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L’OBBEDIENZA DI GESÙ NEL CONTESTO DELL’UMILTÀ DELL’INCARNAZIONE (Fil 2,6; Eb 5,8)

L’OBBEDIENZA DI GESÙ NEL CONTESTO DELL’UMILTÀ DELL’INCARNAZIONE

Stralcio dal libro: Battaglia V. Cristologia e Contemplazione, EDB, Bologna 1996

Ci sono alcune note, riguardano soprattutto il pensiero di Padri della chiesa e santi, non li metto per la ragione di rendere il testo « leggero » dato che questo è un Blog;

4.2.1. « Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio » ( Fil 2,6)

pagg. 107-108.

Il progetto esistenziale  appena descritto (NOTA 1) è stato svelato dall’uomo  dal Figlio di Dio Gesù Cristo, il quale l’ha messo in atto, lui per primo, con l’incarnazione e a partire dall’incarnazione. Come insegna l’inno contenuto nella Lettera ai Filippesi (2,6-11) egli, « pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio » (v.6): non ha tenuta gelosamente tutta per sé la sua condizione di Figlio unigenito, ma, mosso da un amore infinitamente generoso, ha voluto farne diventare partecipi gli uomini creati per amore e quindi voluti e amati da sempre. Per questo è venuto in mezzo a noi come uno di noi, per farci diventare figli di Dio e donarci quella « somiglianza » con Dio che egli solo possiede in pienezza e in modo unico, essendo il Figlio uguale al Padre e sua immagine perfetta. Assunta perciò volontariamente la condizione di servo, ha adottato un modo di esistenza umana che o ha reso veramente simile agli altri uomini: chiunque lo guardava e si accostava a lui, infatti, non lo trovava diverso da sé per quel che concerne la comune esistenza umana (v.7). Del resto come risulta da un’attenta analisi dei racconti evangelici, egli non ha mai inteso trarre alcun vantaggio dall’essere uguale a Dio, ma al contrario, avendo rinunciato volontariamente a tutte quelle prerogative divine che non gli avrebbero permesso di rendersi in tutto « simile » agli altri uomini che ha considerato veramente « suoi fratelli » (Eb 2,17), ha voluto insegnare all’uomo come si vive da uomo il rapporto con Dio. « Infatti proprio per essere stato messo alla prova e avere sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova » (Eb 2,18). Quindi avendo fatto esperienza diretta di come si obbedisce nelle prove e nella sofferenza, ha rivelato davvero l’uomo all’uomo, e come questa rivelazione l’ha attuata anche con il farsi interprete e modello di come si vive autenticamente da creature. E lo ha fatto accettando di essere « provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato » (Eb 4,15; cfr. 2,18); le prove in questione, che sono reperibili nella trama storica tracciata dai testi evangelici, sono rappresentate emblematicamente, sotto forma di grande inclusione tematica, dall’episodio iniziale delle tentazioni subite nel deserto e dal grido di abbandono che ha rivolto al Padre prima di spirare sulla croce.
Così meditando a lungo sula vicenda terrena vissuta dal Figlio di Dio fatto uomo, si acquisisce quella sapienza che permette di mettere a fuoco con sempre maggiore lucidità l’essenza del peccato cui è stato accennato più sopra. Come insegna per esempio Riccardo di San Vittore:

certamente l’uomo bramò di salire fino alla somiglianza con Dio per la sua audacia di trasgressione, e come per una rapina. Perciò, perché il modo di riparare  corrispondesse a quello della colpa, la ragione esigeva che il salvatore della nostra rovina scendesse per l’annientamento della somiglianza con Dio a quella con il peccatore…Se inoltre osservate a cosa soprattutto l’uomo aspirava in quella rapina, troverete, e non c’è niente di strano, che quella bramosia era stata soprattutto un’offesa al Figlio: « Sarete come dei, che non conoscono il bene  e il male » (Gen 3,5), dice il serpente. E che cos’è il Figlio, se non la Sapienza di Dio (cfr. 1Cor 1,24). Quindi peccò soprattutto contro la Sapienza colui che voleva ottenere la scienza con la rapina. » (NOTA 2)

4.2.2. « Imparò l’obbedienza dalle cose che patì » (Eb 5,8)

Premesso che la passione rappresenta senza dubbio la prova per eccellenza, quella decisiva, nella quale si sono concentrate e assommate tutte le altre affrontate da Gesù « nei giorni della sua vita terrena » (Eb 5,7a), è dal tutto legittimo interpretare la natura e il significato delle prove ricorrendo al criterio dell’obbedienza che, vale la pena ricordarlo, rappresenta in sostanza la traduzione storico-terrena, visibile e comprensibile, della sua identità personale di Figlio unico del Dio unico, e, quindi, ne svela e ne invera perfettamente l’amore con il quale risponde all’amore che il Padre nutre per lui da sempre. « …Bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre e faccio quello che il Padre mi ha comandato » (Gv 14,31). Per illustrare la natura e l’oggetto di queste « prove » si dovrebbero ripercorrere tutte le tappe che hanno scandito il cammino messianico, assolutamente originale, seguito sa Gesù e che lo ha condotto fino alla passione. M, dato l’obiettivo inerente alla riflessione che stiamo sviluppando, è sufficiente restringere l’indagine a un racconto assai emblematico quale è quello delle tentazioni affrontate da Gesù alla vigilia della vita pubblica. (NOTA 3) Innanzi tutto, però, va tenuto presente un criterio dottrinale di ordine generale: le prove hanno interessato, hanno coinvolto davvero il Figlio di Dio incarnato fino nelle fibre più recondite della sua persona. Egli ha dovuto prima immergersi nella prova, lasciare che quest’ultima lo investisse e lo coinvolgesse interamente, Ha dovuto adattarsi a esse, prenderne le misure, conoscerle, valutare la posta che era in gioco, e dopo è stato in grado di reagire nel modo più adeguato, cioè di smascherarne la perversità e di superarle. Ma ogni volta de veniva posto di fronte a una nuova prova, si è trovato a dover mettere in atto una reazione corrispondente a essa, che gli permettesse di continuare a esser pienamente fedele al Padre. Una reazione che non è mai stata facile, Né indolore, tanto meno epidermica: al contrario, siccome le prove, pur provenendo dall’esterno, si ripercuotevano dentro di lui, la reazione messa in atto gli è costata tutta una vita vissuta in piena coerenza al disegno del Padre: e se è diventato « l’apostolo e sommo sacerdote della fede che noi professiamo » ciò è accaduto perché è stato fedele « come figlio costituito sopra la sua casa (cfr. Eb 3, 1-6). Gli è costata il prezzo più alto, quello della vita: « siete stati comprati a caro prezzo » (1Cor 6,20), con il « sangue prezioso di Cristo » (1Pt 1,18-19).
D’altronde a ben analizzare tutta la storia evangelica, ci si rende conto, e con chiarezza, che Gesù di Nazareth, pur essendo confessato come il Cristo e il Figlio di Dio, non viene descritto come un superuomo che non ha fatto alcuna fatica a superare le difficoltà che ostacolavano la missione messianica. Ciò che emerge e risalta continuamente è la fedeltà a Dio, e non certo una forza sovrumana che avrebbe indotto senza mezzi termini « i suoi fratelli » a ritenerlo sempre troppo distante e diverso da loro. Una fedeltà esercitata a tutto campo: egli, cioè, non ha mai posto condizioni a Dio, ma si è comportato, in tutto e per tutto, da Figlio obbediente. Obbediente per amore, certamente. Così, « pur essendo Figlio, imparò tuttavia l’obbedienza dalle cose che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio sommo sacerdote alla maniera di Melchisedek » (Eb 5, 8-10). Siccome però ogni volta la risposta data da obbediente è stata diversa e nuova rispetto a quella data nella circostanza precedente, in quanto diversa e nuova era la difficoltà che gli si presentava dinnanzi, è sotto questo profilo che si deve intendere il verbo « imparò ». Non perché non sapesse come comportarsi di fronte agli avvenimenti, e, quindi, non sapesse o, addirittura, non fosse pronto ad obbedire; anzi non va mai dimenticato che egli conosceva lucidamente il volere del Padre perché, tra l’altro, l’intimità con lui era piena e perfetta, alimentata c’era dall’ascolto e dalla preghiera. Non perché avvertisse in sé una propensione a cedere paragonabile a quella prodotta nell’uomo dalla presenza del peccato: la verità della sua santità personale rimane sempre intatta e intangibile. La ragione va cercata in tutt’altra direzione: pur essendo Figlio, si è sottoposto volontariamente ai ritmi, alle leggi e ai condizionamenti insiti in una esistenza umana autentica ed integrale.
Una ragione del genere permette, tra l’altro, di sottrarre la riflessione che si sta facendo a qualsiasi impostazione riduttiva, sia a quella prospettata dall’eresia doceta, sia a quella insinuata da una esagerata accentuazione data in altri tempi alla perfezione inerente al’umanità assunta dal Verbo. Infatti « il problema della piena umanità di Gesù, nel corpo e nell’anima, riguarda la libera adesione della sua obbedienza e quindi anche il tratto umano della salvezza…Gesù non è un puro strumento salvifico nelle mani di Dio, ma è il mediatore personale della salvezza ». (NOTA 4)
Non c’è da dubitare sul fatto che egli, oltre a conoscere le ragioni per le quali doveva obbedire, sapesse anche scegliere il modo più conveniente per comportarsi secondo i disegni di Dio, che erano anche i suoi. A dire il vero, è questo perfetto « accordo » con il Padre che gli permetteva di muoversi con una libertà così straordinaria da renderlo davvero protagonista della sua vita. Ma, in fin dei conti, se era protagonista della sua vita, ciò era dovuto al fatto che era padrone di se stesso. Per cui egli dispone di sé come vuole, e dispone di offrirsi per la salvezza del mondo: « per questo il Padre mi ama: perché io offro la mia vita per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo comando ho ricevuto dal Padre mio » (Gv 10, 17-18). Nel caso contrario, non avremmo a disposizione alcuna base solida alla quale ancorare la confessione di fede relativa alla funzione di salvatore del mondo. Infatti, solo per la coincidenza in lui tra persona e missione -e, quindi, solo in ragione della verità che la funzione di Salvatore deriva ed è soggetta dalla sua persona di Verbo Incarnato – è giustificato assegnare all’obbedienza una precisa valenza salvifica (cfr. Rm 5, 19; Eb 5, 8-9). « Cristo per adempiere la volontà del Padre, ha inaugurato in terra il regno dei cieli e ce ne ha rivelato il mistero, e con la sua obbedienza ha operato la redenzione (LG 3; EV 1/286).
Contempliamo perciò in Gesù di Nazareth il Figlio di Dio che si dispone a vivere la propria identità divino-filiale da uomo – usufruendo, se così si può dire, di una volontà, di una intelligenza, di una libertà e di una attività pienamente umane – e, che per questo accetta il fatto di imparare a utilizzare l’intera gamma di cui si dispiega il linguaggio dell’esistenza umana, che va dalla sfera corporale a quella psicologica e spirituale. Sotto questo profilo è legittimo asserire che egli ha imparato l’obbedienza, nel senso che l’ha praticata facendone un’esperienza diretta che resta comunque unica ed irripetibile; e ha voluto esercitarla mettendosi proprio dalla parte dell’uomo, al fine di « essere in grado di venire in aiuto a coloro che subiscono la prova » (Eb 2,18b).

NOTE

1.
questo stralcio fa parte del capitolo secondo del libro: Gesù Cristo Salvatore dell’uomo, al punto 4 il sottocapitolo: « Gesù modello e maestro del rapporto con Dio »; al 4,1: « La disobbedienza dell’uomo generata dalla superbia »; poi il 4.2, di questi il primo e il secondo fanno riferimento a Paolo; poi 4.2.3 – che non metto – « La fedeltà a Dio rispecchiata dal racconto delle tentazioni messianiche. »
2.
Liber de Verbo Incarnato, 10,11, in Il Cristo, Volume V. Testi soteriologici e spirituali di San Vittore a Caterina da Siena, a cura di C. Leonardi, Mondadori, Milano 1992, 15-16.
3.
Battaglia fa riferimento alla parte 4.2.3., vedi nota 1.
4.
Kasper W., Gesù il Cristo, Queriniana, Brescia 1975, 291.

LA CHIESA SPOSA DI CRISTO NELL’EPISTOLARIO PAOLINO

6. LA CHIESA SPOSA DI CRISTO NELL’EPISTOLARIO PAOLINO

 

stralcio dal libro di Battaglia V., Il Signore Gesù Sposo della Chiesa, EDB 2001

Capitolo primo, 6, pagg. 58-62;

per quanto riguarda le note, metto solamente quelle in riferimento a citazioni;

Padre Vincenzo Battaglia ofm., docente di Teologia Dogmatica nella Pontifica Università « Antonianum » di Roma;

 

« Sono molte le immagini con le quali la Chiesa viene designata nell’epistolario paolino: ciascuna ne sotto linea un aspetto specifico, ma « c’è una realtà che tutte le accomuna ed è l’esperienza di una relazione interpersonale che coinvolge tutta l’esistenza dei cristiani come comunione e partecipazione di vita con Cristo e tra di loro » nota 1. In questo orizzonte l’immagine della sposa oltre che a mostrare con efficacia il rapporto interpersonale definitivo tra la Chiesa e il Signore Gesù, soprattutto se letta in relazione con l’immagine del corpo e con il ruolo di Cristo come Capo del corpo, si rivela particolarmente adatta a descrivere la tensione, tipica dell’escatologia cristiana, tra il già della comunione con il Signore e il non ancora della pienezza e della definitività attese per il giorno della sua parusia (2Cor 11,2; Ef 5,21-33, specialmente 25-32).

6.1. La Chiesa come sposa promessa di Cristo (2Cor 11,2)

La tensione escatologica cui si è accennato sopra attraversa il testo di 2Cro 11,2: « Io provo infatti per voi una specie di gelosia divina, avendovi promessi ad un unico sposo, per presentarvi quale vergine asta a Cristo ». Qui l’apostolo paolo, rifacendosi al rituale del matrimonio ebraico, si presenta come l’amico dello Sposo che ha l’incarico di provvedere a che la comunità di Corinto, la quale è stata già riservata in modo definitivo per il Cristo e appartiene perciò solo a lui, arrivi al giorno in cui saranno celebrate le nozze e incomincerà ad abitare per sempre con il suo Sposo avendo conservato integra la propria fedeltà. Pertanto, siccome è a lui che spetta il compito di presentare la sposa allo Sposo, esorta con vigore la comunità cristiana a vivere nella , cioè nella fedeltà esclusiva al suo Signore. Fedeltà che consiste anche nel mantenere integra la fede nel vangelo predicato dall’apostolo, senza farsi traviare dal primo venuto, senza farsi sedurre dai falsi predicatori, i quali mirano a far deviare dalla semplicità e dalla purezza nei confronti di Cristo (2Cor 11,3-6).

6.2. Il rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa suo Corpo in Ef 5, 21-33

Il brano di Ef 5,21-33 appartiene al genere letterario della parenesi domestica e contiene tutta una serie di esortazioni rivolte ai coniugi sulla base di una motivazione teologica ben precisa: il rapporto sponsale tra Cristo e la Chiesa. Qui la tensione escatologica si stempera, pur senza scomparire, in quanto l’attenzione è rivolta al legame nuziale che, nel presente, unisce il Cristo alla Chiesa. Questo legame – che riguarda non più solo una comunità particolare, come nel caso di 2Cor 11,2, ma la Chiesa universale – è stato posto in essere dal Cristo mediante il sacrificio di sé compiuto sulla croce, con il quale ha dimostrato l’immensa gratuità che caratterizza il suo amore per la Chiesa: « Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei (5,25b). Avendola scelta come propria sposa, egli se l’è assicurata pagando il prezzo dovuto – il mohar, secondo gli usi ebraici – e questo prezzo coincide con il dono di sé. Di conseguenza, mediante la propria morte l’ha purificata e santificata: e ora l’efficacia della sua morte avvenuta una volta per sempre agisce nel tempo quando si celebra il battesimo (5,26). C’è però dell’altro. Il Signore Gesù non ha affidato la sposa ad alcun amico o intermediario, ma è lui stesso che l’ha condotta e la conduce quotidianamente a sé. È lui stesso a « farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa ed immacolata » (5,27) e porterà a termine questo compito nel giorno della sua parusia. L’aggettivo possessivo che si trova nell’espressione « la sua Chiesa » sta a dire quanto dia chiara nella mente dell’autore la certezza che il Cristo ha unito a sé in modo indissolubile la Chiesa e la sente tutta sua. Perciò le dedica ogni cura e provvede a lei in tutto (5,28-30).

Questo secondo aspetto del rapporto nuziale è fondato sulla dottrina della chiesa come corpo di Cristo alla quale si fa riferimento in 5,29-30. Questa dottrina, enunciata nel v. 23c: « …Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo », è reperibile in vari luoghi della lettera (cfr. 1,22-23; 2,18; 3,6; 4,4.15-16). Inoltre, va compresa all’interno della luce di tuta la concezione paolina relativa all’immagine di « corpo di Cristo>, che rappresenta « il frutto più maturo del pensiero ecclesiologico neotestamentario » nota 2. e che esprime in modo esplicito il rapporto con il Cristo. Cosa che non rientra, almeno immediatamente, nelle immagini di , , .

« La chiesa rimane nel Nuovo Testamento il , ma è un popolo di Dio costituito a nuovo in Cristo e su Cristo. La sua nuova e particolarissima forma viene designata nella maniera più felice come ; con questo concetto è permesso studiare nel migliore dei modi totalità e articolazione, fondamento e fine, vita e crescita della Chiesa » nota 3.

Per cui tutte le comunità meritano di essere chiamate (Rm 16,16), o (1Ts 2,14; cfr. Gal 1,22). Ora, in linea generale, va detto che, nell’attribuire alla comunità cristiana l’immagine del corpo, l’apostolo segue tre orientamenti: la paragona al corpo umano (Rm 12,4-58; 1Cor 12,12-30; Ef 4,1-17); la definisce quale corpo di Cristo (Rm 12,5; 1Cor 6,15; 12,27; Col 1,24; Ef 1,23; 4,12; 5,30); assegna a Cristo la funzione di capo/testa di questo corpo (Ef 1,22;4,15-16; Col 1,18; 2,19). In secondo luogo, se nella Lettera ai Romani e la prima Lettera ai Corinzi mettono a tema soprattutto il rapporto di appartenenza e di immanenza che intercorre tra il Cristo e la Chiesa, quelle deutero paoline agli Efesini e ai Colossesi, attribuendo al Cristo il titolo di capo/testa, insistono piuttosto sulla differenza.

Gesù Cristo in quanto mediatore, svolge quindi la duplice funzione di Signore e fonte di vita del suo corpo che è la Chiesa. Sono questi, infatti, i due significati principali del titolo cristologico Kephalé. Per un verso il Cristo è colui che sta a capo: egli è il Signore, il Dominatore di tutte le potenze celesti e terrestri, il Sovrano che governa sull’intera creazione. Questa supremazia o primato universale li esercita, in modo del tutto speciale, sulla Chiesa e a favore della Chiesa (cfr. Col 1,18; 2,10; Ef 1,20-23). Per l’altro verso egli è, per la Chiesa, la sorgente della grazia, della vita divina che, fluendo d lui senza interruzione, si espande per tutto il corpo, lo sostiene e lo fa crescere (cfr. Col 2,19; Ef 4,15-16).

La chiesa deve a Cristo la propria esistenza: in proposito Ef 2,15 è l’unico caso in tutto il Nuovo Testamento in cui il Cristo è presentato come autore in prima persona di una creazione, quella « di un solo uomo nuovo » formato dai due popoli da lui riconciliati. essa inoltre, è descritta, con accostamenti di immagini altamente espressivi, come (Ef 2,21) e (Ef 4,16). L’idea appena enunciata trova conferma nella definizione della Chiesa quale di Cristo. Essa <è suo corpo, la pienezza di colui che si realizza interamente in tutte le cose> (Ef 1,23); cfr. anche Col 1,19; 2,10). Il versetto va inteso come segue: Cristo riempie completamente di sé e della sua grazia redentrice la Chiesa; la Chiesa è totalmente colmata da lui, egli le basta in tutto:

nota 4.

Sulla scorta di questi cenni attinenti il significato del titolo cristologico , ritorniamo ora brevemente sulla descrizione della comunione tra il cristo e la Chiesa in chiave di rapporto sponsale inserita a supporto del brano di Ef 5,21-33).

Nei vv. 23-24 il titolo di attribuito al Cristo ha il senso di Signore: a lui si deve sottomissione. L’attribuzione del titolo viene giustificata con il rimando alla funzione soteriologica: egli è (v 23; cfr. anche Ef 4,12; 5,30). Anzi è il secondo titolo che spiega il primo. Come abbiamo visto, è nell’atto salvifico compiuto con il dono di sé che prende forma e si manifesta interamente l’amore che egli nutre per la Chiesa: infatti, con il purificarla dal peccato l’ha resa santa e immacolata e così l’ha predisposta all’unione sponsale (cfr. vv 25-27 e 5,2). Infine nei vv. 29-30, dove si dice che Cristo nutre e cura la Chiesa, alla quale ogni battezzato appartiene in qualità di membro, riecheggia l’idea presente nella seconda accezione del termine Kephalé cioè quella di principio vitale del corpo (cfr. 4,16).

In ultima analisi, l’insegnamento di Ef 5,21-33 permette di cogliere con evidenza il carattere di reciprocità inerente al rapporto tra il Cristo e la Chiesa disegnato dal paradigma del corpo. In verità la comunione qui evocata pone i soggetti uno di fronte all’altro nella irrevocabilità dell’appartenenza reciproca. nel sottolineare questa conclusione, giova rimandare a un contributo per l’approfondimento che iene offerto dal prendere in considerazione un dato rilevante della spiritualità paolina: l’esito della comunione con Cristo enunciato nei termini di Gal 2,20 non avrebbe alcuna portata reale se la Chiesa, e ogni suo membro, non fossero resi disponibili dallo Spirito Santo a lasciarsi amare e possedere da Cristo nel modo descritto dal paradigma sponsale. L’uso di questo paradigma – vale la pena ripeterlo- comporta e garantisce l’unione vicendevole, la donazione reciproca,come si evince dalla citazione di Gen 2,24 fatta per intero in Ef 5,31, la quale riceve un senso nuovo dal versetto successivo: « Questo misero è grande; lo dico in riferimento a Cristo e alla Chiesa ».

La comunione con Cristo non avrebbe alcuna portata reale, quindi se egli non unisse a sé la Chiesa come suo e i singoli credenti come le proprie . Egli, infatti, in forza dell’efficacia redentrice che inerisce al proprio sacrificio pasquale, ha fatto della Chiesa una sua proprietà esclusiva (cfr. 1Cor 6,15-20), un’entità che appartiene ormai intrinsecamente, indissolubilmente alla sua persona – questo sta a dire l’immagine del corpo! – e senza la quale egli non sarebbe « Dio con noi ».

NOTE:

1. (52 nel testo) E. Franco, « Chiesa come Koinonía: immagini, realtà, mistero », in Rivista Biblica 44 (1996) 157-192 (159).

2. (57 nel testo) R. Schnackenburg, La chiesa nel Nuovo testamento, Morcelliana, Brescia 1975, 176.

3. (58 nel testo) Ivi, 176.

4. (61 nel testo) Penna R., Lettera agli Efesini, 124.

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