,

la celebrazione della Quaresima, nel contesto dell’Anno della fede, ci offre una preziosa occasione per meditare sul rapporto tra fede e carità: tra il credere in Dio, nel Dio di Gesù Cristo, e l’amore, che è frutto dell’azione dello Spirito Santo e ci guida in un cammino di dedizione verso Dio e verso gli altri.

1. La fede come risposta all’amore di Dio. Già nella mia prima Enciclica ho offerto qualche elemento per cogliere lo stretto legame tra queste due virtù teologali, la fede e la carità. Partendo dalla fondamentale affermazione dell’apostolo Giovanni: «Abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi» (1 Gv 4,16), ricordavo che «all’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva… Siccome Dio ci ha amati per primo (cfr 1 Gv 4,10), l’amore adesso non è più solo un ”comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio ci viene incontro» (Deus caritas est, 1). La fede costituisce quella personale adesione – che include tutte le nostre facoltà – alla rivelazione dell’amore gratuito e «appassionato» che Dio ha per noi e che si manifesta pienamente in Gesù Cristo. L’incontro con Dio Amore che chiama in causa non solo il cuore, ma anche l’intelletto: «Il riconoscimento del Dio vivente è una via verso l’amore, e il sì della nostra volontà alla sua unisce intelletto, volontà e sentimento nell’atto totalizzante dell’amore. Questo però è un processo che rimane continuamente in cammino: l’amore non è mai “concluso” e completato» (ibid., 17). Da qui deriva per tutti i cristiani e, in particolare, per gli «operatori della carità», la necessità della fede, di quell’«incontro con Dio in Cristo che susciti in loro l’amore e apra il loro animo all’altro, così che per loro l’amore del prossimo non sia più un comandamento imposto per così dire dall’esterno, ma una conseguenza derivante dalla loro fede che diventa operante nell’amore» (ibid., 31a). Il cristiano è una persona conquistata dall’amore di Cristo e perciò, mosso da questo amore – «caritas Christi urget nos» (2 Cor 5,14) –, è aperto in modo profondo e concreto all’amore per il prossimo (cfr ibid., 33). Tale atteggiamento nasce anzitutto dalla coscienza di essere amati, perdonati, addirittura serviti dal Signore, che si china a lavare i piedi degli Apostoli e offre Se stesso sulla croce per attirare l’umanità nell’amore di Dio.  «La fede ci mostra il Dio che ha dato il suo Figlio per noi e suscita così in noi la vittoriosa certezza che è proprio vero: Dio è amore! … La fede, che prende coscienza dell’amore di Dio rivelatosi nel cuore trafitto di Gesù sulla croce, suscita a sua volta l’amore. Esso è la luce – in fondo l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire» (ibid., 39). Tutto ciò ci fa capire come il principale atteggiamento distintivo dei cristiani sia proprio «l’amore fondato sulla fede e da essa plasmato» (ibid., 7).

2. La carità come vita nella fede Tutta la vita cristiana è un rispondere all’amore di Dio. La prima risposta è appunto la fede come accoglienza piena di stupore e gratitudine di un’inaudita iniziativa divina che ci precede e ci sollecita. E il «sì» della fede segna l’inizio di una luminosa storia di amicizia con il Signore, che riempie e dà senso pieno a tutta la nostra esistenza. Dio però non si accontenta che noi accogliamo il suo amore gratuito. Egli non si limita ad amarci, ma vuole attiraci a Sé, trasformarci in modo così profondo da portarci a dire con san Paolo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me (cfr Gal 2,20). Quando noi lasciamo spazio all’amore di Dio, siamo resi simili a Lui, partecipi della sua stessa carità. Aprirci al suo amore significa lasciare che Egli viva in noi e ci porti ad amare con Lui, in Lui e come Lui; solo allora la nostra fede diventa veramente «operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6) ed Egli prende dimora in noi (cfr 1 Gv 4,12). La fede è conoscere la verità e aderirvi (cfr 1 Tm 2,4); la carità è «camminare» nella verità (cfr Ef 4,15). Con la fede si entra nell’amicizia con il Signore; con la carità si vive e si coltiva questa amicizia (cfr Gv 15,14s). La fede ci fa accogliere il comandamento del Signore e Maestro; la carità ci dona la beatitudine di metterlo in pratica (cfr Gv 13,13-17). Nella fede siamo generati come figli di Dio (cfr Gv 1,12s); la carità ci fa perseverare concretamente nella figliolanza divina portando il frutto dello Spirito Santo (cfr Gal 5,22). La fede ci fa riconoscere i doni che il Dio buono e generoso ci affida; la carità li fa fruttificare (cfr Mt 25,14-30).

3. L’indissolubile intreccio tra fede e carità Alla luce di quanto detto, risulta chiaro che non possiamo mai separare o, addirittura, opporre fede e carità. Queste due virtù teologali sono intimamente unite ed è fuorviante vedere tra di esse un contrasto o una «dialettica». Da un lato, infatti, è limitante l’atteggiamento di chi mette in modo così forte l’accento sulla priorità e la decisività della fede da sottovalutare e quasi disprezzare le concrete opere della carità e ridurre questa a generico umanitarismo. Dall’altro, però, è altrettanto limitante sostenere un’esagerata supremazia della carità e della sua operosità, pensando che le opere sostituiscano la fede. Per una sana vita spirituale è necessario rifuggire sia dal fideismo che dall’attivismo moralista. L’esistenza cristiana consiste in un continuo salire il monte dell’incontro con Dio per poi ridiscendere, portando l’amore e la forza che ne derivano, in modo da servire i nostri fratelli e sorelle con lo stesso amore di Dio. Nella Sacra Scrittura vediamo come lo zelo degli Apostoli per l’annuncio del Vangelo che suscita la fede è strettamente legato alla premura caritatevole riguardo al servizio verso i poveri (cfr At 6,1-4). Nella Chiesa, contemplazione e azione, simboleggiate in certo qual modo dalle figure evangeliche delle sorelle Maria e Marta, devono coesistere e integrarsi (cfr Lc 10,38-42). La priorità spetta sempre al rapporto con Dio e la vera condivisione evangelica deve radicarsi nella fede (cfr Catechesi all’Udienza generale del 25 aprile 2012). Talvolta si tende, infatti, a circoscrivere il termine «carità» alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario. E’ importante, invece, ricordare che massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il «servizio della Parola». Non v’è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l’evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana. Come scrive il Servo di Dio Papa Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio, è l’annuncio di Cristo il primo e principale fattore di sviluppo (cfr n. 16). E’ la verità originaria dell’amore di Dio per noi, vissuta e annunciata, che apre la nostra esistenza ad accogliere questo amore e rende possibile lo sviluppo integrale dell’umanità e di ogni uomo (cfr Enc. Caritas in veritate, 8). In sostanza, tutto parte dall’Amore e tende all’Amore. L’amore gratuito di Dio ci è reso noto mediante l’annuncio del Vangelo. Se lo accogliamo con fede, riceviamo quel primo ed indispensabile contatto col divino capace di farci «innamorare dell’Amore», per poi dimorare e crescere in questo Amore e comunicarlo con gioia agli altri. A proposito del rapporto tra fede e opere di carità, un’espressione della Lettera di san Paolo agli Efesini riassume forse nel modo migliore la loro correlazione: «Per grazia infatti siete salvati mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone, che Dio ha preparato perché in esse camminassimo» (2, 8-10). Si percepisce qui che tutta l’iniziativa salvifica viene da Dio, dalla sua Grazia, dal suo perdono accolto nella fede; ma questa iniziativa, lungi dal limitare la nostra libertà e la nostra responsabilità, piuttosto le rende autentiche e le orienta verso le opere della carità. Queste non sono frutto principalmente dello sforzo umano, da cui trarre vanto, ma nascono dalla stessa fede, sgorgano dalla Grazia che Dio offre in abbondanza. Una fede senza opere è come un albero senza frutti: queste due virtù si implicano reciprocamente. La Quaresima ci invita proprio, con le tradizionali indicazioni per la vita cristiana, ad alimentare la fede attraverso un ascolto più attento e prolungato della Parola di Dio e la partecipazione ai Sacramenti, e, nello stesso tempo, a crescere nella carità, nell’amore verso Dio e verso il prossimo, anche attraverso le indicazioni concrete del digiuno, della penitenza e dell’elemosina.

4. Priorità della fede, primato della carità Come ogni dono di Dio, fede e carità riconducono all’azione dell’unico e medesimo Spirito Santo (cfr 1 Cor 13), quello Spirito che in noi grida «Abbà! Padre» (Gal 4,6), e che ci fa dire: «Gesù è il Signore!» (1 Cor 12,3) e «Maranatha!» (1 Cor 16,22; Ap 22,20). La fede, dono e risposta, ci fa conoscere la verità di Cristo come Amore incarnato e crocifisso, piena e perfetta adesione alla volontà del Padre e infinita misericordia divina verso il prossimo; la fede radica nel cuore e nella mente la ferma convinzione che proprio questo Amore è l’unica realtà vittoriosa sul male e sulla morte. La fede ci invita a guardare al futuro con la virtù della speranza, nell’attesa fiduciosa che la vittoria dell’amore di Cristo giunga alla sua pienezza. Da parte sua, la carità ci fa entrare nell’amore di Dio manifestato in Cristo, ci fa aderire in modo personale ed esistenziale al donarsi totale e senza riserve di Gesù al Padre e ai fratelli. Infondendo in noi la carità, lo Spirito Santo ci rende partecipi della dedizione propria di Gesù: filiale verso Dio e fraterna verso ogni uomo (cfr Rm 5,5). Il rapporto che esiste tra queste due virtù è analogo a quello tra due Sacramenti fondamentali della Chiesa: il Battesimo e l’Eucaristia. Il Battesimo (sacramentum fidei) precede l’Eucaristia (sacramentum caritatis), ma è orientato ad essa, che costituisce la pienezza del cammino cristiano. In modo analogo, la fede precede la carità, ma si rivela genuina solo se è coronata da essa. Tutto parte dall’umile accoglienza della fede («il sapersi amati da Dio»), ma deve giungere alla verità della carità («il saper amare Dio e il prossimo»), che rimane per sempre, come compimento di tutte le virtù (cfr 1 Cor 13,13). Carissimi fratelli e sorelle, in questo tempo di Quaresima, in cui ci prepariamo a celebrare l’evento della Croce e della Risurrezione, nel quale l’Amore di Dio ha redento il mondo e illuminato la storia, auguro a tutti voi di vivere questo tempo prezioso ravvivando la fede in Gesù Cristo, per entrare nel suo stesso circuito di amore verso il Padre e verso ogni fratello e sorella che incontriamo nella nostra vita. Per questo elevo la mia preghiera a Dio, mentre invoco su ciascuno e su ogni comunità la Benedizione del Signore!

Dal Vaticano, 15 ottobre 2012 

BENEDICTUS PP. XVI

 

CATTEDRA DI SAN PIETRO, CONCISTORO 2012 – OMELIA DI PAPA BENDETTO

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20120219_nuovi-cardinali_it.html

CONCISTORO ORDINARIO PUBBLICO PER LA CREAZIONE DI NUOVI CARDINALI E PER IL VOTO SU ALCUNE CAUSE DI CANONIZZAZIONE

CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA CON I NUOVI CARDINALI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana
Solennità della Cattedra di San Pietro
Domenica, 19 febbraio 2012

Signori Cardinali,
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
cari fratelli e sorelle!

Nella solennità della Cattedra di san Pietro Apostolo, abbiamo la gioia di radunarci intorno all’Altare del Signore insieme con i nuovi Cardinali, che ieri ho aggregato al Collegio Cardinalizio. Ad essi, innanzitutto, rivolgo il mio cordiale saluto, ringraziando il Cardinale Fernando Filoni per le cortesi parole rivoltemi a nome di tutti. Estendo il mio saluto agli altri Porporati e a tutti Presuli presenti, come pure alle distinte Autorità, ai Signori Ambasciatori, ai sacerdoti, ai religiosi e a tutti i fedeli, venuti da varie parti del mondo per questa lieta circostanza, che riveste uno speciale carattere di universalità.
Nella seconda Lettura poc’anzi proclamata, l’Apostolo Pietro esorta i “presbiteri” della Chiesa ad essere pastori zelanti e premurosi del gregge di Cristo (cfr 1 Pt 5,1-2). Queste parole sono anzitutto rivolte a voi, cari e venerati Fratelli, che già avete molti meriti presso il Popolo di Dio per la vostra generosa e sapiente opera svolta nel Ministero pastorale in impegnative Diocesi, o nella direzione dei Dicasteri della Curia Romana, o nel servizio ecclesiale dello studio e dell’insegnamento. La nuova dignità che vi è stata conferita vuole manifestare l’apprezzamento per il vostro fedele lavoro nella vigna del Signore, rendere onore alle Comunità e alle Nazioni da cui provenite e di cui siete degni rappresentanti nella Chiesa, investirvi di nuove e più importanti responsabilità ecclesiali, ed infine chiedervi un supplemento di disponibilità per Cristo e per l’intera Comunità cristiana. Questa disponibilità al servizio del Vangelo è saldamente fondata sulla certezza della fede. Sappiamo infatti che Dio è fedele alle sue promesse ed attendiamo nella speranza la realizzazione di queste parole dell’apostolo Pietro: “E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce” (1 Pt 5,4).

Il brano evangelico odierno presenta Pietro che, mosso da un’ispirazione divina, esprime la propria salda fede in Gesù, il Figlio di Dio ed il Messia promesso. In risposta a questa limpida professione di fede, fatta da Pietro anche a nome degli altri Apostoli, Cristo gli rivela la missione che intende affidargli, quella cioè di essere la “pietra”, la “roccia”, il fondamento visibile su cui è costruito l’intero edificio spirituale della Chiesa (cfr Mt 16,16-19). Tale denominazione di “roccia-pietra” non fa riferimento al carattere della persona, ma va compresa solo a partire da un aspetto più profondo, dal mistero: attraverso l’incarico che Gesù gli conferisce, Simon Pietro diventerà ciò che egli non è attraverso «la carne e il sangue». L’esegeta Joachim Jeremias ha mostrato che sullo sfondo è presente il linguaggio simbolico della «roccia santa». Al riguardo può aiutarci un testo rabbinico in cui si afferma: «Il Signore disse: “Come posso creare il mondo, quando sorgeranno questi senza-Dio e mi si rivolteranno contro?”. Ma quando Dio vide che doveva nascere Abramo, disse: “Guarda, ho trovato una roccia, sulla quale posso costruire e fondare il mondo”. Perciò egli chiamò Abramo una roccia». Il profeta Isaia vi fa riferimento quando ricorda al popolo «guardate alla roccia da cui siete stati tagliati… ad Abramo vostro padre» (51,1-2). Abramo, il padre dei credenti, con la sua fede viene visto come la roccia che sostiene la creazione. Simone, che per primo ha confessato Gesù come il Cristo ed è stato il primo testimone della risurrezione, diventa ora, con la sua fede rinnovata, la roccia che si oppone alle forze distruttive del male.
Cari fratelli e sorelle! Questo episodio evangelico che abbiamo ascoltato trova una ulteriore e più eloquente spiegazione in un conosciutissimo elemento artistico che impreziosisce questa Basilica Vaticana: l’altare della Cattedra. Quando si percorre la grandiosa navata centrale e, oltrepassato il transetto, si giunge all’abside, ci si trova davanti a un enorme trono di bronzo, che sembra librarsi, ma che in realtà è sostenuto dalle quattro statue di grandi Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente. E sopra il trono, circondata da un trionfo di angeli sospesi nell’aria, risplende nella finestra ovale la gloria dello Spirito Santo. Che cosa ci dice questo complesso scultoreo, dovuto al genio del Bernini? Esso rappresenta una visione dell’essenza della Chiesa e, all’interno di essa, del magistero petrino.
La finestra dell’abside apre la Chiesa verso l’esterno, verso l’intera creazione, mentre l’immagine della colomba dello Spirito Santo mostra Dio come la fonte della luce. Ma c’è anche un altro aspetto da evidenziare: la Chiesa stessa è, infatti, come una finestra, il luogo in cui Dio si fa vicino, si fa incontro al nostro mondo. La Chiesa non esiste per se stessa, non è il punto d’arrivo, ma deve rinviare oltre sé, verso l’alto, al di sopra di noi. La Chiesa è veramente se stessa nella misura in cui lascia trasparire l’Altro – con la “A” maiuscola – da cui proviene e a cui conduce. La Chiesa è il luogo dove Dio “arriva” a noi, e dove noi “partiamo” verso di Lui; essa ha il compito di aprire oltre se stesso quel mondo che tende a chiudersi in se stesso e portargli la luce che viene dall’alto, senza la quale diventerebbe inabitabile.
La grande cattedra di bronzo racchiude un seggio ligneo del IX secolo, che fu a lungo ritenuto la cattedra dell’apostolo Pietro e fu collocato proprio su questo altare monumentale a motivo del suo alto valore simbolico. Esso, infatti, esprime la presenza permanente dell’Apostolo nel magistero dei suoi successori. Il seggio di san Pietro, possiamo dire, è il trono della verità, che trae origine dal mandato di Cristo dopo la confessione a Cesarea di Filippo. Il seggio magisteriale rinnova in noi anche la memoria delle parole rivolte dal Signore a Pietro nel Cenacolo: “Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).
La cattedra di Pietro evoca un altro ricordo: la celebre espressione di sant’Ignazio di Antiochia, che nella sua lettera ai Romani chiama la Chiesa di Roma “quella che presiede nella carità” (Inscr.: PG 5, 801). In effetti, il presiedere nella fede è inscindibilmente legato al presiedere nell’amore. Una fede senza amore non sarebbe più un’autentica fede cristiana. Ma le parole di sant’Ignazio hanno anche un altro risvolto, molto più concreto: il termine “carità”, infatti, veniva utilizzato dalla Chiesa delle origini per indicare anche l’Eucaristia. L’Eucaristia, infatti, è Sacramentum caritatis Christi, mediante il quale Egli continua ad attirarci tutti a sé, come fece dall’alto della croce (cfr Gv 12,32). Pertanto, “presiedere nella carità” significa attirare gli uomini in un abbraccio eucaristico – l’abbraccio di Cristo -, che supera ogni barriera e ogni estraneità, e crea la comunione dalle molteplici differenze. Il ministero petrino è dunque primato nell’amore in senso eucaristico, ovvero sollecitudine per la comunione universale della Chiesa in Cristo. E l’Eucaristia è forma e misura di questa comunione, e garanzia che essa si mantenga fedele al criterio della tradizione della fede.
La grande Cattedra è sostenuta dai Padri della Chiesa. I due maestri dell’Oriente, san Giovanni Crisostomo e sant’Atanasio, insieme con i latini, sant’Ambrogio e sant’Agostino, rappresentano la totalità della tradizione e, quindi, la ricchezza dell’espressione della vera fede nella santa e unica Chiesa. Questo elemento dell’altare ci dice che l’amore poggia sulla fede. Esso si sgretola se l’uomo non confida più in Dio e non obbedisce a Lui. Tutto nella Chiesa poggia sulla fede: i Sacramenti, la Liturgia, l’evangelizzazione, la carità. Anche il diritto, anche l’autorità nella Chiesa poggiano sulla fede. La Chiesa non si auto-regola, non dà a se stessa il proprio ordine, ma lo riceve dalla Parola di Dio, che ascolta nella fede e cerca di comprendere e di vivere. I Padri della Chiesa hanno nella comunità ecclesiale la funzione di garanti della fedeltà alla Sacra Scrittura. Essi assicurano un’esegesi affidabile, solida, capace di formare con la Cattedra di Pietro un complesso stabile e unitario. Le Sacre Scritture, interpretate autorevolmente dal Magistero alla luce dei Padri, illuminano il cammino della Chiesa nel tempo, assicurandole un fondamento stabile in mezzo ai mutamenti storici.
Dopo aver considerato i diversi elementi dell’altare della Cattedra, rivolgiamo ad esso uno sguardo d’insieme. E vediamo che è attraversato da un duplice movimento: di ascesa e di discesa. E’ la reciprocità tra la fede e l’amore. La Cattedra è posta in grande risalto in questo luogo, poiché qui vi è la tomba dell’apostolo Pietro, ma anch’essa tende verso l’amore di Dio. In effetti, la fede è orientata all’amore. Una fede egoistica sarebbe una fede non vera. Chi crede in Gesù Cristo ed entra nel dinamismo d’amore che nell’Eucaristia trova la sorgente, scopre la vera gioia e diventa a sua volta capace di vivere secondo la logica di questo dono. La vera fede è illuminata dall’amore e conduce all’amore, verso l’alto, come l’altare della Cattedra eleva verso la finestra luminosa, la gloria dello Spirito Santo, che costituisce il vero punto focale per lo sguardo del pellegrino quando varca la soglia della Basilica Vaticana. A quella finestra il trionfo degli angeli e le grandi raggiere dorate danno il massimo risalto, con un senso di pienezza traboccante che esprime la ricchezza della comunione con Dio. Dio non è solitudine, ma amore glorioso e gioioso, diffusivo e luminoso.
Cari fratelli e sorelle, a noi, ad ogni cristiano è affidato il dono di questo amore: un dono da donare, con la testimonianza della nostra vita. Questo è, in particolare, il vostro compito, venerati Fratelli Cardinali: testimoniare la gioia dell’amore di Cristo. Alla Vergine Maria, presente nella Comunità apostolica riunita in preghiera in attesa dello Spirito Santo (cfr At 1,14), affidiamo ora il vostro nuovo servizio ecclesiale. Ella, Madre del Verbo Incarnato, protegga il cammino della Chiesa, sostenga con la sua intercessione l’opera dei Pastori ed accolga sotto il suo manto l’intero Collegio cardinalizio. Amen!

Libreria Editrice Vaticana

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