Trasfigurazione del Signore

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DON DIVO BARSOTTI, C.F.D.
LA DOTTRINA E LA PRATICA: LA GLORIA DEL SIGNORE – 2Cor 3:18
(Divo Barsotti lo leggevo, e meditavo i suoi scritti, più negli anni passati, ora le mie ricerche sono più « bibliche », ma per la Trasfigurazione del Signore il passaggio della « Cor 3,18 è più volte citato, ve lo propongo…per questo)
Uno dei testi più grandi di San Paolo è il capitolo dell’Ora di sesta, alla festa della Trasfigurazione: ‘Noi tutti a faccia scoperta contemplando la gloria del Signore siamo trasformati nella stessa immagine di chiarezza in chiarezza come dallo Spirito del Signore’. È uno dei testi più belli di tutto il Nuovo Testamento, è uno dei testi più densi di dottrina, e uno dei testi soprattutto più importanti per il cristiano. In questo testo di fatto vi è tutto il programma della sua vita, se la vita cristiana è vita di fede, è vita di preghiera e di contemplazione. E la contemplazione, nel Cristianesimo, è transformante.
Per questo, nella misura che noi contempliamo la luce ci trasformiamo nella luce, di gloria in gloria, in un processo che per la potenza dello Spirito sempre più ci assimila a Cristo e in Cristo a Dio.
Il testo richiama due volte la gloria: l’uomo contempla la gloria per irraggiarla da sè.
Prima di tutto l’anima vive nella presenza di Dio, vive nella sua luce, ma contemplando la gloria ineffabile di Dio diviene essa stessa luce, così, come un cristallo, illuminato dal sole, deviene egli stesso sorgente di luce.
Il primo dovere è quello di vivere in questa presenza, di vivere in questo visione, di contemplare Dio, di essere illuminati dalla luce del Signore.
Il secondo dovere che deriva necessariamente dal primo, è essere segno per gli altri: nella misura che contempliamo, noi stessi siamo illuminati, ed essendo illuminati diveniamo per li altri il segno della gloria.
Ogni cristiano deve essere rivelatore del Padre, come Cristo; segno di una presenza, come Gesù. Egli si è reso invisibile agli uomini, Lui che ha detto a Filippo: ‘Chi vede Me, vede il Padre’, perchè vuol rendersi visibile in ciascuno di noi. Il Cristo deve farsi presente nelle sue membre, in noi stessi.
Noi ci siamo chiesti quale rapporto hanno la festa dell’Epifania e la festa della Trasfigurazione in quanto feste della gloria?
La risposta a questa domanda implica una qualche nozione della gloria. Come si manifesta la gloria? Quale rapporto vi è fra la manifestazione delle gloria nell’Epifania e nella Trasfigurazione di Cristo?
Accenniamo che cosa dobbiamo intendere per la ‘gloria’.
Credo che lo intuiamo senza poterlo definire chiaramente, come avviene sempre nel Cristianesimo in cui la verità è posseduta prima di esser formulata. Ogni elaborazione teologica non è che la traduzione concettuale di una realtà vissuta, di un mistero presente al quale il fedele partecipa. Quello che un teologo insegna non è mai totalmente nuovo per coloro che ascoltano. Anche se coloro che ascoltano fino a quel momento non avrebbero mai saputo esprimere quanto il teologo insegna. All’infallibilità del magistero della Chiesa risponde l’infallibilità del popolo cristiano, il quale può assentire all’insegnamento proposto in quanto ‘sente’ in quello che gli è proposto la traduzione di quanto già confusamente possedeva. Egli infatti nel dono dello Spirito già confusamente possedeva. Egli infatti nel dono dello Spirito già aderisce misteriosamente ‘a tutta la verità’.
Definire che cos’è la gloria, in realtà è ben difficile. Intanto dobbiamo ricordare che quando si parlar di ‘gloria’ ci si riferisce a ‘qualcosa’ che appartiene esclusivamente al dominio della Rivelazione. Per i greci non esiste la realtà che questa parola esprime: ‘doxa’ in greco vuol dire opinione, e nella lingua del nuovo testamento ‘doxa’ vuol dire gloria. Il Cristianesimo e prima ancora l’Ebraismo, ha dato un contenuto nuovo a dei termini vecchi. Se per gloria, come dice San Tommaso, noi intendiamo soltanto ‘una chiara notizia’, lo splendore che porta con sè la bellezza, la potenza, la vita, questo concetto forse si potrebbe trovare anche nella lingua greca, ma non è esattamente questo il contenuto del termine biblico.
Nella rivelazione ebraico-cristiana ‘gloria’ ha prima di tutto un significato oggetivo: è il peso dell’essere, è l’essere trascendente di Dio che non ha alcuna proporzione con l’essere creato e che nella sua manifestazione, si direbbe, dissolve tutte le cose. Le creature non sopportano il peso di Dio.
La gloria è in rapporto col peso. Anche San Paolo nella lettera ai Corinzi parla del ‘pondus gloriae’. ‘Non vi è paragone, – egli dice, – fra le sofference del tempo presente e il peso di gloria che ci aspetta nella vita futura’.
La gloria è un ‘peso’. È la presenza di un Essere che pesa, che schiaccia. Dio ha tale forza, tale grandezza che nella sua presenza vien meno la creazione intera. La gloria di Dio, prima di tutto, si direbbe che uccide e distrugge tale è la sproporzione tra l’essere creato e il Creatore. La creazione stessa si dissolve come fumo alla presenza di Dio.
‘Nessuno può vedermi e vivere’, dice Dio stesso nell’Antico Testamento. Com’è possibile allora che questa gloria si manifesti, se la sua manifestazione di fatto distrugge le cose?
Il peso di Dio, in Sè medesimo, non è ancora la gloria. La gloria di Dio è ‘questo Essere divino’ che, facendosi presente dà alla creatura il senso della Sua pienezza, della Sua forza, della Sua trascendenza, del Suo peso. Distrugge la creatura ma perchè la trasforma.
La gloria di Dio implica una visione, una comunicazione di Dio….: la gloria è Dio che si dona ma proprio perchè il dono è reale e non vi è proporzione tra l’essere creato e Dio, l’essere creato non può sopportare il peso di Dio, non può accoglierlo che venendo meno in qualche modo a se stesso.
La creatura vien meno, per risorgere in Dio. Per la gloria la creazione entra nel mistero di Dio: Dio è incomunicabile, ma nella sua gloria Egli si comunica al mondo. E il mondo che entra in rapporto con Dio per la gloria, tanto più partecipa alla gloria di Dio quanto più entra nel suo mistero.
Proprio perchè DIO è un’altra Realtà nei confronti della realtà creata, nella misura che Dio si manifesta, coloro a cui si manifesta, entrano nella invisibilità di Dio, entrano nel segreto di Dio, scendono nel silenzio, precipitano e spariscono nella luce divina, affondano in Dio e sono sommersi.
Vi è un rapporto di continuità fra la grazia e la gloria – così tu, pur essendo già in Dio, continui a vivere anche quaggiù la grazia già ti trasferisce nel seno di Dio ma non totalmente; così tu, pur essendo già in Dio, continui a vivere quaggiù in una condizione ei esilio, di lontananza, di estraneità al mondo divino.
Ma già la grazia è la comunicazione che Dio fa di Se stesso, comunicazione per la quale Egli trae le creature, che aveva solevato dal nulla, nel suo stesso mistero. Dio l’ha stabilita nell’essere, ma per Iddio l’averla creata è soltanto condizione per poi trarla nel suo segreto, nel suo mistero, nel suo intimo Seno.
Questo processo onde la creature è tratta nel segreto di Dio è il cammino della vita religiosa, è il cammino stesso della rivelazione divina, il cammino perciò della gloria.
Questo processo termina con la morte, perciò con la morte l’uomo esce definitivemente da questa realtà creata e precipita nella Realtà divina: questo è l’ultimo atto di una comunicazione che Dio mi fa di Se stesso, comunicazione che esige precisamente la fine della condizione di vita che è propria della creatura come tale.
All’inizio Dio si rivela, si direbbe, nel modo più clamoroso. La trascendenza di Dio si svela agli uomini nei fenomeni più straordinari, negli avvenimenti cosmici, nella creazione intera.
Avanti di Abramo e anche dopo nelle religioni che non hanno acceduto alla rivelazione profetica, Dio è conosciuto attraverso i grandi avvenimenti del cosmo: le stagioni, l’uragano, il terramoto, l’immensità dei mari… sono manifestazioni di Dio. Dio esce nella sua gloria dal suo segreto: e attraverso questi avvenimenti l’uomo è chiamato a percipire un’altra Realtà, a rendersi conto del peso di un altro mistero di cui questi avvenimenti sono il segno soltanto.
Nella religione cosmica il rapporto con Dio si stabilisce attraverso questi avvenimenti straordinari di una imponenza magnifica che schiacciano l’uomo, lo atteriscono, tuttavia principalmente sul piano fisico. L’uomo si sente minacciato e sgomento. Dio non si fa vicino all’uomo che suscitando lo sgomento della morte.
Quando Dio si fa più vicino, la rivelazione si fa meno impressionante sul piano esterno e l’uomo è sollecitato ad entrare finalmente nel mistero di Dio.
Mentre nella rivelazione cosmica Dio rimane lontano, nella rivelazione profetica Egli si fa vicino all’uomo, entra nella sua storia. La manifestazione della gloria di Dio non ha più un legame soltanto con gli avvenimenti del cosmo, ha un legame con la storia dell’uomo. Dio si è fatto più vicino all’uomo e l’uomo Lo scopre, ora, nella sua medesima vita, nella sua medesima storia.
Ma la rivelazione ultima è quella del Cristo: Dio non soltanto si fa vicino ma veramente si dona e si comunica nell’umiltà più profonda di una vita comune.
Via via che Dio si avvicina all’uomo e la rivelazione divina si fa più piena, ma anche più intima all’uomo, anche l’uomo procede in un cammino di libertà e di responsabilità. All’inizio quando Dio gli parlava attraverso la natura era difficile e quasi impossibile per l’uomo poter sottrarsi alla sua luce, allora l’umanità poteva essere idolatra, ma era religiosa; oggi, al contrario, ci si domanda se è possibile che permanga la fede senza la religione. Sembra che l’umanità proceda verso una età che non avra più religione. Forse è esagerato, anzi forse è del tutto impossibile che l’umanità si incammini verso questa età. Tuttavia è vero che il processo della rivelazione divina terminando nel Cristo non riconosce più nella natura il ‘segno’ più alto di Dio. Il ‘segno’ più alto di Dio è l’uomo. Ma l’uomo può negarsi ad essere segno. Di qui il carattere di maggiore discontinuità che ha il fenomeno religioso per il mondo di oggi. La fede che l’uomo presta a Dio diviene sempre più un atto libero – non si fonda più sul rapporto necessario che l’uomo ha con una natura ancora sacra e rivelatrice di Dio. In questo cammino se Dio dunque si fa più intimo all’uomo, anche più si nasconde. La ‘secolarità’ del mondo moderno di cui spesso si parla, è ambigua – può essere la testimonianza più alta di un’esperienza di Dio non pero ‘altro’ dall’uomo ma divenuto veramente uno con lui nel primo fulgore della rivelazione cristiana, ma può essere anche l’essenza vera di Dio, può essere per l’uomo ‘la morte di Dio’.
È estremamente difficile vivere il Cristianesimo: noi siamo ancora dei primitivi, nella nostra religione ancora si avverte più Dio nel terremoto o nell’immensità del mare, di quanto non si avverta nel Cristo, di quanto non si avverta e non si comunichi con Lui nel Mistero eucaristico.
Siamo estranei ancora al mistero di Dio. In realtà la gloria più alta di cui l’uomo abbia mai avuto esperienza quaggiù è stata ed è la rivelazione che Dio ci ha fatto di Sè, nell’umiltà di Gesù. La rivelazione della gloria nell’umiltà di Gesù è veramente per l’uomo un discendere, un entrare proprio nell’intimo seno della divinità. In Cristo infatti veramente la natura umana è stata assunta da Dio. La gloria di Dio non più come nella rivelazione cosmica manifesta Dio nel peso di uno sgomento di morte, la gloria ha invece il peso di un amore che l’uomo non riesce a concepire e a contenere in sè. La creatura non saprà mai credere pienamente a questo amore.
Anche per i Santi la cosa più difficile è credere all’amore di Dio nel Cristo. Credere cioè che l’Infinito, l’Immenso in tal modo ci abbia amato da farsi davvero nostro fratello, da divenire veramente figlio dll’uomo così che l’uomo lo possa portare sulle braccia, lo possa stringere al cuore.
Altro il peso della grandezza divina che ti minaccia di morte nel terremoto, altra la rivelazione dell’amore di Dio nell’umiltà di Gesù! L’umiltà, la debolezza dell’infanzia del Cristo è qualche cosa che non ha proporzione assolutamente nè con tutta la creazione nè con tutta la storia del mondo. È un abisso, una immensità infinitamente più vasta di ogni tuo spirito. Come non vi è proporzione fra la materia e lo spirito, così non vi è proporzione fra una gloria che si manifesta nella potenza degli avvenimenti del cosmo e la rivelazione della gloria che si manifesta invece nella delicatezza, nell’umiltà di un amore che si spoglia di tutto per tutto donarsi.
La rivelazione suprema di Dio è questo ‘sparire’ di Dio nella umiltà del Cristo. E questo ‘sparire’ di Dio nell’umiltà del Cristo accenna e prepara il totale sparire di Dio come ‘altro da te’ nella vita futura. Nella vita futura la gloria è semplicemente il superamento della dualità: Dio non è più ‘altro da te’, rimane la distinzione della creatura da Dio, ma la distinzione sussiste nella unità: tu non dici che Dio, tu non sei più che Dio, tu sei la sua santità, la sua vita. Non puoi cercare al di fuori di te una visione di Dio: la visione beatifica si identifica al possesso di Dio, si identifica alla tua ‘Unità’ con Lui alla tua trasformazione in Dio stesso. Rimane la distinzione ma nella unità. In questa unità non è soltanto l’uomo che sparisce come altro da Dio, è anche Dio che ‘sparisce’ come altro dall’uomo. Sparisce come ‘altro’ da te.
Il cammino della gloria è precisamente un cammino di umiltà. È il cammino infatti onde l’uomo entra sempre più nell’abisso di Dio e sparisce e non rimane più che la luce divina. Dio si comunica in tal modo all’uomo che l’uomo non lo può trovare più al di fuori di sè. Prima lo vedeva nel cosmo, poi lo riconosceva nella sua medesima storia, poi Dio entrava nella sua medesima vita finchè Egli diveniva Uomo diveniva lui stesso. Di fatto, nella misura che Dio rimane ‘altro’ dall’uomo l’uomo è nell’inferno. L’inferno è la divisione. (Non la distinzione perchè la distinzione rimane eterna, ma la divisione).
È per noi estremamente difficile vivere la festa della gloria nel seno del Cristianesimo. Per noi Dio sembra manifestarsi di più nella luce di un tramonto o nella solennità del silenzio dei monti, che nella nostra umile vita, che nei nostri poveri sentimenti umani. Di fatto tuttavia, l’atto supremo di una comunicazione di Dio nella vita presente è la semplicità di una Comunione Eucaristica. L’atto supremo della gloria quaggiù è perciò una comunione onde Dio si dona a te ed entra in te e tu Lo possiedi nella umiltà di un suo nascondimento totale, che implica anche un tuo nascondimento in Lui. In tanto Egli di fatto si manifesta nel suo nascondimento e tu Lo ricevi in quanto tu stesso entri nel suo occultamento divino.
La rivelazione suprema della gloria non potrà mai avvenire, comunque, nella vita presente, ma avviene con la morte, perchè è precisamente con la morte che l’uomo precipita definitivamente nel silenzio di Dio. Così la gloria d’identifica al silenzio e alla morte.
Ma è nel Cristo ora che Dio si rivela (e non è detto che anche domani non debba essere il Cristo, ma domani in quanto in Lui io sono già trasformato, oggi in quanto il Cristo ancora mi parla come fosse altro da me) ‘Filippo chi vede me, vede il Padre’.
Proprio per questo la gloria di Dio è sollecitata oggi dell’uomo nel mistero della Epifania e della Trasfigurazione.
Nell’Epifania è Dio che si rivela al ‘mondo’. L’accento vien posto su Dio. Nella Trasfigurazione è l’uomo ‘il mondo di quiaggiù’, che sia pur furtivamente, entra nella gloria divina. L’accento vien posto sull’uomo.
È la medesima gloria, ma noi la contempliamo in due misteri distinti: nell’atto onde Dio si rivela agli uomini, nell’atto onde gli uomini entrano in questa gloria. Nella prima festa la Chiesa celebra l’Epifania di Dio nella debolezza e nella impotenza di Gesù Bambino, nella seconda, al contrario, celebra la Trasfigurazione dell’Uomo Gesù investito della gloria di Dio.
La gloria di Dio si manifesta nella debolezza dell’infanzia perchè questa debolezza non suppone alcuna collaborazione dell’Umanità di Gesù alla manifestazione della gloria: nella sua debolezza, nella sua impotenza Egli è la Gloria. Il Vangelo insiste in modo particolarissimo nel farci riconoscere nei misteri dell’infanzia la manifestazione della gloria. Il Verbo non ha bisogno di particolari atti compiuti dalla sua Umanità per riverlarsi al mondo: nel suo stato di debolezza, di umana impotenza, di umiltà, Egli è la Gloria. ‘Gloria a Dio nell’alto dei cieli’, hanno cantato gli Angeli sopra la grotta di Betlem.
Da adulto la gloria si rivela in Cristo attraverso una collaborazione della sua Umanità all’azione di Dio che si comunica al mondo. Così il mistero della Trasfigurazione è legato, nei Vangeli sinottici, alla Passione. Nella Trasfigurazione è veramente l’Umanità che entra nella gloria ed è trasfigurata da Dio, ma vi entra attraverso una partecipazione, una collaborazione, consapevole, libera e piena di amore.
Nella misura che l’uomo è quello che è, povero, debole, impotente, Dio già lo fa segno della sua presenza, perchè Egli l’ha assunto e ne ha fatto lo strumento e il sacramento della sua gloria immensa.
Ma l’uomo deve anche entrare progressivamente in questa luce collaborando all’azione stessa di Dio. Così il mistero dell’Epifania e quello della Trasfigurazione sono celebrati proprio perchè la celebrazione è anche partecipazione al mistero.
Ognuno di noi è segno già di una presenza di Dio, lo è non nella misura che è grande, che è potente, ma nella misura della sua impotenza, della sua debolezza, della sua umiltà. Dio che ha assunto la natura umana in Cristo per rivelarsi in questa natura, in atto primo ha assunto anche ogni uomo.
E tu devi riconoscere il segno di Dio nella umiliazione dell’uomo, nella sua povertà. Così insegna giustamente la spiritualità ortodossa e specialmente russa. Ecco come noi dovremmo avvicinarci (perchè altrimenti non sapremmo riconoscere in Gesù bambino il Figlio di Dio) ai poveri, ai sofferenti, agli umili; a questi uomini che sembrano non valere, non essere nulla agli occhi del mondo: essi sono il segno di Dio.
Dio non si rivela più tanto negli avvenimenti cosmici e nemmeno negli avvenimenti storici, ma nella debolezza di un Bambino che non sa parlare, si rivela nell’impotenza di un Bambino che ha bisogno di difesa, si revala null’umiltà di un Bambino deposto su una mangiatoia. La gloria di Dio non si rivela nei miracoli del Cristo come si rivela in questa sua debolezza ed impotenza.
Proprio nella misura che Dio si fa presente, riduce l’apparato della sua grandezza. E ogni uomo participa del mistero della gloria di Dio che si rivela nell’impotenza, nell’umiltà di Gesù bambino, nella misura che ogni uomo è povero, debole come Lui, nella misura che è quello che è, una povera creature. Non potremo avere una rivelazione più alta della gloria divina che di saperci, di sentirci il termine di un Amore immenso.
E la nostra povertà che potrebbe sembrarci un ostacolo insuperabile è il segno precisamente della più meravigliosa rivelazione dell’amore divino; proprio perchè siamo poveri si manifesta più grande l’amore di Dio in noi. Noi non possiamo che aprirci a uno stupore senza fine nel saperci amati, nel sentirci amati per nulla.
È proprio la povertà dell’uomo che dice l’incommensurabilità dell’amore divino; è proprio la nostra debolezza che dice l’insondabile ricchezza della misericordia infinita. Dio si rivela precisamente in questo come Dio, per il fatto che ci ama, per il fatto che si dona a noi, per il fatto che Egli ha voluto esser una cosa sola con noi, non scegliendo la grandezza umana, ma scegliendo la nature umana spoglia di qualsiasi valore che non fosse la sua debolezza e la povertà di creatura.
Realizzare tutto questo vuol dire vivere veramente il nostro cristianesimo nel senso più pieno e più vero.
Per il mistero della Trasfigurazione l’uomo partecipa alla gloria attraverso una sua collaborazione umana. Ma la collaborazione è sempre ben povera cosa.
Se l’atto supremo onde l’uomo entra nella gloria è la morte, il sottrarsi definitivo dell’uomo alla vita presente, tuttavia la morte non può mai che essere accettata dall’uomo. La collaborazione che Dio chiede all’uomo non sarà che l’impegno di una volontà che si libera, si scioglie da ogni legame e si offre puramente a Dio. Non si vuole appartenere più, si lascia investire da Dio, si lascia possedere da Lui, si strappa a se stessa per abbandonarsi all’amore di Dio come alla morte.
* * *
Per noi cristiani, la gloria di Dio dunque non è più (anche se non è esclusa) la rivelazione che Dio fa di Se stesso attraverso la creazione e non nemmeno più la rivelazione che Dio fa di Se stesso attraverso una storia in cui Egli stesso interviene: è l’uomo che Egli ha assunto in unità di persona.
A una prima visione sembrerebbe che la gloria di Dio, nella sua manifestazione, vada diminuendo. Da una manifestazione di avvenimenti cosmici a una manifestazione di umiltà; da una manifestazione di potenza ad una manifestazione che si riduce quasi al nulla. In realtà se noi siamo scandalizzati da questo processo, lo siamo perchè noi rimaniamo estranei al processo stesso, non abbiamo cioè camminato con Dio.
Se tu rimani estraneo a Dio, Dio, per te, si occulta sempre di più. Se invece ti lasci prendere da Lui, tu stesso entri nel segreto divino, tu stesso entri in Dio.
L’occultamento di Dio allora è il to stesso occultamento in Lui. Non è perchè Egli ti è estraneo che rimane nascosto, è al contrario perchè tu stesso ti assimili a Lui e quasi in Lui stesso ti perdi.
Per chi rimane al di fuori di Dio, certo, il Bambino Gesù non sembra più nulla. Mentre nessuno può rimanere indifferente a uno sconvolgimento cosmico, molti possono rimanere indifferenti di fronte al sorriso di un bambino. Se noi non rimaniamo indifferenti ad una rivelazione che ci colpisce dall’esterno (appunto perchè viviamo all’esterno) possiamo rimanere invece indifferenti ad un rivelazione che si fa soltanto nell’intimo.
Proprio perchè Dio si è comunicato più intensamente, più personalmente, questa comunicazione di Dio non avviene più in tal modo da colpirti dall’esterno: deve invece realizzarsi nel più intimo del cuore. Se tu rimani fuori di te, nessuna rivelazione si compie per te: Dio si fa vicino ma tu non ti incontri con Lui. È proprio avvicinandosi all’uomo che Dio gli diviene sempre più estraneo se l’uomo non entra in se stesso, non lo cerca nel suo intimo cuore.
La maggior parte, anche degli uomini sente ancora la presenza di Dio più dinanzi all’immensità dei mari che in una piccola cappella odorante di incenso.
Così avenne anche fra i popoli in mezzo ai quali viveva Israele: Israele sapeva riconoscere Dio nella sua storia, gli altri popoli no. Ma soprattutto, così è avvenuto per la maggior parte degli uomini quando Dio si è fatto uomo: pochissimi seppero riconoscerlo. Perfino agli Apostoli, che erano vissuti con Lui per tanto tempo, Gesù deve dire: ‘Filippo, da tanto tempo io sono con voi e ancora non me avete conosciuto. Filippo, chi vede me, vede il Padre’.
L rivelazione suprema implica l’occultamento più grande. Quanto più la nostra vita religiosa diviene profonda, tanto più, non solo diviene segreta, ma divience semplice, perde ogni apparato esterno, si spoglia, si fa pura come la luce. Non è’ così la vita di Maria SS? Forse la stessa Annunciazione si è compiuta in una ispirazione interiore (e san Luca, forse, ha dovuto descriverla in termini di visione, perchè altrimenti noi non avremmo capito): Maria SS. che viveva nell’intimità più profonda sapeva discernere la venuta di Dio, anzi viveva più grandemente la visione della gloria quanto più la visione era intima e segreta.
Veramente quanto più Dio si comunica all’uomo e l’uomo entra nella gloria divina, tanto più rimane nascosto da questa medesima luce. La realtà dello spirito è più proporzionata a Dio della realtà fisica. È questa realtà che perciò è maggiormente significativa di Dio. La visione della gloria è più pura e più grande quanto più è spirituale. Più che nei grandi avvenimenti, è nel piano personale di una comunione di amore che si manifesta la gloria di Dio.
La suprema manifestazione della gloria è l’amore di un Dio che muore per l’uomo. È il dono dello Spirito onde Dio si fa intimo all’uomo. Mai nessuna filosofia, nessuna religione avrebbe potuto immaginare una cosa simile. La fede cristiana veramente sconcerta, scandalizza e sgomenta. E se noi non siamo sgomenti e sconcertati è perchè noi ripetiamo sì le formule del catechismo, ma non ci preoccupiamo di realizzare quello che esse vogliono dire per noi.
Vorrei dirvi quello che ho provato ieri, per due minuti, forse anche meno, durante la mia adorazione della sera: sentivo che il mio atto era tutta la vita, tutta la realtà: Dio si comunicava a me nella umiltà di quella mia esperienza umana, di quel mio vivere l’istante: Cristo era in me. E non esisteva più nulla al di fuori di me. Come potrei di fatto ricevere il Cristo, come potrebbe il Cristo communicarsi a me, se io non vivessi in quell’atto tutta la vita? Non è il Cristo tutto Dio e tutto l’uomo? Così al di fuori di quell’atto non c’era più nulla, e io vivevo in quell’atto la mia comunione col Cristo.
Eppure com’è difficile per noi vivere questo! Come pochi sono sensibili a Dio nella rivelazione cristiana! La rivelazione suprema di Dio si realizza per l’uomo quando egli si sottrae a tutto il visibile e precipita per sempre nella luce infinita: la morte. Allora davvero non rimane più che Dio. Dio si è comunicato finalmente all’uomo, così da divenire per l’uomo tutta la vita e tutta la realtà, così da non esistere più per l’uomo che Dio.
Parliamo con un linguaggio più semplice e più diretto: in che modo noi viviamo il nostro rapporto con Dio? sappiamo riconoscere Dio nella nostra umile vita, nella nostra esistenza reale? Come viviamo la nostra comunione con Lui?
Dobbiamo essere sensibili ad una divina presenza, ad una presenza che dà al minimo atto dell’uomo una grandezza che ha le misure stesse di Dio, perchè nell’atto dell’uomo, se l’uomo ha fede, confluisce nell’istante tutto il bene divino.
S’impone per me, non soltanto vivere nella presenza di Dio, come comunemente s’intende, quasi nel sentimento di una infinità nella quale sono sommerso, si tratta di vivere l’imensità di un amore che ha per termine me! che ha per termine questo mio istante di vita sul quale pesa l’immenso peso di gloria e di amore: Dio che mi ama!
La testimonianze che sembrano anche le più alte di una mistica religiosa non cristiana, sono ben povera cosa nei confronti di una vita cristiana. Fuori del Cristianesimo non è mai realizzata da impazzire di gioia se noi veramente vivessimo questa esperienza: Dio, cioè, che si comunica a ciascuno e tanto più si manifesta quanto più si manifesta come Amore che ha per termine nessun altro che l’uomo, ogni uomo cui totalmente Egli si dona.
Ma noi siamo come ciechi, viviamo immersi in questa luce, siamo l’oggetto di questa tenerezza infinita e ne rimaniamo come estranei, come estranei erano alla presenza del Cristo coloro che vivevano con Lui, i suoi ‘fratelli’; i suoi discepoli stessi durante la sua vita mortale.
A noi, ora, si dona anche di più di quando Egli viveva nella sua vita mortale. Nel dono del suo Spirito ora Egli è veramente presente a ciascuno, ora veramente Egli si è fatto cibo dell’uomo per vivere in lui e per assumerlo in Sè. Veramente nel dono del suo Spirito Dio si comunica intimamente agli uomini e fa sì che gli uomini che lo ricevono, oggi e qui, possano vivere una vita divina!
È proprio per questo che il mistero dell’Epifania non è soltanto il mistero di una manifestazione della gloria di Dio nell’umanità di Gesù. È anche il mistero della manifestazione della presenza di Dio nell’umiltà del Cristo. E Cristo siamo tutti noi che siamo le sue membra. E Dio si rivela proprio nelle nostra povertà, e Dio vuole veramente esser presente e vive nella nostra umiltà; si rivela ed è presente, non a noi ma in noi e per noi al mondo.
Ognuno di noi, se è cristiano, è epifania del Signore. Essere cristiani vuol dire così essere della famiglia di Dio, vuol dire esser già entrati nel segreto di Dio, perchè, se Dio ci ha donato il suo Spirito, Dio in qualche modo ma realmente non è più senza di noi nè noi siamo senza di Lui. E noi siamo nella gloria; non vediamo semplicemente la gloria, in questa gloria già siamo in qualche modo trasformati.
Di qui nasce l’obbligo fondamentale della vita cristiana: la glorificazione di Dio. È il dovere che praticamente riassume tutta la legge del cristiano: essere la lode, essere la gloria di Dio.
E vuol dire lasciarsi investire, lasciarsi possedere da Dio. Altra gloria non puoi dare a Lui che quella di manifestarLo in te, che quella onde Lo riveli.
Il Verbo di Dio è la gloria sostanziale del Padre precisamente perchè il Padre tutto si comunica al Figlio e, nel Figlio, tutto Egli possiede. Così il cristiano tanto glorifica Dio quanto si lascia investire da Dio finchè egli non riveli più se non Dio solo. La glorificazione dell’uomo non è l’atto dell’uomo ma di Dio, è come un essere consumati dal fuoco della Divinità, così che nell’uomo non viva più che la Sua luce, non si faccia presente che la sua volontà. Certo, l’uomo rimane, ma rimane per attestare Dio. L’uomo rimane ma non dice più che Lui.
La vocazione dell’uomo è quella di essere Dio. L’uomo realizza se stesso soltanto se muore a una sua indipendenza, a una sua autonomoia nei confronti del Creatore e, lasciandosi investire dalla sua presenza, fa sì che Dio vive attraverso di lui, Dio si esprima, Dio si manifesti, Dio si riveli, Dio dica Se stesso attrverso l’essere creato.
Questo avviene nel Cristo.
La natura umana in tal modo è stata assunta dal Verbo che il Verbo ora ‘si esprime’ attraverso questa natura creata che è l’uomo.
L’uomo singolo che nacque dalla Vergine e tuttavia ogni uomo in cui in qualche modo si estende l’incarnazione divina. Quello che è avvenuto nell’uomo Gesù, questo deve avvenire così in ciascuno di noi. È vero che noi siamo persone distinte dalla Persona del Verbo, ma è anche vero che noi viviamo la nostra vocazione personale in quanto ci doniamo al Cristo e siamo posseduti da Lui sì da divenire con Lui un solo corpo, uno spirito solo.
Che cosa vuol dire glorificare Dio? Vuol dire lasciarsi investire da questa presenza in tal modo che tutto quello che in noi è ‘proprio’ sia consumato come ruggine dal fuoco e non rimanga che l’amore onde Egli ci ama e ci fa suoi.
Questa è la gloria che l’uomo deve dare a Dio: un lasciarsi possedere, investire, trasformare da Lui così che al termine Lui solo rimanga.
Ricordo che un amico mi fece leggere alcune pagine di un romanzo di cui non ricordo più il titolo. L’autore americano, Huxley mi sembra, imposta il suo romanzo a Firenze. Il suo protagonista è un libertino che, quando muore precipita nella Realtà. L’autore ci descrive l’esperienze di quest’anima che vuole difendersi dall’invasione della luce divina. Quest’anima sfugge a questa luce, ma pian piano questa luce (l’autore pensa che l’inferno non c’è) nonostante la resistenza dell’uomo, lo invade, lo trasforma e lo assimila a sè. Secondo l’autore la vita del cielo è questa luce pura, senza ombra alla quale domani ogni anima si dovrà identificare. Non possiamo dire che ogni anima si identifica a Dio, questa identificazione sarebbe un processo che dovrebbe escludere la responsabilità personale dell’uomo ed escluderebbe anche l’amore personale di Dio. Una concezione come quella di Huxley più che cristiana è gnostica. Tuttavia c’è qualcosa di vero in quello che egli dice. Mantenendo fermo che l’amore dell’uomo a Dio è un amore personale, libero, che implica una nostra responsibilità (Dio aspetta da noi una risposta); mantenendo fermo che l’amore di Dio ugualmente è un amore personale e non è una necessità di natura, possiamo accettarlo veramente: non vi è possibilità di un incontro fra l’uomo e Dio che se cessa il senso della dualità: Dio è l’Unico.
L »Advaita’ degli indù non è ancora per sè il monismo assoluto: la ‘non dualità’ non è ancora l’unità in qui scompare ogni distinzione di Dio e della creatura ma è il riconoscimento dell’unità nella loro distinzione eterna.
Dio non più comunicarsi a te e divenire una ‘tua’ richezza, una ‘tua’ vita (sarebbe un negare Dio che Egli possa essere qualcosa e non tutto, possa essere qualcosa e non l’unico). Se Dio è Egli è tutto. Tu non puoi riceverlo che in quanto in Lui ti trasformi.
Qual è la gloria che tu puoi dare a Dio? Lasciarti possedere da Lui. Che Lui sia.
Che Dio sia Dio. In queste parole è la nostra risposta.
Che Dio sia Dio, è già ora la nostra preghiera. Perchè questo avvenga, si direbbe, che Dio nell’avvicinarsi all’uomo debba in qualche modo sparire, perchè anche l’uomo sparisca in Dio. È veramente un processo di amore. Nell’amore ognuno che ama vuole l’altro prima di sè. Dio, che ama, tanto più si avvicina tanto più si fa povero, diviene quasi nulla: il Dio creatore ‘diviene’ il Dio creature, il Dio Bambino. Ma anche l’uomo, nella misura che ama, l’uomo peccatore, che contro la volontà di Dio difende una sua libertà e vuole affermare se stesso anche contro Dio, rinunzia a ogni ‘suo’ volere, a ogni ‘sua proprietà’ per abbandonarsi come la Vergine Maria e si lascia possedere e non vive più una sua vita finchè non vive più che la sua morte. Non vivendo più che l’amore non vive più di fatto che la morte, perchè l’amore è la morte, è la morte di sè.
Tanto da una parte che dall’altra è un processo di umiltà e di morte. Ma Dio muore per vivere in te, e tu muori per vivere in Lui. Ed ecco che Dio, ora, non è più in Se stesso ma in te e tu, non vivi più in te stesso ma in Lui. Così come il Padre vive nel Figlio e il Figlio vive nel Padre. Non cercare più Dio fuori di te, Egli ora è soltanto in te, perchè Egli ti ama. Se fosse al di fuori di te non sarebbe l’Amore. Ma anche tu, se tu ami, non puoi trovarti più in te stesso, non ti ritrovi più che in Dio, non vivi più che in Lui solo.
1 MARZO 2015 | 2A DOMENICA – T. QUARESIMA B | APPUNTI PER LA LECTIO
GESÙ « SI TRASFIGURÒ DAVANTI A LORO »
Da una quantità di indizi sembra che il preciso motivo per cui Marco inserisce il racconto della trasfigurazione proprio al centro del suo Vangelo (9,2-10), quasi immediatamente dopo la famosa confessione di Pietro a Cesarea di Filippo (8,29) e in mezzo a due preannunci della passione del Signore (8,31-33; 9,30-32), sia il seguente: l’evangelista intende prevenire lo « scandalo » dei discepoli davanti alla morte del Signore, dando a loro come una garanzia ed un anticipo della futura « gloria » della risurrezione. La sofferenza, l’umiliazione, lo scacco stesso della morte non sono per il Cristo che la « via » per arrivare al grande trionfo del giorno di Pasqua: senza il venerdì santo non ci sarebbe stata per Cristo la gioia esaltante del giorno della risurrezione!
In chiave liturgica, ritengo che l’intenzione della Chiesa, nel proporci per la seconda Domenica di Quaresima le presenti letture bibliche, coincida con la finalità di Marco; l’itinerario della Quaresima, pur nell’asperità del faticoso cammino attraverso il « deserto », pur nell’esercizio assiduo della rinuncia e del superamento di noi stessi, punta decisamente alla « gioia » e alla « luce » del rinnovamento e della « trasfigurazione » di Pasqua.
La Quaresima, perciò, non è fatta per se stessa ma per la Pasqua, e tende a superarsi per la carica di amore che la deve animare.
« Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio »
Così come il sacrificio di Isacco, richiesto da Dio ad Abramo (Gn 22,1-18), non aveva alcun significato in quanto soppressione della vita: al limite, si potrebbe addirittura considerare come un delitto! Infatti, molti esegeti interpretano l’episodio come una esplicita condanna della pratica abominevole, in uso presso i Cananei, di sacrificare agli dèi i loro figli primogeniti in particolari circostanze.
La richiesta di Dio ad Abramo aveva senso solamente in quanto verifica della fede del grande patriarca e della sua capacità di amare il Signore « più » di tutte le cose, « più » del suo stesso figlio. Perciò all’ultimo momento il dramma si risolve in positivo e l’angelo del Signore grida: « Non stendere la mano contro il ragazzo e non fargli alcun male! Ora so che tu temi Dio e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio » (v. 12). Quindi gli rinnova la promessa di una numerosa discendenza: « Perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo unico figlio, io ti benedirò con ogni benedizione e renderò molto numerosa la tua discendenza, come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare » (vv. 16-17).
È la capacità di « amore » che dà senso alla rinuncia e allo stesso sacrificio della vita.
Dio « non ha risparmiato il proprio Figlio »
È quanto ci viene ricordato anche dalla brevissima, ma stupenda seconda lettura, ripresa da san Paolo (Rm 8,31-34) e in cui c’è un esplicito riferimento al precedente episodio del sacrificio di Isacco. Qui, però, la prova dell’amore viene da Dio stesso che, nonostante tutto, rimane fedele all’uomo, essendoglisi ormai definitivamente legato con il dono di Cristo: « Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui? » (vv. 31-32).
Quello che in Isacco era, e voleva essere, solo un « simbolo », in Cristo è diventato una realtà: nel caso di Cristo non c’è stato un ariete da immolare al suo posto! Dio perciò « non ha risparmiato il proprio Figlio », proprio perché, pur nell’atroce « sofferenza » che la morte di Cristo gli è costata, non aveva altro modo a sua disposizione per dimostrarci il « sommo » del suo amore: la teologia moderna sta riscoprendo il tema della « sofferenza » di Dio che, peraltro, se bene intesa, non diminuisce in alcun modo la sua grandezza e la sua trascendenza, ma la esalta.
Anche qui, però, l’amore si celebra oltre la « morte », perché è proprio nella potenza del Cristo « risorto », che « intercede » per noi presso il Padre, che noi abbiamo « fiducia »: « Chi condannerà (gli eletti di Dio)? Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risuscitato, sta alla destra di Dio e intercede per noi? » (v. 34). È sempre la stessa tematica: lo scopo ultimo di tutto, anche dell’agire di Dio, è la gioia, lo splendore, la vita, anche se per arrivarci bisognerà passare attraverso le « prove » dolorose dell’amore.
Il significato « teologico » della trasfigurazione
Il racconto della trasfigurazione, fattoci da Marco (9,2-10), è come un’irruzione di luce, un’anticipazione della gloria futura nel « presente » di Cristo, che ormai già si sta avviando alla morte di croce, e nel « presente » dei suoi apostoli e dei discepoli di tutti i tempi che sono invitati a prendere insieme a lui la « croce » di ogni giorno. Si legga appunto quanto Gesù dice immediatamente prima: « E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni risuscitare… Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua… » (8,31.34).
Un’ »anticipazione » della « gloria » futura, abbiamo detto, offerta come « pegno » e come « garanzia » di ciò che avverrà, perché i credenti la desiderino e l’accelerino, se possibile; perché alla luce di quella diano senso ai giorni bui dell’esistenza, ma non per « saltare » questo tempo « intermedio » di prova e di sofferenza, come è tentato di fare Pietro il quale, inebriato dalla gioia e dall’entusiasmo, esclama: « Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia » (v. 3).
Le « tende » rimandano certamente alla festa delle « capanne », o dei « tabernacoli », che durava una settimana e, in certo senso, voleva come anticipare il giubilo e la gioia del « riposo » escatologico. Questo tempo del « riposo », però, non è ancor giunto; perciò la richiesta di Pietro viene giudicata molto severamente da Marco, il quale così commenta: « Non sapeva infatti che cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento » (v. 6). Non si costruisce il regno di Dio, tentando di « evadere » dal tragico « quotidiano »!
« Lo sguardo rivolto su Gesù trasfigurato è solo un appello a credere nel crocifisso con il porsi alla sua sequela, è un incoraggiamento a non venire meno nelle prove e nelle persecuzioni. Non è ancora il tempo di costruire la tenda in cielo, bensì quello di affrontare la lotta sulla terra. Ogni tribolazione risulterà superata obbedendo al Figlio che Dio ama, il quale ci ha preceduti nella gloria divina passando attraverso l’esperienza della passione e della morte ».
Ma adesso che abbiamo potuto intravedere la « dinamica » interiore a cui obbedisce questo brano narrativo di Marco, cerchiamo di afferrarne meglio il contenuto « teologico » generale.
In realtà, è soprattutto un messaggio « teologico » quello che l’evangelista vuol trasmetterci nel descriverci l’episodio della trasfigurazione. Siamo certamente di fronte a un fatto storico, anche se misterioso: la tradizione sinottica lo afferma concordemente; perfino la seconda lettera di Pietro (1,16-18) vi fa riferimento. Anche la precisazione storica iniziale con cui si apre il racconto (« dopo sei giorni »), così come il dato geografico (« sopra un alto monte »: tradizionalmente il Tabor, alto 562 m sul livello del mare) confermano che ci muoviamo su un terreno sicuro.
« Le sue vesti divennero bianchissime »
Quale sia stata, però, l’entità vera dell’episodio ci sfugge: gli evangelisti stessi non concordano in tutto fra di loro e si aiutano più che altro con immagini che, nella tradizione biblica, indicano l’irruzione e la presenza del divino. Così, ad esempio, le vesti « bianche » e splendenti sono un contrassegno del mondo divino e un simbolo di gioia e di vittoria: l’angelo della risurrezione in Marco (16,5) sarà vestito di vesti candide. La « nube » è un simbolo caratteristico della misteriosa « presenza » di Dio nella tradizione dell’Esodo (16,10; 24,18; 40,35).
Con tutti questi elementi descrittivi l’evangelista vuol dirci dunque che Gesù concesse a tre dei suoi apostoli (quei medesimi che saranno presenti nell’orto del Getsemani: 14,33) un’esperienza di sé del tutto eccezionale, « indicibile » per quelli stessi che ne furono i protagonisti.
Quando Marco scrive che le vesti di Gesù (Matteo parla della sua « faccia »: 17,2) « divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche » (v. 3), ci fa quasi toccare con mano l’ »inesprimibile », ma si ferma lì. E del resto, non poteva fare diversamente!
« Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo! »
Però ci sono due elementi essenziali in tutta questa scena grandiosa che ci aiutano a penetrarne più a fondo il significato teologico: l’apparizione congiunta di Elia e di Mosè, che « discorrevano con Gesù » (v. 4), e la voce che tuona di mezzo alla nube: « Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo! » (v. 7).
Nei due grandi personaggi dell’Antico Testamento c’è da vedere come una continuità nel disegno salvifico di Dio che, attraverso le varie tappe della storia della salvezza, punta su Cristo: è lui l’inviato definitivo di Dio, atteso per gli ultimi tempi. Non è un nuovo Elia, o un nuovo Mosè, ma Qualcuno molto più grande, a cui essi fanno soltanto da battistrada come era nella tradizione biblica per il primo e nella tradizione giudaica per il secondo. I due rappresentanti dell’Antico Testamento dicono dunque che i tempi ultimi sono venuti con Cristo, anzi si stanno già realizzando in quel preciso momento.
La voce che risuona dalla nube: « Questi è il Figlio mio prediletto: ascoltatelo! » (v. 7), ci rivela la misteriosa « identità » di Cristo in un momento in cui la sua strada prende ormai decisamente l’avvio verso la croce. A differenza della quasi identica proclamazione che avvenne nell’occasione del battesimo, in cui la voce era rivolta direttamente a Gesù (« …tu sei il Figlio mio prediletto… »: 1,11), qui essa è rivolta agli apostoli: « Ascoltatelo! ».
È dunque un invito agli apostoli a penetrare il « mistero » ed accoglierne il messaggio salvifico. Quello che avverrà tra non molto a Gesù sul Calvario non è un’accusa o una obiezione contro la sua divinità, ma la dimostrazione più luminosa della sua origine da Dio: soltanto uno che ha il « cuore » di Dio può amare come Cristo ci ha amati!
A questo punto avvertiamo forse più chiaramente come la « trasfigurazione » del Signore è un momento di luce che permette anche a tutti noi, discepoli del Signore, di penetrare meglio non solo nel suo « mistero » di dolore e di gioia, di umiliazione e di gloria, ma anche nel « mistero » della nostra vita. Accettandolo come il « Figlio prediletto » del Padre, che si manifesta come tale soprattutto nel dramma della croce, e « ascoltando » il suo messaggio di salvezza, « si trasfigurerà » anche tutta la nostra esistenza. Il che è il significato di fondo di tutta la Quaresima.
Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola.
http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_n.htm#«IL PRIGIONIERO DI CRISTO GESÙ»
IL PRIGIONIERO DI CRISTO GESÙ» (Ef. 3,1)
Lucien Cerfaux *
Lucien Cerfaux, nato in Belgio nel 1883, si è dedicato all’insegnamento della Sacra Scrittura e ha avuto l’unica ambizione di mettere tutta la sua vita al servizio della Parola di Dio. La sua ricerca esegetica, fondata su una fede incrollabile, è caratterizzata dalla preoccupazione di ritrovare il senso originale dei testi, specie del Nuovo Testamento, fino a raggiungere quasi una connaturalità con gli autori sacri. Egli ha comunicato i frutti dei suoi studi attraverso numerosi articoli, notevoli per rigore scientifico: ma la sua prima grande opera su san Paolo l’ha pubblicata solo a 60 anni. Morto a 85 anni, ha lasciato una splendida testimonianza di vita sacerdotale e apostolica.
Paolo, vedendosi prigioniero, si è resoconto che ormai si avvicina il termine della sua corsa. Ha varcato la soglia della vecchiaia. Con coraggio conclude il suo viaggio apostolico cominciato sulla via di Damasco… Le catene lo tengono avvinto a Gesù Cristo, l’identificano a lui, lo consacrano. Per la Chiesa, corpo di Cristo, completa nella sua carne quel che manca alle sofferenze di Gesù (cfr. Col. 1,24). Egli sta al posto del «Servo sofferente»; non ha corso invano, non ha «lavorato invano».
E’ anche consacrato, come quei grandi sacerdoti-profeti che si collocano nella linea di Samuele e hanno l’incarico di offrire sacrifici e manifestare i segreti di Dio. In questo senso Paolo è stato scelto, perché rivelasse ai pagani la chiamata a Cristo, perché li offrisse a Dio quale sacrificio di odore soave.
Egli vuole che i suoi cristiani, come le vittime senza difetto che venivano scelte per i sacrifici, siano puri e irreprensibili, figli di Dio senza macchia in mezzo a una generazione traviata e perversa…, per custodire la parola di vita (Fil. 2, 15-16). Sul sacrificio liturgico offerto dalla loro fede, egli versa la libazione della sua sofferenza in una gioia santa, che vuole condividere con loro.
Nella liturgia spirituale che è ogni vita cristiana e specialmente quella di Paolo, sacerdote e vittima nella sua I corsa apostolica, consacrato in virtù della sua prigionia, egli rivolge a Dio una preghiera solenne per i suoi cristiani venuti dal paganesimo: Perciò, io Paolo, prigioniero di Cristo per voi, che eravate pagani… piego le ginocchia davanti al Padre (Ef. 3, 1, 14). Oggetto della sua ininterrotta preghiera sarà la gratitudine per l’ingresso dei pagani nella Chiesa dei santi, per il loro radicarsi nella carità, per la comprensione dell’amore di Cristo che supera ogni conoscenza, a cui si aggiunge la supplica: che essi siano colmati in tutto della pienezza di Dio (cfr. Ef. 3, 19).
L’attività dell’apostolo si conclude nel suo restare immobile alla presenza di Dio. Così ai profeti dell’Antico Testamento non incombeva più l’obbligo del pellegrinaggio al tempio e dell’adorazione rituale per trovarsi «davanti al volto di Dio». In fondo la loro stessa missione era uno sperimentare la Presenza: «Viva Dio al cui cospetto io sto». Come loro, Paolo aveva ricevuto la sua vocazione in una visione inaugurale che aveva proiettato luce su tutta la sua vita apostolica, che era andata progressivamente trasformandolo in Cristo, di cui aveva contemplato il volto, immagine del volto di Dio. La preghiera che s’innalza dalla sua prigione costituisce il culmine del mistero del suo apostolato.
* L’itinéraire spirituel de saint Paul, Le Cerf, Parigi 1966 pp. 178-180.
http://www.zenit.org/it/articles/dopo-il-buio-del-peccato-la-luce-della-bellezza
CARD. RAVASI, MEDITAZIONI PER QUARESIMA (2013): DOPO IL « BUIO » DEL PECCATO, LA « LUCE » DELLA BELLEZZA
Dall’Uomo senza Dio all’Uomo sapiente e felice: proseguono le meditazioni del cardinale Ravasi negli Esercizi Spirituali per la Quaresima davanti al Papa e alla Curia Romana
Citta’ del Vaticano, 22 Febbraio 2013 (Zenit.org) Salvatore Cernuzio
Continua l’itinerario tracciato dal cardinale Gianfranco Ravasi, nelle predicazioni degli Esercizi spirituali per la Quaresima davanti al Papa e alla Curia Romana. Un itinerario finora “negativo”, ha detto il porporato, che dalla “notte della creatura umana”, ovvero il dolore nella sua forma fisica e morale, giunge ad una nuova tappa: il peccato.
Concentrandosi sul peccato come “aberrazione che ci allontana da Dio”, il presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, nella sua XI meditazione, ha rotto il tradizionale binomio proposto da Dostoevskij del “Delitto e Castigo”, evolvendolo, alla luce della “genuina spiritualità biblica”, nel trinomio: “Delitto Castigo Perdono”.
La riflessione inizia “sceneggiando” un pensiero di Pascal, dove un’anima in dialogo con Dio, chiede al Divino Creatore di non illuminarla così in profondità da mostrarle i suoi peccati, perché questo l’avrebbe portata alla disperazione. Ma il Padre eternamente buono risponde: “Non disperare perché i tuoi peccati ti saranno rivelati nel momento stesso in cui tutti saranno perdonati”.
È in questo modo che si introduce “la stretta componente di base del sacramento della riconciliazione” ha detto Ravasi. “I peccati devono apparire in tutta la loro rottura, in tutta la loro forza, negatività e oscurità”; se però – ha aggiunto – si confessano a Dio, Egli “li ripresenta nel momento stesso in cui li perdona”.
Nelle Sacre Scritture, ha poi spiegato il porporato, “il peccato è visto sempre come un atto personale che nasce dalla libertà umana”. È una realtà “che può avere anche risvolti psicologici, ma è, prima di tutto, teologica”. Per questo – ha sottolineato – il Sacramento della Riconciliazione “non potrà mai essere equiparato ad una seduta psicanalitica, perché è assolutamente fondamentale la consapevolezza di Dio che il peccatore ha”.
Il peccato non è altro che “lo smarrimento della strada giusta” ha precisato il cardinale. Convertirsi significa, dunque, “cambiare rotta”, “cambiando mentalità” e “lasciando alle spalle le cose alle quali siamo aggrappati”.
“Nella società non sempre si dà la possibilità di ricominciare – ha poi osservato – alcuni sono ormai bollati. Anche se nella legislazione ci sono tentativi di ricomporre e riproporre ancora alla società uno che ha sbagliato, rimane sempre questa sorta di timbro sulla persona che è stata giudicata peccatrice”.
Questo invece “nella Bibbia non esiste”, ha affermato il Capo Dicastero, ricordando l’immagine proposta da Isaia di un Dio che “getta alle spalle i tuoi peccati, in modo che non li guarda più, quindi non ci sono più. È la cancellazione vera”.
Proseguendo il filone nella riflessione pomeridiana, il cardinale ha approfondito il tema (riproposto anche nei Salmi 14 e 53) de “L’assenza e il nulla”, due mali che portano l’uomo a vivere lontano da Dio e lo conducono “nel mondo dell’ateismo pratico”.
Nonostante un’apparente sinonimia, l’assenza e il nulla sono due termini che indicano significati diversi. Se l’assenza – ha spiegato Ravasi – è la “nostalgia di Dio”, il nulla è invece “il vero male della cultura odierna”.
Esso rappresenta “l’indifferenza, la superficialità, la banalità”, è “una cosa molle che però non ha nessuna nostalgia” e, proprio per questo, molto più pericolosa. “Pastoralmente – ha affermato – noi incontriamo più spesso purtroppo questa seconda forma di ateismo”, ed “è per questo che io continuo a pensare come si può incidere in qualche modo in questa sorta di nebbia, di mucillagine”.
Si unisce poi un termine affine: il silenzio di Dio, un orizzonte oscurato che spesso, anche al credente, è capitato di provare. “Pensiamo anche a noi stessi – ha detto Ravasi – tutte le volte che abbiamo provato, magari attraverso la tiepidezza, attraverso lo scoraggiamento, il silenzio di Dio. Per noi non era del tutto scomparso dall’orizzonte però non Lo sentivamo più”.
A ciò si aggiunge “la società contemporanea” che “ha creato nelle nostre città una folla di solitudini”, ha detto il porporato. Il pensiero è andato, in particolare, ai tanti preti che “vivono questa esperienza”, verso cui Ravasi ha invocato una maggiore attenzione da parte dei vescovi.
Tuttavia la speranza c’è: lo dice il Salmo 22, dove il salmista, dopo aver provato il silenzio di Dio, riesce ad esclamare: “Tu mi hai risposto!”. È la preghiera infatti l’ancora di salvezza, perché “le nostre suppliche non cadono mai nel nulla”. Tanto che – ha ricordato il cardinale – anche un ateo come il drammaturgo Eugene Ionesco, prima di morire scrisse: “Pregare. Non so chi. Spero Gesù Cristo”.
Come nel ciclo della natura, alla ‘notte’ succede la ‘luce dell’alba’. Dopo aver parlato del “buio” del peccato e dell’assenza di Dio, il presidente del Dicastero per la Cultura, nella XII meditazione, si è soffermato infatti sulla “luce”, alimentata dal “sapore della felicità”.
Un sapore dato dalla sapienza e dalla bellezza. “Il verbo ‘sápere’ – ha spiegato Ravasi – in latino ha come primo significato avere sapore. Ed è successivo, il significato di sapere. È avere gusto. Per questo motivo, lo stolto si dice anche insipiente e, per certi versi, anche insipido, perché il vero sapiente è colui che dà senso alla vita”.
Questa insipienza si verifica spesso oggi, il più delle volte in una forma scadente di « mera volgarità ». Anche il mondo della comunicazione di massa segue questa scia, ha denunciato il cardinale, « prediligendo spesso, come in questi giorni, la pula al grano, il ‘chiacchiericcio’ alla verità”.
Infine c’è la bellezza che, nelle sue forme più alte, è anch’essa strada per la salvezza. In particolare i Salmi, secondo il porporato, “sono poesia, canto e musica” che seguendo la “via della bellezza”, portano “a pregare e parlare di Dio”. La bellezza però “porta anche inquietudine” – ha concluso Ravasi – perché “non lascia indifferenti”. E soprattutto – come disse il cardinale Ratzinger – “la bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo destino ultimo”.