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I DOMENICA DI AVVENTO ANNO B – 30 NOVEMBRE 2008

I DOMENICA DI AVVENTO ANNO B - 30 NOVEMBRE 2008 dans EAQ - (dal sito francese) -

http://santiebeati.it/

I DOMENICA DI AVVENTO ANNO B

30 NOVEMBRE 2008

MESSA DEL GIORNO

Seconda Lettura  1 Cor 1, 3-9
Aspettiamo la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo.
 
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi.
Fratelli, grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo!
Rendo grazie continuamente al mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza.
La testimonianza di Cristo si è stabilita tra voi così saldamente che non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi renderà saldi sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo. Degno di fede è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione con il Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro!


DAL SITO FRANCESE EAQ:

http://www.levangileauquotidien.org/www/main.php?language=FR&localTime=11/29/2008

San Pascasio Radberto (? – circa 849), monaco benedettino
Commento al vangelo di Matteo, lib. 2, c.24 ; PL 120, 799

« State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso »
Noi dobbiamo sempre tener presente al pensiero la duplice venuta di Cristo: l’una quando apparirà e dovremo render conto di tutte le nostre azioni; l’altra di ogni giorno, quando egli visita di continuo le nostre coscienze e viene a noi, affinché al suo arrivo ci trovi preparati. Che giova a me conoscere quale sarà il giorno del giudizio, mentre ho coscienza di tanti peccati? Sapere se il Signore verrà o quando verrà, se non viene dapprima nella mia anima, e non ritorna nel mio spirito, se Cristo non vive in me e mi parla? È per me un bene la sua venuta, se già Cristo vive in me, e io in lui. E per me è già quasi l’ora del suo secondo avvento quando i valori di questo mondo si ecclissano al mio sguardo e in un certo modo posso dire: «Il mondo per me è stato crocifisso, e io per il mondo» (Gal 6,14).

Considera anche queste altre parole di Cristo: «Molti verrano nel mio nome» (Mt 24,5). Questo falso caratterizza l’anticristo che si assuma il nome di Cristo… In nessun luogo delle Scritture si trova che il Signore abbia usato l’espressione: «Io sono il Cristo». Gli bastava dimostrare con la dottrina e i miracoli che lo era realmente, perché in lui l’opera del Padre, la dottrina che insegnava e la sua potenza gridavano: «Io sono il Cristo» molto più che se lo gridassero mille voci. Non so se si trovi che Egli l’abbia affermato con le parole, ma dimostrò di essere il Cristo «compiendo le opere del Padre» (Gv 5,36) e insegnando l’amore. I falsi cristi, non possedendo questo, a parole proclamavano di essere ciò che non erano.

PRIMI VESPRI

Lettura breve   1 Ts 5, 23-24
Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo. Colui che vi chiama è fedele e farà tutto questo!

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dalle «Catechesi» di san Cirillo di Gerusalemme, vescovo
(Cat. 15, 1. 3; PG 33, 870-874)
 
Le due venute di Cristo
Noi annunziamo che Cristo verrà. Infatti non è unica la sua venuta, ma ve n’è una seconda, la quale sarà molto più gloriosa della precedente. La prima, infatti, ebbe il sigillo della sofferenza, l’altra porterà una corona di divina regalità. Si può affermare che quasi sempre nel nostro Signore Gesù Cristo ogni evento è duplice. Duplice è la generazione, una da Dio Padre, prima del tempo, e l’altra, la nascita umana, da una vergine nella pienezza dei tempi.
Due sono anche le sue discese nella storia. Una prima volta è venuto in modo oscuro e silenzioso, come la pioggia sul vello. Una seconda volta verrà nel futuro in splendore e chiarezza davanti agli occhi di tutti.
Nella sua prima venuta fu avvolto in fasce e posto in una stalla, nella seconda si vestirà di luce come di un manto. Nella prima accettò la croce senza rifiutare il disonore, nell’altra avanzerà scortato dalle schiere degli angeli e sarà pieno di gloria.
Perciò non limitiamoci a meditare solo la prima venuta, ma viviamo in attesa della seconda. E poiché nella prima abbiamo acclamato: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 21, 9), la stessa lode proclameremo nella seconda. Così andando incontro al Signore insieme agli angeli e adorandolo canteremo: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore» (Mt 21, 9).
Il Salvatore verrà non per essere di nuovo giudicato, ma per farsi giudice di coloro che lo condannarono. Egli, che tacque quando subiva la condanna, ricorderà il loro operato a quei malvagi, che gli fecero subire il tormento della croce, e dirà a ciascuno di essi: «Tu hai agito così, io non ho aperto bocca» (cfr. Sal 38, 10).
Allora in un disegno di amore misericordioso venne per istruire gli uomini con dolce fermezza, ma alla fine tutti, lo vogliano o no, dovranno sottomettersi per forza al suo dominio regale.
Il profeta Malachia preannunzia le due venute del Signore: «E subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate» (Ml 3, 1). Ecco la prima venuta. E poi riguardo alla seconda egli dice: «Ecco l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, ecco viene… Chi sopporterà il giorno della sua venuta? Chi resisterà al suo apparire? Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare» (Ml 3, 1-3).
Anche Paolo parla di queste due venute scrivendo a Tito in questi termini: «E’ apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini, che ci insegna a rinnegare l’empietà e i desideri mondani e a vivere con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo, nell’attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo» (Tt 2, 11-13). Vedi come ha parlato della prima venuta ringraziandone Dio? Della seconda invece fa capire che è quella che aspettiamo.
Questa è dunque la fede che noi proclamiamo: credere in Cristo che è salito al cielo e siede alla destra Padre. Egli verrà nella gloria a giudicare i vivi e i morti. E il suo regno non avrà fine.
Verrà dunque, verrà il Signore nostro Gesù Cristo dai cieli; verrà nella gloria alla fine del mondo creato, nell’ultimo giorno. Vi sarà allora la fine di questo mondo, e la nascita di un mondo nuovo.

LODI

Lettura Breve   Rm 13, 11-12
E’ ormai tempo di svegliarvi dal sonno, perché la nostra salvezza è più vicina ora di quando diventammo credenti. La notte è avanzata, il giorno è vicino. Gettiamo via perciò le opere delle tenebre e indossiamo le armi della luce.

SECONDI VESPRI

Lettura breve   Fil 3, 20b-21
Aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose.

XXXIV SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO – SABATO 29 NOVEMBRE 2008

XXXIV SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO

SABATO 29 NOVEMBRE 2008

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di sant’Agostino, vescovo
(Disc. 256,1.2.3; PL 38,1191-1193)

Cantiamo l’alleluia a Dio che è buono, che ci libera da ogni male
Cantiamo qui l’alleluia, mentre siamo ancora privi di sicurezza, per poterlo cantare un giorno lassù, ormai sicuri. Perché qui siamo nell’ansia e nell’incertezza. E non vorresti che io sia nell’ansia, quando leggo: Non è forse una tentazione la vita dell’uomo sulla terra? (cfr. Gb 7,1). Pretendi che io non stia in ansia, quando mi viene detto ancora: «Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione»? (Mt 26,41). Non vuoi che io mi senta malsicuro, quando la tentazione è così frequente, che la stessa preghiera ci fa ripetere: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori»? (Mt 6,12).
 Tutti i giorni la stessa preghiera e tutti i giorni siamo debitori! Vuoi che io resti tranquillo quando tutti i giorni devo domandare perdono dei peccati e aiuto nei pericoli? Infatti, dopo aver detto per i peccati passati: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori», subito, per i pericoli futuri, devo aggiungere: «E non ci indurre in tentazione» (Mt 6,13).
E anche il popolo, come può sentirsi sicuro, quando grida con me: «Liberaci dal male»? (Mt 6,13).
E tuttavia, o fratelli, pur trovandoci ancora in questa penosa situazione, cantiamo l’alleluia a Dio che è buono, che ci libera da ogni male.
Anche quaggiù tra i pericoli e le tentazioni, si canti dagli altri e da noi l’alleluia. «Dio infatti è fedele; e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze» (1Cor 10,13). Perciò anche quaggiù cantiamo l’alleluia. L’uomo è ancora colpevole, ma Dio è fedele. Non dice: «Non permetterà che siate tentati», bensì: «Non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla» (1Cor 10,13). Sei entrato nella tentazione, ma Dio ti darà anche il modo di uscirne, perché tu non abbia a soccombere alla tentazione stessa: perché, come il vaso del vasaio, tu venga modellato con la predicazione e consolidato con il fuoco della tribolazione : Ma quando vi entri, pensa che ne uscirai, «perché Dio è fedele». «Il Signore proteggerà la tua entrata e la tua uscita» (Sal 120,8).
Ma quando questo corpo sarà diventato immortale e incorruttibile, allora cesserà anche ogni tentazione, perché «il corpo è morto». Perché è morto? «A causa del peccato». Ma «lo Spirito è vita». Perché? «A causa della giustificazione» (Rm 8,10). Abbandoneremo dunque come morto il corpo? No, anzi ascolta: «Se lo Spirito di colui che ha risuscitato Cristo dai morti abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti, darà la vita anche ai vostri corpi mortali» (Rm 8,10-11). Ora infatti il nostro corpo è nella condizione terrestre, mentre allora sarà in quella celeste. O felice quell’alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico. Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell’ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo, quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Canta per alleviare le asprezze della marcia, ma cantando non indulgere alla pigrizia. Canta e cammina. Che significa camminare? Andare avanti nel bene, progredire nella santità. Vi sono infatti, secondo l’Apostolo, alcuni che progrediscono sì, ma nel male. Se progredisci è segno che cammini, ma devi camminare nel bene, devi avanzare nella retta fede, devi progredire nella santità. Canta e cammina

LODI

Lettura Breve   Rm 12, 14-16a
Benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite. Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili.

PAUL SENDS A LETTER GALATIANS

PAUL SENDS A LETTER GALATIANS dans IMMAGINI (DI SAN PAOLO, DEI VIAGGI, ALTRE SUL TEMA) 16%20LUTHER%20NT%20PAUL%20SENDS%20A%20LETTER%20GAL%2001

LUTHER NT, PAUL SENDS A LETTER GALATIANS

http://www.artbible.net/2NT/Gal0101_Portraits_misc/index.htm

Romano Penna : Alle origini della nostra contemporaneità (1Cor 12, intervista)

dal sito:

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/interviste/2007/289q08b1.html

A colloquio con Romano Penna

L’Osservatore Romano

(Interviste)

19 dicembre 2007


Alle origini della nostra contemporaneità
(riferimento alla 1Cor 12)

Nicola Gori

Non « un semplice anniversario » ma un’occasione per riscoprire « una straordinaria figura delle origini cristiane, che ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della Chiesa e che ha sempre qualcosa di nuovo da dire agli uomini e alle donne di ogni tempo ». È questo il significato dell’anno paolino secondo Romano Penna, docente di Nuovo Testamento alla Pontificia Università Lateranense e docente invitato alla Pontificia Università Gregoriana. Tra i massimi studiosi della figura dell’apostolo delle genti, Penna evidenzia in questa intervista a « L’Osservatore Romano » alcuni tra gli aspetti più attuali del messaggio paolino.

Che cosa può offrire il pensiero di san Paolo all’umanità e alla Chiesa del nostro tempo?

Attraverso Paolo il cristiano può ritrovare la dimensione della contemporaneità con le sue origini. Io vedo l’attualità dell’apostolo anzitutto nella sua adesione totale a Gesù Cristo. Che non è un fatto scontato, perché secondo Paolo aderire a Cristo significa rinunciare ad altre cose:  nel caso specifico, rinunciare all’affermazione di sé di fronte a Dio. Questo è il dato fondamentale, che anche Lutero a suo tempo ha riscoperto e riaffermato in termini molto forti e polemici. Rinunciare all’affermazione di sé significa fare spazio alla grazia, significa rinunciare ad ogni presunzione, ad ogni pretesa, e affermare la propria umiltà di fronte a Dio.
Un secondo dato è quello della comunione ecclesiale. Il cristiano non vive da solo, ma in una comunione che è fatta di Gesù Cristo. La definizione paolina della Chiesa come Corpo di Cristo è sua ed è solo sua. All’inizio del cristianesimo nessuno ha definito così la Chiesa. Questo può avere un impatto oggi, nel senso che il cristiano è chiamato a vedersi assolutamente in relazione con Gesù Cristo – Colui che dà il senso dell’essere Chiesa – ma anche in relazione con tutti gli altri. Noi siamo membra di un corpo, come scrive l’apostolo nella prima lettera ai Corinzi, al capitolo 12. La nostra identità è costruita sulla base di Gesù Cristo, ma anche sulla base di una comunione vicendevole. Questo è anche uno degli aspetti che più ha contribuito all’originaria affermazione del cristianesimo in una società dove l’aspetto comunionale era carente.
Un terzo elemento è forse quello che comunemente è indicato come l’aspetto più tipico di Paolo:  la sua dedizione ad extra, all’annuncio e alla testimonianza del Vangelo, a rendere presente il messaggio cristiano nella società. Egli ha speso la vita per questo. Pensiamo ai suoi viaggi. C’è un celebre brano nella seconda lettera ai Corinzi che fa riferimento alle fatiche, alle incomprensioni, alle ostilità. Su tutto ciò c’è un impegno fondamentale, straordinario, ribadito nella prima lettera:  « Guai a me se non predicassi il Vangelo! ». Questa è la sua vita, in una società in cui non risulta che da parte giudaica vi fosse una missione specifica. Paolo, pur essendo giudeo, si dedica totalmente ad annunciare il Vangelo.

In questo senso, l’insegnamento paolino è un ostacolo o un incoraggiamento al cammino ecumenico?

Nella storia della Chiesa l’apostolo è stato un motivo di discussione più con le comunità ecclesiali nate dalla Riforma che con le Chiese ortodosse. Nell’occidente Paolo è stato un fattore diacritico, cioè di contestazione. La sua figura è molto più presente nel dialogo ecumenico con le comunità riformate, perché Lutero ha condotto la sua battaglia in nome di Paolo. Sia pure alla lunga, ciò ha favorito la sua riscoperta all’interno della Chiesa cattolica. Ritengo che il Concilio Vaticano II in realtà sia stato ampiamente caratterizzato, se non proprio dominato, dalla riscoperta del paolinismo, vale a dire dalla riscoperta della fede pura, nuda di fronte a Dio, dell’impegno apostolico, della dimensione comunionale della Chiesa.

Il tema della risurrezione di Cristo è centrale nel pensiero paolino. Può spiegarcene il significato?

Per Paolo è fondamentale la risurrezione di Cristo, perché essa porta lui e i cristiani a riscoprire di più il valore della morte di Cristo. Se l’apostolo parla due volte della risurrezione di Cristo, parla tre volte della morte di Cristo. Questo è straordinario ed è importante, perché significa che la morte di Cristo non va intesa solo come un punto di passaggio. Essa è invece il tesaurus Ecclesiae. Il tesoro della Chiesa è nel sangue di Cristo, nella morte di Cristo, che la sua risurrezione ha portato a riscoprire nella sua fecondità, nella sua valenza straordinaria. Se Cristo non fosse risorto, la morte di Cristo sarebbe stato un episodio banale. Il paolinismo non vede nella sofferenza di Cristo un esempio per noi. Vede nella sofferenza e nella morte di Cristo una dimensione di fecondità intrinseca, di salvezza, per cui addirittura Paolo arriva a dire che noi siamo morti con Cristo:  non che noi dobbiamo morire come Cristo, ma che noi già siamo morti con Cristo e questa morte è feconda di vita.

Che posto occupa la carità negli scritti paolini?

La carità vuol dire amore gratuito. Ci sono due testi fondamentali in Paolo:  uno è forse quello meno noto, Romani 8, 31-39, che parla dell’amore di Dio, della carità e quindi dell’agape. L’amore gratuito di Dio che scende verso di noi è fondamentale. Ciò che fa l’essenza del Vangelo è che noi siamo destinatari di un amore gratuito:  non perché siamo bravi, ma perché siamo peccatori. Dio ci ama per questo. E poi c’è l’altra pagina, che forse è la più celebre, quella della prima lettera ai Corinzi, al capitolo 13, il cosiddetto inno alla carità. Si dovrebbe considerare piuttosto un encomio:  non è un inno propriamente detto, come forma letteraria, ma è un encomio, un elogio, una celebrazione dell’agape. Essa nel testo è in forma assoluta, non è neanche specificata. Qui non si dice se si tratti dell’amore di Dio per noi o del nostro amore per Dio o dell’amore tra di noi. È proprio l’agape, che è il valore assoluto del cristiano. Nel contesto epistolare, si deve intendere soprattutto come amore vicendevole, però qui è usato in forma assoluta. Se io non ho l’agape, non sono niente.

di Romano Penna : « SIETE STATI CHIAMATI A LIBERTÀ » (Gal 5,13).

dal sito:

http://www.diocesi.brescia.it/main/uffici_servizi_di_curia/u_catechistico/documenti/relazione_Romano_Penna.doc

« SIETE STATI CHIAMATI A LIBERTÀ » (Gal 5,13).
Cosa vuol dire oggi?

di Romano Penna
(« Villa Pace » di Gussago, 8 giugno 2008)

Le parole del titolo sono di san Paolo. Quindi sono state scritte circa duemila anni fa. Ma non hanno perso nulla del loro fascino originario, anzi sono sempre più attuali. Perché? Semplicemente perché l’ideale e la ricerca della libertà non hanno tempo, visto che appartengono al fondo dell’uomo, di ogni uomo. E sono parole che fanno il paio con queste altre, ancora più forti, con cui si apre lo stesso capitolo cinque della lettera ai Galati: « Per la libertà Cristo ci ha liberati »! Con questa frase, secondo il copione inedito di un film preparato da Pier Paolo Pasolini su san Paolo, situato tutto nel nostro tempo, l’Apostolo doveva iniziare a Marsiglia il suo discorso a un gruppo di fuorusciti spagnoli dell’ex-regime di Franco.
Dunque, secondo Paolo, noi non siamo soltanto « chiamati » (oggi) ad essere liberi domani, come se la libertà fosse un traguardo ancora tutto da raggiungere. Al contrario, il vangelo consiste nell’annuncio di una libertà già procurata e già donata; sicché, se è stata accolta, essa è già posseduta. In effetti, poco prima nella stessa lettera, Paolo prende le distanze da alcuni « falsi fratelli », che « si sono introdotti per insidiare la libertà che abbiamo in Cristo Gesù » (2,4).
Qui tocchiamo uno dei punti davvero caratteristici dell’identità cristiana, per cui essa si distingue da ogni altro tipo di libertà intesa in senso politico e soprattutto filosofico. Secondo la filosofia, ogni uomo è libero per natura, quindi per nascita, e decide autonomamente le proprie scelte: si tratta del cosiddetto « libero arbitrio », su cui Erasmo da Rotterdam nel 1500 scrisse un celebre trattatello. Il guaio è che ciò è vero in teoria, mentre poi in pratica ciascuno di noi è doppiamente condizionato e limitato: primo, dal nostro personale egoismo (radicato in una situazione originaria di peccato), per cui fare tutto quello che si vuole significa in realtà essere sottomessi a stimoli e pulsioni pre-razionali che ci comandano e di cui siamo forse inconsapevolmente schiavi; secondo, siamo condizionati dalle imposizioni della legge, non tanto di quella civile quanto di quella morale (i comandamenti), nella misura in cui pensiamo di essere graditi a Dio solo se osserviamo con le nostre opere la sua volontà precettiva, senza tener conto della sua grazia. Ecco perché, in contrapposizione a Erasmo, Lutero scrisse un trattatello intitolato « Il servo arbitrio », per dire che in concreto l’uomo è vincolato a una condizione di peccato, che ne limita le vere possibilità.
Ebbene, se Paolo dice che Cristo « ci ha liberati », ciò significa innanzitutto riconoscere che senza Cristo noi ci troviamo in una condizione di servitù (nei confronti sia dell’egoismo sia del principio esterno della legge) e in secondo luogo che noi possiamo ritrovare la nostra libertà piena solo come frutto di una liberazione. Qui sta il punto: senza questa liberazione, noi non siamo liberi! Ma la liberazione, di cui si tratta, non è il prodotto di un nostro sforzo individuale, che ci ricondurrebbe fatalmente alla nostra auto-affermazione e farebbe ancora di noi il criterio interessato di misura del rapporto con gli altri. Invece, la libertà cristiana è il risultato di un costo pagato dall’amore di Cristo per noi (« mi ha amato e ha dato se stesso per me »: Gal 2,20) e quindi il risultato di un dono assolutamente disinteressato.
C’è poi un risvolto importantissimo della libertà cristiana, senza il quale non si capirebbe in che cosa essa davvero consiste. Ed è che la libertà, oltre a consistere in una radice profondamente piantata in noi, si esprime in comportamenti gratuiti e generosi nei confronti degli altri. È qui che ha senso l’idea di libertà come chiamata (« chiamati a libertà »). Infatti Paolo prosegue nella sua lettera: « Non fate della libertà un pretesto per la carne, ma mediante l’amore fatevi servi gli uni degli altri ». Ora, la carne in senso paolino è tutto ciò che prescinde o si oppone alla generosità veramente ‘liberale’ di Dio, cioè è un’atmosfera di chiusura a lui e quindi di deterioramento personale. Perciò la libertà evangelica esclude ogni ripiegamento su se stessi e invece proietta il cristiano al servizio del prossimo.
Si vede bene quindi che la libertà ha una doppia componente: l’una è a livello di realtà oggettiva, statica, e consiste in un modo d’essere, reale e profondo, acquisito per grazia di Dio; l’altra è a livello soggettivo, dinamico, e consiste in un modo di agire, che ci fa estroversi, cioè ci proietta al di fuori di noi e ci impegna per il bene degli altri. Allora, si capisce che la seconda non sta senza la prima: l’impegno non avrebbe senso, se non si fondasse su di un dono di cui siamo beneficiari; ma, altrettanto, la prima componente sarebbe sterile, se non si traducesse positivamente in modi nuovi di vivere. Perciò, si potrebbe dire che la libertà effettiva, che già ci è stata donata, diventa una chiamata, cioè un impulso, una spinta, un input a liberarci sempre più di noi stessi per esprimerci in pienezza a favore degli altri.

Benedetto XVI: la vera fede « diventa amore, si esprime nella carità » (San Paolo)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-16285?l=italian

Benedetto XVI: la vera fede « diventa amore, si esprime nella carità »

(ancora su San Paolo)


Intervento in occasione dell’Udienza generale

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 26 novembre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la catechesi pronunciata questo mercoledì da Benedetto XVI in occasione dell’Udienza generale, svoltasi nell’Aula Paolo VI alla presenza di gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo e di Sua Santità Aram I, Catholicos di Cilicia degli Armeni.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

nella catechesi di mercoledì scorso ho parlato della questione di come l’uomo diventi giusto davanti a Dio. Seguendo san Paolo, abbiamo visto che l’uomo non è in grado di farsi « giusto » con le sue proprie azioni, ma può realmente divenire « giusto » davanti a Dio solo perché Dio gli conferisce la sua « giustizia » unendolo a Cristo suo Figlio. E questa unione con Cristo l’uomo l’ottiene mediante la fede. In questo senso san Paolo ci dice: non le nostre opere, ma la fede ci rende « giusti ». Questa fede, tuttavia, non è un pensiero, un’opinione, un’idea. Questa fede è comunione con Cristo, che il Signore ci dona e perciò diventa vita, diventa conformità con Lui. O, con altre parole, la fede, se è vera, se è reale, diventa amore, diventa carità, si esprime nella carità. Una fede senza carità, senza questo frutto non sarebbe vera fede. Sarebbe fede morta.

Abbiamo quindi trovato nell’ultima catechesi due livelli: quello della non rilevanza delle nostre azioni, delle nostre opere per il raggiungimento della salvezza e quello della « giustificazione » mediante la fede che produce il frutto dello Spirito. La confusione di questi due livelli ha causato, nel corso dei secoli, non pochi fraintendimenti nella cristianità. In questo contesto è importante che san Paolo nella stessa Lettera ai Galati ponga, da una parte, l’accento, in modo radicale, sulla gratuità della giustificazione non per le nostre opere, ma che, al tempo stesso, sottolinei pure la relazione tra la fede e la carità, tra la fede e le opere: « In Cristo Gesù non è la circoncisione che vale o la non circoncisione, ma la fede che si rende operosa per mezzo della carità » (Gal 5,6). Di conseguenza, vi sono, da una parte, le « opere della carne » che sono « fornicazione, impurità, dissolutezza, idolatria… » (Gal 5,19-21): tutte opere contrarie alla fede; dall’altra, vi è l’azione dello Spirito Santo, che alimenta la vita cristiana suscitando « amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé » (Gal 5,22): sono questi i frutti dello Spirito che sbocciano dalla fede.

All’inizio di quest’elenco di virtù è citata l’agape, l’amore, e nella conclusione il dominio di sé. In realtà, lo Spirito, che è l’Amore del Padre e del Figlio, effonde il suo primo dono, l’agape, nei nostri cuori (cfr Rm 5,5); e l’agape, l’amore,per esprimersi in pienezza esige il dominio di sé. Dell’amore del Padre e del Figlio, che ci raggiunge e trasforma la nostra esistenza in profondità, ho anche trattato nella mia prima Enciclica: Deus caritas est. I credenti sanno che nell’amore vicendevole s’incarna l’amore di Dio e di Cristo, per mezzo dello Spirito. Ritorniamo alla Lettera ai Galati. Qui san Paolo dice che, portando i pesi gli uni degli altri, i credenti adempiono il comandamento dell’amore (cfr Gal 6,2). Giustificati per il dono della fede in Cristo, siamo chiamati a vivere nell’amore di Cristo per il prossimo, perché è su questo criterio che saremo, alla fine della nostra esistenza, giudicati. In realtà, Paolo non fa che ripetere ciò che aveva detto Gesù stesso e che ci è stato riproposto dal Vangelo di domenica scorsa, nella parabola dell’ultimo Giudizio. Nella Prima Lettera ai Corinzi, san Paolo si diffonde in un famoso elogio dell’amore. E’ il cosiddetto inno alla carità: « Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita… La carità è magnanima, benevola è la carità, non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse… » (1 Cor 13,1.4-5). L’amore cristiano è quanto mai esigente poiché sgorga dall’amore totale di Cristo per noi: quell’amore che ci reclama, ci accoglie, ci abbraccia, ci sostiene, sino a tormentarci, poiché costringe ciascuno a non vivere più per se stesso, chiuso nel proprio egoismo, ma per « Colui che è morto e risorto per noi » (cfr 2 Cor 5,15). L’amore di Cristo ci fa essere in Lui quella creatura nuova (cfr 2 Cor 5,17) che entra a far parte del suo Corpo mistico che è la Chiesa.

Vista in questa prospettiva, la centralità della giustificazione senza le opere, oggetto primario della predicazione di Paolo, non entra in contraddizione con la fede operante nell’amore; anzi esige che la nostra stessa fede si esprima in una vita secondo lo Spirito. Spesso si è vista un’infondata contrapposizione tra la teologia di san Paolo e quella di san Giacomo, che nella sua Lettera scrive: « Come il corpo senza lo spirito è morto, così anche la fede senza le opere è morta » (2,26). In realtà, mentre Paolo è preoccupato anzitutto di dimostrare che la fede in Cristo è necessaria e sufficiente, Giacomo pone l’accento sulle relazioni consequenziali tra la fede e le opere (cfr Gc 2,2-4). Pertanto sia per Paolo sia per Giacomo la fede operante nell’amore attesta il dono gratuito della giustificazione in Cristo. La salvezza, ricevuta in Cristo, ha bisogno di essere custodita e testimoniata « con rispetto e timore. E’ Dio infatti che suscita in voi il volere e l’operare secondo il suo disegno d’amore. Fate tutto senza mormorare e senza esitare… tenendo salda la parola di vita », dirà ancora san Paolo ai cristiani di Filippi (cfr Fil 2,12-14.16).

Spesso siamo portati a cadere negli stessi fraintendimenti che hanno caratterizzato la comunità di Corinto: quei cristiani pensavano che, essendo stati giustificati gratuitamente in Cristo per la fede, « tutto fosse loro lecito ». E pensavano, e spesso sembra che lo pensino anche cristiani di oggi, che sia lecito creare divisioni nella Chiesa, Corpo di Cristo, celebrare l’Eucaristia senza farsi carico dei fratelli più bisognosi, aspirare ai carismi migliori senza rendersi conto di essere membra gli uni degli altri, e così via. Disastrose sono le conseguenze di una fede che non s’incarna nell’amore, perché si riduce all’arbitrio e al soggettivismo più nocivo per noi e per i fratelli. Al contrario, seguendo san Paolo, dobbiamo prendere rinnovata coscienza del fatto che, proprio perché giustificati in Cristo, non apparteniamo più a noi stessi, ma siamo diventati tempio dello Spirito e siamo perciò chiamati a glorificare Dio nel nostro corpo con tutta la nostra esistenza (cfr 1 Cor 6,19) . Sarebbe uno svendere il valore inestimabile della giustificazione se, comprati a caro prezzo dal sangue di Cristo, non lo glorificassimo con il nostro corpo. In realtà, è proprio questo il nostro culto « ragionevole » e insieme « spirituale », per cui siamo esortati da Paolo a « offrire il nostro corpo come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio » (Rm 12,1). A che cosa si ridurrebbe una liturgia rivolta soltanto al Signore, senza diventare, nello stesso tempo, servizio per i fratelli, una fede che non si esprimesse nella carità? E l’Apostolo pone spesso le sue comunità di fronte al giudizio finale, in occasione del quale tutti « dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, per ricevere ciascuno la ricompensa delle opere compiute quando era nel corpo, sia in bene che in male » (2 Cor 5,10; cfr anche Rm 2,16). E questo pensiero del Giudizio deve illuminarci nella nostra vita di ogni giorno.

Se l’etica che Paolo propone ai credenti non scade in forme di moralismo e si dimostra attuale per noi, è perché, ogni volta, riparte sempre dalla relazione personale e comunitaria con Cristo, per inverarsi nella vita secondo lo Spirito. Questo è essenziale: l’etica cristiana non nasce da un sistema di comandamenti, ma è conseguenza della nostra amicizia con Cristo. Questa amicizia influenza la vita: se è vera si incarna e si realizza nell’amore per il prossimo. Per questo, qualsiasi decadimento etico non si limita alla sfera individuale, ma è nello stesso tempo svalutazione della fede personale e comunitaria: da questa deriva e su essa incide in modo determinante. Lasciamoci quindi raggiungere dalla riconciliazione, che Dio ci ha donato in Cristo, dall’amore « folle » di Dio per noi: nulla e nessuno potranno mai separarci dal suo amore (cfr Rm 8,39). In questa certezza viviamo. E’ questa certezza a donarci la forza di vivere concretamente la fede che opera nell’amore.

[Il Papa ha quindi salutato i pellegrini in diverse lingue. Queste le sue parole in Italiano:]

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i sacerdoti dell’Arcidiocesi di Catania, accompagnati dal loro Pastore Mons. Salvatore Gristina. Cari amici, curate sempre di più il vostro incontro personale con Gesù e perseverate nell’adempimento generoso del vostro ministero a servizio del popolo cristiano. Saluto il pellegrinaggio della Diocesi di Chiavari, guidato dal Vescovo Mons. Alberto Tanasini, invitando l’intera Comunità diocesana a coltivare verso tutti quell’amore divino capace di rinnovare il mondo.

Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. Domenica prossima, inizia il tempo di Avvento, in preparazione al Natale di Cristo. Esorto voi, cari giovani, a vivere questo « tempo forte » con vigile preghiera e ardente azione apostolica. Incoraggio voi, cari malati, a sostenere con l’offerta delle vostre sofferenze il cammino di preparazione al Natale di tutta la Chiesa. Auguro a voi, sposi novelli, di essere testimoni dello Spirito d’amore che anima e sostiene l’intera famiglia di Dio.

Publié dans:PAPA BENEDETTO XVI E SAN PAOLO |on 28 novembre, 2008 |Pas de commentaires »

San Giovanni Crisostomo : La preghiera è luce per l’anima

dal sito:

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20010302_giovanni-crisostomo_it.html

La preghiera è luce per l’anima

« La preghiera, o dialogo con Dio, è un bene sommo. È, infatti, una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, così anche l’anima che è tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera. Deve essere, però, una preghiera non fatta per abitudine, ma che proceda dal cuore. Non deve essere circoscritta a determinati tempi od ore, ma fiorire continuamente, notte e giorno.

Non bisogna infatti innalzare il nostro animo a Dio solamente quando attendiamo con tutto lo spirito alla preghiera. Occorre che, anche quando siamo occupati in altre faccende, sia nella cura verso i poveri, sia nelle altre attività, impreziosite magari dalla generosità verso il prossimo, abbiamo il desiderio e il ricordo di Dio, perché, insaporito dall’amore divino, come da sale, tutto diventi cibo gustosissimo al Signore dell’universo. Possiamo godere continuamente di questo vantaggio, anzi per tutta la vita, se a questo tipo di preghiera dedichiamo il più possibile del nostro tempo.

La preghiera è luce dell’anima, vera conoscenza di Dio, mediatrice tra Dio e l’uomo. L’anima, elevata per mezzo suo in alto fino al cielo, abbraccia il Signore con amplessi ineffabili. Come il bambino, che piangendo grida alla madre, l’anima cerca ardentemente il latte divino, brama che i propri desideri vengano esauditi e riceve doni superiori ad ogni essere visibile.

La preghiera funge da augusta messaggera dinanzi a Dio, e nel medesimo tempo rende felice l’anima perché appaga le sue aspirazioni. Parlo, però, della preghiera autentica e non delle sole parole.

Essa è un desiderare Dio, un amore ineffabile che non proviene dagli uomini, ma è prodotto dalla grazia divina. Di essa l’Apostolo dice: Non sappiamo pregare come si conviene, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili (cfr. Rm 8, 26b). Se il Signore dà a qualcuno tale modo di pregare, è una ricchezza da valorizzare, è un cibo celeste che sazia l’anima; chi l’ha gustato si accende di desiderio celeste per il Signore, come di un fuoco ardentissimo che infiamma la sua anima.

Abbellisci la tua casa di modestia e umiltà mediante la pratica della preghiera. Rendi splendida la tua abitazione con la luce della giustizia; orna le sue pareti con le opere buone come di una patina di oro puro e al posto dei muri e delle pietre preziose colloca la fede e la soprannaturale magnanimità, ponendo sopra ogni cosa, in alto sul fastigio, la preghiera a decoro di tutto il complesso. Così prepari per il Signore una degna dimora, così lo accogli in splendida reggia. Egli ti concederà di trasformare la tua anima in tempio della sua presenza. »

Dalle « Omelie » di san Giovanni Crisostomo, vescovo (Om. 6 sulla preghiera; PG 64, 462-466)

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