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1 RE 19,16.19-21
In quei giorni, disse il Signore ad Elia: 16 « Ungerai Eliseo figlio di Safat, di Abel-Mecola, come profeta al tuo posto ».
19 Partito di lì, Elia incontrò Eliseo figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il decimosecondo. Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. 20 Quegli lasciò i buoi e corse dietro a Elia, dicendogli: « Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò ». Elia disse: « Va’ e torna, perché sai bene che cosa ho fatto di te ».
21 Allontanatosi da lui Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con gli attrezzi per arare ne fece cuocere la carne e la diede alla gente, perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio.
COMMENTO
1 Re 19,16b-21
Vocazione di Eliseo
Il ciclo di Elia (1Re 17,1 – 22,54; 2Re 1) rappresenta, insieme a quello di Eliseo, il nucleo centrale dei due libri dei Re, di cui mette chiaramente in luce il carattere profetico. Dopo il sacrificio del Carmelo (1Re 18,16-46), il profeta Elia, perseguitato da Gezabele, moglie di Acab, si reca al monte Oreb, il luogo della rivelazione e dell’alleanza. Durante il cammino nel deserto è sostenuto da Dio, come Israele al tempo dell’esodo, con un pane e un’acqua miracolosi (1Re 19,1-8). Dopo aver camminato quaranta giorni e quaranta notti nel deserto, egli giunge al monte della rivelazione, dove gli appare JHWH (1Re 19,9-18). Il fatto che Dio parli ad Elia non nell’uragano, nel terremoto o nei lampi, ma «nel mormorio di un vento leggero» (lett. nella voce di un sottile silenzio) significa che anche il profeta, come Mosè, riceve la parola di Dio, non però mediante i fenomeni esterni della teofania, bensì nell’intimo del suo cuore, «pieno di zelo per il Signore». Egli appare così come il genuino continuatore di Mosè in quanto rende attuale nell’oggi, nonostante l’assenza di fenomeni straordinari, la volontà di JHWH contenuta nella legge (cfr. Dt 18,15-18).
Sul monte Oreb Dio affida ad Elia tre compiti il cui scopo è quello di preparare le persone che scateneranno il castigo divino sul popolo peccatore (1Re 19,15-16). Per prima cosa dovrà consacrare Cazael come re di Damasco (cfr. 2Re 8,7-15); in seguito dovrà ungere Ieu come re di Israele (cfr. 2Re 9,1-13); infine dovrà ungere come suo successore Eliseo figlio di Safat (1Re 19,19-21). Sia Cazael sia Ieu provocheranno una grande distruzione in Israele, ma Dio risparmierà in Israele settemila persone, un resto che gli è fedele. Elia non sarà dunque solo nella sua adesione incondizionata a JHWH. Di ritorno dall’Oreb, Elia adempie per primo il terzo dei compiti che gli erano stati affidato, la chiamata di Eliseo. Il testo liturgico si apre con l’ordine dato da JHWH sull’Oreb (v. 16b). Il racconto si divide in due parti: gesto simbolico di Elia (v. 19); congedo di Eliseo (vv. 20-21).
Il gesto simbolico di Elia (v. 19)
Il narratore decrive immediatamente l’incontro di Elia con Eliseo. La scena si svolge con ogni probabilità nel villaggio stesso in cui viveva Eliseo, Abel-Mecola. Costui è intento a un impegnativo lavoro agricolo; egli arava infatti con una serie di dodici coppie di buoi che egli guidava tenendo stretta l’ultima coppia, la dodicesima. Al vederlo, Elia gli si avvicina e gli getta sulle spalle il suo mantello. La sacralità del mantello di Elia apparirà in seguito, nella scena del congedo di Elia da Eliseo (cfr. 2Re 2,8.l3-14), dove sono attribuite a esso proprietà miracolose. La concezione del mantello dotato di qualità taumaturgiche era abbastanza diffusa nell’antico Vicino Oriente, dove esistono testimonianze a partire da rituali assiri, dal regno di Mari e dal graffito in greco di una tomba fenicia, fino ad arrivare al NT e precisamente all’episodio della guarigione dell’emorroissa operata semplicemente dal contatto della donna con il mantello di Gesù (Mc 5,25-34).
Il gesto di Elia però non ha un carattere miracoloso, e neppure indica un passaggio di poteri da Elia al nuovo discepolo. Questi due significati del mantello appariranno in occasione della dipartita di Elia. Qui invece si tratta di un segno di appropriazione, con il quale Dio prende possesso di un uomo per conferirgli una missione. La scena ricorda la designazione di Giosuè come successore di Mosè (Nm 27,18-23; Dt 34,9; cfr. anche Sir 46, l). Però il rituale adottato è diverso e inoltre, mentre nel caso di Mosè e di Giosuè si tratta di una vera e propria trasmissione di poteri, a Eliseo per ora viene solamente richiesto di mettersi al servizio di Elia.
Il congedo di Eliseo (vv. 20-21).
Eliseo comprende immediatamente il significato del gesto di Elia e accetta di mettersi al suo servizio, ma chiede di poter prima congedarsi dai suoi genitori, mostrando così di aver capito che la sua missione avrebbe avuto un carattere definitivo. Elia glielo concede, ma gli chiede di tornare subito, data l’importanza di quanto era stato appena compiuto. Tale motivazione è formulata in un modo difficile da comprendere. Dal punto di vista grammaticale la frase si può rendere come un’interrogativa: « (Torna), perché, che cosa ti ho fatto?» ma non sembra abbia senso. Dal momento che in ogni caso sembra significare il carattere speciale della missione che gli è stata conferita, l’espressione può essere interpretata come un’esclamazione: «Ritorna, perché (sai bene) che (grande) cosa ho fatto per te!».
Ritornato a casa, Eliseo sacrifica un paio di buoi e con i pezzi di legno dell’aratro accende il fuoco per cuocerne la carne; poi, divide il pasto con i suoi in una festosa cerimonia d’addio. Con questo pasto comune egli rivela ai suoi che il suo distacco da loro ha come scopo l’assunzione di un compito più importante e impegnativo. Il fatto che egli si serva della carne dei suoi buoi e la faccia cuocere con il legno del giogo al quale erano legati significa che egli taglia i ponti dietro di sé: ormai non potrà più ritornare al lavoro di prima. Compiuto questo atto di affetto e di distacco, Eliseo si mette al servizio del suo maestro, così come aveva fatto Giosuè nei riguardi di Mosè (Es 24,13). Nel vangelo di Luca vi è un riferimento abbastanza esplicito a questo episodio, ma Gesù, al contrario di Elia, non concede alcun congedo dai parenti al suo seguace: è questo un altro odo per indicare la radicalità della sequela evangelica (cfr. Lc 9,61-62).
Linee interpretative
La chiamata di Eliseo rappresenta per Elia l’uscita dalla solitudine che aveva caratterizzato la sua esistenza fino a quel momento. Ora ha trovato un compagno con cui condividere un progetto per nulla facile, che è quello non solo di ammonire il popolo, ma anche di condizionare gli avvenimenti della storia perché Israele, colpito dai flagelli predisposti da Dio, ritorni sulla retta strada. Al tempo stesso Elia, con la chiamata di Eliseo, assicura la continuità della sua opera. Infatti gli altri due compiti che gli erano stati assegnati sul monte Oreb saranno portati a termine rispettivamente da Eliseo e da un profeta della sua cerchia. La chiamata di Eliseo dà anche un’idea appropriata di quella schiera di profeti che, secondo Dt 18,15-8, saranno i continuatori dell’opera di Mosè. Come Elia, anche i profeti che verranno dopo di lui garantiranno la presenza attiva e costante di Dio in mezzo al suo popolo.
La chiamata di Eliseo dà anche un’idea dell’origine e della radicalità della vocazione profetica. Infatti non è Eliseo che si mette a disposizione di Dio e neppure Elia che decide di chiamarlo al suo servizio, ma è Dio stesso che dà a Elia il compito di andarlo a cercare e di coinvolgerlo nella missione di guida spirituale del popolo. A Eliseo si richiede una risposta immediata e radicale. Paradossalmente anche il banchetto con i suoi parenti non è un indugio, ma il segno di un distacco totale, di un cambiamento radicale di vita. D’ora in poi non potrà più tornare indietro, ma dovrà immergersi sempre più in un compito nel quale non mancheranno difficoltà e sofferenze.
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GALATI 5,1.13-18
Fratelli, 1 Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù.
13 Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. 14 Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: « Amerai il prossimo tuo come te stesso ». 15 Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!
16 Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; 17 la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste. 18 Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge.
COMMENTO
Galati 5,1.13-18
La libertà del credente
Nelle prime due parti della lettera ai Galati (cc. 1-2; 3-4), Paolo ha condensato le sue argomentazioni, ricavate rispettivamente dalla sua esperienza e da quella dei destinatari nonché dalle Scritture, in favore della giustificazione mediante la fede e non mediante le opere della legge. La seconda parte termina con l’allegoria delle due donne, nella quale Paolo mostra simbolicamente come la dipendenza dalla legge, tanto conclamata dai giudei e dai cristiani giudaizzanti, comporti in fondo una perdita di libertà che contrasta palesemente con il piano di Dio, tutto teso alla liberazione del suo popolo. I galati, che hanno già sperimentato in Cristo questa libertà e sono così diventati figli della promessa e autentici rappresentanti del popolo escatologico di Dio, devono dunque fare i conti con i rischi che comporta un ritorno alla pratica della legge. A questa conclusione della parte dottrinale si aggancia la nuova sezione della lettera (cc. 5-6), nella quale Paolo riprende in chiave parenetica i punti più salienti della sua argomentazione e li applica alla situazione dei galati. Nel primo di questi due capitoli egli mostra anzitutto il senso della loro vocazione alla libertà (vv. 1-12), sottolineando poi che la libertà deve necessariamente sfociare nell’amore (vv. 13-15) e infine mette in luce che ciò può avvenire solo con il dono dello Spirito (vv. 16-25). Nella liturgia è proposto il versetto iniziale e poi la seconda e la prima metà della terza parte del capitolo.
La vocazione alla libertà (vv. 1-12)
Paolo inizia la sua esortazione con una frase programmatica: «Cristo ci ha liberati perché restassimo liberi; state dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù (v. 1). Nel mondo ebraico la libertà era concepita come un dono di Dio, il quale, dopo aver liberato il suo popolo dalla schiavitù degli egiziani, lo aveva unito a sé mediante l’alleanza e gli aveva dato la sua legge: lo scopo della legge infatti era quello di creare tra gli israeliti quello spirito di fratellanza e di solidarietà in forza del quale la libertà sarebbe diventata la prerogativa di tutti. In questa prospettiva essi consideravano il codice mosaico come il dono più grande che Dio aveva fatto al suo popolo e la chiamavano «legge di libertà».
Per Paolo è la liberazione ottenuta da Cristo dà la libertà piena. L’espressione «ci ha liberati perché restassimo liberi» (têi eleutheriâi êleutherôsen, ci ha liberati per la libertà) potrebbe essere un semitismo per indicare che la liberazione è stata piena e totale. È più probabile però che si tratti di una liberazione che ha come scopo una vita vissuta nella libertà. Paolo infatti vede proprio nella liberazione dalla legge il punto di partenza di un cammino serio e impegnativo verso la libertà piena. Ciò si comprende solo ricordando che per lui il termine «legge», in sintonia con l’uso che ne veniva fatto negli ambienti legalisti giudaici, designava un semplice elenco di precetti che l’uomo, con le sue sole forze, doveva compiere per rendersi gradito a Dio. In altre parole la legge, staccata dall’azione liberatrice di Dio, era diventata una pura norma incapace di dare la vita all’uomo peccatore (cfr. 3,21), e come tale era paragonabile al pedagogo che tiene sotto sorveglianza il bambino finché sopraggiunge il maestro. Solo Cristo ha potuto togliere di mezzo la legge così intesa, in quanto ha liberato l’uomo dal suo peccato e lo ha fatto diventare figlio di Dio.
I galati prima della loro conversione non erano sotto la schiavitù della legge, in quanto non erano giudei, ma gentili. Tuttavia anch’essi erano soggetti a una analoga schiavitù, in quanto servivano le false divinità, che formavano un tutt’uno con gli elementi di questo mondo (cfr. 4,8-9). Cristo li ha liberati perché restassero liberi. Per loro mettersi ora a praticare la legge significherebbe lasciarsi imporre «di nuovo» il giogo della schiavitù.
Nel brano tralasciato dalla liturgia (vv. 2-12) Paolo mette in guardia i galati nei confronti della circoncisione e di tutto ciò che essa comporta, cioè la pratica di tutta la legge. Coloro che cercano di imporrla loro vogliono separarli da Cristo, e così facendo li pongono su una strada sbagliata. Essi devono dunque decidere se stare dalla sua parte o da quella dei suoi avversari. Ma devono anche sapere che nel primo caso scelgono la libertà, mentre nel secondo, pur pensando di fare proprie le prerogative del popolo eletto, scelgono in realtà un regime di schiavitù che svuota il vangelo del suo contenuto essenziale, la croce di Cristo. Il punto che l’apostolo vuole fare capire con chiarezza ai galati è uno solo: se egli si contrappone ai giudaizzanti, non è per difendere la sua autorità di apostolo, ma per garantire la verità e l’autenticità del vangelo. I galati possono rifiutare le sue direttive, ma così facendo abbandonano Cristo e rinunziano alla sua grazia.
Libertà e amore (vv. 13-15)
Con il v. 13 riprende il testo liturgico. Paolo afferma: «Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te» (vv. 13-14). I credenti non solo sono stati liberati, ma sono chiamati alla libertà: la libertà dunque non è solo un dono, ma anche un impegno. Questa libertà però non deve diventare un alibi per vivere secondo la carne, cioè per favorire una sorta di libertinismo che rifiuta ogni tipo di regola. Al contrario l’essere diventati liberi deve spingerli a mettersi a servizio gli uni degli altri nell’amore. Tutta la legge si riassume infatti nel precetto che impone di amare il prossimo come se stessi. Paolo non predica dunque l’abolizione della legge in quanto tale, ma solo la liberazione da una legge concepita come una norma oggettiva da praticare con le proprie forze. Per lui solo l’uomo liberato da Cristo, e quindi libero dai desideri della carne, può praticare veramente la legge di Dio, in quanto essa si riassume nel comandamento che impegna ciascuno ad amare il prossimo come se stesso.
Purtroppo i galati non sono su questa strada: «Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!» (v. 15). Essi vorrebbero praticare la legge, ma intanto vengono meno proprio al suo comandamento fondamentale, e così facendo si distruggono a vicenda. Con queste parole egli vuole forse far loro comprendere, partendo dalla loro stessa esperienza, che la preoccupazione di osservare la legge in tutte le sue innumerevoli prescrizioni porta in pratica a rompere quei rapporti di amore che rappresentano l’esigenza fondamentale della legge stessa. L’amore per il prossimo, pur essendo il compimento della legge, scaturisce non dalla legge in quanto norma scritta, ma dall’azione salvifica di Dio.
Spirito e carne (vv. 16-18)
Paolo passa poi a spiegare come la libertà dalla legge diventi effettiva solo in forza dello Spirito: «Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne» (v. 16). Per evitare di cedere ai desideri della carne, che sono all’origine di un comportamento peccaminoso, contrario alle esigenze della legge, il credente deve camminare secondo lo Spirito, cioè lasciarsi guidare dalla potenza di Dio che si manifesta nella sua azione. Questo concetto viene approfondito in questo modo: «la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste» (v. 17). La carne è sottomessa agli stimoli del «desiderio». Il termine «carne» qualifica l’uomo peccatore: in senso proprio solo lui «desidera» in quanto, ponendo se stesso egoisticamente al centro di tutte le cose, trasgredisce l’ultimo comandamento del Decalogo («non desiderare»: cfr. Es 20,17; Gen 3,6; Rm 7,7), che rappresenta anch’esso, come il comandamento dell’amore, la sintesi di tutti i precetti divini.
Tuttavia, in senso metaforico si può dire che anche lo Spirito «desidera», nel senso che persegue finalità sue proprie, che sono opposte a quelle della carne. Questa porta l’uomo a fare ciò che non vorrebbe, in quanto lo spinge ad andare contro quelle che sono le norme fondamentali della legge e della sua stessa coscienza; l’uomo però resta sempre responsabile delle sue azioni malvagie, in quanto Dio non priva mai nessuno della sua grazia. Paolo conclude: «Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge» (v. 18). Colui che si lascia guidare dallo Spirito non ha più nulla a che fare con i desideri della carne, in forza dei quali aveva cominciato a sentire la volontà di Dio come una legge imposta dall’esterno (cfr. Rm 7,7-12). La vittoria sul desiderio, e quindi la possibilità di amare i fratelli, dipende dunque essenzialmente dal dono dello Spirito.
Dalle affermazioni di principio Paolo passa subito dopo a indicare quali sono rispettivamente i comportamenti ispirati dalla carne e dallo Spirito: a tale scopo egli elenca prima i vizi provocati dalla carne e poi le virtù che provengono dallo Spirito (cfr. vv. 19-25). I cataloghi di vizi e di virtù derivano, come genere letterario, dalla filosofia greca, specialmente stoica, la quale se ne serviva per formulare il suo insegnamento morale, incentrato sull’osservanza della legge naturale. Direttamente però Paolo assume questo genere letterario dal giudaismo ellenistico, il quale lo utilizzava per annunziare al mondo greco l’ideale morale contenuto nell’AT, e soprattutto nel decalogo (cfr. Sap 14,23-29).
Linee interpretative
In questo testo Paolo mette con forza l’accento sulla libertà in quanto dono che viene fatto da Cristo al credente. Questa consiste fondamentalemente nell’eliminazione di un rapporto servile con la legge. Paolo sottolinea però con chiarezza che questa libertà non consiste nel fare i propri comodi, ma nell’osservare il precetto fondamentale dell’amore, nel quale tutta la legge è riassunta. Appare quindi chiaro che Paolo non punta a una eliminazione della legge in quanto tale, ma a una sua ricomprensione a partire dal suo nucleo centrale. Paradossalmente dunque è proprio la liberazione da un certo modo di concepire la legge che dà al credente la possibilità di compiere la legge nella sua pienezza. Chi pretende di applicarsi ai singoli precetti della legge mosaica non fa altro che cedere al «desiderio», che è l’essenza del peccato, e porta la comunità all’autodistruzione.
Ma la pratica dell’amore non è una cosa che competa all’uomo se prima non ha accettato in se stesso il dono dello Spirito. Solo lo Spirito infatti è capace di sostituire i desideri della carne con altri desideri che portano all’amore e al dono di sé (cfr. Rm 5,5; 8,1-4). Ogni uomo ha in se stesso la capacità di amare il suo prossimo, ma essa viene facilmente offuscata dalle sue inclinazioni egoistiche (desiderio). In questa situazione non serve a nulla ricordargli, con le ammonizioni e le minacce tipiche della legge, i suoi obblighi. Per diversi motivi l’uomo può essere spinto ad osservare la legge fatta di prescrizioni, ma l’esercizio dell’amore può avvenire solo mediante un dono dello Spirito. Questo dono ha origine fondamentalmente dall’esempio di Cristo, dalla sua totale dedizione al Padre e ai fratelli. Solo chi assume lo spirito di Gesù, che è anche lo Spirito di Dio, può essere veramente libero nella pratica dell’amore verso i fratelli.
30 GIUGNO 2013 | 13A DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO C | PROPOSTA DI LECTIO DIVINA
LECTIO DIVINA SU: LC 9, 51-62
Oggi il Vangelo ci ricorda uno dei momenti più trascendentali della vita di Gesù: dopo aver percorso le strade di Galilea, annunziando il vangelo e curando gli infermi, un bel giorno Gesù decise di salire a Gerusalemme. Questa decisione avrebbe fatto scatenare una serie di avvenimenti che sarebbero culminati nella sua tragica sorte. Gesù, che lo prevedeva, approfittò del suo viaggio per preparare i suoi discepoli; trasformò così la convivenza e l’intimità che gli permetteva il camminare insieme per diversi giorni, in scuola esclusiva per i suoi accompagnatori: consapevole che camminava verso la sua morte, ha voluto fare dei suoi discepoli, seguaci che lo accompagnavano fino alla fine. Ricordando episodi di questo viaggio e i contenuti dell’insegnamento di Gesù, ci offre così la possibilità unica, di accettare il suo insegnamento, di trasformarci in suoi discepoli. Rispetto ai primi, che con Lui hanno fatto il cammino, abbiamo la fortuna di sapere come finì il suo viaggio: sapendo già prima che la sua istruzione è previa alla sua morte, potremo assumerla con maggiore interesse e con meno resistenze. Ci troviamo, allora, in migliori condizioni per capire Gesù di quanti prima lo ascoltarono lungo la strada di Gerusalemme.
51 Quando venne il tempo dell’ascensione, Gesù decise di andare a Gerusalemme. 52 E mandò messaggeri davanti a lui.
Lungo la strada, entrarono in un villaggio di Samaritani per preparare l’alloggio. 53Però non fu ricevuto, perché era diretto verso Gerusalemme. 54 Al vedere questo, Giacomo e Giovanni, e i suoi discepoli lo interrogarono: « Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi »?
55 Ma egli voltatosi li rimproverò. 56E andarono in un altro villaggio.
57 Mentre camminavano, uno gli disse: « Ti seguirò dovunque tu vada ».
58 Gesù rispose: « Le volpi hanno tane e gli uccelli nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo ».
59 A un altro disse: ‘Seguimi’.
Gli rispose: « Lasciami andare prima a seppellire mio padre ».
60Gesù diss: « Lascia che i morti seppelliscano i loro morti, tu va ‘e annunzia il regno di Dio ».
61 Un altro gli disse: « Ti seguirò, Signore. Ma prima permettetemi di dire addio alla mia famiglia « .
62 Gesús rispose: « Chi mette mano all’aratro e guarda indietro non è adatto per il regno di Dio ».
1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
La narrazione del viaggio a Gerusalemme (Lc 9,51-19,29) si apre in modo solenne: essendo cosciente del fatto che si avvicina il momento di « ascendere » al cielo, Gesù decide di « salire » a Gerusalemme, seguendo un preciso piano divino, non la sua volontà (cfr. Lc 9,31).
E non è un caso che questo cammino, che risulterà essere una via crucis, inizi con un rifiuto e con un rifiuto finirà: sarà portato in cielo chi è stato respinto dagli abitanti del villaggio della Samaria (Lc 9,53), dalle autorità e dal popolo, a Gerusalemme (Lc 23,13-23). Come buon Ebreo, Gesù avrebbe potuto scegliere di passare attraverso la Valle del Giordano, evitando di passare per la Samaria. Dal momento che il suo viaggio a Gerusalemme non è una libera scelta, non è possibile nemmeno scegliere la strada. E approfitta dell’incidente per istruire i suoi discepoli arrabbiati (i « figli del tuono »: Cfr. Mc 3,17). E lo fa con severità e flessibilità: rimprovera i suoi e prende un’altra strada. Chi è vittima di violenza rifiuta la violenza dei ‘suoi’!
I tre brevi incontri di persone che vorrebbero seguirlo hanno però altre giuste priorità, esemplificano che tipo di seguaci desidera il Gesù che cammina verso la sua ‘ascensione’. Luca non li identifica con i loro nomi, ma per il loro desiderio: i tre vogliono andare con Gesù. Di nessuno conosciamo la reazione che suscitano le dure parole di Gesù. La cosa importante per il narratore non è la buona volontà dei pretendenti ad essere discepoli, ma gli avvertimenti che Gesù fa, attraverso loro, a chi sogna di essergli seguace.
Il primo (Lc 9,57) e il terzo (Lc 9,61), dichiarano a Gesù la loro volontà di seguirlo. Solo il secondo è quello che Gesù invita a seguirlo (Lc 9,59). La risposta di Gesù al primo volenteroso seguace non può essere più devastante: voleva seguirlo ovunque, ma Gesù lo avverte che non ha nessun posto dove andare, nessuna casa dove riposare (Lc 9,58); decisivo nella sequela non è il posto dove andare, ma la persona di Gesù, che si vuole accompagnare.
Gli altri due, tanto lo scelto (Lc 9,59) come quello che vuole scegliere (Lc 9,61), fanno riferimento ad una situazione familiare che rende ‘secondaria’ la sequela. Anche se seppellire il padre era un dovere ineludibile di pietà e congedarsi dalla famiglia una logica decisione personale, Gesù non le considera vere ragioni: il regno deve riempire il tempo e il cuore di chi lo avrebbe seguito. I seguaci di Gesù non avranno un posto dove andare, ma non potranno occuparsi di nessuno che non sia Lui e il regno di Dio.
2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo!
Luca inizia il suo racconto del viaggio di Gesù a Gerusalemme. Ed è abbastanza significativo che ricordi che iniziò male quello che sarebbe finito male: la via che lo condurrà alla morte a Gerusalemme, inizia con un clamoroso rifiuto. Gli viene negata ospitalità nel suo passaggio per la Samaria. Gesù non reagisce allo sgarbo, ma non si lascia sfuggire l’occasione e trasforma l’episodio in istruzione per i suoi discepoli: ciò che è successo a loro non è un semplice aneddoto, è un segno che anticipa quanto sta per accadere. Gesù nega a chi lo segue il ricorso all’uso della violenza verso gli altri, ma impone la violenza verso se stessi. Per quanto logico sia rispondere all’insulto, non è questo un buon inizio per il cammino che si sta per percorrere. Non si tratta solo di assumere il rifiuto dei forestieri, ma bisogna anche allontanarsi dai propri cari; chi lo vuole seguire non avrà né casa propria, né propria famiglia. E’ degno di accompagnarlo solo chi si occupa del Regno di Dio. Qualsiasi altra preoccupazione, anche se ragionevole e virtuosa, non è valida per Gesù: la casa del discepolo è, come per il suo Signore, la predicazione del vangelo; e il suo destino, il dono della vita. Chi segue Gesù, in cammino verso Gerusalemme, dovrebbe sapere dove lo porterà.
Va notato che Gesù ha iniziato questo suo ultimo viaggio con il piede sbagliato. Un villaggio gli ha negato ospitalità perché si dirigeva a Gerusalemme. La reazione dei discepoli è più che comprensibile; avrebbero desiderato il castigo di Dio per coloro che rifiutavano chi andava alla sua ricerca. Gesù, invece, li rimprovera. Non perché avrebbero fatto ricorso alla violenza, ma solo perché lo avevano desiderato. Non volevano attuarla loro, ma pensavano lasciare questa decisione nelle mani di Dio. Credevano che fosse sufficiente chiedere a Dio la vendetta contro chi aveva offeso Gesù, per ottenere una risposta positiva da parte di Dio. Non era questo il metodo di Gesù; e non sopporta che lo vogliano utilizzare i suoi discepoli: il Dio di Gesù non ascolterà mai preghiere nate con spirito di vendetta. Nonostante le loro buone intenzioni – cercavano di salvare l’onore oltraggiato di Gesù -, la loro preghiera non è stata autorizzata. Non è una preghiera degna di un cristiano chiedere il male per coloro che non sono stati buoni con lui. Neanche Gesù offeso è una buona ragione per desiderare il male per l’oltraggiatore.
L’unica violenza che il discepolo deve desiderare è quella che viene dalla sequela di Gesù: non ha tempo da perdere a pensare a punizioni per gli altri chi deve occupare il suo tempo nell’andare dietro a Cristo. L’unica violenza che i cristiani devono attuare è quella che ha a che fare con se stessi. Troppo spesso, i discepoli di Gesù diventiamo duri con gli altri, solo per dimenticare meglio l’asprezza delle esigenze di Gesù. Rispondendo con prontezza alle ingiustizie che ci fanno, per essere cristiani, crediamo di essere liberi di rispondere degli impegni propri del cristiano. Solo perché dobbiamo affrontare il rifiuto di alcuni, ci crediamo in diritto di rifiutare quelli che non sono d’accordo con le nostre idee o persone.
Il fatto è che Gesù ci ha già avvertito: seguirlo non sarà facile. Non basta entusiasmarsi momentaneamente di Lui. A chi gli ha promesso di seguirlo ovunque, Gesù rispose che non aveva un posto dove andare. Sulla strada per Gerusalemme, Gesù non aveva una casa o un letto da offrire a chiunque. E non lo nascose a chi desiderava accompagnarlo: per sé non aveva nemmeno ciò di cui dispongono gli animali per il loro riposo. A chi desidera accompagnarlo, ma gli chiede di poter seppellire suo padre, Gesù risponde che non c’è alcun ritardo possibile per coloro che sono chiamati ad annunciare il regno di Dio. Anche i morti devono aspettare, quando si tratta di predicare il Dio vivente: un genitore da seppellire non va prima della proclamazione del Vangelo. E a chi desidera solo salutare i suoi amici prima di entrare nella cerchia dei suoi discepoli, Gesù dice che non è adatto ad occuparsi del Regno chi si volge a guardare ciò che si è lasciato alle spalle. Niente è più degno di Dio e il suo regno per essere servito.
Peccato che tali risposte ci risultino già tanto conosciute! Non captando lo scandalo che palpita nelle sue parole, non percepiamo l’incredibile delle richieste che Gesù pone a coloro che vogliono seguirlo più da vicino. Siamo entusiasti di sapere che cosa Gesù si aspetta di tutti coloro che vogliono essere suoi discepoli senza rendersi conto di quanto sono disumane le sue pretese. Essere compagno di Gesù è una sfida che pochi osano affrontare. Se ci sono ancora molti che si dicono suoi discepoli, lo sono perché hanno capito ben poco le sue parole.
Come può chiederci di seguire un maestro che non ci offre neanche un posto per riposare? Gesù non ha ingannato chi si è dichiarato pronto a seguirlo: non avendo casa né cuscino, potranno condividere il sonno e la fatica, mettere in comune la povertà e la solitudine, mentre si gode della sua parola e della sua convivenza. L’unico privilegio del seguace di Gesù è quello di avere il suo maestro come compagno di fatica e di riposo. Non promettendo niente di più, avvertendo chiaramente che in sua compagnia non avrà nemmeno ciò che gli animali ottengono, Gesù ci insegna a non illuderci di ottenere qualche beneficio dalla nostra vita cristiana. E vuole che prima che ci impegniamo a seguirlo da vicino, ci fermiamo a pensare se vale la pena seguire chi ci può promettere tanto poco. Faremmo bene se ce lo prospettassimo oggi.
Come non sorprendersi dinanzi a un maestro che impedisce al suo discepolo di andare a seppellire suo padre? Nel tempo di Gesù, seppellire i morti era un’opera di misericordia, tanto più nel caso del Vangelo, se il defunto era il padre. Era un obbligo imprescindibile. L’urgenza che sente Gesù per la predicazione del regno di Dio impone una situazione eccezionale: coloro che non sono stati chiamati ad annunciare Dio, possono occuparsi dei nostri morti. E’ degno di Dio solo chi lo pone al di sopra di ogni altro dovere, per quanto sacrosanto sia. Chiunque voglia seguire Gesù deve essere disposto a sacrificare ogni obbligo, pur di non rimandare l’annuncio di Dio: tutto può essere rimandato per il discepolo di Gesù, meno la predicazione del Regno. A chi non sembra eccessivo, fuori di logica, tale requisito? E si merita di essere seguito un maestro che insegna tale dottrina?
E come non inorridire per la durezza di un maestro che non permette che un semplice saluto possa ritardare la sequela volontaria? Come ci potrà capire chi non comprende che dobbiamo qualcosa anche ai nostri? Eppure, Gesù continua a volere solo discepoli che non perdono tempo a coltivare relazioni che non hanno futuro. Solo ciò che sta per venire, il regno di Dio, deve occupare il cuore e le mani del discepolo di Gesù; tutto il resto non conta. Gesù non vuole nient’altro che non sia Dio a preoccupare veramente coloro che vivono accompagnandolo. Non si tratta di rompere con nessuno per seguire Gesù; lui non vuole che ci inimichiamo i nostri se abbiamo deciso di seguirlo; ma non permette che ci sia qualcosa né qualcuno che faccia ritardare la sua consacrazione a Dio e al suo regno: i discepoli di Cristo non trovano un buon motivo per rimandare la propria dedizione al lavoro missionario. Faremmo bene se ce lo prospettassimo oggi.
Se Gesù è stato abbastanza onesto da dirci le condizioni, noi possiamo, almeno, corrispondere riflettendoci un po’ di più. Seguirlo senza considerare a che cosa ci impegniamo, è abbassare le sue richieste a semplici suggerimenti. Chi segue Cristo, segue il suo cammino e le sue condizioni. E’ facoltativo seguirlo. Ma una volta dietro di lui, non sono più liberi né il modo né la meta della sequela. Conviene che ci riflettiamo: possiamo lasciarlo oggi, ma se non lo facciamo, saremo costretti a percorrere la via che lui sceglie per noi e con le condizioni che lui ci pone. E una cosa è certa: né il suo cammino né le circostanze saranno molto diversi dal cammino che lui ha fatto né dal modo come lo ha percorso.
JUAN JOSE BARTOLOME sdb,
CELEBRAZIONE DEI PRIMI VESPRI DELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO IN OCCASIONE DELL’APERTURA DELL’ANNO PAOLINO
OMELIE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
E DEL PATRIARCA ECUMENICO BARTOLOMEO I
Basilica di San Paolo fuori le Mura
Sabato, 28 giugno 2008
OMELIA DEL SANTO PADRE
Santità e Delegati fraterni,
Signori Cardinali,
Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Cari fratelli e sorelle,
siamo riuniti presso la tomba di san Paolo, il quale nacque, duemila anni fa, a Tarso di Cilicia, nell’odierna Turchia. Chi era questo Paolo? Nel tempio di Gerusalemme, davanti alla folla agitata che voleva ucciderlo, egli presenta se stesso con queste parole: «Io sono un Giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città [Gerusalemme], formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio…» (At 22,3). Alla fine del suo cammino dirà di sé: «Sono stato fatto… maestro delle genti nella fede e nella verità» (1Tm 2,7; cfr 2Tm 1,11). Maestro delle genti, apostolo e banditore di Gesù Cristo, così egli caratterizza se stesso in uno sguardo retrospettivo al percorso della sua vita. Ma con ciò lo sguardo non va soltanto verso il passato. «Maestro delle genti» – questa parola si apre al futuro, verso tutti i popoli e tutte le generazioni. Paolo non è per noi una figura del passato, che ricordiamo con venerazione. Egli è anche il nostro maestro, apostolo e banditore di Gesù Cristo anche per noi.
Siamo quindi riuniti non per riflettere su una storia passata, irrevocabilmente superata. Paolo vuole parlare con noi – oggi. Per questo ho voluto indire questo speciale « Anno Paolino »: per ascoltarlo e per apprendere ora da lui, quale nostro maestro, «la fede e la verità», in cui sono radicate le ragioni dell’unità tra i discepoli di Cristo. In questa prospettiva ho voluto accendere, per questo bimillenario della nascita dell’Apostolo, una speciale « Fiamma Paolina », che resterà accesa durante tutto l’anno in uno speciale braciere posto nel quadriportico della Basilica. Per solennizzare questa ricorrenza ho anche inaugurato la cosiddetta « Porta Paolina », attraverso la quale sono entrato nella Basilica accompagnato dal Patriarca di Costantinopoli, dal Cardinale Arciprete e da altre Autorità religiose. È per me motivo di intima gioia che l’apertura dell’ »Anno Paolino » assuma un particolare carattere ecumenico per la presenza di numerosi delegati e rappresentanti di altre Chiese e Comunità ecclesiali, che accolgo con cuore aperto. Saluto in primo luogo Sua Santità il Patriarca Bartolomeo I e i membri della Delegazione che lo accompagna, come pure il folto gruppo di laici che da varie parti del mondo sono venuti a Roma per vivere con Lui e con tutti noi questi momenti di preghiera e di riflessione. Saluto i Delegati Fraterni delle Chiese che hanno un vincolo particolare con l’apostolo Paolo – Gerusalemme, Antiochia, Cipro, Grecia – e che formano l’ambiente geografico della vita dell’Apostolo prima del suo arrivo a Roma. Saluto cordialmente i Fratelli delle diverse Chiese e Comunità ecclesiali di Oriente ed Occidente, insieme a tutti voi che avete voluto prendere parte a questo solenne inizio dell’ »Anno » dedicato all’Apostolo delle Genti.
Siamo dunque qui raccolti per interrogarci sul grande Apostolo delle genti. Ci chiediamo non soltanto: Chi era Paolo? Ci chiediamo soprattutto: Chi è Paolo? Che cosa dice a me? In questa ora, all’inizio dell’ »Anno Paolino » che stiamo inaugurando, vorrei scegliere dalla ricca testimonianza del Nuovo Testamento tre testi, in cui appare la sua fisionomia interiore, lo specifico del suo carattere. Nella Lettera ai Galati egli ci ha donato una professione di fede molto personale, in cui apre il suo cuore davanti ai lettori di tutti i tempi e rivela quale sia la molla più intima della sua vita. «Vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). Tutto ciò che Paolo fa, parte da questo centro. La sua fede è l’esperienza dell’essere amato da Gesù Cristo in modo tutto personale; è la coscienza del fatto che Cristo ha affrontato la morte non per un qualcosa di anonimo, ma per amore di lui – di Paolo – e che, come Risorto, lo ama tuttora, che cioè Cristo si è donato per lui. La sua fede è l’essere colpito dall’amore di Gesù Cristo, un amore che lo sconvolge fin nell’intimo e lo trasforma. La sua fede non è una teoria, un’opinione su Dio e sul mondo. La sua fede è l’impatto dell’amore di Dio sul suo cuore. E così questa stessa fede è amore per Gesù Cristo.
Da molti Paolo viene presentato come uomo combattivo che sa maneggiare la spada della parola. Di fatto, sul suo cammino di apostolo non sono mancate le dispute. Non ha cercato un’armonia superficiale. Nella prima delle sue Lettere, quella rivolta ai Tessalonicesi, egli stesso dice: «Abbiamo avuto il coraggio … di annunziarvi il vangelo di Dio in mezzo a molte lotte … Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete» (1Ts 2,2.5). La verità era per lui troppo grande per essere disposto a sacrificarla in vista di un successo esterno. La verità che aveva sperimentato nell‘incontro con il Risorto ben meritava per lui la lotta, la persecuzione, la sofferenza. Ma ciò che lo motivava nel più profondo, era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era un uomo colpito da un grande amore, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro. I concetti fondanti del suo annuncio si comprendono unicamente in base ad esso. Prendiamo soltanto una delle sue parole-chiave: la libertà. L’esperienza dell’essere amato fino in fondo da Cristo gli aveva aperto gli occhi sulla verità e sulla via dell’esistenza umana – quell’esperienza abbracciava tutto. Paolo era libero come uomo amato da Dio che, in virtù di Dio, era in grado di amare insieme con Lui. Questo amore è ora la «legge» della sua vita e proprio così è la libertà della sua vita. Egli parla ed agisce mosso dalla responsabilità dell’amore. Libertà e responsabilità sono qui uniti in modo inscindibile. Poiché sta nella responsabilità dell’amore, egli è libero; poiché è uno che ama, egli vive totalmente nella responsabilità di questo amore e non prende la libertà come pretesto per l’arbitrio e l’egoismo. Nello stesso spirito Agostino ha formulato la frase diventata poi famosa: Dilige et quod vis fac (Tract. in 1Jo 7 ,7-8) – ama e fa’ quello che vuoi. Chi ama Cristo come lo ha amato Paolo, può veramente fare quello che vuole, perché il suo amore è unito alla volontà di Cristo e così alla volontà di Dio; perché la sua volontà è ancorata alla verità e perché la sua volontà non è più semplicemente volontà sua, arbitrio dell’io autonomo, ma è integrata nella libertà di Dio e da essa riceve la strada da percorrere.
Nella ricerca della fisionomia interiore di san Paolo vorrei, in secondo luogo, ricordare la parola che il Cristo risorto gli rivolse sulla strada verso Damasco. Prima il Signore gli chiede: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» Alla domanda: «Chi sei, o Signore?» vien data la risposta: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9,4s). Perseguitando la Chiesa, Paolo perseguita lo stesso Gesù. «Tu perseguiti me». Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo. Cristo non si è ritirato nel cielo, lasciando sulla terra una schiera di seguaci che mandano avanti «la sua causa». La Chiesa non è un’associazione che vuole promuovere una certa causa. In essa non si tratta di una causa. In essa si tratta della persona di Gesù Cristo, che anche da Risorto è rimasto «carne». Egli ha «carne e ossa» (Lc 24, 39), lo afferma in Luca il Risorto davanti ai discepoli che lo avevano considerato un fantasma. Egli ha un corpo. È personalmente presente nella sua Chiesa, «Capo e Corpo» formano un unico soggetto, dirà Agostino. «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?», scrive Paolo ai Corinzi (1Cor 6,15). E aggiunge: come, secondo il Libro della Genesi, l’uomo e la donna diventano una carne sola, così Cristo con i suoi diventa un solo spirito, cioè un unico soggetto nel mondo nuovo della risurrezione (cfr 1Cor 6,16ss). In tutto ciò traspare il mistero eucaristico, nel quale Cristo dona continuamente il suo Corpo e fa di noi il suo Corpo: «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1Cor 10,16s). Con queste parole si rivolge a noi, in quest’ora, non soltanto Paolo, ma il Signore stesso: Come avete potuto lacerare il mio Corpo? Davanti al volto di Cristo, questa parola diventa al contempo una richiesta urgente: Riportaci insieme da tutte le divisioni. Fa’ che oggi diventi nuovamente realtà: C’è un solo pane, perciò noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo. Per Paolo la parola sulla Chiesa come Corpo di Cristo non è un qualsiasi paragone. Va ben oltre un paragone. «Perché mi perseguiti?» Continuamente Cristo ci attrae dentro il suo Corpo, edifica il suo Corpo a partire dal centro eucaristico, che per Paolo è il centro dell’esistenza cristiana, in virtù del quale tutti, come anche ogni singolo può in modo tutto personale sperimentare: Egli mi ha amato e ha dato se stesso per me.
Vorrei concludere con una parola tarda di san Paolo, una esortazione a Timoteo dalla prigione, di fronte alla morte. «Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo», dice l’apostolo al suo discepolo (2Tm 1,8). Questa parola, che sta alla fine delle vie percorse dall’apostolo come un testamento, rimanda indietro all’inizio della sua missione. Mentre, dopo il suo incontro con il Risorto, Paolo si trovava cieco nella sua abitazione a Damasco, Anania ricevette l’incarico di andare dal persecutore temuto e di imporgli le mani, perché riavesse la vista. All’obiezione di Anania che questo Saulo era un persecutore pericoloso dei cristiani, viene la risposta: Quest’uomo deve portare il mio nome dinanzi ai popoli e ai re. «Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9,15s). L’incarico dell’annuncio e la chiamata alla sofferenza per Cristo vanno inscindibilmente insieme. La chiamata a diventare il maestro delle genti è al contempo e intrinsecamente una chiamata alla sofferenza nella comunione con Cristo, che ci ha redenti mediante la sua Passione. In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza – senza la sofferenza della rinuncia a se stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore. L’Eucaristia – il centro del nostro essere cristiani – si fonda nel sacrificio di Gesù per noi, è nata dalla sofferenza dell’amore, che nella Croce ha trovato il suo culmine. Di questo amore che si dona noi viviamo. Esso ci dà il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per Lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera. Alla luce di tutte le lettere di san Paolo vediamo come nel suo cammino di maestro delle genti si sia compiuta la profezia fatta ad Anania nell’ora della chiamata: «Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome». La sua sofferenza lo rende credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, la propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per Colui che ci ha amati e ha dato se stesso per tutti noi.
In questa ora ringraziamo il Signore, perché ha chiamato Paolo, rendendolo luce delle genti e maestro di tutti noi, e lo preghiamo: Donaci anche oggi testimoni della risurrezione, colpiti dal tuo amore e capaci di portare la luce del Vangelo nel nostro tempo. San Paolo, prega per noi! Amen.
OMELIA DEL PATRIARCA ECUMENICO BARTOLOMEO I
Santità, amato Fratello in Cristo,
e voi tutti, fedeli nel Signore,
Animati da una gioia colma di solennità, ci troviamo, per la preghiera dei Vespri, in questo antico e splendido tempio di San Paolo fuori le Mura, in presenza di numerosi e devoti pellegrini venuti da tutto il mondo, per la lieta inaugurazione formale dell’Anno di San Paolo, Apostolo dei Gentili.
La radicale conversione ed il kerygma apostolico di Saulo di Tarso hanno « scosso » la storia nel senso letterale del termine ed hanno scolpito l’identità stessa della cristianità. Questo grande uomo ha esercitato un influsso profondo sui Padri classici della Chiesa, come San Giovanni Crisostomo, in Oriente, e Sant’Agostino di Ippona, in Occidente. Sebbene non avesse mai incontrato Gesù di Nazaret, San Paolo ricevette direttamente il Vangelo «per rivelazione di Gesù Cristo» (Gal 1, 1112).
Questo sacro luogo fuori le Mura è senza dubbio quanto mai appropriato per commemorare e celebrare un uomo che stabilì un connubio tra lingua greca e mentalità romana del suo tempo, spogliando la cristianità, una volta per tutte, da ogni ristrettezza mentale, e forgiando per sempre il fondamento cattolico della Chiesa ecumenica.
Auspichiamo che la vita e le Lettere di San Paolo continuino ad essere per noi fonte di ispirazione «affinché tutte le genti obbediscano alla fede in Cristo» (cfr. Rom 16,27).
www.fattipiuinla.it/…/San%20Paolo_La%20persona%20e%20l’opera%20…
LA PERSONA E L’OPERA DI PAOLO – GIUSEPPE BARBAGLIO
In Alessandro Sacchi e collaboratori, Lettere paoline e altre lettere, LDC-Torino (1996), pp. 53-60.
La vita di Paolo può essere ricostruita in base a due sole fonti di documenta¬zione, gli Atti degli apostoli e le lettere. Tra queste ultime possono essere utiliz¬zate direttamente solo quelle certamente autentiche (1 Tessalonicesi, 1-2 Corin¬zi, Galati, Romani, Filippesi, Filemone). Queste sette lettere, dettate dalla viva voce di Paolo, costituiscono una testimonianza diretta e per questo di assoluto valore; ma si tratta anche di una testimonianza interessata, proveniente da una persona che, essendo parte in causa, non può essere del tutto obiettiva . Infine è una testimonianza parziale, poiché le lettere, in quanto scritti di occasione, la¬sciano molti vuoti, soprattutto per quanto riguarda l’ultimo tratto della sua esi¬stenza, noto soltanto dagli Atti e da fonti cristiane ancora più tardive.
Accanto alle lettere si collocano, come fonte secondaria, gli Atti degli apo¬stoli, opera di un paolinista dell’ultimo ventennio del sec. I, lo stesso che ha scritto il terzo vangelo. Questi ha inserito Paolo nel quadro della sua visione storico¬salvifica, presentandolo come il portatore del vangelo sino all’estremità del mondo (cf At 1,8), in perfetta sintonia con gli apostoli di Gerusalemme. Se ne impone dunque un uso critico e comunque la sua testimonianza deve essere sempre con¬frontata con quella della fonte primaria. In concreto si dimostra attendibile sto¬ricamente là dove trasmette tradizioni antiche, come per esempio nel racconto della conversione dell’apostolo, in cui ha a disposizione alcune fonti proprie, op¬pure a proposito dei viaggi paolini, dove sfrutta, come si crede, alcuni dati mi¬nuziosi di carattere topografico o cronologico.
1. IL PASSATO REMOTO
I primi passi di Paolo possono essere compendiati in due caratterizzazioni: partecipazione convinta e zelante alla religiosità giudaica degli antenati; ostilità non priva di violenza esterna nei confronti del neonato movimento cristiano. Gli Atti degli apostoli e le lettere paoline in sostanza convergono. Circa il suo passa¬to nel giudaismo ecco le parole messegli in bocca dall’anonimo biografo: «Io sono un giudeo, nato a Tarso di Cilicia, ma cresciuto in questa città (Gerusalem¬me), formato alla scuola di Gamaliele nelle più rigide norme della legge paterna, pieno di zelo per Dio, come oggi siete tutti voi » (At 22,3); «come fariseo sono vissuto nella setta più rigida della nostra religione» (At 26,5). Lui stesso può te¬stimoniare: «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tem¬po nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la deva¬stassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazio¬nali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,13-14). Egli afferma con fierezza la nobiltà delle sue origini: «Sono ebrei? Anch’io! Sono israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! » (2 Cor 11,22); «circonci¬so l’ottavo giorno, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge» (Fil 3,5-6).
Nel libro degli Atti la sua attività persecutoria, ambientata nella città santa del giudaismo, con lo sguardo aperto però alla diaspora di Damasco, è dipinta con colori sempre più carichi e tenebrosi: «Saulo frattanto, sempre fremente mi¬naccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati» (At 9,1); «io perseguitai a morte questa nuova dottrina, arre¬stando e gettando in prigione uomini e donne» (22,4); «molti dei fedeli li rin¬chiusi in prigione con l’autorizzazione avuta dai sommi sacerdoti, e quando ve¬nivano condannati a morte, anch’io votai contro di loro. In tutte le sinagoghe cercavo di costringerli con le torture a bestemmiare e, infuriando all’eccesso contro di loro, davo loro la caccia fin nelle città straniere» (26,10-11). In questi testi l’autore presenta Paolo non come un semplice persecutore, ma quasi come la persecuzione in persona .
Nelle sue lettere invece Paolo si limita ad affermare di aver perseguitato la Chiesa: «Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, ac¬canito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri» (Gal 1,13-14); «Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apo¬stolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio» (1 Cor 15,9); «…quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’os¬servanza della legge» (Fil 3,6). L’apostolo però non dice dove, quando, come, per quanto tempo e perché ha perseguitato la Chiesa. Non è neppure certo che abbia agito a Gerusalemme, né che la sua formazione sia avvenuta in questo luogo, poiché gli Atti, che affermano l’una e l’altra cosa, hanno interesse a metterlo in rapporto con la città santa del giudaismo .
Circa il perché della sua attività di persecutore Paolo dà un indizio, in quan¬to afferma di aver perseguitato la Chiesa «per zelo» (Fil 3,6), dunque a difesa della legge mosaica, sull’esempio degli eroici Maccabei. Si può quindi congettu¬rare che la sua ostilità si sia volta contro quell’ala del movimento cristiano che per bocca di Stefano dichiarava obsolete le prescrizioni rituali del codice mosai¬co, compresa la circoncisione.
Una parola di chiarificazione merita anche la natura della sua persecuzione. Si è spinto fino al versamento di sangue? Gli Atti lo affermano, ma questo più che un dato storico è un’esagerazione retorica: è probabile che si sia limitato ad applicare ai cristiani, che partecipavano ancora alla vita della comunità giudai¬ca, le misure disciplinari previste per coloro che non osservavano il regolamento della sinagoga.
Infine è impossibile determinare per quanto tempo si sia protratta la sua atti¬vità di persecutore. Invece se ne può precisare, con una certa verosimiglianza, il terminus ad quem: che coincide con la sua conversione, avvenuta verso la me¬tà degli anni 30.
2. IL PASSATO PROSSIMO
Nell’esistenza di Paolo si è verificata una svolta decisiva quando, sulla via di Damasco, incontra il Signore risorto e aderisce alla Chiesa. Gli Atti ne parla¬no ben tre volte (At 9,3-19; 22,6-11; 26,12-18), quasi a sottolineare l’importanza di questo evento. I racconti paralleli hanno una accentuata corposità plastica: Paolo sta recandosi a Damasco e nelle vicinanze della città è avvolto da una luce celeste e cadendo a terra sente la voce: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» (At 9,4). In realtà il narratore focalizza la sua attenzione sull’autorivelazione di Gesù e sulla missione di Paolo al mondo dei lontani. Dal punto di vista storico sono preziosi alcuni dati circostanziali propri della tradizione, come la precisa¬zione topografica, Damasco, e l’intervento di un cristiano damasceno, di nome Anania, che lo introduce nella chiesa della sua città.
Nelle sue lettere Paolo ricorda questo evento quasi vent’anni dopo, con una maturità che allora non aveva di certo ancora raggiunto. Egli non accenna mini¬mamente alle modalità esterne: tutto l’interesse appare incentrato sull’iniziativa di Dio. La prospettiva è dunque strettamente teologica. In 1 Cor 9,1 dice di aver visto Gesù il Signore e in 1 Cor 15,8 afferma che Cristo gli è apparso come era apparso a Cefa e ai Dodici. Perciò l’evento di Damasco è da lui interpretato co¬me una cristofania del Risorto, fonte di investitura apostolica. In Gal 1,15-16 le categorie teologiche sono: beneplacito divino (eudokew), predestinazione cele¬ste e vocazione per grazia al compito apostolico (al pari di Geremia scelto come profeta ancora prima di nascere), rivelazione (apwkaluptw) del Figlio di Dio af¬finché ne porti il lieto annunzio (euaggelizwmai) ai pagani. Si è trattato dunque di una «apocalisse», cioè di un evento appartenente ai tempi finali, caratterizza¬ti dal disvelamento e insieme dall’attuazione del progetto salvifico del Padre.
In Fil 3 invece egli parla direttamente della sua esperienza, presentandola sem¬pre però come effetto dell’iniziativa di grazia di Dio: nella sua vita si è attuato un cambiamento radicale, che lo ha portato a rinunziare alla propria giustizia, costruita con le scrupolose osservanze della legge, per ricevere in dono la giusti¬zia divina. In una parola egli, che ben conosceva il codice del dovuto, ha scoper¬to quello diverso e alternativo del gratuito. Ma precisa subito che, al di là delle sue scelte, in realtà è Cristo che lo ha afferrato e si è imposto a lui.
Se si vuole dunque parlare di conversione, usando un termine che non ricor¬re nelle sue lettere, ci si deve intendere: l’evento di Damasco non ha nulla di mo¬ralistico, perché Paolo non era né un ateo, né un peccatore in senso comune; il fariseo zelante si è convertito a Cristo, che ha colto per grazia come unica via alla salvezza per gli uomini .
3. LA MISSIONE
Ancor più che teologo e scrittore, Paolo è stato uomo d’azione: azione mis¬sionaria, in terra ancora vergine, e azione pastorale a favore delle sue comunità. In lui è legittimo vedere il più grande missionario delle origini cristiane, impe¬gnato al massimo perché il vangelo arrivasse al mondo pagano.
Non è stato il primo però a rompere gli steccati, preceduto in questo dal gruppo di Stefano, come testimoniano gli Atti (cf 11,19-21). Comunque, al di là della pur notevole azione in campo aperto, il suo merito principale è stato quello di avere elaborato una teologia capace di giustificare l’apertura universalistica del¬la Chiesa. In realtà non era in questione la possibilità che anche i pagani giun¬gessero alla salvezza, che anch’essi potevano ottenere attraverso l’accettazione della circoncisione e della legge mosaica, ma un universalismo incondizionato e a parità di condizioni: circoncisi e incirconcisi parimenti chiamati ad accoglie¬re Cristo e in lui l’iniziativa di grazia di Dio mediante la sola fede.
Gli Atti presentano la missione di Paolo secondo lo schema di tre viaggi: il primo con e sotto Barnaba, a Cipro e nelle regioni sud-orientali dell’Anatolia (At 13-14); il secondo con Sila e poi con Timoteo dopo il concilio di Gerusalem¬me e la rottura con Barnaba attraverso la Galazia sino all’Europa, con tappe a Filippi, Tessalonica, Berea e Corinto (At 15,3Cr18,17); il terzo con epicentro Efeso (18,18-20,3). Si tratta però di una presentazione schematica, che potreb¬be far pensare al missionario Paolo come a un cavaliere errante. Di fatto i viaggi sono stati solo il trasferimento da una stazione missionaria all’altra, dove egli si fermava anche a lungo, per esempio più di un anno e mezzo a Corinto e due anni e più a Efeso, come precisano gli Atti, dando vita a vivaci comunità cristia¬ne, costituite in prevalenza da pagani convertiti. L’altro schematismo di Atti è che egli si rivolgeva prima agli ebrei e poi ai pagani. In realtà Paolo ebbe sempre coscienza chiara di essere stato mandato agli incirconcisi, lui «apostolo dei pa¬gani» (Rm 11,13). Invece gli Atti sono storicamente attendibili quando riferi¬scono dati circostanziali, come l’elenco delle città evangelizzate, il tempo di per¬manenza, i nomi dei suoi collaboratori.
Stando invece alla testimonianza delle sue lettere, dopo l’evento di Damasco egli andò in Arabia, in concreto nella regione est e sud-est di questa città appar¬tenente al regno dei nabatei, non già per meditare, bensì come missionario. Quindi ritornò a Damasco, ma presto dovette lasciare la città per l’ostilità della sinago¬ga in cui propagandava il vangelo di Cristo. Si recò dunque a Gerusalemme, ma non dovette trovarvi spazio, perché presto se ne venne via facendo ritorno in Siria e Cilicia (cf Gal 1,15-24). Sono anni in cui non riesce a trovare il suo posto. Alla fine viene introdotto da Barnaba nella chiesa di Antiochia, con probabilità verso la metà degli anni 40, dove acquisisce un ruolo importante come dottore e profeta di questa comunità e missionario sotto la guida del grande leader sum¬menzionato (cf At 9,20-30; 11,25ss; 13,1-3).
Un’ipotesi abbastanza attendibile ritiene che Paolo, parlando di permanen¬za in Siria e Cilicia (Gal 1,21) per la durata di quattordici anni, essendo questo il periodo intercorso tra la prima e la seconda visita a Gerusalemme (cf Gal 2,1: «Dopo quattordici anni…»), si riferisse anche alla missione in Europa, che dun¬que precederebbe e non seguirebbe, come affermano gli Atti, il concilio di Geru¬salemme (cf Ga12,1-10), databile all’anno 51. In seguito si dovrebbe comunque collocare l’attività missionaria incentrata a Efeso .
Si ritiene che la missione paolina fosse esclusivamente urbana, ma la regione galatica non era allora del tutto urbanizzata e forse in essa Paolo evangelizzò anche villaggi.
Il suo progetto missionario aveva come coordinate geografiche l’oriente e l’oc¬cidente, e dunque possedeva un’estensione ecumenica: in Rm 15,19 afferma di aver portato a termine la predicazione evangelica essendo partito da Gerusalem¬me e giunto in Illiria; ora il suo sguardo si spinge fino a Roma e di qui intende raggiungere la Spagna (Rm 15,24).
L’apostolo ha operato di regola su terreno vergine, dove Cristo non era an¬cora stato annunziato (2 Cor 10,15; Rm 15,20), e si è avvalso di una folta schie¬ra di collaboratori, quasi un centinaio, come risulta sommando i dati di Atti e dell’epistolario paolino . Aveva uno stile missionario proprio: si guadagnava da vivere con le proprie mani e rifiutava di farsi mantenere, per non creare sospetti di interesse privato e così porre ostacoli all’accettazione della parola (cf 1 Cor 9). Il frutto della sua attività sono le comunità paoline alle quali ha indirizzato le sue lettere; solo quella ai Romani è stata spedita a una comunità non di sua fondazione.
4. PASTORE D’ANIME
Dopo aver costituito una comunità cristiana Paolo non l’abbandonava a se stessa, ma si teneva in costante contatto, preoccupato della continuità del suo lavoro di araldo del vangelo. I rapporti con i neofiti passavano anzitutto attra¬verso visite personali – a Corinto l’apostolo si è recato più volte – o di suoi collaboratori, come Timoteo e Tito, mandati a Corinto in suo nome, il primo spedito a Tessalonica per rendersi conto della situazione e portare ai credenti della capitale della Macedonia l’assicurazione che egli non li aveva dimenticati. Ma Paolo comunicava anche epistolarmente, con lettere che testimoniano la sua cura pastorale. In ogni modo egli manteneva la guida spirituale delle sue comu¬nità, che non mancavano di ragguagliarlo sulla situazione e di chiedergli autore¬voli soluzioni ai loro problemi, come appare nei rapporti con la chiesa di Corinto .
D’altra parte però l’apostolo non si è mai preoccupato, prima di lasciarle per un altro campo apostolico, di dotare le sue comunità di capi. Confidava nella creatività dello Spirito capace di suscitare persone capaci e disponibili nel pre¬stare i servizi necessari alla crescita del gruppo e, quando sorgevano leaders na¬turali, egli li approvava ed esortava la comunità a riconoscerli (cf 1 Ts 5,12-13; 1 Cor 16,15-16) .
5. DURO CONFRONTO CON LA CHIESA GEROSOLIMITANA E CON I RIVALI
Paolo tradisce una manifesta indipendenza dalle autorità cristiane di Geru¬salemme; per questo in Gal 1 accentua il fatto di essersi recato solo due volte a Gerusalemme, la prima per quindici giorni a far visita a Cefa, la seconda in occasione del concilio. Inoltre si mette alla pari di Pietro: se questi è capo della missione al mondo dei circoncisi, lui è il leader dell’evangelizzazione ai pagani (Gal 2,7-8). Però accetta di raccogliere nelle sue chiese una colletta per sovvenire ai bisogni dei poveri della chiesa di Gerusalemme (Gal 2,9), il cui ruolo di chiesa madre viene da lui riconosciuto, nel senso che il vangelo è giunto al mondo pa¬gano partendo appunto da questa città (cf Rm 15,27).
D’altra parte Giacomo, capo della chiesa gerosolimitana dopo la partenza di Pietro, doveva nutrire più di un dubbio sull’apostolo che proclamava Cristo venuto a mettere fine alla legge (Rm 10,4). Con probabilità non accettò la collet¬ta portata da Paolo in persona, come si può arguire dalla reticenza dell’autore degli Atti in proposito, che invece sottolinea come questi abbia accettato, dietro suggerimento di quello, di compiere un gesto esemplare di osservanza della leg¬ge per smentire quanti andavano dicendo che era un nemico della religione mo¬saica (21,20ss). Non mancano persino studiosi che individuano proprio in Gia¬como un avversario importante di Paolo.
Una virulenta polemica invece ha combattuto contro i rivali che nelle chiese di Galazia, ma anche nelle comunità di Corinto e di Filippi, tentavano di scredi¬tare la sua rivendicazione di essere apostolo di Cristo e il suo annunzio della li¬bertà dalla legge mosaica e dello scandalo della croce. In quasi tutte le lettere infatti egli appare costretto a difendersi (apologia). Chi erano i suoi avversari? Non doveva essere un fronte solo, perché il campo di battaglia in Galati e nelle lettere ai Corinzi, dove non esigevano affatto la circoncisione dei neoconvertiti pagani, appare diverso. In Romani poi sembra che egli si difenda da quanti in¬terpretavano la sua predicazione della libertà in chiave libertinistica, come ap¬pare per es. nei due interrogativi di Rm 6,1 e 15 .
6. LA FINE DRAMMATICA
Nella lettera ai cristiani di Roma Paolo si dice pronto ad andare a Roma, ma prima vuole passare da Gerusalemme a portarvi la colletta (Rm 15,25ss). Egli è consapevole di correre due gravi rischi: il primo è rappresentato dagli «incre¬duli della Giudea», cioè dai suoi avversari giudei, pronti a eliminarlo con la vio¬lenza; il secondo è costituito dalle prevenzioni della chiesa gerosolimitana, che avrebbe potuto rifiutare la colletta, segno della comunione delle sue chiese con le comunità palestinesi. Supplica dunque i romani di «lottare» con lui «nelle pre¬ghiere» perché sia liberato dai violenti e venga accettata la sua opera missionaria tra i pagani.
Queste sono le ultime informazioni certe che Paolo dà di se stesso. Gli Atti invece riportano ulteriori notizie (At 21-28). Lasciata Corinto dove si era ricon¬ciliato con la locale comunità, l’apostolo arrivò a Gerusalemme, dove ebbe trat¬tative con Giacomo e il presbiterio della chiesa madre. Pro bono pacis accolse il suggerimento di dimostrare pubblicamente il suo attaccamento alle tradizioni mosaiche pagando di tasca propria lo scioglimento di un voto fatto da quattro cristiani della chiesa locale. Entrato con questi nell’area del santuario, fu lincia¬to da fanatici giudei; ma per sua buona sorte venne salvato dall’intervento della coorte del tribuno romano, che lo fece rinchiudere in carcere. In seguito fu tra¬sferito a Cesarea, sede del prefetto romano. Poiché il processo andava per le lunghe, l’apostolo, in quanto cittadino romano, interpose appello al tribunale di Roma.
L’autore degli Atti fa sfoggio della sua bravura letteraria nella pittoresca de¬scrizione del viaggio marittimo e soprattutto dell’avventuroso naufragio. Nella capitale dell’impero Paolo visse per un biennio in domicilio coatto, con la possi¬bilità però di annunziare il vangelo a un pubblico di giudei che venivano da lui per discutere di Gesù Cristo.
Qui termina il libro, perché l’autore in questo modo ha raggiunto il suo sco¬po. Resta dunque aperto l’interrogativo come andò a finire il processo. Secondo la soluzione tradizionale Paolo fu liberato e ritornò in Oriente, dove la sua atti¬vità sarebbe testimoniata dalle Pastorali, ma poi fu arrestato di nuovo e con¬dannato a morte. Sembra più probabile invece che l’esito del processo sia stato la condanna capitale. Infatti si deve rilevare il carattere pseudoepigrafico delle lettere a Timoteo e Tito, e soprattutto il fatto che gli Atti conoscono la fine dram¬matica di Paolo a Roma dove era giunto in catene: ciò appare chiaramente dal discorso di Mileto, in cui egli dice ai presbiteri che non avrebbero più visto il suo volto (20,25). Siamo con probabilità nel 57, se si ammette il criterio di una cronologia corta .
Anche la seconda lettera a Timoteo, composta verso la fine del secolo, sotto forma di profezia ne testimonia il martirio: «Io infatti già sto per essere offerto in libagione ed è sopraggiunto il tempo di sciogliere le vele» (4,6). Nel 96 1a lette¬ra di Clemente afferma che Paolo, dopo essere giunto «fino agli estremi confini dell’occidente», cioè verosimilmente in Spagna, «si staccò dal mondo e perven¬ne al luogo santo» (5,7). Nel 200 circa Tertulliano precisa che fu decapitato, co¬me il Battista . La data del martirio a129 giugno e l’indicazione della via Ostiense come luogo della sepoltura sono affermate dagli Atti apocrifi di Pietro e Paolo dello Pseudo-Marcello, che non sono anteriori al IV Secolo .