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NEL CAMMINO VERSO DIO È IMPOSSIBILE FARE DA SOLI (anche Paolo)

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NEL CAMMINO VERSO DIO È IMPOSSIBILE FARE DA SOLI

da Teologo Borèl

del 09 novembre 2012

« Grazia a voi e pace da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo », scrive San Paolo ai cristiani di Tessalonica. « Dobbiamo sempre ringraziare Dio per voi, fratelli, ed è ben giusto. La vostra fede infatti cresce rigogliosamente e abbonda la vostra carità vicendevole ». Con l’assistenza dello Spirito Santo alla sua Chiesa i primi fedeli godettero della dedizione sacrificata dei loro pastori. I farisei non seppero invece guidare il popolo eletto perché, per loro colpa, rimasero senza luce, e caricarono i figli di Israele di un peso aspro e duro, che non li avvicinava a Dio. Il Signore nel Vangelo della Messa li chiama « guide cieche », incapaci di indicare ad altri la retta via.
Una delle maggiori Grazie che potevamo ricevere è di avere chi ci orienta nel cammino della vita interiore; e se ancora non abbiamo trovato chi ci dia dottrina e ci consigli, in nome di Dio, nella costruzione del nostro edificio spirituale, chiediamolo al Signore: « Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto ». Egli non rimarrà sordo alla nostra richiesta.
Nella direzione spirituale troviamo la persona, voluta dal Signore, che conosce bene la strada; le apriremo l’anima e sarà per noi maestro, medico, amico, il buon pastore per tutto ciò che fa riferimento a Dio. Ci mostra i possibili ostacoli, ci suggerisce mete più alte di vita interiore e punti concreti di lotta; ci incoraggia sempre, ci aiuta a scoprire nuovi orizzonti e risveglia nell’anima fame e sete di Dio, che la tiepidezza, sempre in agguato, vorrebbe soffocare. La Chiesa fin dai primi secoli ha raccomandato la pratica della direzione spirituale personale come mezzo efficacissimo per progredire nella vita cristiana. E’ assai difficile che qualcuno possa essere guida di se stesso nella vita interiore. Spesso il coinvolgimento emotivo, la mancanza di obiettività con cui guardiamo a noi stessi, l’amore proprio, l’inclinazione ad abbandonarci a quel che più ci aggrada, che ci risulta più facile, tendono ad annebbiare la via che conduce a Dio (forse all’inizio cosi chiara!); e quando non c’è chiarezza sopravvengono la fiacchezza, lo scoraggiamento e la tiepidezza. « Colui che vuole restare solo senza il sostegno di un maestro e di una guida, è come un albero solo e senza padrone in un campo, i cui frutti, per quanto abbondanti verranno colti dai passanti e non giungeranno quindi alla maturità […]. L’anima virtuosa, ma sola e senza maestro è come il carbone acceso ma isolato, il quale invece di accendersi si raffredderà ». E’ una Grazia del Signore davvero speciale poter contare su di una persona che ci aiuti efficacemente nella nostra santificazione, alla quale poter dischiudere il nostro cuore con una confidenza piena di senso umano e soprannaturale. Sarà una grande gioia poter comunicare i nostri sentimenti più intimi, per orientarli al Signore, a chi ci comprende, ci incoraggia, ci apre orizzonti nuovi, prega per noi e ha una Grazia speciale per aiutarci. Nella direzione spirituale troviamo Cristo stesso che ci ascolta con attenzione, ci comprende e ci dà forza e luci nuove per procedere sicuri.
A chi dobbiamo rivolgerci visione soprannaturale nella direzione spirituale
Nella direzione spirituale dev’essere presente un profondo senso umano e un grande spirito soprannaturale; per questo, la confidenza « non si fa a una persona qualunque, ma a chi merita la nostra fiducia per quello che è o per ciò che Dio lo fa essere per noi ». Per San Paolo Dio aveva scelto Ananìa, che lo fortificasse nel cammino della conversione; per Tobia fu l’arcangelo San Raffaele, nella figura di un uomo incaricato da Dio di orientarlo e di consigliarlo nel suo lungo viaggio.
E’ imprescindibile per la direzione spirituale un clima soprannaturale: cerchiamo la voce di Dio. Per chiedere consiglio o per confidare una preoccupazione esclusivamente umana, tralasciando il piano soprannaturale, forse basterebbe rivolgersi a una persona capace di comprendere, discreta e prudente; ma per tutto quanto si riferisce all’anima, dobbiamo discernere nell’orazione chi sia il « buon pastore » per noi, « poiché si corre il pericolo, se ci si basa soltanto su motivi umani, di non essere ascoltati né capiti; e allora l’allegria si trasforma in amarezza, e l’amarezza sfocia nell’incomprensione che non dà sollievo; in ogni caso si prova disagio, l’intimo malessere di chi ha parlato troppo, con chi non doveva, di ciò che non doveva ». Non dobbiamo scegliere « guide cieche » che più che aiutarci ci porterebbero ad inciampare e cadere.
Se andiamo alla direzione spirituale con senso soprannaturale eviteremo anche di cercare un consiglio che favorisca il nostro egoismo, che tranquillizzi con una sua presunta autorità la voce della nostra anima; e addirittura che si continui a cambiare consigliere fino a trovare il più benevolo. Questa tentazione può manifestarsi specialmente in ambiti e casi particolarmente delicati, nei quali forse non si è disposti a cambiare, nell’intento di piegare la volontà di Dio alla propria: per esempio, la scoperta della propria vocazione, che comporta un impegno maggiore; il dover rompere con un’amicizia pericolosa; la generosità nel numero dei figli, per gli sposi, eccetera. Chiediamo al Signore che ci renda persone di coscienza retta, che cercano la sua volontà e che non si lasciano condurre da motivi umani: che cercano veramente di piacere a Lui, e non una falsa tranquillità o di far bella figura. Allo stesso modo, sarebbe una mancanza di visione soprannaturale essere eccessivamente preoccupati del « che cosa avranno pensato », di « che cosa penseranno », dell’opinione che si son fatti di noi. La visione soprannaturale conduce alla sincerità e alla semplicità.
La vita interiore matura nel tempo e non si improvvisa dalla sera alla mattina. Andremo incontro a sconfitte, che ci aiuteranno a essere più umili e a vittorie, che mostrano quanto la Grazia agisce efficacemente dentro di noi; avremo bisogno di cominciare e ricominciare molte volte, senza scoraggiarci e senza aspettare – anche se a volte vengono – risultati immediati, che talora il Signore vuole che non vi siano in vista di un bene maggiore. COSTANZA, SINCERITÀ E DOCILITÀ
Dietro questa lotta ascetica allegra dev’esserci la direzione spirituale, che non può essere sporadica o discontinua, ma seguire passo dopo passo gli alti e bassi del nostro sforzo.
1) Costanza anche nelle difficoltà: quando, per esempio, il tempo scarseggi a causa di un lavoro particolarmente assorbente, per chi è studente, per l’approssimarsi degli esami… Dio premia questo sforzo con nuove luci e Grazie. Altre volte le difficoltà sono interiori: pigrizia, superbia, scoraggiamento perché le cose vanno male, perché non si è riusciti a compiere quanto ci si era proposto.
E’ il momento in cui abbiamo maggior bisogno di una chiacchierata fraterna, o di una Confessione, dalla quale usciremo con più speranza e allegria, con una spinta nuova ad andare avanti nella lotta. Un quadro è fatto di pennellate e pennellate, e una corda robusta è un intreccio di molti fili: è nella continuità della direzione spirituale, settimana dopo settimana, che l’anima si va forgiando; a poco a poco, attraverso sconfitte e vittorie, lo Spirito Santo costruisce l’edificio della santità.
2) Accanto alla costanza, è imprescindibile la sincerità; cominciamo sempre col dire la cosa più importante, che forse è proprio quella che ci costa di più manifestare; questo è essenziale sia agli inizi sia per perseverare. I frutti possono farsi attendere proprio per non aver dato fin da subito una chiara immagine di quel che ci succede, di come siamo realmente; oppure per esserci soffermati su cose e fatti meramente accidentali, di contorno, non giungendo alla sostanza. Sincerità senza finzioni, esagerazioni o mezze verità: nel concreto, nel particolare, con delicatezza, quando sia necessario, chiamando i nostri errori, i difetti del carattere, col loro nome, senza volerli mascherare con eufemismi o palliativi: perché? Come? Quando?… circostanze che caratterizzano con più efficacia lo stato dell’anima.
3) Un’altra condizione perché la direzione spirituale dia frutto è la docilità. Furono docili quei lebbrosi che, come se fossero già stati mondati, andarono a presentarsi ai sacerdoti come Gesù aveva loro ordinato; furono docili gli apostoli quando il Signore disse loro da far sedere la folla che lo seguiva e dar loro da mangiare, nonostante che essi, avendo già fatto i calcoli, sapessero bene che le provviste raccolte erano del tutto insufficienti.
Pietro è docile quando getta le reti pur avendo più volte sperimentato che in quel luogo non c’erano pesci, e l’ora non era opportuna. San Paolo si lascerà guidare; la sua personalità forte, emersa in vari modi e in tante occasioni, gli serve ora per essere docile. Prima i suoi compagni di viaggio lo portarono a Damasco, poi Ananìa gli renderà la vista, ed eccolo divenuto un uomo capace di sostenere le battaglie del Signore.
Non potrà essere docile chi insiste a essere cocciuto, ostinato, incapace di accogliere un’idea diversa da quella che ha già o che gli detta l’esperienza. Il superbo è incapace di essere docile perché, per imparare e consentire che ci aiutino, è necessario che siamo convinti della nostra pochezza e indigenza in tanti aspetti della nostra vita spirituale. Rivolgiamoci alla Santissima Maria per essere costanti nel farci dirigere, sinceri, aprendo il cuore veramente, e docili, come « la creta in mano al vasaio ».

 

Publié dans:TEOLOGIA |on 8 janvier, 2019 |Pas de commentaires »

PERCHÉ GESÙ DICE «CHI HA LASCIATO I FIGLI PER IL MIO NOME AVRÀ LA VITA ETERNA?

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PERCHÉ GESÙ DICE «CHI HA LASCIATO I FIGLI PER IL MIO NOME AVRÀ LA VITA ETERNA?

Una domanda su un celebre versetto del Vangelo di Matteo sulle condizioni per seguire Gesù. Risponde don Stefano Tarocchi, preside della Facoltà teologica dell’Italia Centrale.

Percorsi: SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA
Gesù con la Maddalena
18/09/2016 di Redazione Toscana Oggi

Gesù nel Vangelo dice: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna». Mi ha colpito il riferimento ai figli: è davvero possibile che Gesù chieda a un genitore di lasciare i figli per seguirlo? Come vanno interpretate quelle parole?
Lettera firmata

Il lettore fa riferimento alla versione di Matteo di un celebre detto evangelico che nella sua versione integrale va completato così: «Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: “Allora, chi può essere salvato?”. Gesù li guardò e disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”. Pietro gli rispose: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?”. E Gesù disse loro: “In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”» (Mt 19,23-29).
La stessa premessa si trova nel racconto parallelo del vangelo di Marco, che fra l’altro è la fonte anche del testo di Matteo (e di quello di Luca): «Pietro allora prese a dirgli: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”. Gesù gli rispose: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà”» (Mc 10,28-30). In Luca poi leggiamo: «Pietro allora disse: “Noi abbiamo lasciato i nostri beni e ti abbiamo seguito”. Ed egli rispose: “In verità io vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà”» (Lc 18,28-30).
Quest’insegnamento di Gesù che appartiene alla «triplice tradizione», che è alla base della formazione dei tre Vangeli sinottici, dice in sostanza la stessa cosa. Di fronte alla certezza che solo l’Onnipotenza divina rende possibile la salvezza che è impossibile all’uomo, la sequela totale dei discepoli avrà una ricompensa capace di moltiplicare per cento quanto è stato lasciato, e in aggiunta avrà la vita eterna.
Matteo è il più conciso: parla solo di «case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi»; Marco rimane negli stessi termini, precisando però che quest’azione di sequela si compie «per causa mia e per causa del Vangelo». Luca parla addirittura di «casa o moglie o fratelli o genitori o figli», e specifica: «per il regno di Dio».
Per completare il quadro, nei primi tre Vangeli troviamo anche un’altra versione dello stesso detto di Gesù. Nei soli Matteo e Luca leggiamo: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,37-38); «se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami [letteralmente «non odia»] suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Questo solo per accennare ad altri insegnamenti relativi al portare la croce: non c’è spazio per affrontarli in questa occasione.
Tornando al problema posto dal lettore, si va oltre la singola questione dei figli: seguire il Cristo, con tutto quello che implica, comporta un nuovo modo di essere in cui ognuna delle relazioni più sacre, da quella filiale a quelle sponsale e genitoriale.
Gesù non comanda nessuna fuga ma semmai un amore ancora più grande di quelli umani, perfino riguardo la propria stessa vita, che pure sono parte della stessa creazione. San Benedetto nella sua Regola dirà: «Nulla anteporre all’amore di Cristo» (Regola 4,21).
Il discepolo del Vangelo sa quindi inquadrare ogni cosa in un ordine più grande: dovunque sia chiamato a vivere la sua adesione a Cristo, qualunque sia lo stato di vita del discepolo del Vangelo, il Cristo è avanti a tutto.
Non si tratta perciò di lasciare ma di trovare, «per causa del Cristo e per causa del Vangelo» (Marco), o «per il regno di Dio» (Luca). Chi è capace di lasciare «riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Matteo).

Stefano Tarocchi

L’EMBRIONE SECONDO SAN TOMMASO: IN QUALE MOMENTO IL CORPO UMANO «RICEVE» L’ANIMA?

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L’EMBRIONE SECONDO SAN TOMMASO: IN QUALE MOMENTO IL CORPO UMANO «RICEVE» L’ANIMA?

15/09/2010 di Archivio Notizie

Ho letto, in un dibattito sull’embrione e la pillola abortiva, che secondo San Tommaso il corpo umano verrebbe formato in fasi successive, e sarebbe pronto per ricevere l’anima non nell’istante del concepimento, ma intorno al 40° giorno successivo al concepimento. È veramente così? Mi sembrerebbe più logico che l’anima e il corpo nascessero insieme ma onestamente non so rispondere, chiedo lumi a voi.
Lettera firmata

Risponde padre Athos Turchi, docente di filosofia
La domanda della lettrice ha risposta in più opere di San Tommaso, ma in particolare in due: nella Somma teologica parte I, questioni 75-79; e nel De anima specialmente l’articolo 11. A queste rimando e qui ne riprendo quanto interessa.

Per comprendere il pensiero di Tommaso è necessario muoversi con categorie filosofiche aristoteliche e medioevali, qui sono fondamentali i concetti di potenza e di atto, che spiegheremo. Tommaso può dare adito a ritenere che vi sia una vera evoluzione nella nascita e nella crescita, cioè nello sviluppo dell’essere umano, perché quando espone concetti unitari, ma compositi, come quello dell’uomo, usa scrivere tutti i passaggi nel loro ordine «logico» e non materiale, e lì sembra che pensi quel concetto a settori e non in modo unitario. Ma non è così. Quei testi vanno intesi, perché Tommaso è un pensatore preciso.
L’uomo quando viene concepito, quindi fin dall’inizio, è forma perfettissima (Contra Gentes II c. 89 n. 11), è cioè corpo e anima in unità sostanziale, nella quale non manca nulla di quanto di essenziale deve esserci. Ma questo non vuol dire che non vi sia movimento, una evoluzione. Come ogni realtà materiale l’uomo passa dalla potenza all’atto, quindi quando viene concepito esso è si perfetto ma in maniera potenziale, l’embrione possiede occhi e mani in formazione, è evidente che non vede, ma non vuol dire che non abbia occhi. Michelangelo quando scolpiva una statua riteneva che tutta essa fosse già nel blocco di marmo, solo che andava liberata da ciò che l’avvolgeva. Questo significa passaggio dalla potenza all’atto. Senza poi l’anima che è forma sostanziale – Tommaso si premura di dire ciò continuamente – il corpo umano non potrebbe né formarsi, né vivere, né svilupparsi. Ora anche l’anima, che «informa» il corpo, non può agire senza che gli organi, con i quali opera, siano formati pienamente. L’anima umana in quanto intellettiva sintetizza in sé i tre livelli (da Tommaso detti «virtus») di vita: vegetale, sensibile, razionale. Così quando l’uomo nel suo concepimento unisce anima e corpo, l’anima influenzando il corpo si attiva immediatamente, ma non essendosi formati tutti gli organi atti a farla agire pienemante l’anima agisce su ciò che in quel momento le è proprio.
In questo senso Tommaso parla prima della virtus vegetativa dell’anima, che secondo i suoi tempi faceva vivere l’embrione, poi parlerà della virtus sensibile al momento che i sensi saranno formati, poi parlerà della virtus razionale dell’anima, quando tutto il corpo sarà perfetto. Si noti, l’anima nella sua virtus razionale opera «pienamente» solo quando l’uomo è capace di supportare l’azione della razionalità, e questa viene tardissimo in genere quando la persona si ritiene «adulta». Certo non si può dire che un ragazzo di 13 anni siccome non ha il pieno uso della ragione non sia un uomo. Non lo è pienamente (in «atto»), ma lo è in formazione (in «potenza»).
Similmente per tutto l’essere umano: esso è perfetto fin dall’inizio nella sua struttura essenziale (o in potenza), anche se poi tutte le sue virtus le esplicherà in fasi successive (le porterà in atto). Il bambino che corre evidentemente è il medesimo campione che da grande farà il record mondiale, ma fin da piccolo ha la «virtus» del correre anche se la attuerà perfettamente con un corpo pienamente formato. L’essere umano dunque eplicita gradualmente e in tempi diversi tutte le potenzialità del corpo e dell’anima nella loro piena unità, potenzialità che essendo già presenti nell’uomo, perché essenziali, lo costituiscono tale fin dalla sua prima origine. Tommaso che non aveva ai suoi tempi problemi scientifici come quello dell’evoluzione, può esporre tranquillamente il suo pensiero parlando dei vari gradi nei quali logicamente si esplicita il progresso umano dalla sua prima forma potenziale fino alla sua pienezza di adulto.
Il suo pensiero viene in genere stravolto da coloro che sostengono la teoria evoluzionista dove non c’è il passaggio dalla potenza all’atto, ma dal non-essere all’essere. Questo infatti permette di distinguere le fasi umane della vita non come evoluzione di un unico essere, ma come il passaggio da un essere a un altro. Infatti nell’evoluzione si vorrebbe dimostrare, per es., che da un’ameba si diventa girino, poi uccello, poi scimmia, poi uomo. E questo sarebbe l’evoluzione di millenni, ma proviamo a pensarla in tempi brevi, per es. in 20 anni, e si ha l’idea di cosa voglia dire il passaggio dal non-essere all’essere. Se invece l’evoluzione è potenziale, allora si ha lo sviluppo di un solo essere che passa dalla perfezione potenziale del piccolo, alla perfezione attuale dell’adulto. E questo è quanto pensa S. Tommaso.

Publié dans:TEOLOGIA, teologia - antropologia |on 2 juillet, 2018 |Pas de commentaires »

LA VOCE DI SAN GIOVANNI DAMASCENO CONTRO L’ICONOCLASTIA (mf 4 dicembre)

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LA VOCE DI SAN GIOVANNI DAMASCENO CONTRO L’ICONOCLASTIA (mf 4 dicembre)

(di Cristina Siccardi)

Il più importante difensore della figurazione cristiana è il Padre e Dottore della Chiesa san Giovanni Damasceno (ricordato nel calendario Vetus Ordo al 27 marzo e al 4 dicembre in quello nuovo). I suoi scritti sono da rinfrescare per controbattere la dominante neoiconoclastia delle chiese dissacranti di oggi, costruite su progetti di architetti atei a cui si rivolgono impunemente le committenze ecclesiastiche.
Il monaco Giovanni, chiamato Damasceno dalla sua città natale, Damasco, in Siria, fu l’autore di tre fondamentali Discorsi apologetici contro coloro che calunniavano le sante immagini. Nacque verso il 650 da una famiglia prestigiosa in un Paese conquistato da poco dai musulmani; suo padre, Sergio, ricopriva la carica di sovrintendente dell’amministrazione fiscale, riguardante i sudditi cristiani. Giovanni collaborò in quella mansione e probabilmente succedette al padre, fino a quando gli islamici iniziarono una più pesante politica anticristiana. Entrò allora nel monastero di San Saba, presso Gerusalemme, intorno al 700, dove rimase per circa 50 anni, fino alla morte, dedicandosi alle pratiche monastiche, alla predicazione e alla composizione di molte opere, dedicate a più discipline: filosofia, teologia, apologetica, polemica dottrinale, esegesi biblica, agiografia, encomiastica, omiletica, poesia religiosa. La sua opera più poderosa risulta essere La fonte della conoscenza, facente parte di un corpus di studi con il quale egli si presenta come il primo grande teologo sistematico, non solo del mondo greco-bizantino, ma di tutta la cristianità.
Gli iconoclasti lo vilipesero e lo condannarono anche dopo la sua scomparsa, ma i Padri del II Concilio di Nicea nel 787 lo inclusero ripetutamente fra gli eroici campioni della Fede. La lotta iconoclasta si sviluppò a fasi alterne e sotto alcuni imperatori, a cominciare da Leone III, salito al trono di Costantinopoli nel 717. Furono due donne (nella Chiesa non è mai esistito antagonismo fra uomini e donne, a dispetto del pensiero femminista penetrato nelle maglie teologiche rivoluzionarie, sia protestanti che cattoliche) ad imporre il ritorno al culto delle immagini, prima l’Imperatrice Irene, vedova di Leone IV, reggente per il figlio minorenne, poi l’Imperatrice Teodora, vedova di Teofilo, restauratrice delle immagini sacre proprio nel 787. Venne così ristabilito il culto delle immagini, che fu ufficialmente annunciato nell’843. Per celebrare l’avvenimento fu tenuta la «festa dell’Ortodossia» e da allora la Chiesa greca la ripete ogni anno nella prima domenica di Quaresima per rimarcare con gaudio la vittoria sull’eresia iconoclastica, con la quale si smascherarono i nemici di Cristo e della sua Chiesa.
Anche oggi esiste l’eresia aniconica, che priva la Chiesa della sua peculiare mansione catechetica attraverso le immagini. Chiese vuote, gelide, senz’anima, senza Fede vengono edificate non più per dare gloria a Nostro Signore, ma per glorificare architetti ed artisti che si autocelebrano con le loro opere. La Sainte-Chapelle di Parigi venne innalzata da un collegio di architetti e di artisti anonimi perché, nel Medioevo, non si cercava la propria fama, ma si offriva un servizio a Dio e alla Chiesa per la verità, il bene e la bellezza, alle quali potevano attingere le anime.
Paul Claudel si covertì nel 1886 entrando in Notre-Dame de Paris e ascoltando il Magnificat durante la Santa Messa di Natale. Chi mai oggi potrebbe convertirsi entrando in una chiesa delle archistar Fuksas, Piano, Botta… mentre vengono strimpellati canti dissacranti? Nella Chiesa ecumenica e mondana, infatti, non c’è spazio per le conversioni, ma per gli inchini alle religioni aniconiche: ebraica, islamica, protestante.
San Giovanni Damasceno sentì, ad un cero punto, l’impellente necessità di parlare, di denunciare, di chiarire:
«Se io considerassi la mia indegnità di cui sono profondamente consapevole, io dovrei mantenere sempre il silenzio, rivolgendo costantemente a Dio la confessione dei miei peccati. Ma, mentre ogni cosa è giusta nel proprio tempo [cfr Qo, 3, 1], dall’altra parte io vedo che la Chiesa, costruita da Dio sul fondamento degli apostoli e profeti essendone la pieta angolare Cristo suo Figlio [cfr Ef 2, 20], è sbattuta da una tempesta del mare, ed è turbata e sconvolta dalla pesantissima furia degli spiriti malvagi. È strappata la tunica di Cristo che i figli degli empi osano dividersi [cfr Gv 19, 23] e fra opposte dottrine è lacerato il corpo di lui, cioè il popolo di Dio e la tradizione della Chiesa da antico tempo fiorente. Ho pensato che non fosse giusto tacere e porre un nodo alla mia lingua, temendo appunto la minacciosa sentenza che afferma: Se si tirerà indietro, l’anima mia non si compiacerà di lui e se vedrai venire la spada e non avvertirai il tuo fratello, a te chiederò il suo sangue (Ez 33, 6-8). […] Infatti, io ho dato ascolto a Davide, padre di Dio, che dice: Parlerò dinanzi ai re e non ne arrossirò [Sal 119 (118), 46] e da questo come un pungolo sempre di più sono spinto a parlare» (Difesa delle immagini sacre, Città Nuova Editrice, Roma 1983, pp. 29-30).
Parole redivive per la neoiconoclastia che sempre più mostra, con l’andar del tempo, il suo rugoso, deturpato e perverso volto, un volto annoiato e annoiante, che allontana ogni giorno di più i fedeli dalle chiese e non solo da quelle moderne, interpreti della cosiddetta architettura brutalista, ma anche da quelle antiche e bellissime, dove le barbare clave iconoclaste hanno fatto spazio agli adeguamenti liturgici, sia architettonici, che pittorici, che scultorei, che musicali… perché le rivoluzioni invecchiano e necessitano autorivoluzioni per sopravvivere nella loro tragica evoluzione, a differenza della sempre giovane Tradizione, mantenuta tale grazie ai principi eterni, sempre nuovi, sempre freschi, sempre divinamente attraenti e incantevoli, innestati nelle armonie e nelle sinfonie di volumi e forme e colori e suoni ispirati da Dio a degne maestranze che si pongono al servizio del culto Suo. 

Publié dans:SANTI (mf), TEOLOGIA |on 4 décembre, 2017 |Pas de commentaires »

SI PUÒ SOSTITUIRE, NEL VANGELO, LA PAROLA «CARITÀ» CON «AMORE»? (anche Paolo)

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SI PUÒ SOSTITUIRE, NEL VANGELO, LA PAROLA «CARITÀ» CON «AMORE»? 

Questa settimana la domanda al teologo riguarda l’uso nel vangelo delle parole «carità» e «amore». Risponde don Stefano Tarocchi, Preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale,

E’ corretto sostituire, leggendo il Vangelo, la parola «carità» con la parola «amore»? Lo si può fare anche nel caso di una lettura inserita in un incontro di preghiera?
Matteo Corsi

La sostituzione, cui allude il lettore, in realtà è un problema di traduzione del termine greco sottostante: agàpe, che veniva normalmente reso in italiano con la parola «carità», ricalcando il latino charitas, ma può essere correttamente tradotto anche con il termine «amore».
Facciamo qualche esempio, tratti dall’apostolo Paolo, dove i due modelli di tradizione vengono affiancati: «la carità (agàpe) è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio» (1 Corinzi 13,4).
Nello stesso Paolo quando scrive ai Romani troviamo anche due traduzioni diverse in tre versetti: «Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso. La carità (agàpe) non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità» (Romani 13,8-10). O, di nuovo in Paolo, quando scrive al discepolo Timoteo, troviamo ancora: «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità (agàpe) e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore (agàpe), che sono in Cristo Gesù» (2 Timoteo 1,7-8.13).
Nelle lettere dell’apostolo Giovanni leggiamo: «noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Giovanni 4,16; cf. anche 4,18; 2 Giovanni 2,16). Si potrebbe meglio intendere: «noi che abbiamo creduto, e crediamo ora, abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha in noi».
Giovanni non vuole dare una definizione di Dio, come quando dice, ancora nella stessa lettera, che «Dio è luce e in lui non ci sono tenebre» (1 Giovanni 1,5). Vuole dire che Dio si è rivelato (ecco perché dice che egli è «luce»), e noi l’abbiamo conosciuto nell’amore che ci ha manifestato quando ha dato il suo Figlio. È ancora Giovanni ad annotare, nel suo Vangelo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (Giovanni 3,16)».
Il punto è che nella lingua greca esistono diverse parole che hanno a che fare con il concetto che noi abbiamo dell’amore: dall’amore dei genitori a quello dei figli, a quello degli amici; dall’amore fisico a quello totalmente gratuito dell’agàpe, fino a quello dei credenti fra loro: l’amore per i fratelli (filadelfìa) di Romani 12,10: «amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno».
Si potrebbe aggiungere anche l’amore di Dio per gli uomini, nella lingua greca filantropìa: «si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini» (Tito 3,4).
Anche in altre lettere troviamo (stavolta è Pietro a scrivere): «mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno (filadelfìa), all’amore fraterno la carità (agàpe)» (2 Pietro 1,5-7). E ancora: «conservate tra voi una carità fervente (agàpe), perché la carità copre una moltitudine di peccati» (1 Pietro 4,8).
Quindi, come si vede, la versione della CEI oscilla tra i diversi significati, cercando di ottenere uno stile più vario in lingua italiana. Non sempre questo corrisponde al testo originale.
Nella recente intervista rilasciata ad un giornale è lo stesso papa Francesco a dire che l’agàpe «è l’amore per gli altri, come il nostro Signore l’ha predicato. Non è proselitismo, è amore. Amore per il prossimo, lievito che serve al bene comune». All’intervistatore che aggiunge: «Gesù nella sua predicazione disse che l’agàpe, l’amore per gli altri, è il solo modo di amare Dio. Mi corregga se sbaglio», il papa conclude: «Non sbaglia. Il Figlio di Dio si è incarnato per infondere nell’anima degli uomini il sentimento della fratellanza. Tutti fratelli e tutti figli di Dio. Abba, come lui chiamava il Padre. Io vi traccio la via, diceva. Seguite me e troverete il Padre e sarete tutti suoi figli e lui si compiacerà in voi. L’agàpe, l’amore di ciascuno di noi verso tutti gli altri, dai più vicini fino ai più lontani, è appunto il solo modo che Gesù ci ha indicato per trovare la via della salvezza e delle Beatitudini».
In conclusione, vorrei dire al lettore che il problema non è tanto sostituire una parola con un’altra, magari per un capriccio, ma cercare di entrare nell’infinita ricchezza della Parola di Dio. Non è sempre facile tradurre adeguatamente le Scritture, e soprattutto renderne la complessità del linguaggio nelle lingue che parliamo tutti i giorni. Oltre a tutto, più una parola è usata, tanto più rischiosa è la sua interpretazione. E la parola «amore», con l’importanza che riveste nella nostra esistenza di uomini e donne, ma anche di credenti, è particolarmente al cuore di questo di questo rischio, soprattutto quando vogliamo comunicarla: non tanto per quello che intendiamo dire, ma per quello che i nostri ascoltatori afferrano.

Stefano Tarocchi

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PER UNA TEOLOGIA DELLA PACE

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=36

PER UNA TEOLOGIA DELLA PACE

sintesi della relazione di Armido Rizzi Verbania Pallanza, 10-11 gennaio 1987

Oggi siamo sempre più consapevoli della necessità e dell’urgenza di una cultura della pace, non perché la violenza si sia manifestata solo oggi ma perché la violenza ha raggiunto un eccesso tale da non poter più essere giustificata. La violenza sia della natura (catastrofi, inondazioni, carestie) sia quella prodotta dagli uomini ha sempre accompagnato la storia dell’umanità, ma sempre lo spirito umano è riuscito a darle almeno un senso parziale, in qualche modo a giustificarla. Oggi si sono verificati due avvenimenti in cui la violenza ha raggiunto una tale dimensione da non poter più essere giustificabile, anche parzialmente. Da una parte Hiroshima ci ha reso coscienti della possibilità della distruzione dell’intera umanità (il troppo quantitativo); dall’altra Auschwitz ci ha mostrato la violenza fine a se stessa, la violenza senza giustificazioni (il troppo qualitativo), la volontà pura di negazione dell’altro. La novità essenziale: la distruzione non scaturisce dal puro gioco di forze o dall’istinto belluino, ma dalla volontà umana. È la soggettività violenta. il cuore violento e le radici della violenza umana Il racconto biblico di Adamo, del giardino di Eden e della colpa originaria narra che l’uomo è nel mondo buono di Dio di cui può disporre (albero della vita) a condizione di accettare l’ordine di valori (albero della conoscenza del bene e del male), che Dio ha già inscritto nel mondo stesso. In questo testo viene narrato non il peccato accaduto una volta, ma l’essenza stessa del peccato. Nel testo ci sono due formule (la scienza del bene e del male e l’essere come Dio) che hanno reso possibili due letture. Nella prima lettura l’uomo viene tentato a mangiare il frutto dell’albero proibito, cioè a porre un atto in cui afferma sé come creatore di un nuovo ordine di valori: bene e male non sono già posti nelle cose e in me stesso, ma sono quelli che io produco disegnando e realizzando i miei progetti. L’uomo rifiuta di accettare che ci sia un orizzonte di bene e male con cui confrontarsi e da cui lasciarsi misurare, ma diventa egli stesso misura di tutto, creatore di valori. L’uomo può ad esempio disattendere all’imperativo del « non uccidere » e uccidere per affermare i propri progetti. Questa prima lettura dell’essenza del peccato originale, pur valida, è insoddisfacente, perché non presenta una vera appropriazione della scienza del bene e del male, ma solo una rimozione, un disattendere. Una seconda lettura esprime l’essenza del peccato originale nell’essere come Dio, proprio nell’appropriazione del principio del bene e del male. L’istanza di bene e di male non solo viene disattesa, ma viene assorbita dentro la volontà di potenza dell’uomo, dentro tutto ciò che l’uomo può desiderare e progettare. Il principio etico non viene cancellato o disatteso, ma diventa un momento, una componente della propria volontà di potenza. L’uomo non dice: non devo, ma posso; ma dice: posso ed è giusto che faccia così. Non solo faccio così (prima lettura), ma è giusto che faccia così, perché ne ho il diritto. Non solo il potere fare una cosa ma il diritto di poterla fare. È il soggetto di diritto. Il mio volere e potere viene a identificarsi con ciò che è giusto, è davvero l’appropriarsi della conoscenza del bene e del male, è il « sarete come Dio ». L’esperienza fondamentale del Dio della bibbia è quella del Dio giusto, la cui parola in quanto tale è bene, è giustizia, è verità. L’essenza del peccato è appropriarsi di questo Dio, è ingabbiarlo dentro di me, per cui sono io che decido quando è giusto e quando è ingiusto. Per lo più la violenza umana è sorretta, legittimata, giustificata dalla consapevolezza che è bene, giusto comportarsi in un certo modo. È il significato della favola del lupo e dell’agnello. Il lupo-uomo deve trovare una giustificazione per fare violenza e mangiare l’agnello. Non si limita a rendere lecito il suo atto, lo rende obbligatorio, un dovere a cui non può sottrarsi, un’offesa da lavare, un onore da riscattare. Lo sguardo del Dio giusto lo posso disattendere, senza cancellarlo. Il peccato originale è invece il far proprio lo sguardo di Dio. Lo sguardo che mi dice di non uccidere, di non ferire, di non intorbidare l’acqua, lo faccio diventare mio e lo rivolgo all’altro accusandolo di avere intorbidato l’acqua. Qui si costituisce la violenza propriamente umana, la violenza etica: il principio etico di trascendenza su di me diventa principio etico della mia trascendenza sugli altri, per cui di fronte agli altri e alle cose io sono soggetto di diritto. Gli altri diventano strumenti disponibili per i miei progetti, o, se non accettano di essere strumenti, nemici da abbattere. E quando non riesco ad esercitare effettivamente questo mio sapermi soggetto di diritto, mi ripiego nel vittimismo percependo il mondo come persecutore. Inoltre la gloria di Dio è il povero che vive. Il bisogno del povero, fragile, impotente, viene avvolto e sorretto dallo sguardo di Dio che ci dice che non ci appartiene e che ne siamo responsabili. Ora appropriarsi del bene e del male significa non solo espropriare Dio alla fonte, ma anche l’altro, ogni uomo in quanto povero. L’altro diventa un dato (occasione o ostacolo) dentro i miei progetti. Vivo l’altro come strumento o come nemico. Certamente anch’io, in quanto povero ed essere bisognoso, ho i miei diritti, « miei » in quanto anche in me è presente lo sguardo di Dio. Non è mio diritto come genitivo possessivo, ma è il diritto che mi avvolge. Abitualmente la favola del lupo e dell’agnello ha vigenza generale. Difficilmente uno opera per il proprio vantaggio confessando a sé e agli altri che lo fa per il proprio vantaggio. L’uomo moderno si è costituito sempre di più trasformando i diritti dell’uomo in diritti individuali, in « i miei diritti ». Questo vale anche a livello delle nazioni: la guerra giusta è sempre quella che faccio io, difendendo il mio diritto dall’ingiusto aggressore. Il gesto con cui Adamo si appropria della conoscenza del bene e del male è l’inizio della storia che noi conosciamo, una storia attraversata dalla duplice inimicizia, l’uomo che si fa nemico di Dio nell’atto in cui si fa nemico dell’altro uomo. La buona notizia, l’evangelo è che Dio riconcilia l’uomo a sé e riconcilia gli uomini tra loro. Dio rovescia il rovesciamento che l’uomo ha fatto del proprio essere. Gesù, pace di Dio con l’uomo e pace tra gli uomini

Il NT è la narrazione di quello che Dio ha fatto in Gesù per riconciliare l’uomo a sé e per ricostituire l’uomo nella sua capacità di essere con gli altri. In Gesù Dio riconcilia l’umanità a sé Innanzitutto Gesù è un essere paradossale in cui si uniscono i poli estremi della santità e del peccato. È insieme – risulta questo aspetto dalle lettere di Paolo – l’innocente, il santo, colui che non conosce il peccato ed è colui che è coinvolto come nessun altro nella vicenda di peccato dell’umanità. Ma non c’è simultaneità tra le due facce, ma una si alimenta dell’altra: Gesù è santo proprio perché condivide radicalmente la condizione umana, nella sua adesione radicale alla volontà di Dio. Mentre un certo monachesimo ha inteso la santità come fuga mundi, come una presa di distanza dal partecipare a un mondo di peccato, come progressivo distacco dal mondo per avvicinarsi a Dio, Gesù aderisce a Dio sprofondandosi, in obbedienza, nell’esistenza del mondo. Si siede a tavola con i peccatori e muore in croce, esprimendo così la massima adesione alla storia umana peccatrice e la massima distanza da Dio. Proprio nell’essere maledetto, nello sperimentare l’abbandono di Dio vive la massima adesione al Padre che gli chiede di fare così. La resurrezione non è l’ultimo gradino di una salita, ma è un ribaltamento: il maledetto diventa il benedetto. La ragione della scelta di Gesù è stata forse quella di rovesciare il soggetto di diritto, il soggetto padronale, l’uomo che si è appropriato del divino per autoaffemarsi riducendo tutto a strumento da usare o a ostacolo da abbattere. Gesù, in solidarietà con il mondo perduto, dice di sì a quello che il Padre gli chiede, restituendo al Padre la divinità. Come dice Paolo, Gesù è l’anti-Adamo. La scelta di Gesù di essere radicalmente obbediente alla volontà del Padre ci dice che ciò che si realizza attraverso di lui è il disegno di Dio sull’umanità. Dire che l’identità di Gesù è l’obbedienza radicale al Padre è dire in modo più evangelico il dogma di Calcedonia che Gesù è Dio, che Gesù è la mano tesa di Dio verso l’uomo perduto. La storia di Gesù è la storia di Dio sul mondo. Perché Dio per riconciliare a sé l’umanità non è ricorso ad un gesto di liberalità, ma ha richiesto la fedeltà che ha comportato la croce? Forse una riposta la troviamo nell’analogia con l’esperienza del rapporto tra perdono e pentimento. Il pentimento è espressione del disagio per il male fatto all’altro, ma, a differenza del rimorso, è anche offerta di riconciliazione, è già un rispondere alla offerta di perdono, un volere risarcire il male fatto recuperando il tempo perduto. Il perdono è causa del pentimento, non l’effetto. Il pentimento è cogliere l’offerta di perdono per ricostituire interamente l’amicizia. Il rapporto tra perdono e pentimento sul piano individuale mostra quello che è avvenuto sul piano universale nella storia di Gesù. Dio dona il perdono e Gesù è in seno all’umanità la coscienza penitente. Gesù è il grande penitente che prende su di sé il peccato del mondo, la maledizione, la croce perché è convinto che è giusto. L’umanità che il Padre ha riconciliato a sé in Gesù riceve ora da Dio, individualmente, il suo spirito, cioè la capacità di vivere come Gesù, non come soggetti di diritto, padroni del mondo, ma come obbedienza a Dio e al diritto del povero e quindi come solidarietà e giustizia. L’amore di Dio si è manifestato in questo, nell’aver amato l’uomo quando l’uomo era suo nemico. In Gesù è avvenuto il riavvicinamento dell’umanità a Dio, in modo tale che, qualunque cosa l’uomo faccia, l’ultima parola non sarà il no dell’uomo, ma il sì di Dio. Dio dona all’uomo un cuore di carne (Ezechiele), che Paolo chiama spirito: lo spirito è la soggettività di Dio che diventa soggettività dell’uomo, capacità di vivere la storia secondo la vocazione originaria. « beati i costruttori di pace »: evangelo e cultura di pace Tratti essenziali di un soggetto di pace. L’essere soggetti di pace non deriva ultimamente da fattori psichici, sociali, istintuali. Nell’ottica biblica l’uomo è libertà in quanto responsabilità. L’uomo non è, ma è chiamato a farsi di fronte alla scelta tra bene e male, tra vita e morte, tra essere per o essere contro, tra promuovere e uccidere. Credere in Gesù Cristo vuol dire credere che la storia umana è tenuta sempre aperta dal sì di Dio, dallo spirito di Dio, aperta verso la possibilità di un mondo di pace. Credere in Gesù Cristo è credere nell’uomo, non per le sue risorse psichiche o culturali ma per la presenza dello spirito del risorto che riapre continuamente la storia. Secondariamente il dono dello spirito, il cuore nuovo donatoci da Dio, non è una realtà già tutta compiuta. La nostra appartenenza di base è la storia peccatrice (qui è il senso del battesimo). Il cuore nuovo è un dono iniziale e insieme un compito, è il dono di un compito, è la conversione continua. Le strutture sociali (e questo è il compito di una cultura di pace) possono essere in sintonia con il cuore nuovo, ma non lo possono produrre. Il cuore nuovo, costruttore di pace, è sempre un atto di libertà Terzo. Il gesto fondatore del cuore costruttore di pace è un cuore che consente di lasciarsi pacificare dentro di sé, di accettare di spogliarsi del cuore padronale, del soggetto di diritti. Nel cuore padronale c’è la violenza originaria di chi già in cuor suo ha costituito l’altro come nemico e quindi come legittimamente aggredibile. Dobbiamo abbattere dentro di noi il gesto fondatore dell’altro come nemico. Può darsi che effettivamente l’altro sia nemico, ma ciò di cui dobbiamo spogliarci è il cuore padronale che non tiene conto di ciò che realmente l’altro è. Occorre rifarci uno sguardo capace di vedere le cose come sono. Quarto. Il superamento del cuore padronale e del cuore vittimista che arma la mano è quanto c’è di più arduo. Non si fa pace senza far penitenza. La croce fondamentale che dobbiamo portare sulle spalle è la rinuncia all’inflazionamento dell’io, riaprendo la strada dall’io all’altro. Quinto. Anche la non violenza va posta sotto il segno della responsabilità. Io sono chiamato a costruire positivamente la pace e per questo devo evitare il ricorso a strumenti violenti. Però devo farmi carico (Bonhoeffer) del male che c’è nel mondo arrivando a condividerlo anche nella forma della violenza, nel senso che la non violenza diventa la minor violenza possibile. Il cuore padronale fa violenza senza problemi, il cuore pacificato con la consapevolezza di essere partecipe del peccato del mondo. Sesto. Una cultura della pace integra il cuore pacificato. Dal centro della libertà buona si dilata la cultura della pace, dal primo cerchio dei rapporti interpersonali, al secondo dei rapporti sociali (con il superamento dello spirito corporativo), al terzo cerchio della politica sia statuale che internazionale. Ad ogni livello la cultura della pace ha problematiche specifiche. Settimo. La chiesa muove verso Gerusalemme, visione di pace. Compito della chiesa è quello di dire a tutti che il loro fine ultimo è quello di essere momenti della universale fraternità, che la volontà di pace di Dio nella storia è il fine ultimo della storia stessa.

Publié dans:TEOLOGIA, TEOLOGIA DELLA PACE |on 19 avril, 2016 |Pas de commentaires »

VERAMENTE TU SEI UN DIO NASCOSTO

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VERAMENTE TU SEI UN DIO NASCOSTO

Compito del teologo non è di aumentare il numero della affermazioni e delle conoscenze, ma saper negare, facendosi quasi garante dell’insufficienza di ogni ragionamento, di ogni esperienza, di ogni percezione. Occorre compiere un’opera di purificazione delle immagini divine. Dio è al di là di ogni immagine. Il silenzio conosce mille volti, può essere ignorante, ascetico, penitenziale, meravigliato, mortificante, amoroso, ambiguo. Nella teologia si possono distinguere tre forme principali: il silenzio che fa tacere su-Dio, forma privilegiata per non dire ciò che si vuole dire (Is 45,15: «In verità, tu sei il Dio nascosto»), il silenzio con-Dio, tensione della comunicazione orante (Sal 27,7: «Sta in silenzio davanti al Signore e spera in lui») e il silenzio di Dio, in cui egli si ritira e sembra abbandonarci (Sal 28,1: «Non restare in silenzio mio Dio»). Il primo fa dire “non so” e riguarda la conoscenza, il secondo fa dire “non riesco” e anima la preghiera, il terzo fa gridare “non ci sei!” e angoscia l’esistenza. I primi due possono perciò essere interpretati come santi, mentre il terzo è tenebroso e può frantumare la fede. Poiché ho già considerato il terzo in un precedente articolo (cf. Settimana 16 marzo 2003), vorrei qui soffermarmi sul primo, lasciando ad un eventuale approfondimento il secondo. Per silenzio intendo qui il limite conoscitivo, il Deus absconditus, tema dai molti aspetti che attraversa la storia del pensiero. I teologi danno a volte l’impressione di non amare molto il tema del silenzio, preferendo isolarlo oppure relegarlo nell’ambito della mistica e della spiritualità. La nostra cultura dà molta importanza alla parole, alle immagini e alle azioni, eppure ognuno di questi campi ha un suo limite. Chi non conosce la fatica di trovare le parole giuste, di interpretare e difendersi da un’immagine invadente, di produrre un’azione compiuta che raggiunga il suo scopo? Le parole, le immagini e le azioni, che non si vogliono certo sminuire, costituiscono, inoltre, un terreno di potenza. Se è vero che solo pochi uomini possono contare su un numero adeguato di vocaboli con cui sapersi esprimere, su una visione che catturi l’oggetto o su un patrimonio di gesti in grado di imporsi, il silenzio è la ricchezza di tutti. È sempre lì, disponibile, innocente, patrimonio del povero e dell’indigente. La tradizione apofatica Nei detti dei padri si racconta che alcuni monaci navigavano sul Nilo per andare a trovare il famoso padre del deserto Antonio. Un vecchio a loro sconosciuto li accompagnò nel loro viaggio. Questi monaci, per passare con profitto il tempo, cominciarono a predicare a turno, raccontandosi i detti dei santi ed edificandosi a vicenda con ammonimenti spirituali tratti dalla Scrittura. Il vecchio, invece, guardava l’acqua del fiume e restava in silenzio. Giunti a destinazione, il padre Antonio si rivolse al vecchio dicendogli se aveva avuto una buona compagnia durante il viaggio. Al che il vecchio finalmente aprì bocca e disse: «Sono buoni, sì, ma il loro cortile è senza cancello, chiunque può entrare nella stalla e portarsi via l’asino». E disse questo perché buttavano fuori tutto quello che veniva sulla loro lingua. In un’epoca contrassegnata dalle grandi dispute teologiche in Oriente con riflessioni cavillose (il bizantinismo) e dai grandi passaggi commerciali fra le due parti dell’impero, il monachesimo cristiano eleva a simbolo il deserto, l’immersione nel religioso silenzio, metodo di preghiera e scelta teologica. Il tema lo si trova spesso sulla bocca dei monaci. Barsanuffio ironizza contro la teologia verbosa, scrivendo: «A riguardo della parola, quando ti vedrai diventato quasi-teologo, sappi che il silenzio è più meraviglioso e più gioioso della teologia». Isacco il Siro consiglia invece: «Ama il silenzio più di tutto, poiché esso ti avvicina al frutto: la lingua infatti è impotente a spiegarlo. Prima di tutto, costringiamoci a tacere, e allora dal silenzio nasce in noi qualcosa che ci conduce al silenzio stesso. Dio ti conceda di percepire qualcosa di ciò che nasce dal silenzio. Se cominci con questo modo di agire, io non so dirti quale luce sorgerà in te da questo». Questa soluzione sta alla base di quella corrente teologica nota come apofatica – dal greco apóphemi, che vuol dire “negare” – ed è quindi nota anche come via negativa. Secondo questa teologia nessuna parola, nessuna immagine e nessun fare possono essere in grado di comprendere ed esprimere il divino. L’esito è il riconoscimento del silenzio come via perfetta per accostarsi al trascendente. In molti autori esso confluisce in un silenzio mistico che non è il vuoto assoluto, non sbarra ogni porta comunicativa, ma una via che apre spazi inesplorati. Se Dio è il silenzio è nel silenzio che lo si incontra. La corrente apofatica non può essere ridotta ad un unico paradigma. Presente già nella filosofia indiana delle Upanishad, essa attraversa la filosofia greca più arcaica per giungere al neoplatonismo plotiniano. In rapporto al mistero divino, il suo nucleo può essere trovato in un passaggio del Parmenide di Platone: «L’Uno né è uno né è» (141e). Ne consegue il fallimento di ogni percorso intellettivo, discorsivo, visivo. Il suo maggior esponente greco fu però Plotino († 270) che, pur presentandosi come un commentatore di Platone, compie un passaggio ulteriore sostenendo l’assoluta trascendenza dell’Uno, che è oltre l’essere stesso (me-ontologia). Per questo è inconoscibile e impronunciabile. Plotino si accorge della contraddizione perché, in effetti, sta parlando di ciò di cui dice che non si può parlare; riporta allora un’altra frase che percorrerà la corrente apofatica: «Diciamo ciò che non è e non ciò che è» (Enneadi, V, 3, 14). I padri cristiani hanno praticato una teologia positiva, partendo dall’assunto che l’absconditus è divenuto il revelatus in Cristo; tuttavia non dimenticano di sottolineare i limiti della conoscenza e dunque lo spazio da dare al silenzio. Ignazio di Antiochia, uno dei primi apologisti, nella Lettera ai Magnesi definisce il Cristo «la Parola uscita dal silenzio», precisando però nella lettera agli Efesini che «chi possiede il Cristo deve anche possedere il suo silenzio». La grande autocomunicazione che in Cristo si fa parola, non lascia quindi svanire la dimensione silente del mistero. C’è sempre un lato oscuro che impedisce di possedere completamente l’oggetto. Ragione e rivelazione hanno entrambe un limite invalicabile, una frontiera oltre la quale non possono andare. Efrem Siro denuncia «la stoltezza di chi si lambicca il cervello intorno a Dio». La linea apofatica dei padri si rafforza soprattutto in reazione all’ariano Eunomio che era addirittura giunto a sostenere: «Dio non conosce il proprio essere meglio di quanto lo conosciamo noi e la sua essenza non gli è più manifesta di quanto lo sia a noi». Giovanni Crisostomo risponde con dodici omelie cui dà il titolo Sulla incomprensibilità di Dio, ma sono i cappadoci ad opporsi a Eunomio, sostenendo l’inconoscibilità della natura divina e l’inadeguatezza di ogni discorso teologico. Rifacendosi all’episodio di Mosè sull’Oreb, Gregorio di Nissa dice che Dio può essere visto solo «di spalle» e quando è già passato oltre. La natura divina supera ogni presa del pensiero, comprenderla non è alla portata dell’uomo e un metodo per accedervi non è stato ancora trovato. Giovanni Damasceno si preoccupa di dire che questa inconoscibilità non significa che Dio non esista, ma perché l’essenza divina è al di sopra dell’essere e, dunque, al di sopra della conoscenza. Damasceno sposta il problema sul piano trinitario ricordando il fallimento delle immagini e afferma che ogni tentativo di voler rappresentare il mistero trinitario con delle figure costituisce un errore. Le tenebre luminose È quasi impossibile affrontare tali argomenti senza accennare all’Areopagita, protagonista esemplare e influente dell’anima silenziosa e contemplativa della teologia cristiana. Di lui si sa molto poco, alcuni lo identificavano con Dionigi membro dell’Areopago di cui parla At 17,34, altri con il primo vescovo di Parigi del III secolo, altri ancora con un monaco siriano del VI secolo. Quest’ultima ipotesi sembra la più verosimile anche perché le opere risalgono a questo periodo, ma il vero autore porta con sé il destino di quella teologia di cui si fa maggior interprete e resta contrassegnato dal nome anonimo di Pseudo-Dionigi. Dionigi distingue due teologie: catabatica, che procede per affermazioni, e apofatica che procede per negazioni. La prima ritiene il linguaggio capace di esprimere la verità divina e porta ad elaborare una serie di proposizioni dottrinali, la seconda ritiene invece che Dio è «in una divina oscurità», in «luoghi inaccessibili» che escludono la possibilità di dare nomi a Dio: nessun concetto umano può raffigurarlo e nessun termine è in grado di esprimerlo. L’unico processo autorizzato è la negazione, così sintetizzato nella Teologia mistica: Dio non è né materia né corpo, né figura né forma, né qualità né massa; né anima né intelligenza, né grandezza, né piccolezza, né uguaglianza, né ineguaglianza, né somiglianza, né dissomiglianza; non rimane immobile né si muove. La sua natura schiva ogni conoscenza, «nessuno la conosce quale è; sfugge a ogni ragionamento, a ogni sapere; non è né tenebra, né luce, né errore, né verità; di essa non si può assolutamente nulla affermare e nulla negare». Il ragionamento di Dionigi è apparentemente complicato, perché egli parte da una constatazione intuibile: il conoscere e il dire dell’uomo si fondano sull’esperienza di tutto ciò che esiste, ma Dio non è fra le cose che “esistono”, egli è oltre, per raggiungerlo bisogna superare tutte le esistenze e dunque riconoscere l’ignoto. Solo chi vive in uno stato totale di ignoranza (agnosìa) e dice di non sapere sa veramente, la trascendenza è assoluta ed è più facile intuire l’assenza che la presenza. Ancora nella Teologia mistica, Dionigi giunge a sostenere che Dio non-esiste, che è il Nulla, il non-essere: «Se capita che, vedendo Dio, si commenta ciò che si vede, è perché non si è visto Dio stesso, ma qualcuna di quelle cose conoscibili che a lui devono l’essere. Perché in sé egli sorpassa ogni intelligenza e ogni essenza». Trovandosi al di là di ogni affermazione o negazione, la teologia apofatica non è però in conflitto con la teologia catabatica, ha persino bisogno della seconda perché deve negare tutto ciò che essa afferma. Una teologia assolutamente negativa sarebbe, inoltre, una contraddizione, perché, se non si può affermare, non si può neanche negare, per cui le due teologie si sostengono. Tuttavia per Dionigi la via catafatica è imperfetta, mentre quella apofatica è più vicina alla verità. A questo scopo egli insiste sull’estrema limitatezza del linguaggio: «Ogni attributo può essere predicato di lui e tuttavia egli non è nessuno di essi». Il teologo apofatico deve semplicemente dire che «non sa». Dionigi parla del Dio cristiano e questa caratteristica lo allontana dai neoplatonici; ciononostante, anche la conoscenza della fede in Gesù Cristo, non dà all’uomo la possibilità di esaurire la conoscenza. La vera conclusione dell’itinerario è l’ingresso nel silenzio mistico. Il silenzio su-Dio diventa la porta del silenzio in-Dio e apre gli spazi della comunione. Non si può quindi sostenere che Dionigi sia un apofatico in senso radicale. Rimossi tutti gli schermi, il credente è pronto ad entrare nella tenebrosa luce della contemplazione e dell’adorazione.  Una corrente continua Può apparire strano, ma anche Tommaso d’Aquino, il più grande protagonista di una teologia positiva, non solo subisce l’influenza di Dionigi, ma tematizza l’Ignotus che fonda sull’inesauribilità della natura divina e sulla sproporzione tra il conoscente umano (finito) e il conosciuto divino (infinito). Lo conferma un suo leit motif che troviamo nel commento al primo capitolo della lettera ai Romani: «C’è una cosa riguardo a Dio che resterà a noi sconosciuta, quella di sapere ciò che Dio è». Lo dice anche nella Summa: «A proposito di Dio non possiamo sapere che cosa egli sia, ma che cosa non sia (De Dio scire non possumus quid sit, sed quid non sit». Ogni percorso è difettoso e per questo, secondo Tommaso, l’uomo ha bisogno della rivelazione, cioè che sia Dio stesso a comunicarsi. Tuttavia, anche seguendo questa via, non si raggiunge il possesso dell’oggetto. Conosciuta una cosa, rimane l’impegnativo compito di determinare che cosa sia e questo non ci è dato. Tommaso accoglie quindi il principio della teologia negativa che porta a confessare: «Noi non conosciamo l’essere divino in se stesso (Intellectus autem noster non potest ipsam Dei essentiam cognoscere secundum quod id est»). L’aquinate ridimensiona però l’apofatismo quando sostiene la plausibilità di una teologia affermativa che ci fa conoscere e parlare di Dio. Sostenere il contrario sarebbe stolto. Per farlo, oltre naturalmente alla rivelazione, valorizza il metodo analogico per cui la dissomiglianza è anche somiglianza che si raggiunge per via di eminenza. Tuttavia anche l’analogia, quando è correttamente intesa, comprende in sé il momento negativo e la conoscenza di Dio non è mai totalizzante. Tommaso valorizza una teologia del silenzio, scrivendo nel trattato su Boezio: «Dio si onora col silenzio non perché per niente si parli o si indaghi su di lui, ma perché prendiamo coscienza che rimaniamo sempre al di qua di una sua comprensione adeguata». Nella sua biografia si racconta l’episodio che, prossimo alla morte, avesse chiesto al segretario di bruciare tutte le sue opere perché non erano che «paglia» di fronte al mistero divino. Storia o leggenda, dimostra che l’atteggiamento apofatico non era assente nemmeno nel più grande rappresentante della scolastica. Il magistero ecclesiastico non è stato meno accorto. Il Lateranense IV (1215) parla di una dissomiglianza sempre maggiore della somiglianza (DS 806) e il Vaticano I, il concilio che, nella Dei Filius, ha insegnato che Dio può essere conosciuto mediante le cose create, relativizza persino la conoscenza che si può ottenere tramite la rivelazione: «I misteri divini, per loro intrinseca natura, sorpassano talmente l’intelligenza creata che, anche se trasmessi per divina rivelazione e ricevuti mediante la fede, rimangono avvolti nel velo della fede e avvolti in una caligine, fino a quando, in questa vita mortale, siamo in esilio, lontano dal Signore, camminiamo nella fede e non ancora in visione» (DS 3004). Intento conciliare è di porsi a metà strada tra i razionalisti che con Gioberti († 1852) sostenevano che Dio è il primum intellectum, immediatamente intuibile dalla ragione, e i fideisti che con Lammenais († 1854) affermavano invece l’unica via possibile della rivelazione. La Dei Verbum è su questa linea quando dice che la Bibbia non elimina l’aspetto incomunicabile di Dio che rimane il Deus absconditus anche nel libro sacro. Questo riproduce il mistero della condiscendenza divina per cui, pur restando in essa sempre intatta la verità e la santità di Dio, le sue parole «sono espresse con lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell’uomo, come già il Verbo dell’eterno Padre, avendo assunto le debolezze dell’umana natura, si fece simile all’uomo» (n. 13).  Mistero inesauribile Proviamo a tracciare alcune conseguenze pratiche di tutte queste considerazioni. Dire che Dio è mistero (da myein = chiudere la bocca), esprime una grande verità e porta a precisare la nostra posizione davanti a lui: «Sto in silenzio, non apro bocca perché sei tu che agisci» (Sal 39,10), «sta in silenzio davanti al Signore e spera in lui» (Sal 37,7). Su Dio non si può dire tutto, egli non dice tutto, la fede non cammina nell’evidenza, fa vedere ma «confusamente» (1Cor 13,12). Dio abita nel chiaroscuro, sta dentro e al tempo stesso fuori della storia, semina in essa le sue tracce, ma non si identifica con essa. È venuto, ma è oggetto di speranza, è il vicinissimo e l’altissimo, colui che si concede e che si allontana, il comunicatore e l’incomunicabile, il rivelato e lo sconosciuto, la parola e il silenzio. Non sarà mai possibile nutrire la pretesa di afferrarlo e, quando pensiamo di averlo fatto, ci sfugge. Assomiglia all’essere heideggeriano che si nasconde, svela, si ritira, rifugge e viene. Il Dio di Heidegger è più cristiano del Dio di Hegel. Non si tratta del mistero-ricatto con cui mortificare le obiezioni della ragione, ma un mistero che rispetta l’originalità della natura divina. A. Nesti nel suo libro il silenzio come altrove, cita questo bel testo di Giovanni il solitario che, ponendo in dialettica voce, parola e silenzio, prega con un senso di nostalgia: «Fino a quando sarò nel mondo della voce e non nel mondo della parola? perché quanto è visibile, è voce e con voce è detto, ma il mondo che non è visibile non è affatto voce, cosicché non è possibile che la voce dica il suo mistero? Fino a quando diverrò parola nella percezione delle cose nascoste? Quando sarò innalzato al silenzio vicino a ciò che non rendono presente voce e parola? Verso il silenzio tende infatti l’anima quando si sia spogliata di quanto è visibile e si sia mossa nelle cose nascoste e abbia meritato le rivelazioni, quelle su cui non è possibile alla natura dei suoi sensi produrre una parola di voce». La comunicazione teologica dovrebbe un poco tornare a riscoprire questa sua anima silenziosa, evocando l’impotenza, la fatica del cercare, la fragilità delle convinzioni, la necessità di fare insieme, collaborando anche con altri spazi conoscitivi. A volte diamo l’impressione di averlo dimenticato, si scrivono teologie solari, dimenticando che il Verbo splende tra le tenebre (Gv 1,5). Il compimento della parola cristologica, centro e vertice della rivelazione, non elimina la penombra, Gesù stesso ha vissuto il silenzio del Padre scendendo nell’abisso della croce. «È per questo – scrive Bruno Forte – che l’accoglienza della Parola è dinamismo, che deve continuamente trascendersi: se essa è ascolto del silenzio, da cui la Parola procede, in cui riposa e a cui rinvia, l’insondabile profondità di questo divino silenzio motiva l’inesauribile ricerca che attraverso il Verbo tende ad andare al di là del Verbo». Compito del teologo non è quello di aumentare a dismisura il numero della affermazioni e delle conoscenze, ma saper negare, facendosi quasi garante e custode dell’insufficienza di ogni ragionamento, di ogni esperienza, di ogni percezione. Egli diventa il guardiano del linguaggio, ridimensionando col silenzio tutti coloro che vogliono costruire una nuova torre dalla quale vantarsi di aver raggiunto l’indicibile. Di ciò si deve tenere conto anche nello sviluppo del dogma, nella consapevolezza che ogni suo progresso implica anche perdita. Ne è convinto Paul Evdokimov che scrive nel libro L’ortodossia: «Ogni affermazione umana è di per se stessa una negazione, perché non va mai fino in fondo, resta al di qua del pleroma; la sua fondamentale insufficienza la nega: «L’uomo non può vedermi e vivere» (Es 33,20) significa per san Gregorio Nisseno il pericolo mortale di limitare Dio con definizioni umane». Il non sapere viene anche imposto dalla tensione del tempo, tanto da poter affermare che è proprio la perdita della teologia del silenzio che ha fatto smarrire la spinta escatologica. Per la Scrittura, solo nell’eternità si vedrà Dio «così come egli è» (1Gv 3,2). Poiché il mistero attende il compimento, la conoscenza di Dio non è solo epifanica, in virtù di una rivelazione passata, ma è protesa in avanti, è promessa di un ad-ventus nel futurum. Dio resta, dunque, colui che viene, il sempre cercato e il mai posseduto. Un’altra conseguenza sarà quella di compiere un’opera di purificazione delle immagini divine. Non comprenderlo genera l’idolo, l’intolleranza, il fanatismo, le visione totalitarie, ma porta anche ad evitare la staticità, a moderare le visioni messianiche e gli ottimismi degli idealisti della storia. Una fede senza forze contrarie è più prossima all’illusione che alla verità. Non si tratta di distinguere immagini buone e immagini cattive, vera e falsa rappresentazione, ma dire che Dio è al di là di ogni immagine e che tutte le affermazioni su di lui possono essere deformanti e sono criticabili. Chiunque si lega in maniera unilaterale a un nome, una definizione, per quanto possano apparirgli buone e meritevoli, rischia di diventare o è un idolatra, perché si piega dinanzi a un Dio che si è creato da solo, nella profondità dei suoi pensieri e con l’arte delle sue parole. Le immagini sono importanti per superare l’astrazione, la rivelazione ci aiuta a fare discernimento (molto si dovrebbe dire sull’immagine dell’amore) ma si deve restare consapevoli che si tratta solo di strumenti. Chiedersi sempre: forse Dio non è come lo si pensa. «Cerchiamolo per trovarlo – scrive sant’Agostino –, cerchiamolo dopo averlo trovato. Che lo si cerchi per trovarlo, significa che è nascosto, che lo si cerchi dopo che lo si è trovato significa che è infinito [...] egli sazia chi lo cerca nella misura in cui lo comprende, e rende più capace chi lo trova perché cerchi ancora di essere ricolmato quando abbia incominciato a comprendere di più». Rivolto al popolo Mosè disse: «Fa’ silenzio e ascolta, Israele!» (Dt 27,9).

(Teologo Borèl) Novembre 2006 – autore: Giovanni Tangorra

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