Archive pour la catégorie 'ARTICOLI NON STRETTAMENTE ATTINENTI AL TEMA'

È SUFFICIENTE CERCARE BUONE NOTIZIE?

http://www.zenit.org/article-33865?l=italian

È SUFFICIENTE CERCARE BUONE NOTIZIE?

In un meeting online, NetOne ha affrontato la tematica della corretta informazione

di Maria Rosa Logozzo
ROMA, mercoledì, 14 novembre 2012 (ZENIT.org) – Bastano buone notizie? Questa tematica, tra le più discusse del momento, è stata al centro del meeting online di NetOne che venerdì 9 novembre 2012 ha collegato via internet 301 punti di varie nazioni. Vi si poteva accedere dalla home del sito: http://www.net-one.org.
Questa Associazione riunisce le più svariate professionalità del mondo dei media e della comunicazione, dai giornalisti ai registi, dagli studenti ai docenti, dai fotografi ai pubblicitari e poi tutti gli altri. Il suo carattere internazionale e il suo approccio ai temi e ai problemi del settore, il puntare al ‘fare’, all’impegno personale accanto al ‘pensare’ e al ‘parlare’, sono espressione concreta dell’idea di fraternità universale di Chiara Lubich, su cui NetOne fonda la propria mission: media for a united world.
La diretta ha preso spunto da una costatazione: “bastano buone notizie?” In rete, nei giornali e telegiornali non solo sono presenti sempre le stesse notizie, ma poi queste sono troppo spesso, cattive. Basta cercarne di “buone” per rispondere alle pressanti domande della società? Come interpretare o recuperare il lavoro da comunicatori in una ottica di servizio al prossimo?
«Ora, se il giornalismo (con i giornalisti) non guarda alla relazione e agli essere umani, ma solo alla notizia, esso rimane fondato sulla sola libertà di stampa. La libertà fu il primo pilastro della stampa moderna, nata nel periodo dell’Indipendenza statunitense, ma tante volte essa diventa la giustificazione per una metodologia immorale con scopi apparentemente positivi. Ne è stato un esempio lo scandalo di News of the World l’anno scorso, frutto della forza dei grandi gruppi massmediali. Si è fatto uso della libertà di stampa e di un giornalismo “sotto copertura” non per cercare di produrre informazione di qualità o per condurre inchieste a beneficio del bene comune, ma per scoop e gossip con fini puramente commerciali»: questa l’analisi di Valter Hugo Muniz, giornalista brasiliano che ha evidenziato quanto il giornalismo sia essenzialmente strumento del communicare, col significato latino del mettere in comunione, del creare relazioni, e quindi il giornalista dovrebbe essere consapevole che la notizia ha questa prima funzione a servizio dell’uomo e della comunità umana.
Sono inoltre intervenuti, grazie a collegamenti Internet: dal Belgio Paolo Aversano, ricercatore in Business Modelling & Smart Cities all’università VUB di Bruxelles; da Bari Emanuela Megli Armenio, formatrice professionale specializzata in comunicazione e Domenica Calabrese, Presidente della locale Associazione Igino Giordani. Si è parlato di commistione dei saperi, di frontiere nuove concesse dal web, di opportunità quali l’intercultura e il dialogo. Tutti spunti, approcci, possibilità per cercare di rispondere all’annosa domanda.
Tra gli ospiti in sala che si sono alternati sul palco, José Andrés Sardina, architetto spagnolo che ha soggiornato e lavorato per alcuni anni a Cuba. Ha offerto uno spaccato della parzialità dell’informazione in merito alla devastazione dell’uragano Sandy, che non ha colpito solo gli USA, mostrando immagini del disastro e riportando alcuni dati della Croce Rossa relativi alla città di Santiago: 9 decessi, 5.000 case distrutte a Santiago, 27.000 i senza tetto, più di 100.000 le case colpite con danni stimati di 88 milioni di dollari.
E’ seguita la sfida comunicativa raccontata dalla viva voce di chi ha vissuto due appuntamenti dei Focolari: prima Jessica Valle Valle del social communication team del Genfest 2012, manifestazione mondiale di giovani tenutasi a Budapest, e poi Michele Zanzucchi, direttore di Città Nuova (http://www.cittanuova.it/ ), tra i promotori di LoppianoLab, un laboratorio, già alla terza edizione, per riflettere insieme sull’Italia e le sue sfide e per ideare progetti che le affrontino nel concreto .
E’ stato Nedo Pozzi, Coordinatore della commissione internazionale di NetOne, a chiudere l’ora di meeting online con un momento di riflessione nel quale ha ricordato che Chiara Lubich, nel corso del dialogo seguito al suo intervento all’ONU del maggio 1997, aveva sottolineato l’importanza di mettere in pratica il Vangelo. «Bisogna vivere! Non insegnare, fare- diceva la Lubich -.[…] tante volte andiamo nel mondo e vediamo che una città che dovrebbe essere cristiana è uguale a un’altra città che non è cristiana.
« Perché questo? Perché non si vive». E ha continuato: «Proviamo a metterci ad amare, anche qui all’ONU, uno con l’altro, uno con l’altro, un ambasciatore con l’altro, un funzionario con l’altro, un impiegato con l’altro. Vediamo cosa viene fuori. Dovrebbe venire fuori la presenza di Cristo in mezzo a loro. E che cosa significherebbe questo? Sarebbe garantita la pace per loro e anche per tanti».
Un invito che nella sua sostanza può sicuramente essere raccolto da tutti coloro che fanno comunicazione.

Un Dio in ascolto dell’uomo – Verbania Pallanza, 19 gennaio 2002

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=154

Un Dio in ascolto dell’uomo

sintesi della relazione di Armido Rizzi
Verbania Pallanza, 19 gennaio 2002

Nella prima parte viene proposto un itinerario fenomenologico sul senso dell’udito, di cui l’ascolto è una modalità, con una ripresa simbolica.
La seconda parte sarà interamente dedicata al tema biblico dell’ascolto nel duplice movimento dell’uomo che grida e di Dio che ascolta e poi di Dio che parla e dell’uomo che ascolta.

1. la fenomenologia del suono.
Faremo un’analisi dell’esperienza così come si dà, esplicitando l’intelligenza che è già dentro i sensi e che differenzia i nostri atti sensitivi da quelli animali. L’approccio fenomenologico non comporta visioni del mondo, giudizi di valore ultimativi (tipo: il corpo è il carcere dell’anima o il mondo è definitivamente la nostra abitazione), e non è neppure una lettura scientifica della realtà. Sono riflessioni che non servono a nulla, o, se si crede, servono solo a ringraziare Dio.
Anzitutto gli atti sensitivi hanno due finalità fondamentali: una finalità funzionale: la percezione di un rumore è un segnale che ci fa capire che sta succedendo qualcosa (lo squillo del telefono, il ticchettio che ci segnala che sta piovendo…) e una finalità fruitiva, una finalità fine a se stessa.
Ci sono poi esperienze sensitive che sono segnali che non mi rimandano ad un’altra cosa, ma evocano qualcosa spesso in chiave autobiografica, a volte in senso più generale (un particolare profumo che richiama un’esperienza, una certa persona…). Le due finalità, funzionali e fruitive, si accavallano.
il senso del suono
Il senso del suono ha caratteristiche che lo differenziano dagli altri sensi.
Il suono è essenzialmente legato alla temporalità, a differenza degli altri sensi che esprimono qualità che ineriscono all’oggetto e che quindi producono in noi il senso della durata. Il suono porta dentro di sé la temporalità, il senso dell’accadere. E anche quando il suono ha una sua durata (una melodia) è come se avesse il tempo dentro di sé (la melodia finisce).
Inoltre il suono, rispetto alle altre sensazioni, è più facilmente producibile e riproducibile. E’ molto più difficile riprodurre un profumo o un sapore sentito che un suono. Ecco perché il suono è il segnale privilegiato (tam-tam, campane, squillo del telefono…)
Ci sono poi suoni che hanno un valore altamente fruitivo. La musica è il linguaggio più autosignificante: il segno è lo stesso significato. Non ha senso chiedersi cosa significa quella certa musica…
La musica ha un alto potere evocativo sia di situazioni passate, che della poeticità del mondo.
Il suono inoltre può arrivare da ogni parte e per questo ci sorprende.
Infine il suono per eccellenza è la parola, originariamente orale. Dalla cavità orale si ricavano suoni e segni che riproducono tutto il mondo. Con variazioni minime di lettere (patto, gatto, ratto, fatto, tatto, batto, matto…) o anche con la semplice diversa intonazione della voce posso riprodurre un’infinità di cose.

2. la dimensione simbolica dell’ascolto
Nell’ascolto prevale l’uso simbolico, traslato.
Mentre lo sguardo tende a ridurre l’altro ad oggetto (sentirsi guardati), l’ascolto più facilmente percepisce l’altro come soggetto.
Mentre l’occhio più facilmente scorge l’esteriorità, l’orecchio, o il suono sedimentato per iscritto, coglie l’interiorità. La vista ha a che fare con quanto appare, mentre l’ascolto con ciò che appartiene all’io. Quando vien meno l’ascolto tende a prevalere la superficialità, l’esteriorità, la reificazione nei rapporti.
Non è un caso che tutte le religioni siano più facilmente acclimatabili con il simbolismo dell’ascolto. Mentre l’occhio della filosofia tende a definire, a mettere dei confini, e quello della scienza a cogliere il funzionamento, l’ascolto delle sapienze e delle religioni si apre a qualcosa di ulteriore, al senso profondo del mondo.

3. l’orecchio e la parola di Dio
Due sono i movimenti: il grido dell’uomo che sale all’orecchio di Dio e la parola di Dio che scende attraverso l’orecchio al cuore dell’uomo.
il grido dell’uomo che sale a Dio
La voce del sangue di Abele (Gen 4) grida a Dio dal suolo. E’ la voce della vittima che grida al vendicatore (goel). Ma Dio è uno strano vendicatore: pone un segno di protezione su Caino. Il Dio che è dalla parte di Abele protegge Caino dalla vendetta.
Dalle labbra del fanciullo Ismaele nel deserto (Gen 21,8-21) sale un pianto e un grido che viene ascoltato da Dio.
Gli ebrei in Egitto diventano stranieri, senza identità, un non popolo, e diventano schiavi, costretti a fare lavori in cui non possono riconoscersi. Allora « alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza… se ne prese pensiero » (Es 2,23-25).
Gli ebrei in Egitto non hanno gridato a Dio, perché avevano perso il ricordo del Dio di Abramo e non potevano riconoscersi negli dei degli egiziani, che erano dei egiziani. Gli ebrei possono solo gemere, piangere, gridare. E’ il grido dell’esistenza ferita. E’ Dio che si ricorda dell’alleanza.
Dio non ascolta gli ebrei perché lo hanno invocato, ma il grido degli ebrei diventa preghiera e invocazione perché Dio lo ha ascoltato, accolto. Dio trasvaluta il grido in preghiera.
la fondazione biblica dei diritti umani come diritti del povero
Il grido è l’espressione del bisogno, del bisogno per sopravvivere e del bisogno per vivere, del bisogno di cibo e di salute e del bisogno di affetto. Con un’unica espressione si può parlare di bisogno di casa, nella duplice accezione di house (l’edificio in cui ripararsi e trovar da mangiare) e di home (lo spazio esistenziale e affettivo).
Il bisogno è una specie di muta o anche pronunciata invocazione a qualcuno perché ascolti.
Ora dire che Dio tende l’orecchio al grido del povero, dell’orfano, della vedova, dello straniero, vuol dire che quel bisogno di sopravvivere e di vivere viene trasformato in diritto, nel diritto ad essere ascoltato e accolto, nel diritto di trovare qualcuno che si prenda cura di quel bisogno.
« Tu devi essere colui che accoglie il bisogno dell’altro, il grido formulato o muto dell’altro, perché quel grido, in quanto accolto da me, è diventato il suo diritto ». I diritti umani nella bibbia sono sempre i diritti del povero.
Ora ognuno in quanto è un essere di bisogno è soggetto di diritti sotto lo sguardo di Dio, e ognuno, in quanto è soggetto attivo e dotato, è sotto il segno della responsabilità. Rispondo a Dio rendendogli conto di ciò che faccio all’altro, in negativo delle disattenzioni e delle ferite che infliggo, in positivo del mio rispettare, promuovere, prendermi cura.
la parola di Dio e l’ascolto dell’uomo
Deuteronomio 6, 4 ss.:
« Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti dò ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando sarai seduto in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte. »
E’ il testo della fondazione di Israele. Prima esiste un gruppo che Dio educa con fatica a vivere dentro a situazioni invivibili, a vivere nel deserto, aggrappato solo alla parola Dio: « non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio ». La parola che esce dalla bocca di Dio non è una specie di pane spirituale da mangiare con la meditazione, ma è quella promessa credendo alla quale si avrà ogni giorno da Dio il pane. Il pane parola di Dio è il pane che promette l’altro pane, che promette di rendere vivibile il deserto giorno dopo giorno, in modo che il futuro Israele, l’educando a essere Israele, dovrà giorno dopo giorno rinnovare la propria fiducia in questa strana parola.
C’è la dimensione di assolutezza: « Ascolta Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo. Tu amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore… » ed insieme la dimensione di concretezza dei comandamenti, traduzioni operative dell’amore. L’obbedienza radicale possiamo darla solo a Dio, la cui parola accende il cuore dell’uomo.
La felicità può scaturire solo dall’agire responsabile e l’agire responsabile non può non fiorire in felicità.
La forma originaria della parola di Dio è la voce, messa per iscritto poi nella tavole di pietra (Deut 4,10-14) e che parla al cuore dell’uomo. E’ una parola che risuona nell’oggi e il cui contenuto è la relazione con l’altro: « Così come io ho amato te quando eri nessuno in Egitto, adesso tu ama lo straniero, l’orfano, la vedova ».
L’oggi della parola di Dio percuote il di dentro, il cuore, e invia fuori, verso l’insieme delle relazioni sociali. Le due tavole della legge sono solo il momento istituzionale delle relazioni, sono solo l’obiettivazione di quello che deve essere il cuore giusto. Solo dal cuore, percosso dalla parola di Dio, possono scaturire veramente la giustizia e il suo frutto lo shalom, cioè la pace come pienezza armonica delle relazioni.
Questa voce, sempre attuale, si fissa in forma di libro. Allora ascoltare questa parola è fare memoria, perché la voce torni a risuonare.
Leggere la bibbia è ritrovare un senso già dato in passato perché risuoni oggi, liberandolo dai rivestimenti storici-culturali (lettura storico-critica). Questa voce, così fatta risuonare, si rivolge a me, al mio cuore, per risvegliare la mia responsabilità verso gli altri, la pratica della giustizia.

Nel 1933, una lettera di Edith Stein al papa predice la Shoah, 1 marzo 2003 – Henry Tincq

dal sito:

http://www.nostreradici.it/edith_Shoah.htm

Le Monde rende nota la scoperta di una lettera di Edith Stein a papa Pio XI 
  
1 marzo 2003 – Henry Tincq (trad. per Le nostre Radici di Antonio Marcantonio)
 
Nel 1933, una lettera di Edith Stein al papa predice la Shoah

[Testo della lettera, lo metto separatamente sotto]

Come si può spiegare il fatto che la Chiesa cattolica sia rimasta così a lungo sorda ad una lettera tanto profetica ed abbia impiegato settant’anni a farla uscire dai suoi archivi? Il 12 aprile 1933, alcune settimane dopo l’insediamento di Hitler al cancellierato, una filosofa cattolica tedesca di origine ebraica trova l’ardire di scrivere a Roma per chiedere a papa Pio XI e al suo segretario di Stato – il cardinale Pacelli, vecchio nunzio apostolico in Germania e futuro Pio XII – di non tacere più e di denunciare le prime persecuzioni contro gli ebrei.

Si tratta della voce di Edith Stein. Nata nel 1891 a Breslavia, convertitasi nel 1922, Edith Stein viene espulsa dall’università nel 1934, prima di entrare nel Carmelo di Colonia. Nell’agosto del 1942, in un convento olandese in cui i suoi superiori la credevano al sicuro, viene arrestata e deportata ad Auschwitz insieme a sua sorella Rosa. Entrambe vengono uccise nei forni crematori immediatamente dopo il loro arrivo. Edith Stein è stata canonizzata da Giovanni Paolo II l’11 ottobre 1998.

Gli storici del Vaticano conoscevano l’esistenza di questa lettera indirizzata al papa nel 1933, ma ne ignoravano il contenuto: lo hanno appreso in séguito alla recente apertura degli archivi del Vaticano riservati al pontificato di Pio XI (1922-1939). La chiaroveggenza con cui Edith Stein testimonia la crudeltà del regime nazista è pari al coraggio del suo intervento: «Si tratta di un fenomeno che provocherà molte vittime. Si può pensare che gli sventurati che ne saranno colpiti non avranno abbastanza forza morale per sopportare il loro destino. Ma la responsabilità di tutto ciò ricade tanto su coloro che li spingono verso questa tragedia, tanto su coloro che tacciono. Non solo gli ebrei, ma anche i fedeli cattolici attendono da settimane che la Chiesa faccia sentire la sua voce contro un tale abuso del Nome di Cristo da parte di un regime che si dice cristiano.»

Ella aggiunge: «L’idolatria della razza, con la quale la radio martella le masse, non è di fatto un’eresia esplicita? (…) Noi temiamo il peggio per l’immagine mondiale della Chiesa se il silenzio si prolungherà ulteriormente.» La notorietà di Edith Stein non era certo allora quella attuale, ma questo documento prova – se ancora ce ne fosse stato bisogno – come la Chiesa, ai più alti livelli, fosse informata delle persecuzioni naziste ed abbia taciuto.
[Tratto da Le Monde del 1 marzo 2003]

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N.B.
“Non si può dimenticare il fermo atteggiamento di Pio XI, che abbandona Roma al momento della visita di Hitler in quella città, né le sue memorabili parole a un gruppo di pellegrini belgi (7 settembre 1938): « Spiritualmente noi siamo semiti”. Tuttavia i giornali italiani e l’ Osservatore Romano, che pubblicarono il suo discorso, non segnalarono questa frase. Così anche la coraggiosa enciclica Mit brennender sorge (1937), citata spesso per la sua condanna del razzismo, non menziona né critica l’antisemitismo come tale. Tuttavia la sua intenzione era conosciuta e quel grande papa resterà nel ricordo del popolo ebraico per il suo comportamento”.
[Fonte: Jochanan Elichaj, Ebrei e cristiani, Edizioni Qiqajon, pp. 45,46]

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Noi aggiungiamo che  la « Mit brennender sorge » fu diffusa e letta in tutte le Chiese di Germania la domenica delle Palme del 1937, a dispetto della Gestapo. Pio XI vi denunciava implicitamente le persecuzioni razziali e nel 1938, durante la visita di Hitler a Roma, egli si ritirò a Castel Gandolfo e fece chiudere i Musei Vaticani. [Nota della Redazione LnR]
 

Sandro Magister: Una straordinaria lezione di liturgia dal vivo, scritta dal teologo che fu maestro di Joseph Ratzinger.

questo articolo non riguarda espressamente San Paolo, tuttavia, questo studio di Magister è veramente molto interessante ed approfondito e riflette il pensiero del papa, dal sito:

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/49404

“Settimana Santa a Monreale”, autore Romano Guardini

Una straordinaria lezione di liturgia dal vivo, scritta dal teologo che fu maestro di Joseph Ratzinger. In una pagina per la prima volta tradotta dall’originale tedesco

di Sandro Magister

ROMA, 12 aprile 2006 – Mentre a Roma, nella basilica di San Pietro, Benedetto XVI celebra la sua prima settimana santa da papa, in un’altra antica e grandiosa basilica, quella di Monreale in Sicilia, i riti pasquali hanno una “guida” a lui idealmente molto vicina: quella di Romano Guardini, il teologo tedesco dal quale il giovane Joseph Ratzinger più imparò in tema di liturgia.

Guardini visitò la basilica di Monreale nel 1929 e ne raccontò nel suo “Viaggio in Sicilia”.

La visitò nei giorni della Settimana Santa: il giovedì durante la messa crismale e il sabato, durante la veglia che all’epoca si celebrava di mattina.

L’attuale arcivescovo di Monreale, Cataldo Naro, ha ripreso quel racconto di Guardini dall’originale tedesco, l’ha tradotto e l’ha riproposto ai fedeli all’interno di una lettera pastorale dal titolo “Amiamo la nostra Chiesa”. Come a far da guida alle celebrazioni liturgiche d’oggi.

In quella pagina, il grande teologo tedesco scrisse tutto il suo stupore per la bellezza della basilica di Monreale e lo splendore dei suoi mosaici.

Ma soprattutto scrisse d’essere stato colpito dai fedeli che assistevano al rito, dal loro “vivere-nello-sguardo”, dalla “compenetrazione” tra questo popolo e le figure dei mosaici, che da esso prendevano vita e movimento.

“Gli sembrò – nota l’arcivescovo Naro nella lettera pastorale – che quel popolo sperimentasse un modo esemplare di celebrare la liturgia: con la visione”.

La basilica di Monreale, capolavoro dell’arte normanna del XII secolo, ha le pareti interamente rivestite da mosaici a fondo d’oro con le storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, gli angeli e i santi, i profeti e gli apostoli, i vescovi e i re, e il Cristo “Pantocrator”, reggitore di tutto, che dall’abside avvolge con la sua luce, il suo sguardo, la sua potenza il popolo cristiano.

Ecco qui di seguito il racconto della visita di Guardini a Monreale tradotto dal suo “Reise nach Sizilien [Viaggio in Sicilia]”.

L’originale tedesco è in R. Guardini, “Spiegel und Gleichnis. Bilder und Gedanken [Specchio e parabola. Immagini e pensieri]”, Grünewald-Schöningh, Mainz-Paderbon, 1990, pp. 158-161.

“Allora mi divenne chiaro qual è il fondamento di una vera pietà liturgica…”

di Romano Guardini

Oggi ho visto qualcosa di grandioso: Monreale. Sono colmo di un senso di gratitudine per la sua esistenza. La giornata era piovosa. Quando ci arrivammo – era giovedì santo – la messa solenne era oltre la consacrazione. L’arcivescovo per la benedizione degli olii sacri stava seduto su un posto elevato sotto l’arco trionfale del coro. L’ampio spazio era affollato. Ovunque le persone stavano sedute sulle loro sedie, silenziose, e guardavano.

Che dovrei dire dello splendore di questo luogo? Dapprima lo sguardo del visitatore vede una basilica di proporzioni armoniose. Poi percepisce un movimento nella sua struttura, e questa si arricchisce di qualcosa di nuovo, un desiderio di trascendenza l’attraversa sino a trapassarla; ma tutto ciò procede fino a culminare in quella splendida luminosità.

Un breve istante storico, dunque. Non dura a lungo, gli subentra qualcosa di completamente Altro. Ma questo istante, pur breve, è di un’ineffabile bellezza.

Oro su tutte le pareti. Figure sopra figure, in tutte le volte e in tutte le arcate. Fuoriuscivano dallo sfondo aureo come da un cosmo. Dall’oro irrompevano ovunque colori che hanno in sé qualcosa di radioso.

Tuttavia la luce era attutita. L’oro dormiva, e tutti i colori dormivano. Si vedeva che c’erano e attendevano. E quali sarebbero se rifulgesse il loro splendore! Solo qui o là un bordo luccicava, e un’aura chiaroscura si spalmava sul mantello blu della figura del Cristo nell’abside.

Quando portarono gli olii sacri alla sagrestia, mentre la processione, accompagnata dall’insistente melodia dell’antico inno, si snodava attraverso quella folla di figure del duomo, questo si rianimò.

Le sue forme si mossero. Entrando in relazione con le persone che avanzavano con solennità, nello sfiorarsi delle vesti e dei colori alle pareti e nelle arcate, gli spazi si misero in movimento. Gli spazi vennero incontro alle orecchie tese in ascolto e agli occhi in contemplazione.

La folla stava seduta e guardava. Le donne portavano il velo. Nei loro vestiti e nei loro panni i colori aspettavano il sole per poter risplendere. I volti marcati degli uomini erano belli. Quasi nessuno leggeva. Tutti vivevano nello sguardo, tutti erano protesi a contemplare.

Allora mi divenne chiaro qual è il fondamento di una vera pietà liturgica: la capacità di cogliere il “santo” nell’immagine e nel suo dinamismo.

* * *

Monreale, sabato santo. Al nostro arrivo la cerimonia sacra era alla benedizione del cero pasquale. Subito dopo il diacono avanzò solennemente lungo la navata principale e portò il Lumen Christi.

L’Exsultet fu cantato davanti all’altare maggiore. Il vescovo stava seduto sul suo trono di pietra elevato alla destra dell’altare e ascoltava. Seguirono le letture tratte dai profeti, ed io vi ritrovai il significato sublime di quelle immagini musive.

Poi la benedizione dell’acqua battesimale in mezzo alla chiesa. Intorno al fonte stavano seduti tutti gli assistenti, al centro il vescovo, la gente stava attorno. Portarono dei bambini, si notava la fierezza commossa dei loro genitori, ed il vescovo li battezzò.

Tutto era così familiare. La condotta del popolo era allo stesso tempo disinvolta e devota, e quando uno parlava al vicino, non disturbava. In questo modo la sacra cerimonia continuò il suo corso. Si dislocava un po’ in tutta la grande chiesa: ora si svolgeva nel coro, ora nelle navate, ora sotto l’arco trionfale. L’ampiezza e la maestosità del luogo abbracciarono ogni movimento e ogni figura, li fecero reciprocamente compenetrare sino ad unirsi.

Di tanto in tanto un raggio di sole penetrava nella volta, e allora un sorriso aureo pervadeva lo spazio in alto. E ovunque su un vestito o un velo ci fosse un colore in attesa, esso era richiamato dall’oro che riempiva ogni angolo, veniva condotto alla sua vera forza e assunto in una trama armoniosa che colmava il cuore di felicità.

La cosa più bella però era il popolo. Le donne con i loro fazzoletti, gli uomini con i loro mantelli sulle spalle. Ovunque volti marcati e un comportamento sereno. Quasi nessuno che leggeva, quasi nessuno chino a pregare da solo. Tutti guardavano.

La sacra cerimonia si protrasse per più di quattro ore, eppure sempre ci fu una viva partecipazione. Ci sono modi diversi di partecipazione orante. L’uno si realizza ascoltando, parlando, gesticolando. L’altro invece si svolge guardando. Il primo è buono, e noi del Nord Europa non ne conosciamo altro. Ma abbiamo perso qualcosa che a Monreale ancora c’era: la capacità di vivere-nello-sguardo, di stare nella visione, di accogliere il sacro dalla forma e dall’evento, contemplando.

Me ne stavo per andare, quando improvvisamente scorsi tutti quegli occhi rivolti a me. Quasi spaventato distolsi lo sguardo, come se provassi pudore a scrutare in quegli occhi ch’erano già stati dischiusi sull’altare .

__________

La lettera pastorale dell’arcivescovo di Monreale, Cataldo Naro, che include il brano di Romano Guardini sopra riportato:

> “Amiamo la nostra Chiesa”

E la home page del sito dell’arcidiocesi:

> Arcidiocesi di Monreale

__________

Il legame tra Benedetto XVI e Romano Guardini è evidentissimo fin nel titolo del libro “Introduzione allo spirito della liturgia” pubblicato dall’attuale papa nel 1999.

La prefazione del libro così comincia:

“Una delle mie prime letture dopo l’inizio degli studi teologici, al principio del 1946, fu l’opera prima di Romano Guardini ‘Lo spirito della liturgia’, un piccolo libro pubblicato nella Pasqua del 1918. Quest’opera contribuì in maniera decisiva a far sì che la liturgia, con la sua bellezza, la sua ricchezza nascosta e la sua grandezza che travalica il tempo, venisse nuovamente riscoperta come centro vitale della Chiesa e della vita cristiana. [...] Questo mio libro vorrebbe proprio rappresentare un contributo a tale rinnovata comprensione”.

Lo scorso giovedì 6 aprile, rispondendo in piazza San Pietro alla domanda di un giovane sulla sua vocazione, Benedetto XVI è tornato a sottolineare che essa sbocciò e fiorì, quand’era ragazzo, proprio con la “scoperta della bellezza della liturgia”. Perchè “realmente nella liturgia la bellezza divina ci appare e si apre il cielo”.

Ciò che la Chiesa dice e non dice sul preservativo (lo so che non è in tema di San Paolo…però!)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-17593?l=italian

Ciò che la Chiesa dice e non dice sul preservativo

Il presidente dei medici cattolici spiega il dibattito

BARCELLONA, giovedì, 19 marzo 2009 (ZENIT.org).- Leggendo i giornali si ha l’impressione che la Chiesa dica che se una persona ha rapporti sessuali con una prostituta non deve usare il preservativo, riconosce il presidente dell’associazione dei medici cattolici del mondo.

José María Simón Castellví illustra con questo esempio la superficialità con cui alcuni mezzi di comunicazione hanno informato sulle parole pronunciate da Benedetto XVI questo martedì a bordo dell’aereo che lo stava portando in Camerun, quando ha spiegato che il preservativo non è la soluzione all’Aids.

“La Chiesa difende la fedeltà, l’astinenza e la monogamia come armi migliori”, indica il presidente della Federazione Internazionale dei Medici Cattolici (FIAMC) in una dichiarazione rilasciata a ZENIT.

I media e anche alcuni rappresentanti politici hanno tuttavia accusato la Chiesa di promuovere l’Aids in Africa. Ovviamente, osserva il medico, la Chiesa non sta dicendo che si possono avere relazioni sessuali promiscue di ogni tipo a patto di non utilizzare il preservativo.

Il dottor Simón spiega che per comprendere ciò che la Chiesa dice sul preservativo bisogna capire cos’è l’amore, come ha spiegato lo stesso Papa ai giornalisti, anche se questo passaggio della conversazione è stato “censurato” dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione.

“Il preservativo è una barriera, ma una barriera con limiti che molte volte vengono aggirati. Soprattutto tra i giovani può essere controproducente dal punto di vista della trasmissione del virus”, ha aggiunto.

“Noi medici cattolici siamo a favore della conoscenza scientifica – spiega –. Non diciamo le cose solo per motivi ideologici. Come ammettiamo che un adulterio di pensiero non trasmette alcun virus ma è qualcosa di negativo, dobbiamo dire che i preservativi hanno i loro pericoli. Sono barriere limitate”.

Il medico illustra la posizione della Chiesa citando un caso reale, raccolto dai media informativi.

A Yaoundé, in Camerun, si è celebrata nel 1993 la VII Riunione Internazionale sull’Aids con esperti medici e sanitari. Hanno partecipato circa trecento congressisti e al termine è stato distribuito un questionario perché si indicasse, tra le altre cose, se si aveva avuto rapporti sessuali nei tre giorni in cui era durata la riunione con persone con cui non si facesse coppia fissa.

Degli interpellati, il 28% rispose di sì, e un terzo di questi disse di non aver preso alcuna “precauzione” per evitare contagi.

“Se ciò avviene tra persone ‘coscienziose’, cosa accadrà tra la gente ‘normale’?”, si è chiesto Simón Castellví.

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