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DA EVANGELIZZATI A EVANGELIZZATORI – L’EVANGELIZZAZIONE DELL’EUROPA

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DA EVANGELIZZATI A EVANGELIZZATORI – L’EVANGELIZZAZIONE DELL’EUROPA

Grazie all’opera di san Patrizio, santa Brigida, san Columba e molti altri, la chiesa irlandese è nata con tratti originali. Moltissimi monaci irlandesi hanno evangelizzato il continente, contribuendo fortemente alla costruzione dell’Europa.
I romani la chiamavano Hibernia, ma se ne disinteressarono. Priva di città, di metalli preziosi, con un clima ritenuto inospitale, non fu sfiorata dalla colonizzazione romana né da invasioni barbariche; così l’Irlanda rimase isolata dal continente europeo e poté conservare le sue tradizioni celtiche, la sua struttura agricola e pastorale.
E quando nel secolo v iniziò l’evangelizzazione dell’isola, l’Irlanda, più che accogliere il cristianesimo, ne fu assorbita e trasformata in qualcosa di totalmente nuovo. Alleggerita del bagaglio sociopolitico del mondo greco-romano, la chiesa irlandese nacque e si sviluppò con tratti originali, ma fieramente cattolica; si strutturò secondo una propria peculiarità, attingendo le tradizioni giuridiche dalla cultura celtica e sviluppando una straordinaria capacità di irradiazione spirituale e missionaria.

MONACI, ABATI E BADESSE
L’Irlanda diventò totalmente cristiana per opera del monaco bretone Patrizio (vedi riquadro). Per 30 anni, con zelo infaticabile, egli fondò vari monasteri, divenuti punti di riferimento della vita religiosa e culturale del paese. Nella sua attività apostolica ebbe una geniale intuizione: associare i bardi (poeti e maestri di scuola) all’annuncio del vangelo.
La missione di Patrizio aveva avviato una chiesa modellata sull’organizzazione diocesana, secondo la struttura amministrativa romana, incentrata sui vescovi, per lo più insediati nelle antiche città romane. Ben presto però, mancando l’Irlanda di una vita urbana, la struttura ecclesiale fu adattata al sistema socio-politico della società celtica, che era tenuta insieme da legami tribali e familiari.
Già prima della fine del vi secolo l’organizzazione della chiesa fu incentrata sui monasteri. La parrocchia o diocesi monastica corrispondeva al distretto di un clan, il cui capo era fondatore, patrono e proprietario del monastero, tanto che l’abate era scelto dal capo tribale. Il monastero, a sua volta, fungeva da chiesa e scuola, punto di convergenza spirituale e sociale del clan o del gruppo familiare.
Capo spirituale del monastero e del territorio annesso era l’abate, che non necessariamente era consacrato vescovo o sacerdote. La gerarchia ecclesiastica tradizionale, quella istituita al tempo di Patrizio, continuava a esistere, ma i vescovi operavano normalmente all’interno della parrocchia monastica e sotto l’autorità dell’abate.
Alcuni monaci, infatti venivano ordinati per svolgere le funzioni sacerdotali: amministrazione dei sacramenti, ordinazioni sacerdotali, consacrazione di chiese e altari. Vescovi e preti venivano pure inviati in missioni itineranti per convertire altri clan e altri popoli. Si svilupparono così alcune grandi abazie, che abbracciavano pure i territori delle nuove fondazioni, anche al di là del mare, in Scozia e Britannia.
Il secolo vi fu il periodo d’oro delle fondazioni monastiche. La tradizione attribuisce tale sviluppo all’azione di Finniano, un altro monaco della Britannia occidentale, che fondò nel Meath il monastero di Clonard, passato nella tradizione come una «scuola di santi».
Una caratteristica prettamente irlandese era il ruolo della donna nella società celtica, trasferita automaticamente nell’organizzazione ecclesiale e monastica. Oltre ai monasteri rigidamente maschili, infatti, sorsero spesso i cosiddetti «monasteri doppi», che ospitavano comunità di uomini e donne, separate ma vicine, in alcuni casi con una chiesa comune per gli uffici liturgici.
In molti casi le badesse dei «monasteri doppi» esercitavano la loro autorità su uomini e donne. Le regole concedevano loro anche il potere di ascoltare le confessioni e dare l’assoluzione. Si trattava, in genere, di fondazioni aristocratiche, per cui tali badesse erano di nobili origini, colte ed energiche. Ma la regola raccomandava che «una badessa doveva essere nobile in saggezza e santità, più che nobile di nascita».
Il primo dei monasteri doppi sarebbe stato fondato da santa Brigida a Kildare (vedi riquadro). Nobildonna di una delle più antiche famiglie irlandesi, «madre delle monache d’Irlanda», la vita di santa Brigida era radicata nei miti e nei riti della sua terra; per cui anche i racconti della sua vita sono inseparabili dalle mitologie e saghe celtiche. Per quanto leggendari, tali racconti rivelano l’importanza del ruolo femminile nel movimento monastico irlandese, caratterizzato da una tumultuosa varietà di vita religiosa, ben diversa dal più ordinato monachesimo benedettino.

«MARTIRIO VERDE»
Evangelizzazione e crescita della chiesa in Irlanda avvennero in modo pacifico, senza persecuzioni e senza martiri, almeno per un millennio, fino al tempo di Elisabetta i d’Inghilterra. In assenza del «martirio rosso», cioè con spargimento del sangue, gli irlandesi escogitarono altre forme di martirio: una di esse era il «martirio verde».
I martiri verdi, rinunciavano alle comodità e ai piaceri comuni alla società umana e si ritiravano in luoghi solitari (boschi, montagne, o isole deserte), fuori delle giurisdizioni tribali, per studiare le scritture e vivere in comunione con Dio.
Vita monastica ed eremitica era interpretata dagli irlandesi secondo la propria identità psicologica e religiosa, con pratiche ascetiche dure e intransigenti, da rasentare l’eccentricità (stando alle leggende tramandate), come cantare i salmi distesi sul ghiaccio, oppure pregare con le braccia distese a forma di croce così a lungo, che gli uccelli avevano il tempo di fare il nido sulla testa dell’orante.
È certo, tuttavia, che i monasteri, centri di spiritualità e di cultura, pullulavano di monaci, molti dei quali entrarono nel calendario liturgico, meritando all’Irlanda il titolo di «isola dei santi».

«MARTIRIO BIANCO»
Tra questi santi ci sono anche tanti missionari. Popolo socievole e nomade per indole, agli irlandesi non bastava il «martirio verde» e inventarono il «martirio bianco», una geniale combinazione di ascetismo ed evangelizzazione, attività quest’ultima che da sempre ha caratterizzato la chiesa irlandese.
Moltissimi monaci abbandonavano il monastero di origine, senza farvi più ritorno, e andavano peregrinando di luogo in luogo ad annunciare la parola di Dio. Grazie a tale forma di ascesi, chiamata pure «peregrinazione per Cristo» o «peregrinazione per amore di Dio», essi si sparsero a migliaia prima in Gran Bretagna, poi in tutto il continente: da evangelizzati gli irlandesi diventarono evangelizzatori.
Cominciarono con il portare il vangelo alle altre popolazioni celtiche stanziate nelle coste occidentali della Gran Bretagna; spingendosi fino all’estremità della Scozia, dove san Columba (521-597), fondò il monastero di Iona (vedi riquadro), ben presto diventato centro di irradiazione culturale, religiosa e missionaria, per le isole circostanti, fino alle Orcadi, Shetland e Islanda.
Nello stesso periodo, un numero incalcolabile di missionari-pellegrini varcarono l’oceano e invasero il continente, dalla Francia alla Polonia, dalla Svizzera all’Italia. Anche le loro gesta sono tramandate con toni epici e fantasiosi; ne è un esempio san Brentano (484-578), il quale, avventuratosi con 17 monaci in una spedizione oceanica, su una barca di vimini rivestita di pelli, celebrò la pasqua in groppa a una balena gigantesca, scambiata per un’isola.
Tali leggende, tuttavia, non fanno altro che esaltare la realtà storica, testimoniata da città e regioni che fanno risalire le loro origini ai missionari celtici e bretoni, o ne portano addirittura il nome. Per limitarci all’Italia, quasi ogni regione ne vanta uno, e spesso tanto popolare da apparire come tipico del luogo: sant’Orso d’Aosta, san Frediano di Lucca, san Cataldo di Taranto, san Donato di Fiesole, sant’Emiliano di Faenza, san Felice di Piacenza… Il più noto dei missionari itineranti è san Colombano (543c.-615), anche lui conteso tra Bobbio, Luxeuil, Bregenz.
Nel 590, con 12 compagni, Colombano lasciò il suo monastero di Bangor e passò in Gallia; dopo molto peregrinare fondò in Borgogna i monasteri di Annegray, Fontaine e Luxeuil, che diventò la Montecassino francese.
Cacciato dalla Borgogna, peregrinò lungo la valle del Reno, evangelizzando i pagani in Alsazia e Svizzera, dove fondò un monastero a Bregenz, a ovest del lago di Costanza, mentre il suo compagno san Gallo ne fondò un altro che porta ancora il suo nome. Raggiunta l’Italia, Colombano terminò la sua corsa a Bobbio (Piacenza), dove morì nel 615, mentre stava costruendo il suo ultimo monastero.

RADICI DELL’EUROPA
L’evangelizzazione di Colombano, e dei missionari irlandesi in generale, non era programmata né guidata dall’alto e, per molti aspetti, era fortemente innovativa. Il cristianesimo da loro vissuto e predicato conservava tutte le caratteristiche desunte dalle tradizioni celtiche. Regime di vita monastica, consuetudini rituali e liturgiche, data della celebrazione della pasqua, metodi ascetici e spirituali, prassi pastorali, come la confessione privata… costituivano elementi di novità, che spesso entrarono in contrasto con le tradizioni di origine romana già affermate nella cristianità del continente.
Scontri e tensioni con i vescovi erano inevitabili, sia per le bizzarrie di qualche «pellegrino», sia perché i missionari irlandesi rimproveravano preti e prelati di lassismo, re, principi e papi di rompere l’unità della chiesa.
Colombano difese con passione e solide argomentazioni la legittimità delle tradizioni della cristianità irlandese, rimanendo scrupolosamente unito e fedele alla chiesa di Roma. Ma nei secoli seguenti, con l’espansione del monachesimo benedettino, molte di tali tradizioni furono assorbite, ordinate o cancellate. Sopravvissero, invece, alcuni gusti nel campo della musica, arte, architettura, scrittura, trascrizione di codici e nella liturgia, come la confessione privata, adottata dalla chiesa universale.
Della missione Colombano e dei suoi discepoli rimase indelebile, soprattutto, un ideale: la fusione di culture e popoli diversi in una sola famiglia, sotto la guida del vescovo di Roma. In tale modo nessun popolo avrebbe potuto né dovuto minacciare l’altro, «perché, scriveva Colombano in una sua lettera – noi tutti siamo membra unite di un solo corpo, sia franchi, bretoni, irlandesi o qualsiasi possa essere la nostra razza».
Nasceva così l’Europa cristiana.

Benedetto Bellesi

 

Publié dans:EUROPA, EVANGELIZZAZIONE, SANTI |on 16 mars, 2015 |Pas de commentaires »

TRA LE MURA DELL’ANIMA (SECONDA PARTE) – IL RACCONTO DI CHI HA PENSATO DI PORTARE GESÙ NELLE CARCERI, ED …

http://www.zenit.org/it/articles/tra-le-mura-dell-anima-seconda-parte

TRA LE MURA DELL’ANIMA (SECONDA PARTE)

IL RACCONTO DI CHI HA PENSATO DI PORTARE GESÙ NELLE CARCERI, ED HA SCOPERTO CRISTO NEL VOLTO DI DETENUTI E VITTIME

Rimini, 30 Aprile 2013 (Zenit.org) Antonio Gaspari

Pubblichiamo oggi la seconda e ultima parte dell’intervista con Marcella Clara Reni, direttrice dell’associazione Prison Fellowship Italia Onlus. La prima parte è stata pubblicata ieri, lunedì 29 aprile.

***  

Come è nata Prison Fellowship International e in che modo la sezione italiana si è sviluppata?
Prison nasce nel mondo perché nel 1976 il senatore democratico Charles Colson braccio destro di Nixon viene accusato di Watergate informatico. Venne condannato  a tre anni di carcere. Lì si convertì e quando uscì dal carcere vendette tutto quello che aveva per dedicarsi all’opera di portare aiuto a tutti i detenuti nel mondo. Esistono luoghi nel mondo dove la detenzione è disumana, e Colson diceva: “con Gesù il carcere, anche il peggiore, diventa un luogo più umano, senza Gesù è un luogo disumano”.
Nel contesto di questa che è una sorta di ‘compagnia degli amici dei detenuti’, l’intuizione, che per ora è solo italiana, ha fatto un passo in avanti con il progetto Sicomoro che è un incontro tra detenuti e vittime, Così abbiamo fondato in italia anche la Victim Fellowship, perché ci rendiamo conto che le vittime soffrono non meno dei detenuti e che hanno bisogno di essere ristorati, e in qualche maniera risarciti dai detenuti in una relazione di riparazione.
Parlando con un detenuto che si era macchiato di ben trentacinque omicidi, Mario Congiusta, a cui è stato ucciso il figlio perché si è opposto ad una richiesta di ‘pizzo in Calabria’, gli ha detto ‘per te prima o poi la pena finisce. La mia pena invece non finirà mai’.
Oggi Mario Congiusta, spiega che “va dal dolore all’impegno perché non succeda ad altri”, ed ha ritrovato la sua serenità dopo aver lavorato per il progetto Sicomoro. Come lui sono tante le vittime che ritrovano la pace dopo aver lavorato per i progetti di Prison e Victin Fellowship..
Il Primo progetto ‘Sicomoro’ è nato nel carcere di Opera.  Tutti ergastolani. Gente che hanno le mani che grondano di sangue.  Lo abbiamo fatto chiedendo che ci affidassero i detenuti  più buoni per provare a vedere se funzionava. Gli esperti ci hanno dato invece i peggiori perché hanno detto: ‘se funziona con loro funzionerà con tutti’ E ha funzionato!
Ma chi ve lo fa fare?
E’ una cosa che ci chiedono tutti. E’ un modo di restituire e riconquistare al bene persone, perché ci rendiamo conto che molti di loro, anche i più criminali,  sono essi stessi vittime, nel senso che molti vengono da situazioni familiari disperate, da povertà sociali e morali, e noi abbiamo il dovere di riparare i danni
E poi assistiamo a tantissime storie dei conversioni. Uno che abbiamo incontrato al primo progetto Sicomoro era un testimone di Geova.  Nato e vissuto in una famiglia di Testimoni di Geova. Alla fine del progetto ha chiesto di ricevere i sacramenti cattolici.  Oggi è battezzato e quando gli ho chiesto perché aveva preso questa decisione mi ha risposto, “il Dio che mi avevano presentato (Geova) mi aveva sempre giudicato, voi mi avete portato un Gesù che mi perdona” ed io voglio questo Dio.
Cosa si può fare per sostenere il vostro lavoro?
Noi siamo molto poveri, non abbiamo né finanziamenti nè sponsor, però tutti i proventi del libro vanno ai progetti Sicomoro.
Quello che sarebbe utile è che le vittime che hanno desiderio di guarire le ferite del danno subito, ci contattino. Abbiamo visto che l’incontro tra vittime e detenuti  crea benefici per entrambi.
Adesso stiamo per entrare nel carcere di Modena, dove c’è un braccio di detenuti che si sono macchiati di femminicidio.  Ci sono molti islamici, ben 15 di loro hanno accettato di partecipare al progetto.
L’incontro tra le vittime e i detenuti presuppone un lavoro difficile e faticoso, ma genera tante grazie. Nel libro c’è la lettera di una delle vittime, una ragazza di 23 anni che all’inizio era molto spaventata e scettica. Apostrofava i detenuti accusandoli di essere dei vigliacchi. Dopo questa esperienza ha però inviato una lettera in cui ha scritto: “Carissimi. Mi siete mancati. Questa è stata l’esperienza più grande della mia vita”.
Noi aiutiamo le persone accompagnandole con le preghiere, e assistiamo a cambiamenti miracolosi.  Ci sono due detenuti che hanno partecipato al progetto Sicomoro.  Le famiglie di questi due detenuti sono rivali in maniera feroce da decenni, Si tratta di due famiglie di clan rivali della stessa città. Già essere riusciti farli incontrare è stata un miracolo.  Il direttore del carcere mi ha detto che le due famiglie si stanno riconciliando, così siamo diventati strumenti di pace.
All’inizio avevamo difficoltà a farci accedere alle carceri, adesso ci cercano, perchè hanno capito la potenza del progetto. Sono almeno dieci le carceri che hanno chiesto il nostro intervento.
Appena dentro al carcere facciamo una presentazione ai detenuti spiegando il progetto. Quelli che decidono di partecipare vengono selezionati. In base al tipo di crimine noi cerchiamo le vittime. Quelle che vengono in carcere, buttano in faccia ai detenuti il loro dolore. Questa esperienza fa prendere coscienza e consapevolezza ai detenuti che non possono fare a meno di capire la sofferenza che hanno procurato. Questo li spinge  a cercare di riparare il danno. Si tratta di incontri a forte carica emotiva che toccano il cuore anche di noi che organizziamo l’incontro. A quel punto si inizia una relazione con pentimenti e perdono. I risultati sono incredibili, con il recupero di vite macchiate dal crimine e vittime liberate dalla sofferenza.
La crescita del progetto è tale che abbiamo organizzato dei corsi per preparare i volontari. Chiunque, anche non cattolico, può partecipare al corso di formazione, e lavorare nel progetto. Abbiamo dei siti chiunque voglia aiutare se partecipa al corsop fine maggio a Loreto primo di giugno chiunque voglia partecipare ci scriva.

Publié dans:EVANGELIZZAZIONE |on 2 mai, 2013 |Pas de commentaires »

Tra le mura dell’anima (Prima parte) [ Gesù nelle carceri]

http://www.zenit.org/it/articles/tra-le-mura-dell-anima-prima-parte

Tra le mura dell’anima (Prima parte)

Il racconto di chi ha pensato di portare Gesù nelle carceri, ed ha scoperto Cristo nel volto di detenuti e vittime

 Rimini, 29 Aprile 2013 (Zenit.org) Antonio Gaspari

Perché si dovrebbero aiutare i detenuti? Perché una persona sana di mente dovrebbe spendere, tempo ed energie per aiutare gente che ha commesso atti malvagi? Chi può essere così folle da chiedere ad un padre di perdonare e aiutare chi gli ha ucciso il figlio? Con quale logica si può immaginare di redimere le tante vittime del male con atti di immensa e coraggiosa carità? Come fare ad amare chi ha compiuto atti che hanno fatto male a tante persone? E’ giusto provare a far lavorare insieme vittime e carnefici? Come è possibile far riconoscere le responsabilità ai colpevoli e lenire le ferite delle vittime?
Impossibile direbbero alcuni. Eppure esiste una associazione che si chiama Prison Fellowship International, presente in 132 paesi ed in tutti continenti, i cui affiliati entrano nelle carceri per promuovere quella che chiamano “giustizia ripartiva”, cercando di allievare la sofferenza delle vittime e recuperare l’umanità dei colpevoli.
La sezione italiana si chiama Prison Fellowship Italia Onlus ed è diretta da Marcella Clara Reni.
Gli italiani, che come si sa tendono sempre a migliorare i progetti, non si sono accontentati di assistere i carcerati. Così dopo l’esperienza “Sicomoro” svolta nel carcere di Opera, hanno coinvolto nel progetto anche gli ex detenuti, le loro famiglie e le vittime.
Per raccontare l’esperienza di chi ha pensato di portare Gesù nelle carceri e ha scoperto che Cristo si trovava nei volti e nelle sofferenze di carcerati e vittime, Marcella Reni e Carlo Paris hanno scritto il libro “Tra le mura dell’anima” (edizioni Sabbiarossa).
Per saperne di più ZENIT ha intervistato Marcella Clara Reni. Una donna coraggiosa, sposata, madre di tre figli, di professione notaio, direttore Nazionale del Rinnovamento nello Spirito, Presidente di Prison Fellowsìhip Italia Onlus e di Victim Fellowship Italia Onlus.
Perché hai iniziato questo lavoro con i carcerati?
E’ successo in maniera del tutto casuale. Faccio di professione il notaio, e ho un papà maresciallo dei Carabinieri. Come si può immaginare ho una formazione e mentalità molto legalista. Un giorno viene da me un conterraneo e mi dice: ‘Caro Notaio mio fratello è un giovane medico, è recluso in attesa di giudizio, ma lui è innocente, non ha fatto niente. Bisognerebbe andare in carcere per ricevere una sua procura generale’. Sono andata a ricevere questa procura con grandi pregiudizi. Pensavo: ‘dicono tutti così, sono tutti innocenti, ma poi va a sapere…’
Ho incontrato questo giovane. In maniera fredda e distaccata gli ho letto la procura. Ho cercato di capire se capisse quanto stavo leggendo. Quando ho finito di leggere e l’ho invitato a firmare, mi sono resa conto che era come se fosse fisicamente ed emotivamente morto. Mi sono sentita a disagio. Ero già in un cammino spirituale e mi ha molto colpito vedere un giovane che non aveva più voglia di vivere. L’ho guardato negli occhi e gli ho detto: ‘coraggio, da oggi io pregherò per lei, ogni giorno reciterò un Padre nostro per lei’. Ho raccolto le mie carte, Me ne sono andata e ho cominciato a  pregare davvero per quest’uomo. Ogni sera recitavo un Padre nostro.
E mi chiedevo, e se fosse vero che è innocente? Perché tanto dolore? Poi la vita frenetica mi ha distratto, non ho più pregato per lui. Dopo un paio di anni mi arriva in studio un uomo che non ho riconosciuto, e mi ha detto: ‘Buona sera notaio, sono quello del carcere. Volevo dirle grazie per avermi salvato la vita. In questi due anni per tre volte ho tentato il suicidio. Per tre volte ho sentito nel cuore una voce che diceva: ‘Fuori c’è qualcuno che prega per te’. E per tre volte mi sono fermato all’ultimo istante.
In verità io mi ero dimenticata di pregare per lui, però Dio non lo ha mai dimenticato e si era ricordato di lui. Da qui nasce il mio interesse per i detenuti. Successivamente a questo fatto ho avuto la possibilità di incontrare in Italia alcuni esponenti di Prison Fellowship International che non conoscevo. Si tratta di un associazione che è presente in cinque continenti ed erano venuti a chiedere di aprire una sezione in Italia.
Cercavano un gruppo di cattolici. Avevano chiesto in Vaticano a Giovanni Paolo II, li aveva indirizzati al Rinnovamento nello Spirito, perché “solo gente appassionata e entusiasta di Dio poteva svolgere un lavoro del genere”.
Così dopo vari incontri, nel 2009 nasce e comincia ad operare lai Prison Fellonwship Italia Onlus.
Per ragioni professionali e visto che sono laureata in giurisprudenza, quelli del RnS mi hanno proposto di dirigere l’associazione. Ho preso questo progetto con molta superbia, pensavo di andare nelle carceri per portare Gesù e la cosa che invece mi ha toccato il cuore e che mi ha convertito e che quando sono entrata nella carceri ho trovato lì Gesù Vivo che mi veniva incontro. Non ho portato niente se non la mia povertà.

(La seconda parte verrà pubblicata domani, martedì 30 aprile)

Publié dans:EVANGELIZZAZIONE, MEDITAZIONI |on 29 avril, 2013 |Pas de commentaires »

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