Pontificia Commissione Biblica: 3.3.2. L’insegnamento morale di Paolo
PONTIFICIA COMMISSIONE BIBLICA
BIBBIA E MORALE
RADICI BIBLICHE DELL’AGIRE CRISTIANO
aiuta la comprensione del testo la lettura della Prefazione e dell’Introduzione
indice generale e testi:
3.3.2. L’insegnamento morale di Paolo
54. Nei suoi scritti Paolo insiste sul fatto che l’agire morale del credente è un effetto della grazia di Dio che lo ha reso giusto e che lo fa perseverare. Perché Dio ha perdonato a noi e ci ha resi giusti, egli gradisce il nostro agire morale che dà testimonianza della salvezza operante in noi.
a. L’esperienza dell’amore di Dio come base della morale
55. Ciò che fa nascere la morale cristiana non è una norma esterna bensì l’esperienza dell’amore di Dio per ciascuno, una esperienza che l’apostolo vuol ricordare nelle sue lettere affinché le sue esortazioni possano essere comprese e accolte. Egli fonda i suoi consigli ed esortazioni sull’esperienza fatta in Cristo e nello Spirito senza imporre nulla dall’esterno. Se i credenti devono lasciarsi illuminare e guidare dall’interno e se le esortazioni e i consigli non possono far altro che chiedere loro di non dimenticare l’amore e il perdono ricevuti, la ragione consiste nel fatto che essi hanno sperimentato la misericordia di Dio nei loro confronti, in Cristo, e che essi sono intimamente uniti a Cristo e hanno ricevuto il suo Spirito. Si potrebbe formulare il principio che guida le esortazioni di Paolo: quanto più i credenti sono guidati dallo Spirito tanto meno c’è bisogno di dare loro regole per l’agire.
Una conferma del procedimento di Paolo si presenta nel fatto che egli non inizia le sue lettere con esortazioni morali e non risponde direttamente ai problemi dei suoi destinatari. Mette sempre una distanza fra i problemi e le sue risposte. Riprende le grandi linee del suo Vangelo (per es. Rm 1-8) e mostra come i suoi destinatari devono sviluppare il loro modo di comprendere il Vangelo e poi arriva progressivamente a formulare i suoi consigli per le diverse difficoltà delle giovani chiese (per es. Rom 12-15).
È possibile domandarsi se Paolo anche oggi scriverebbe in questa maniera, se è vero che una maggioranza dei cristiani forse non ha mai fatto l’esperienza della generosità infinita di Dio nei loro confronti e si trovano piuttosto nella situazione di un cristianesimo puramente ‘sociologico’.
In questo contesto si pone pure un’altra domanda: se, cioè, nel passare dei secoli si sia creato un distacco troppo grande fra gli imperativi morali, presentati ai credenti, e le loro radici evangeliche. In ogni caso, è oggi importante formulare di nuovo il rapporto fra le norme e le loro motivazioni evangeliche, per far meglio comprendere come la presentazione delle norme morali dipende dalla presentazione del Vangelo.
b. Il rapporto con Cristo come fondamento dell’agire del credente
56. Ciò che determina per Paolo l’agire morale non è una concezione antropologica, cioè una certa idea dell’uomo e della sua dignità, bensì il rapporto con Cristo. Se Dio giustifica ogni persona umana mediante la fede sola, senza le opere della Legge, ciò non avviene affinché tutti continuino a vivere nel peccato: “Noi, che già siamo morti al peccato, come potremo ancora vivere in esso?” (Rm 6,2). Ma la morte al peccato è una morte con Cristo. Troviamo qui una prima formulazione del fondamento cristologico dell’agire morale dei credenti, fondamento espresso come unione che implica una separazione: uniti a Cristo, i credenti sono ormai separati dal peccato. Importante è l’assimilazione dell’itinerario dei credenti a quello di Cristo. In altre parole: i principi dell’agire morale non sono astratti ma vengono piuttosto da un rapporto con Cristo che ci ha fatti morire insieme con lui al peccato: l’agire morale è direttamente fondato sulla unione con Cristo e sull’inabitazione dello Spirito, dal quale esso viene e di cui è espressione. Così, questo agire non è, fondamentalmente, dettato da norme esteriori, ma proviene dal forte rapporto che nello Spirito connette i credenti a Cristo e a Dio.
Paolo trae anche implicazioni morali dalla sua affermazione unica e caratteristica che la Chiesa è il “corpo di Cristo”. Per l’apostolo questo è più che una semplice metafora e raggiunge uno status quasi-metafisico. Siccome il cristiano è membro del corpo di Cristo, commettere fornicazione è attaccare il corpo della prostituta al corpo di Cristo (1 Cor 6,15-17); siccome i cristiani formano l’unico corpo di Cristo, la varietà dei doni dei membri deve essere usata in armonia e con mutuo rispetto e amore, dando speciale attenzione alle membra più vulnerabili (1 Cor 12-13); celebrando l’Eucaristia, i cristiani non debbono violare o trascurare il corpo di Cristo, arrecando offesa ai membri più poveri (1 Cor 11,17-34; cf. sotto, le implicazioni morali dell’Eucaristia, nn. 77-79).
c. Comportamenti principali verso Cristo Signore
57. Dato che il rapporto con Cristo è tanto fondamentale per l’agire morale dei credenti, Paolo chiarisce quali sono i giusti comportamenti nei confronti del Signore.
Non frequentemente, ma in due testi conclusivi degli scritti paolini si dice che bisogna amare il Signore Gesù Cristo: “Se qualcuno non ama il Signore, sia maledetto!” (1 Cor 16,22) e “La grazia sia con tutti quelli che amano il nostro Signore Gesù Cristo con amore incorruttibile” (Ef 6,24).
È chiaro che questo amore non è un sentimento inoperante, bensì deve concretizzarsi in azioni. La concretizzazione può venire dal titolo più frequente di Cristo, quello di ‘Signore’. La denominazione ‘signore’ è opposta a quella di ‘schiavo’, al quale compete il servire. Sappiamo pure che ‘Signore’ è un titolo divino passato a Cristo. Difatti i cristiani sono chiamati a servire il Signore (Rm 12,11; 14,18; 16,18). Questo rapporto dei credenti con Cristo Signore influisce fortemente nei loro vicendevoli rapporti. Non è giusto comportarsi da giudice di un servo che appartiene a questo Signore (Rm 14,4.6-9). I rapporti fra quelli che, nella società antica, sono schiavi e sono signori, vengono relativizzati (1 Cor 7,22-23; Fm; cf. Col 4,1; Ef 6,5-9). A uno che è servo del Signore conviene, per amore di Gesù, servire quelli che appartengono a questo Signore (2 Cor 4,5).
Dato che con ‘Signore’ è passato un titolo divino a Cristo, possiamo osservare che gli atteggiamenti del credente anticotestamentario nei confronti di Dio passano pure a Cristo: in lui si crede (Rm 3,22.26; 10,14; Gal 2,16.20; 3,22.26; cf. Col 2,5-7; Ef 1,15); in lui si spera (Rm 15,12; 1 Cor 15,19); lui viene amato (1 Cor 16,22; cf. Ef 6,24); a lui si ubbidisce (2 Cor 10,5).
L’agire giusto che corrisponde a questi atteggiamenti nei confronti del Signore, si può desumere dalla sua volontà che si manifesta nelle sue parole ma specialmente nel suo esempio.
d. L’esempio del Signore
58. Le istruzioni morali di Paolo sono di diverso genere. Egli dice con grande chiarezza e forza quali comportamenti sono perniciosi ed escludono dal regno di Dio (cf. Rm 1,18-32; 1 Cor 5,11; 6,9-10; Gal 5,14); si riferisce raramente alla legge mosaica come modello di comportamento (cf. Rm 13,8-10; Gal 5,14); non ignora i modelli morali degli stoici – ciò che gli uomini del suo tempo hanno considerato come buono e cattivo; inoltre trasmette alcune disposizioni di Cristo su problemi concreti (1 Cor 7,10; 9,14; 14,37); e si riferisce pure alla “legge di Cristo” che dice: “Portate i pesi gli uni degli altri!” (Gal 6,2).
Più frequenti sono i riferimenti all’esempio di Cristo che è da imitare e da seguire. In modo generale Paolo dice: “Diventate i miei imitatori come io lo sono di Cristo” (1 Cor 11,1). Esortando all’umiltà e a non cercare solo il proprio interesse (2,4), ammonisce i Filippesi: “Abbiate fra di voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù!” (2,5) e descrive l’intero cammino dell’abbassamento e della glorificazione di Cristo (2,6-11). Presenta pure come esemplare la generosità di Cristo, che si fece povero per renderci ricchi (2 Cor 8,9), e la sua dolcezza e mansuetudine (2 Cor 10,1).
Paolo mette specialmente in rilievo la forza impegnativa dell’amore di Cristo, che raggiunge il suo compimento nella passione. “Poiché l’amore del Cristo ci sospinge, al pensiero che uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro” (2 Cor 5,14-15). Seguendo Gesù non è più possibile una “vita propria” secondo i propri progetti e desideri ma solo una vita in unione con Gesù. Paolo afferma per se stesso una tale vita: “Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me. Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20). Questo atteggiamento si trova anche nell’esortazione della lettera agli Efesini: “Camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amati e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio a lui gradito” (Ef 5,2; cf. Ef 3,17; 4,15-16).
e. Il discernimento della coscienza guidato dallo Spirito
59. Anche se Paolo chiede poche volte ai credenti di discernere, lo fa in modo tale da far capire loro che tutte le decisioni devono essere prese con discernimento, come dimostra l’inizio della parte esortativa della lettera ai Romani (Rm 12,2). I cristiani devono discernere, perché spesso le decisioni da prendere non sono affatto evidenti e palesi. Il discernimento consiste nell’esaminare, sotto la guida dello Spirito, ciò che è migliore e perfetto in ogni circostanza (cf. 1 Ts 5,21; Fil 1,10; Ef 5,10). Chiedendo ai credenti di discernere, l’apostolo li rende responsabili e sensibili alla voce discreta dello Spirito in loro. Paolo è convinto che lo Spirito che si manifesta nell’esempio di Cristo e che è vivo nei cristiani (cf. Gal 5,25; Rm 8,14), darà loro la capacità di decidere che cosa sia conveniente in ogni occasione.