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7 DICEMBRE: SANT’AMBROGIO, VESCOVO DI MILANO (340-397) – CRISTO PER NOI E’ TUTTO

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7 DICEMBRE: SANT’AMBROGIO, VESCOVO DI MILANO (340-397) – CRISTO PER NOI E’ TUTTO

Milano 374. In una delle chiese della città, gremita fino all’inverosimile, presbiteri e laici, vecchi e giovani, cattolici e ariani stavano discutendo animatamente sul nome del successore del vescovo Assenzio (ariano) morto di recente. Era un po’ di tempo ormai che le due fazioni si affrontavano animatamente anche per le strade, con qualche pericolo per l’ordine pubblico. Non si poteva far finta di niente.
E infatti Ambrogio, il governatore (della Lombardia, Liguria ed Emilia, con sede appunto a Milano) si recò in quella chiesa per calmare gli animi e per incoraggiare il popolo a fare la scelta del nuovo vescovo in un clima di dialogo, di pace e di rispetto reciproco. Il popolo accolse le sue esortazioni, anche perché era un governatore imparziale, stimato e ben voluto dalla popolazione essendosi dedicato sempre al bene di tutti. La sua missione di funzionario pubblico sembrava compiuta e con successo, quando accadde l’imprevisto che gli cambierà completamente la vita.
Qualcuno dalla folla, sembra un bambino, gridò forte: “Ambrogio vescovo” e l’intera assemblea, cattolici e ariani, vecchi e giovani, presbiteri e laici, quasi folgorati da quel grido (era un’ispirazione dall’alto?) ripeterono a loro volta “Ambrogio vescovo”. Non si diceva già allora “Vox populi, vox Dei”?.
A furor di popolo, ecco trovata la soluzione allo spinoso problema. Tutti d’accordo sul nuovo vescovo: il loro governatore, anche se era un semplice catecumeno e per giunta senza ambizioni ecclesiastiche. E l’interessato? Per la verità non era proprio entusiasta. Proprio lui ancora semplice catecumeno e per di più a completo digiuno di teologia (quindi senza un’adeguata preparazione ad essere vescovo)? Sembrava tutto assurdo.
Si appellò a Valentiniano protestando la propria inadeguatezza all’incarico “datogli” dal popolo. Non trovò una sponda favorevole nell’imperatore: anzi questi gli disse che si sentiva lui stesso lusingato per aver scelto un governatore “politico” (Ambrogio) che era stato ritenuto degno persino di svolgere l’ufficio episcopale (anche perché allora il vescovo di Milano aveva una specie di giurisdizione su quasi tutto il Nord Italia, quindi era un incarico molto prestigioso).
Ed Ambrogio accettò. Fu così che nel giro di una settimana venne battezzato e poi consacrato vescovo, il 7 dicembre del 374. Cominciava così per lui una seconda vita.
Un vescovo tutto per Dio e tutto per il popolo
Ambrogio era nato a Treviri, in Germania, da una nobile famiglia romana della Gens Aurelia. Suo padre era governatore delle Gallie, quindi un importante funzionario imperiale. Quando questi improvvisamente morì, Ambrogio con la sorella Marcellina (Santa) e la madre ritornarono a Roma. Qui continuò gli studi, imparò il greco e divenne un buon poeta e un oratore. Proseguì poi gli studi per la carriera legale ottenendo molti successi in questo campo come avvocato, finché l’imperatore Valentiniano lo nominò nel 370 governatore, con residenza a Milano. Una carriera impressionante.
Ambrogio fece il governatore solo quattro anni, ma la sua opera fu molto incisiva.
Era un uomo al di sopra delle parti e dei partiti, aveva costantemente l’occhio rivolto al bene di tutta la popolazione, non escludendo nessuno specialmente i poveri. Questo atteggiamento gli guadagnò non solo la stima ma addirittura l’affetto sincero di tutta la popolazione, senza distinzione. Possiamo dire che fece così bene il governatore che il Popolo di Dio (con l’imperatore e il Vescovo di Roma Papa Damaso) lo ritennero degno di fare il vescovo. E la “promozione” non era da poco.
Fatto vescovo, decise di rompere ogni legame con la vita precedente: donò infatti le sue ricchezze ai poveri, le sue terre e altre proprietà alla Chiesa, tenendo per sé solo una piccola parte per provvedere alla sorella Marcellina, che anni prima si era consacrata Vergine nella Basilica di San Pietro durante una solenne liturgia di Natale, presente il Papa Liberio. Ambrogio ebbe sempre una grande stima per la madre, per la sorella e per la decisione presa da lei.
Consapevole della sua impreparazione culturale in campo teologico, si diede allo studio della Scrittura e alle opere dei Padri della Chiesa, in particolare Origene, Atanasio e Basilio. La sua vita era frugale e semplice, le sue giornate dense di incontri con la gente, di studio e di preghiera. Ambrogio studiava e poi faceva sostanza della sua preghiera ciò che aveva studiato, quindi, dopo aver pregato, scriveva e quindi predicava. Questo era il suo modo di porgere la Parola di Dio al popolo. Lo stesso Agostino d’Ippona ne rimase affascinato tanto da sceglierlo come maestro nella fede, proprio perché con il suo modo di fare e di predicare aveva contribuito alla sua conversione (insieme alla madre Monica, e naturalmente allo Spirito Santo).
Ogni giorno diceva la Messa per i suoi fedeli dedicandosi poi al loro servizio per ascoltarli, per consigliarli e per difenderli contro i soprusi dei ricchi. Tutti potevano parlargli in qualsiasi momento. Ed è anche per questo che il popolo non solo lo ammirava ma lo amava sinceramente.
È rimasto famoso il suo comportamento quando alcuni soldati nordici avevano sequestrato, in una delle loro razzie, uomini donne e bambini. Ambrogio non esitò a fondere i vasi sacri della chiesa per pagare il loro riscatto. E a coloro (gli ariani) che ebbero il coraggio di criticarlo per l’operato rispose:
“Se la Chiesa ha dell’oro non è per custodirlo, ma per donarlo a chi ne ha bisogno… Meglio conservare i calici vivi delle anime che quelli di metallo”.
“Dove c’è Pietro, c’è la Chiesa”
La Chiesa del tempo di Ambrogio attraversava una grave turbolenza dottrinale: la presenza cioè dell’eresia ariana, originata e predicata da Ario. Questi negava la divinità di Cristo e la sua consustanzialità col Padre, affermando che anche lui era una semplice creatura, scelta da Dio come strumento di salvezza. Come si vede un’eresia dirompente e devastante per la cristianità, che minacciava il centro stesso del Cristianesimo: Gesù Cristo, e questi Figlio di Dio.
Purtroppo ebbe molti seguaci anche nei ranghi alti delle autorità e cioè imperatori e imperatrici, governatori, ufficiali dell’esercito romano che la sostennero con il loro peso politico e militare. Ambrogio conosceva il problema già da governatore, ma dovette affrontarlo specialmente da vescovo di Milano scontrandosi addirittura con la più alta autorità: quella imperiale.
Nel 386 fu approvata una legge che autorizzava le assemblee religiose degli ariani e il possesso delle chiese, ma in realtà bandiva quelle dei cristiani cattolici. Pena di morte a chi non obbediva.
Ambrogio incurante della legge e delle conseguenze personali, si rifiutò di consegnare agli ariani anche una sola chiesa. Arrivarono le minacce contro di lui. Allora il popolo, temendo per il proprio vescovo, si barricò nella basilica insieme con lui. Le truppe imperiali circondarono e assediarono la chiesa, decisi a farli morire di fame. Ambrogio, per occupare il tempo, insegnò ai suoi fedeli salmi e cantici composti da lui stesso e raccontò al popolo tutto ciò che era accaduto tra lui e l’imperatore Valentiniano, riassumendo il tutto con la famosa frase: “L’imperatore è nella Chiesa, non sopra la Chiesa”.
Nel frattempo Teodosio il Grande, imperatore d’Oriente, dopo aver sconfitto e giustiziato l’usurpatore Massimo che aveva invaso l’Italia, reintegrò Valentiniano (facendogli abbandonare l’arianesimo) e si fermò per un po’ di tempo a Milano.
La riconoscenza di Ambrogio all’imperatore tuttavia non gli impedì di affrontarlo in ben due occasioni, quando ritenne che il suo comportamento era riprovevole e condannabile pubblicamente. Fu specialmente dopo l’infame massacro di Tessalonica del 390, in cui morirono più di settemila persone, tra cui molte donne e bambini, in rivolta per la morte del governatore. Furono uccisi tutti senza distinzione di innocenti e colpevoli.
Ambrogio, inorridito per l’accaduto, insieme ai suoi collaboratori ritenne responsabile pubblicamente Teodosio stesso, invitandolo a pentirsi. Alla fine l’imperatore cedette e piegò la testa. Questo spiega la grande autorità morale di cui godeva il vescovo. Teodosio morì tre anni dopo e lui stesso ne fece un sincero elogio lodandone l’umiltà e il coraggio di ammettere le proprie colpe, additandone l’esempio anche agli inferiori.
Ambrogio non solo fu un baluardo a difesa della fede cattolica contro l’eresia ariana, ma si adoperò a difendere anche il Vescovo di Roma, Papa Damaso contro l’antipapa Ursino. Egli così riconosceva la funzione ed il primato del Vescovo della Città Eterna (in quanto successore di Pietro) come centro e segno di unità per tutti i cristiani.
È a lui che si deve la famosa frase che recita: “Ubi Petrus, ibi Ecclesia” (Dove c’è Pietro, lì c’è la Chiesa), e l’altra: “In omnibus cupio sequi Ecclesiam Romanam” e cioè “In tutto voglio seguire la Chiesa Romana” quasi un’attestazione del primato della Chiesa di Roma, sul quale la discussione andrà avanti per secoli e, come si sa, non è ancora finita.
Per i suoi molteplici scritti teologici e scritturistici è uno dei quattro grandi dottori della Chiesa d’Occidente, insieme a Gerolamo, Agostino e Gregorio Magno.
Nella Lettera apostolica Operosam Diem (1996) per il centenario della morte di Ambrogio, Giovanni Paolo II, di venerata memoria, ha messo in risalto due importanti aspetti del suo insegnamento: il convinto cristo-centrismo e la sua originale Mariologia.
Ambrogio viene considerato l’iniziatore della Mariologia latina. Giovanni Paolo II (in Operosam diem, n. 31):
“Di Maria Ambrogio è stato il teologo raffinato e il cantore inesausto. Egli ne offre un ritratto attento, affettuoso, particolareggiato, tratteggiandone le virtù morali, la vita interiore, l’assiduità al lavoro e alla preghiera
Pur nella sobrietà dello stile, traspare la sua calda devozione alla Vergine, Madre di Cristo, immagine della Chiesa e modello di vita per i cristiani. Contemplandola nel giubilo del Magnificat, il santo vescovo di Milano esclama: “Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria a esultare in Dio”.
Del suo cristo-centrismo così ha scritto Giovanni Paolo II:
“Al centro della sua vita, sta Cristo, ricercato e amato con intenso trasporto. A Lui, tornava continuamente nel suo insegnamento. Su Cristo si modellava pure la carità che proponeva ai fedeli e che testimoniava di persona… Del mistero dell’Incarnazione e della Redenzione, Ambrogio parla con l’ardore di chi è stato letteralmente afferrato da Cristo e tutto vede nella sua luce”.
Questo suo pensiero centrale può essere sintetizzato nella famosa frase del De Virginitate “Cristo per noi è tutto”.
Ambrogio visse e operò totalmente e incessantemente tutto per Cristo e tutto per la Sua Chiesa. Il suo amore a Cristo era inscindibile dal suo amore alla Chiesa. Operare per far crescere l’amore a Cristo significava per lui lavorare, soffrire, studiare, predicare, piangere, rischiare la vita davanti ai potenti del tempo per la Chiesa, popolo di Dio, perché Ambrogio era profondamente convinto che “Fulget Ecclesia non suo, sed Christi lumine” (La Chiesa risplende non di luce propria ma di quella di Cristo), senza dimenticare mai che “Corpus Christi Ecclesia est”, (Il Corpo di Cristo è la sua Chiesa), quindi i fedeli possono benissimo dire tutti: “Nos unum corpus Christi sumus”.
E per questi fedeli, che sono la Chiesa, che è il corpo di Cristo, e per amore di Cristo presente nella Sua Chiesa, Ambrogio vescovo lavorò, studiò, rischiò la vita, pianse, pregò, predicò, viaggiò e scrisse libri fino alla fine. Questa arrivò, per la verità non inaspettata, il 4 aprile, all’alba del Sabato Santo quando correva l’anno 397.
MARIO SCUDU sdb ***

Cristo per noi è tutto
Se vuoi curare le ferite, Egli è il medico.
Se sei riarso dalla febbre,
Egli è la fontana.
Se sei oppresso dal peccato,
Egli è la santità.
Se hai bisogno di aiuto, Egli è la forza.
Se temi la morte, Egli è la vita.
Se desideri il cielo, Egli è la via.
Se fuggi le tenebre, Egli è la luce.
Se cerchi il cibo, Egli è l’alimento.
Noi ti seguiamo, Signore Gesù,
ma tu chiamaci perché ti seguiamo.
Senza di te nessuno potrà salire.
Tu sei la via, la verità, la vita, il premio.
Accogli i tuoi, sei la via.
Confermali, sei la verità.
Vivificali, sei la vita.
De Virginitate 16,99

4 DICEMBRE – SAN GIOVANNI DAMASCENO – Tu mi hai chiamato, Signore, a servire i tuoi discepoli

https://www.maranatha.it/Feriale/santiProprio/1204Page.htm

4 DICEMBRE – SAN GIOVANNI DAMASCENO – Tu mi hai chiamato, Signore, a servire i tuoi discepoli

Dalla «Dichiarazione di fede» di san Giovanni Damasceno, sacerdote.
Tu, Signore, mi hai tratto dai fianchi di mio padre; tu mi hai formato nel grembo di mia madre; tu mi hai portato alla luce, nudo bambino, perché le leggi della nostra natura obbediscono costantemente ai tuoi precetti. Tu hai preparato con la benedizione dello Spirito Santo la mia creazione e la mia esistenza, non secondo volontà d’uomo o desiderio della carne, ma secondo la tua ineffabile grazia. Hai preparato la mia nascita con una preparazione che trascende le leggi della nostra natura, mi hai tratto alla luce adottandomi come figlio, mi hai iscritto fra i discepoli della tua Chiesa Santa e immacolata.
Tu mi hai nutrito di latte spirituale, del latte delle tue divine parole. Mi hai sostentato con il solido cibo del Corpo di Gesù Cristo nostro Dio, Unigenito tuo santissimo, e mi hai inebriato con il calice divino del suo Sangue vivificante, che egli ha effuso per la salvezza di tutto il mondo.
Tutto questo, Signore, perché ci hai amati e hai scelto come vittima, in vece nostra, il tuo diletto Figlio unigenito per la nostra redenzione, ed egli accettò spontaneamente; senza resistere, anzi come uno che era destinato al sacrificio, quale agnello innocente si avviò alla morte da se stesso, perché, essendo Dio, si fece uomo e si sottomise, di propria volontà, facendosi «obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fi12, 8).
E così, o Cristo mio Dio, tu hai umiliato te stesso per prendere sulle tue spalle me, pecorella smarrita, e farmi pascolare in pascolo verdeggiante e nutrirmi con le acque della retta dottrina per mezzo dei tuoi pastori, i quali, nutriti da te, han poi potuto pascere il tuo gregge eletto e nobile.
Ora, o Signore, tu mi hai chiamato per mezzo del tuo sacerdozio a servire i tuoi discepoli. Non so con quale disegno tu abbia fatto questo; tu solo lo sai. Tuttavia, Signore, alleggerisci il pesante fardello dei miei peccati, con i quali ho gravemente mancato; monda la mia mente e il mio cuore; guidami per la retta via come una lampada luminosa; dammi una parola franca quando apro la bocca; donami una lingua chiara e spedita per mezzo della lingua di fuoco del tuo Spirito e la tua presenza sempre mi assista.
Pascimi, o Signore, e pasci tu con me gli altri, perché il mio cuore non mi pieghi né a destra né a sinistra, ma il tuo Spirito buono mi indirizzi sulla retta via; perché le mie azioni siano secondo la tua volontà e lo siano veramente fino all’ultimo.
Tu poi, o nobile vertice di perfetta purità, nobilissima assemblea della Chiesa, che attendi aiuto da Dio; tu in cui abita Dio, accogli da noi la dottrina della fede immune da errore; con essa si rafforzi la Chiesa, come ci fu trasmesso dai Padri.

sacerdote e dottore della Chiesa (650-753)

IL PADRE NOSTRO E LA PREGHIERA NELL’ESEGESI DI SAN CIPRIANO

http://www.oodegr.com/tradizione/tradizione_index/insegnamenti/padrenostroesegesisancipriano.htm

IL PADRE NOSTRO E LA PREGHIERA NELL’ESEGESI DI SAN CIPRIANO

Innocenzo monaco

Inserendosi nella tradizione, già seguita da Tertulliano, Cipriano vede nel «Padre nostro» la sintesi (“breviario”) dell’intero evangelo. Come tale il «Padre nostro» è l’espressione del sacrificio più grande e più gradito a Dio che la comunità cristiana possa presentare: l’unità, l’amore e la pace, vissuti nella comunione con la chiesa. Il «Padre nostro» viene così a definirsi: come preghiera di pace offerta e ricevuta, che precede e supera ogni altro gesto cultuale e come preghiera del cuore, che fa del cristiano stesso un luogo di preghiera ovunque egli si trovi. Il «Padre nostro» rivela inoltre che la preghiera è “spirituale”, perché dettata dallo Spirito, dono pasquale del Risorto. Finalmente la preghiera dei “santi” del Nuovo Testamento è una preghiera feconda e continua, identificata con la vita.
. Il “breviario” dell’Evangelo
Il capitolo sesto dell’Evangelo di Matteo era già per Tertulliano il punto di partenza obbligato di ogni preghiera cristiana. Analizzando le indicazioni offerte da Matteo, Tertulliano aveva concluso: La preghiera cristiana è anzitutto una preghiera fatta nel segreto del cuore[1] ed espressa con la massima semplicità, perché «non possiamo illuderci di essere ascoltati dal Signore per la forza delle parole»[2]. Il nuovo modo di pregare, insegnato dal Signore stesso ai discepoli desiderosi di imparare, trova nel «Padre nostro» – aggiungeva Tertulliano – la sua forma più piena ed esemplare[3]. Il «Padre nostro» è la preghiera “simpliciter”, cioè è la definizione stessa della preghiera cristiana. Esso contiene infatti praticamente «ogni parola del Signore» fino al punto da poter essere definito «sintesi (breviarium) dell’intero evangelo»[4]. Il «Padre nostro» – concludeva Tertulliano – va ritenuto dunque il «fondamento stesso di qualsiasi altra richiesta o desiderio»[5].
Cipriano si pone nella linea della stessa tradizione, anche per lui il «Padre nostro» è la preghiera cristiana per eccellenza e la forma di preghiera in cui il Signore «sintetizzò (breviavit) in un’unica parola di salvezza ogni nostra possibile preghiera»[6]. Ed aggiunge: Gesù ha voluto riassumere ogni preghiera possibile nel «Padre nostro» per fare con la preghiera ciò che aveva già fatto con le prescrizioni della legge quando «sintetizzò tutti i suoi comandamenti» nel precetto della carità[7]. Ciò che preme al Signore è permettere – spiega Cipriano – che tutti, dotti ed ignoranti, uomini e donne, grandi e piccoli, possano ascoltare e ricevere la parola che salva[8]. Il cristianesimo non è per una élite, non è per degli iniziati che abbiano già raggiunto un supposto livello di maturità socio-culturale o spirituale, ma è semplicemente per tutti. Ogni tentativo perciò di separazione, sotto qualsivoglia forma si presenti, deve essere tagliato alla radice, perché la disponibilità alla comunione con tutti è il presupposto indispensabile alla possibilità stessa della preghiera cristiana.
2. Il sacrificio più grande
Il messaggio cristiano è un messaggio di unità, di amore e di pace. Chi rompe quindi l’unità, l’amore e la pace, si taglia fuori dalla comunità dei figli di Dio, va contro il comando del Signore e rende perciò vana e inutile ogni sua preghiera ed ogni sacrificio:
«Dio ci domanda di stare nella sua casa con pace, concordia e unanimità; vuole che proseguiamo ad essere ciò che Lui fece di noi nella seconda nascita (battesimale). Perciò, dal momento che abbiamo cominciato ad essere figli di Dio, restiamo nella pace di Dio e, dal momento che è uno solo il nostro spirito, sia unica l’anima, unico il sentimento. D’altra parte Dio non accoglie il sacrificio di un uomo discorde e comanda di ritornare prima a riconciliarsi con il fratello[9], perché Dio possa essere placato da preghiere di pace»[10].
Cipriano crede di poter capire dalla semplice espressione “Padre nostro” che la realizzazione dell’unità nell’amore e nella pace è messa dal Signore al di sopra di ogni altra manifestazione cultuale. Il cristiano è stato chiamato all’unità con la seconda nascita avvenuta nel battesimo. Non vivere l’unità significherebbe vanificare la grazia battesimale e andare quindi contro l’espresso comando del Signore. Il vero culto cristiano consiste nel perseverare in quello stato di figli di Dio che ci permette di rivolgerci appunto a Dio chiamandolo “Padre”. Siamo rinati come figli di Dio nel battesimo? Dunque rimaniamo nella pace di Dio. Abbiamo ricevuto tutti lo stesso spirito? Dunque procuriamo di avere gli stessi sentimenti ed un’unica volontà e così potremo dire non solo “Padre”, ma “Padre nostro”. Soltanto le preghiere che sono espressione di questa pace e unità conservate con Dio e coi fratelli, saranno esaudite da Dio. Dio infatti vuole essere pregato da preghiere di pace (“pacificis precibus”):
«Il sacrificio più grande e più gradito a Dio è la pace fra noi e la fraterna concordia di un popolo adunato secondo l’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo»[11].
Nelle prime parole del «Padre nostro» Cipriano pensa di vedere sintetizzato perciò tutto il messaggio portato dal Signore mentre nello stesso tempo è convinto che esse indichino anche la natura ultima della preghiera del Nuovo Testamento. Pace, amore, unità. Tutto il seguito dell’esegesi di Cipriano sul «Padre nostro», esegesi che egli si preoccupa di attualizzare puntualmente nella sua comunità, sarà uno sviluppo, una riaffermazione, oppure una difesa di questa triade fondamentale. I testi sembreranno addirittura la variazione musicale di un unico tema. Chi rompe questa triade non può neppure dirsi cristiano. Come può dunque pretendere di pregare cristianamente? Come può un imitatore di Giuda ritrovarsi insieme con Cristo? Neppure il martirio del sangue – conclude drasticamente Cipriano – sarà espiazione adeguata di questo immenso delitto[12]. Del resto è il testamento stesso del Signore – precisa – che ci obbliga a dare un giudizio così severo: «Il desiderio ultimo del Signore fu che noi rimanessimo in quella stessa unità che è del Padre e del Figlio. Da qui si può capire quanto grave sia il peccato di chi frantuma l’unità e la pace della comunità cristiana»[13].
Alcuni brani dell’Epistolario di Cipriano riprendono con altrettanta forza il medesimo tema. Concordia, unità e pace sono già preghiera. Una preghiera talmente efficace che non solo ha potere di ottenere da Dio il superamento dei pericoli e delle difficoltà presenti, ma addirittura di scongiurare quelli che potrebbero ancora venire[14]. La ragione prima di ciò che noi chiamiamo “preghiera inefficace” – spiega Cipriano – sta molto spesso nella nostra incapacità ad essere in comunione con gli altri durante la preghiera. Non siamo veramente concordi. Non abbiamo un cuore e un’anima sola mentre preghiamo. Spesso ci si raccoglie in preghiera per chiedere unicamente ciò che più preme a ciascuno di noi senza pensare ai fratelli, anzi molto spesso chiediamo cose che sono in aperto contrasto col desiderio intimo dei nostri fratelli. Siamo bugiardi nel dire “Padre nostro”. E allora il Signore non benedice[15]. Nella comunità cristiana non vi può essere posto per l’individualismo, neppure quando ci raccogliamo nel segreto della nostra stanza per vivere l’esperienza intima di una comunione personale con Dio. Non esistono due forme di preghiera, l’una individuale e privata e l’altra pubblica e comunitaria. Ma soprattutto non si da invocazione cristiana che sia in rottura con l’armonia degli altri fratelli. La preghiera cristiana è per sua natura comunitaria. Così ci ha insegnato il Signore e così viene richiesto dal nostro essere «popolo adunato secondo l’unità del Padre, del Figlio e dello Spirito santo». Perciò nella comunità cristiana
«Ciascuno preghi il Signore non solo per i propri bisogni personali, ma anche per i bisogni di tutti i fratelli come il Signore ci ha insegnato quando ci ha comandato di pregare non ciascuno per conto suo, ma in comune e in comunione con la preghiera di tutti»[16].
Questa forte accentrazione comunitaria Cipriano la ricava da un’esegesi molto profonda dello spirito che è sotteso ad ogni singola invocazione del Padre nostro. In queste invocazioni – spiega Cipriano – il Signore ha voluto anzitutto metterci in guardia contro ogni tentazione di pregare ciascuno per conto suo e secondo i capricci dei propri bisogni personali:
«Infatti non diciamo “Padre mio” che sei nei cieli; né diciamo “dammi oggi il mio pane quotidiano”, né ciascuno chiede che gli venga rimesso solo il suo debito personale o che lui soltanto non venga indotto in tentazione e venga liberato dal maligno. La nostra preghiera invece è sempre pubblica e comunitaria; e quando preghiamo non lo facciamo solo in favore di una persona, ma per il popolo intero, perché l’insieme del popolo è come un unico corpo. Il Dio della pace che è maestro di comunione concorde. Lui che ci insegnò l’unità, volle che ciascuno pregasse per tutti sull’esempio di Lui che, da solo, si prese cura di tutti»[17].
All’origine della possibilità stessa della preghiera cristiana c’è l’azione salvifica di Cristo che tutti ci ha condotti all’unità. Cristo diviene così il fondamento ultimo della nostra preghiera di cristiani. Infatti è per l’unità stabilita da Lui ed in Lui che tutto il popolo può affermare di essere una cosa sola esprimendo con forza questa ritrovata unità nella preghiera pubblica e comunitaria al “Padre nostro che è nei cieli”.
3. Una preghiera pacifica e semplice
Abbiamo visto quali sono i presupposti indispensabili perché la preghiera cristiana sia possibile ed efficace. Ma quali sono le caratteristiche proprie di questa preghiera? Anche a questo proposito si può parlare di una triade cui Cipriano annette grande importanza. Cipriano ne parla nel contesto di un richiamo ad Atti 1, 14: «Erano tutti perseveranti in preghiera con le donne e Maria, la madre di Gesù, e coi fratelli di Lui» e al Salmo 67, 7: «Colui che fa abitare gli unanimi nella casa».
Di questi richiami Cipriano si serve per spiegare “cristianamente” anche il canto dei tre fanciulli nella fornace ardente di Daniele 3, 51s:
«La loro preghiera – spiega Cipriano – fu un discorso impetrante ed efficace, perché il Signore veniva invocato da una preghiera pacifica, semplice e spirituale»[18].
La preghiera deve avere dunque queste tre note: deve essere pacifica, semplice e spirituale.
Pacifica – sottolineerebbe ancora una volta Cipriano – nei due sensi di “espressione della pace” e di “richiesta della pace”. La preghiera deve cioè: da una parte esprimere e manifestare il nostro essere in pace con tutti[19]; dall’altra deve chiedere di impetrare lo stato di pace con Dio[20].
Semplice. È assolutamente importante che impariamo a pregare il Signore dall’intimità del cuore e con la totalità dei nostri pensieri: «Preghiamo dunque “de intimo corde” et “de tota mente”[21]. È un invito pressante a fare esperienza della preghiera del cuore, quella preghiera “monologica” (fatta cioè di una parola soltanto come per es. “Abbà, Gesù, Amen” ecc.) che avrà poi tanta importanza nella tradizione monastica e che proseguirà ad essere la preghiera preferita da intere generazioni cristiane nella forma comune delle “giaculatorie” diffuse fin dal tempo dei padri del deserto. Cipriano è uno dei primissimi padri che rivendica questa nota peculiare della preghiera cristiana. Non c’è posto, nell’esperienza della preghiera cristiana, per le «parole confuse»[22] o per la «tumultuosa loquacitate»[23]. Il cristiano sa infatti di dover porre attenzione, quando si parla di preghiera, anche al portamento del corpo e al tono della voce. La preghiera richiede disciplina e armonizzazione non solo della mente, ma anche del corpo:
«Bisogna piacere agli occhi di Dio sia nel comportamento del corpo che nel tono della voce… Pensiamo che siamo davanti a Dio… abbiano dunque coloro che pregano una parola ed una voce disciplinate, soffuse di calma e di pudore»[24].
La calma (in latino “quies” che potremmo forse tradurre meglio “silenzio”), accompagnata da una seria disciplina del corpo, è il contesto ottimale della preghiera semplice del cuore. Anche qui abbiamo dei segni anticipatori di quella che sarà chiamata più tardi «preghiera esicasta» o «preghiera del cuore», oppure ancora «preghiera di quiete». Il contesto immediato in cui ne parla Cipriano è certamente diverso e riferibile alla situazione storica delle sue comunità africane. Forse egli nota degli abusi qua e là. Forse il metodo montanista di pregare, che spesso diveniva occasione di manifestazioni psico-fisiche poco equilibrate, tenta di far breccia anche all’interno delle assemblee cattoliche. Cipriano intende forse arginare simili tentativi. In ogni caso lo fa con molta efficacia e forza sottolineando le caratteristiche di semplicità e di compunzione discreta, ma profonda, tipiche della preghiera cristiana:
«Noi supplichiamo il Signore con semplicità e in comunione senza smettere mai e con la fiducia di essere esauditi; lo preghiamo con gemiti e pianti…»[25].
Così negli anni della persecuzione e del nascondimento forzato. Ma anche in periodi di maggiore serenità per la Chiesa, Cipriano dirà:
«Quando ci raduniamo insieme coi fratelli e celebriamo i sacrifici divini col sacerdote dobbiamo ricordarci di essere modesti e disciplinati senza sbandierare preghiere improvvisate con voce smodata e senza buttare lì, con modo di parlare inconsulto, una supplica da presentare invece a Dio con modestia ed umiltà. Dio infatti non si cura della voce, ma ascolta direttamente il cuore»[26].
Cipriano fonda tutte queste indicazioni sulla semplicità e sulla necessità di una preghiera fatta nel silenzio del cuore, sull’esegesi di Mt 6, 5-8. Lo stesso brano di Matteo gli suggerisce la rivendicazione di un allargamento geografico talmente ampio da far coincidere il luogo della preghiera col mondo intero. Non c’è luogo in realtà, per quanto remoto e profano esso possa apparire, che non sia adatto alla preghiera cristiana:
«Col suo insegnamento il Signore ci ha detto di pregare in segreto, in luoghi nascosti e lontani, nelle stesse camere riservate (della casa) – ciò che è più appropriato alla fede –, perché impariamo che Dio è presente dappertutto, che ascolta e vede tutti e che la pienezza della sua maestà penetra fin nei luoghi più lontani e segreti»[27].
In conclusione Cipriano pensa che il brano di Mt 6, 5-8 voglia sostanzialmente dire queste due cose: primo, che la preghiera deve essere semplice e fatta dal cuore; secondo, che essa non ha bisogno di luoghi speciali cui recarsi per poterla esprimere, perché il mondo intero è tempio di Dio e luogo privilegiato della sua costante presenza.
4. Preghiera spirituale
La terza caratteristica della preghiera cristiana è data dalla sua natura spirituale: “spiritualis oratio”. Cipriano arriva a questa conclusione per le indicazioni che egli trova in Gv 4, 23. Ma non si accontenta della semplice espressione letterale. Egli vuole esplicitare il significato ultimo dell’aggettivo “spirituale” dato da Gesù alla preghiera. E lo fa inserendo il testo di Giovanni nel contesto del «Padre nostro» di Mt 6, 9-13. Perciò spiega: Il Signore Gesù è colui che ha realizzato la profezia presente in Gv 4, 23: «Verrà l’ora quando i veri adoratori adoreranno il Padre in Spirito e Verità», quando, donandoci lo Spirito della Verità, ci ha donato anche la possibilità di pregare in modo veritiero e spirituale. Dunque la preghiera “spirituale” è il frutto gustoso di quello Spirito promesso dal Signore come colui che ci avrebbe introdotto in tutta la verità. È preghiera “spirituale” la preghiera dettata dallo Spirito. Ma la preghiera dettata dallo Spirito, che grida dentro di noi: “Abbà-Padre”, si identifica con la preghiera insegnata dal Signore e che noi siamo in grado di riconoscere nel «Padre nostro» di Mt 6, 9-13. Gesù viene ad essere così colui che ci ha iniziati alla preghiera “spirituale” e colui che, donandoci lo Spirito, ci ha posti anche nella possibilità concreta di far nostra una preghiera che è insieme sia dello Spirito che della Verità:
«Quale preghiera infatti può essere più “spirituale” di quella insegnata da Gesù dal quale lo Spirito santo è stato avviato? E quale preghiera può essere più vera presso il Padre di quella che è venuta fuori dalle labbra del Figlio che è la Verità?»[28].
La preghiera cristiana è dunque veramente “spirituale” quando è espressione della presenza dello Spirito santo, che è Spirito di unità, di concordia e di pace. Se perciò è presente lo Spirito dell’unità perfino una preghiera fatta prima della venuta del Signore, come per esempio quella dei tre fanciulli nella fornace ardente[29], può essere considerata, ed è di fatto, una “spiritalis oratio”[30]. La concordia e l’armonia reciproca che regnavano fra i tre fanciulli erano già segno evidente sia della presenza dello Spirito santo che dell’adesione al Cristo venturo. È un tentativo di proiezione che oggi potremmo definire ecumenica?
5. Preghiera feconda
La preghiera del cristiano deve essere “pacifica, semplice e spirituale”, ma non può in alcun modo essere una preghiera sterile (“sterilis oratio”). Già abbiamo visto sottolineare in modo fortissimo la necessità della concordia coi fratelli per l’orante cristiano. Cipriano richiede anche qualcos’altro: l’impegno alla conversione. Se infatti è assurda la preghiera di un cuore discorde coi fratelli, è per lo meno inefficace una preghiera che non sia accompagnata da opere di conversione[31]. Le opere di conversione sono anzitutto quelle che stabiliscono la comunità cristiana nell’umiltà, nella pace, nella ricerca della concordia reciproca, nella sottomissione timorosa al Signore[32]; ma esse si esprimono anche in un cammino ascetico vero e proprio che comporterà, fra l’altro, una certa discrezione nel cibo ed abbondanza di lacrime, digiuno ed elemosine[33].
6. Preghiera di santi
Cosa in fin dei conti chiediamo nella preghiera? Il cristiano – risponde Cipriano – chiede una cosa soltanto: la perseveranza nella grazia battesimale
«in modo che noi, (i quali siamo stati) santificati nel battesimo, possiamo avere la forza di proseguire nel cammino intrapreso»[34].
Chiediamo quindi una santità non da raggiungere o conquistare, ma da riconoscere e conservare. Il battesimo ha già reso santo il cristiano; la preghiera chiede allora a Dio il dono della permanenza in questa santità[35]. Nessuna preoccupazione perfezionista, ma soltanto desiderio e richiesta di restare solidamente nella nuova condizione inaugurata dal battesimo. Il punto centrale intorno al quale ruota tutta la preghiera cristiana è perciò la permanenza nella chiesa, nell’unità del corpo di Cristo. A questo tende la richiesta del “pane quotidiano” nel «Padre nostro»
«Chiediamo il nostro pane, perché Cristo è il pane di coloro che fanno parte del suo corpo»[36].
A questo è ordinato il nutrimento eucaristico quotidiano[37]. Il peccato è perciò il male più grave che può capitare al cristiano appunto perché, allontanandolo dall’eucaristia, rischia di separarlo dal corpo di Cristo:
«Dobbiamo temere e pregare perché non accada per qualcuno che, dovendosi astenere dall’eucaristia, non venga separato da Cristo e si ritrovi lontano dalla salvezza… Perciò chiediamo che ci venga dato il nostro pane, cioè Cristo, ogni giorno affinché, rimanendo e vivendo in Cristo, non ci stacchiamo dalla santificazione che viene dal suo corpo»[38].
7. Preghiera di vita
Un’ultima domanda: Quando pregare? Per Cipriano non esistono dubbi a questo proposito. Occorre pregare sempre:
«Procura di essere assiduo alla preghiera e alla lettura: o sii tu a parlare con Dio o sia Dio a parlare con te insegnandoti i suoi comandamenti e disponendoti ad osservarli. Se sarà lui ad arricchirti, nessuno ti impoverirà: non vi sarà più indigenza per colui il cui petto sarà stato saziato una volta dal grano del cielo»[39].
Potrebbe essere una sintesi sulla preghiera e invece questo brano è la semplice esortazione di un vescovo. Il carattere dialogico della preghiera cristiana è evidente. Ancora più chiaro è il riferimento alla “lectio” come momento in cui Dio stesso parla al cuore del cristiano. La voce, la risposta, l’insegnamento di Dio, si fanno vivi e presenti attraverso la “lectio”. Attraverso di essa il “pectus” del cristiano è talmente saziato dal “grano del cielo” che ormai più nulla può mancargli. Si ha l’impressione di essere alle sorgenti di quella abitudine alla “lectio divina” che diverrà poi una costante dell’intera tradizione monastica sia d’oriente che d’occidente. Ma Cipriano ci dice anche altro: il legame fra il tempo della preghiera cristiana e il tempo nuovo inaugurato da Cristo.
La novità della venuta di Cristo dà la ragione della preghiera fatta nel tempo, ma nella misura in cui libera la preghiera stessa da ogni tipo di vincolo col tempo cronologico. L’evento-Cristo è infatti l’unica vera misura del tempo. Così la mattina si prega per celebrare la resurrezione del Signore e la sera si prega per implorarne l’avvento. L’intera giornata del cristiano è immersa nell’evento pasquale e il giorno o il sole di questo mondo terreno ritrovano il loro carattere di segni e figure del mondo celeste «perché è Cristo il vero sole e il giorno vero»[40]. Anzi, a ben riflettere – prosegue Cipriano –, per colui che ha scoperto in Cristo il vero sole e il giorno vero, non esiste più il problema di stabilire quali ore del giorno o della notte siano le più adatte alla preghiera.
Il cristiano non è legato più al ciclo cosmico di luce-tenebre, tenebre-luce. Egli abita costantemente nella luce, ed è figlio della luce, perché abita in Cristo unica e vera luce del mondo. La preghiera a questo punto non è più qualcosa che si fa, ma si identifica con l’essere: essere in Cristo, essere nella luce, essere nello Spirito e nella Verità. Divenire preghiera. È questa la conclusione di Cipriano. A questo lo ha condotto il «Padre nostro» e la sua esegesi.

molte note nel sito

CANTERÒ CON LO SPIRITO, MA CANTERÒ ANCHE CON L’INTELLIGENZA – SANT’AMBROGIO

http://comunita-abba.it/?p=32878

CANTERÒ CON LO SPIRITO, MA CANTERÒ ANCHE CON L’INTELLIGENZA – SANT’AMBROGIO

Dal «Commento sui salmi» di sant’Ambrogio, vescovo
(Sal 1, 9-12; CSEL 64, 7. 9-10)

Che cosa di più dolce di un salmo?
Per questo lo stesso Davide dice splendidamente: «Lodate il Signore: è bello cantare al nostro Dio, dolce è lodarlo come a lui conviene» (Sal 146, 1).
Davvero!
Il salmo infatti è benedizione per i fedeli, lode a Dio, inno del popolo, plauso di tutti, parola universale, voce della Chiesa, professione e canto di fede, espressione di autentica devozione, gioia di libertà, grido di giubilo, suono di letizia.
Mitiga l’ira, libera dalle sollecitudini, solleva dalla mestizia.
E’ protezione nella notte, istruzione nel giorno, scudo nel timore, festa nella santità, immagine di tranquillità, pegno di pace e di concordia che, a modo di cetra, da voci molteplici e differenti ricava un’unica melodia.
Il salmo canta il sorgere del giorno, il salmo ne fa risonare il tramonto.
Nel salmo il gusto gareggia con l’istruzione. Nello stesso tempo si canta per diletto e si apprende per ammaestramento.
Che cos’è che non trovi quando tu leggi i salmi?
In essi leggo: «Canto d’amore» (Sal 44, 1) e mi sento infiammare dal desiderio di un santo amore.
In essi passo in rassegna le grazie della rivelazione, le testimonianze della risurrezione, i doni della promessa. In essi imparo ad evitare il peccato, e a non vergognarmi della penitenza per i peccati.
Che cos’è dunque il salmo se non lo strumento musicale delle virtù, suonando il quale con il plettro dello Spirito Santo, il venerando profeta fa echeggiare in terra la dolcezza del suono celeste? Modulava gli accordi di voci diverse sulle corde della lira e dell’arpa, che sono resti di animali morti, e così innalza verso il cielo il canto della divina lode.
In tal modo ci insegnava che prima si deve morire al peccato e solamente dopo si può stabilire in questo corpo la varietà delle diverse opere di virtù con le quali rendere al Signore l’omaggio della nostra devozione.
Davide ci ha dunque insegnato che bisogna cantare, che bisogna salmeggiare nell’intimo del cuore come cantava anche Paolo dicendo: «Pregherò con lo spirito, ma pregherò anche con l’intelligenza; canterò con lo spirito, ma canterò anche con l’intelligenza» (1 Cor 14, 15). Davide ci ha detto che bisogna formare la nostra vita e i nostri atti alla contemplazione delle cose superne, perché il piacere della dolcezza non ecciti le passioni del corpo, dalle quali la nostra anima è oppressa e non liberata.
Il santo profeta ci ha ricordato che egli salmeggiava per liberare la sua anima e per questo disse: «Ti canterò sulla cetra, o santo d’Israele. Cantando le tue lodi esulteranno le mie labbra e la mia vita, che tu hai riscattato» (Sal 70, 22-23).

L’INCARNAZIONE DEL VERBO. DAI «DISCORSI» DI SANT’ATANASIO, VESCOVO – 2 MAGGIO, MEMORIA

https://gpcentofanti.wordpress.com/2016/05/02/lincarnazione-del-verbo-dai-discorsi-di-santatanasio-vescovo-2/#more-85709

L’INCARNAZIONE DEL VERBO. DAI «DISCORSI» DI SANT’ATANASIO, VESCOVO – 2 MAGGIO, MEMORIA

(Disc. sull’incarnazione del Verbo, 8-9; PG 25, 110-111)

Il Verbo di Dio, immateriale e privo di sostanza corruttibile, si stabilì tra noi, anche se prima non ne era lontano. Nessuna regione dell’universo infatti fu mai priva di lui, perché esistendo insieme col Padre suo, riempiva ogni realtà della sua presenza.
Venne dunque per amore verso di noi e si mostrò a noi in modo sensibile. Preso da compassione per il genere umano e la nostra infermità e mosso dalla nostra miseria, non volle rimanessimo vittime della morte. Non volle che quanto era stato creato andasse perduto che l’opera creatrice del Padre nei confronti dell’umanità fosse vanificata. Per questo prese egli stesso un corpo, e un corpo uguale al nostro perché egli non volle semplicemente abitare un corpo o soltanto sembrare un uomo. Se infatti avesse voluto soltanto apparire uomo, avrebbe potuto scegliere un corpo migliore. Invece scelse proprio il nostro.
Egli stesso si costruì nella Vergine un tempio, cioè il corpo e, abitando in esso, ne fece un elemento per potersi rendere manifesto. Prese un corpo soggetto, come quello nostro, alla caducità e, nel suo immenso amore, lo offrì al Padre accettando la morte. Così annullò la legge della morte in tutti coloro che sarebbero morti in comunione con lui. Avvenne che la morte, colpendo lui, nel suo sforzo si esaurì completamente, perdendo ogni possibilità di nuocere ad altri. Gli uomini ricaduti nella mortalità furono resi da lui immortali e ricondotti dalla morte alla vita. Infatti in virtù del corpo che aveva assunto e della risurrezione che aveva conseguito distrusse la morte come fa il fuoco con una fogliolina secca. Egli dunque prese un corpo mortale perché questo, reso partecipe del Verbo sovrano, potesse soddisfare alla morte per tutti. Il corpo assunto, perché inabitato dal Verbo, divenne immortale e mediante la risurrezione, rimedio di immortalità per noi. Offrì alla morte in sacrificio e vittima purissima il corpo che aveva preso e offrendo il suo corpo per gli altri liberò dalla morte i suoi simili.
Il Verbo di Dio a tutti superiore offrì e consacrò per tutti il tempio del suo corpo e versò alla morte il prezzo che le era dovuto. In tal modo l’immortale Figlio di Dio con tutti solidale per il comune corpo di morte con la promessa della risurrezione rese immortali tutti a titolo di giustizia. La morte ormai non ha più nessuna efficacia sugli uomini per merito del Verbo, che ha posto in essi la sua dimora mediante un corpo identico al loro.

 

DAI « DISCORSI » DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO (SERM. 231, 5)

https://www.augustinus.it/varie/pasqua/pasqua.htm

TEMPO PASQUALE CON SANT’AGOSTINO

« Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me.
Io vado a prepararvi un posto;
quando sarò andato e vi avrò preparato un posto,
ritornerò e vi prenderò con me,
perché siate anche voi dove sono io ».
(Gv 14, 1-3)

INTRODUZIONE

Il segreto della felicità è in un semplice gesto: alzare lo sguardo e fissarlo in Cristo, nella sua risurrezione vittoriosa che passa attraverso il vilipendio della croce. « Con occhi interiori mirate le piaghe del crocifisso, le cicatrici del risorto… Pensate al valore di queste cose e ponetelo sulla bilancia dell’amore ». (De s. virg. 54.55ss) Chi aderisce a Cristo si stacca da ogni dipendenza terrena, da ogni ricerca di una felicità materiale. La felicità ha una sua regione, che non è però sulla terra: qui neppure Cristo l’ha trovata! La vera beatitudine, che non avrà fine perché eterna, è altrove, là dove può condurci Cristo stesso: il Regno del Padre. Il premio della vita eterna sarà Dio stesso: « Lui stesso possederai; Egli si dona in premio a coloro che lo onorano ». (Sermo 19, 5)

DAI « DISCORSI » DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO (SERM. 231, 5)

La garanzia della vita futura
Vuoi essere felice? Se lo vuoi, ti mostrerò la via per esserlo. Dice [il Salmo]: Fino a quando avrete il cuore intorpidito? Perché amate la vanità e andate in cerca di ciò che è falso? e poi continua: Sappiate. Cosa dobbiamo sapere? Che il Signore ha glorificato il suo Santo (Ps 4, 4). Incontro alle nostre miserie è venuto Cristo; il quale ha voluto aver fame e sete, stancarsi e dormire. Egli, pur avendo compiuto miracoli, si sottopose al dolore: fu flagellato, coronato di spine, sputacchiato, schiaffeggiato, sospeso ad una croce, trafitto da una lancia e deposto in un sepolcro. Da lì però risorse il terzo giorno, ponendo fine alla sofferenza, uccidendo la morte. Lì pertanto, cioè nella sua resurrezione, fissate lo sguardo, poiché Dio ha tanto glorificato il suo Santo da risuscitarlo da morte e da accordargli il privilegio di sedere alla sua destra nel cielo. Ti ha mostrato le cose a cui devi aspirare se desideri essere beato, essendo scontato che quaggiù non puoi esserlo. Nella vita presente infatti non potrai certo raggiungere la felicità: nessuno ha questo potere. Tu cerchi, è vero, una cosa buona, ma questa terra non è il luogo dove alligni la cosa da te cercata. Cosa cerchi? La vita felice. Purtroppo non è di quaggiù. Fa’ conto che ti metta a cercare l’oro in un posto dove non c’è. Se arriva uno che sa non essere quello il posto dove si trova l’oro non ti direbbe forse: Ma che stai scavando? perché smuovi la terra? Fai una buca dove potresti cadere, non dove si trovano le cose che cerchi. Cosa replicheresti a chi ti dà questi suggerimenti? Sto cercando l’oro. E l’altro: Non ti dico che sia cosa da nulla quello che cerchi; tu cerchi una cosa buona, ma non è dove la cerchi. Così quando tu dici: Voglio la felicità. Cerchi una cosa buona, ma non è cosa di questo mondo. Se in questo mondo fu felice Cristo, lo sarai anche tu. Venendo nella regione dove tu giaci morto, cosa vi trovò Cristo? Notalo bene! Egli proveniva da una regione diversa: ebbene, quando venne quaggiù, cosa vi trovò se non quelle cose che quaggiù abbondano? Tribolazioni, dolori, morte: ecco quello che si trova quaggiú, che quaggiú abbonda. Mangiò insieme con te i cibi che in abbondanza erano riposti nella dispensa della tua miseria. Bevve l’aceto, gli fu dato il fiele. Ecco cosa trovò nella tua dispensa. In cambio, egli ti invitò alla sua grande tavola imbandita, alla mensa celeste, alla mensa degli angeli dove pane è lui stesso. Scese dunque e nella tua dispensa trovò le cose ributtanti sopra accennate; eppure non ricusò di sedersi a una tal mensa qual era la tua, promettendo la sua. E cosa ci dice? Abbiate fede, abbiate fede! Voi verrete da me e gusterete i beni della mia mensa, com’è vero che io non ho ricusato d’assaporare i mali della mensa vostra. Ha preso su di sé il tuo male, e ti darà il suo bene? Ma certo che te lo darà! Ci ha promesso la sua vita, anzi ha fatto una cosa ancora piú inaudita: come anticipo ci ha elargito la sua morte, quasi volesse dirci: Ecco, io vi invito a partecipare della mia vita. È una vita dove nessuno muore, una vita veramente beata, che offre un cibo incorruttibile, un cibo che ristora e mai vien meno. La meta a cui vinvito, ecco, è la regione degli angeli, è l’amicizia con il Padre e lo Spirito Santo, è la cena eterna, è la comunione con me. Di piú: vi invito a [godere di] me stesso, a partecipare della mia vita. Stentate a credere che io vi darò la mia vita? Ebbene, ve ne sia pegno la mia morte, che già è in vostro possesso. Se quindi al presente ci tocca vivere nella carne soggetta a corruzione, moriamo con Cristo cambiando condotta, e viviamo con Cristo amando la santità. Ricordiamoci che non conseguiremo la vita beata se non quando saremo giunti là dove è colui che è disceso in mezzo a noi e quando cominceremo a vivere totalmente uniti a colui che è morto per noi

In breve…
Se tanto ci esaltano questi giorni che se ne vanno, nei quali con devota solennità ricordiamo la passione e la resurrezione di Cristo, come ci renderà beati quello eterno, in cui vedremo Lui e rimarremo con Lui, del quale il solo desiderio e la speranza ci rendono fin da adesso beati? (Serm. 229/D, 2)

Inizio settimana

7. LA CROCE, NOSTRA SOMMA GLORIA – CIRILLO DI GERUSALEMME, CATECHESI BATTESIMALI, 13,1-3 – (PAOLO)

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-03/16-2/LaCroceneiPadridellaChiesa.rtf.html

7. LA CROCE, NOSTRA SOMMA GLORIA – CIRILLO DI GERUSALEMME, CATECHESI BATTESIMALI, 13,1-3 – (anche Paolo)

0gni atto compiuto dal Cristo è una gloria della Chiesa cattolica: gloria delle glorie è, però, la croce. Questo, appunto, intendeva Paolo, nell’affermare: A me non avvenga mai di menar vanto, se non nella croce di Cristo (Gal. 6,14). Suscita la nostra ammirazione, certo, anche il miracolo in seguito al quale il cieco dalla nascita riacquistò, a Siloe, la vista (cf. Gv. 9, 7 ss.): ma cosa è un cieco di fronte ai ciechi di tutto il mondo? Straordinaria, e soprannaturale, la risurrezione di Lazzaro, morto già da quattro giorni (cf. Cv. 11, 39). Una grazia del genere, tuttavia, è toccata ad uno soltanto: che beneficio ne avrebbero tratto quanti, nel mondo intero, erano morti per i loro peccati? (cf. Ef. 2, 1). Strepitoso il fatto che cinque pani riuscirono a sfamare cinquemila persone (cf. Mt. 14,21): ma a che cosa sarebbe servito, se pensiamo a coloro che, su tutta la terra, erano tormentati dalla fame dell’ignoranza? (cf. Am. 8, 11). Stupefacente, ancora, la liberazione della donna, in preda a Satana da diciotto anni (cf. Lc. 13, 11 ss.): che importanza avrebbe avuto, però, per tutti noi, imprigionati dalle catene dei nostri peccati? (cf. Prov, 5 22).
La gloria della croce, invece, ha illuminato chi era accecato dall’ignoranza, liberando tutti coloro che erano prigionieri del peccato e portando la redenzione all’intera umanità.
Non devi meravigliarti, poi, del fatto che l’universo sia stato redento nella sua totalità: non era invero un uomo come tutti gli altri colui che morì per esso, ma si trattò del Figlio unigenito di Dio (benché fosse bastato il peccato di un solo uomo, Adamo, ad introdurre la morte nel mondo). Ebbene, dal momento che la morte ha preso a regnare sul mondo in seguito alla colpa d’uno solo (cf. Rom. 5,17), perché, a più forte ragione, non dovrebbe regnare la vita, in virtù della giustizia d’un’unica persona? E se allora, a causa del legno del quale si cibarono, vennero scacciati dal paradiso (cf. Gen. 3, 22-23), tanto più adesso, grazie al legno di Gesù, non vi faranno forse il loro ingresso i credenti? Se il primo uomo, che era fatto di terra, fu la causa della morte universale, colui che lo plasmò dalla terra (cf. Gen. 2, 7), essendo egli stesso la vita (cf . Gv. 14, 6), non potrà forse esser fonte di vita eterna? Se Finees, sospinto dal proprio zelo, placò l’ira divina uccidendo l’autore dell’atto oltraggioso (cf. Num. 25, 8-11); Gesù, senza uccidere nessun altro, ma offrendo se stesso come riscatto (cf. 1 Tim. 2, 6), non farà forse sparire la collera verso gli uomini?
Non vergogniamoci, dunque, della croce del Salvatore, ma, anzi, vantiamocene! Il linguaggio della croce, infatti, è scandalo per i giudei e follia per i gentili (1 Cor. 1, 18.23): per noi, invece, significa salvezza. E stoltezza per coloro che si perdono, per noi, al contrario, che ci salviamo, è potenza di Dio (1 Cor. 1, 18). Infatti, come abbiamo già detto, non toccava ad un uomo come gli altri di morire per noi, bensì al Figlio di Dio, Dio egli stesso fattosi uomo. Un tempo l’agnello ucciso per ordine di Mosè tenne lontano lo sterminatore (cf. Es. 12, 23); l’Agnello di Dio, che cancella i peccati del mondo (cf. Cv. 1, 29), non ha recato adesso, a più forte ragione, la liberazione dal peccato? Se, poi, il sangue di un agnello privo d’intelletto ha prodotto la salvezza, quanto più la procurerà il sangue dell’Unigenito?

 

 

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