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Pasqua: la vita affacciata alla finestra del Cielo
II Domenica di Pasqua, 1 maggio 2011
di padre Angelo del Favero*
ROMA, venerdì, 29 aprile 2011 (ZENIT.org).- La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: “Pace a voi!”. Detto questo mostrò loro le mani e il costato. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”. Detto questo soffiò e disse loro: “Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati”. Tommaso, uno dei Dodici chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, io non credo”. Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso. Venne Gesù a porte chiuse, stette in mezzo e disse: “Pace a voi!”. Poi disse a Tommaso: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio costato; e non essere incredulo, ma credente!”. Gli rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”. Gesù, in presenza dei suoi discepoli, fece molti altri segni che non sono stati scritti in questo libro. Ma questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome (Gv 20,19-31).
Contemplando Gesù Risorto che appare a porte chiuse in mezzo ai discepoli, trentun anni fa Giovanni Paolo II scriveva: “Ecco il Figlio di Dio, che nella sua risurrezione ha sperimentato in modo radicale su di sé la misericordia, cioè l’amore del Padre che è più potente della morte. Ed è anche lo stesso Cristo, Figlio di Dio, che al termine – e, in certo senso, già oltre il termine – della sua missione messianica, rivela se stesso come fonte inesauribile della misericordia, del medesimo amore che, nella prospettiva ulteriore della storia della salvezza della Chiesa, deve perennemente confermarsi più potente del peccato. Il Cristo pasquale è l’incarnazione definitiva della misericordia, il suo segno vivente: storico-salvifico ed insieme escatologico.” (Enciclica Dives in misericordia, n. 8).
Affacciato alla finestra del Cielo, oggi il beato Karol proclama con la Chiesa intera il trionfo della Divina Misericordia, rinnovandone l’annunzio al mondo con le parole della sua seconda enciclica: “Quanto più la coscienza umana, soccombendo alla secolarizzazione, perde il senso del significato stesso della parola “misericordia”, quanto più, allontanandosi da Dio, si distanzia dal mistero della misericordia, tanto più la Chiesa ha il diritto e il dovere di far appello al Dio della misericordia “con forti grida” (Eb 5,7)… per implorare la sua misericordia, la cui certa manifestazione essa professa e proclama come avvenuta in Gesù crocifisso e risorto, cioè nel mistero pasquale. E’ questo mistero che porta in sé la più completa rivelazione della misericordia, cioè di quell’amore che è più potente della morte, più potente del peccato e di ogni male, dell’amore che solleva l’uomo dalle abissali cadute e lo libera dalle più grandi minacce…quell’amore cha ha caratteristiche materne e, a somiglianza di una madre, segue ciascuno dei suoi figli, ogni pecorella smarrita, anche se ci fossero milioni di tali smarrimenti, anche se nel mondo l’iniquità prevalesse sull’onestà, anche se l’umanità contemporanea meritasse per i suoi peccati un nuovo “diluvio”, come un tempo lo meritò la generazione di Noè. Facciamo ricorso a quell’amore paterno, che ci è stato rivelato da Cristo nella sua missione messianica, e che raggiunse il culmine nella sua croce, nella sua morte e risurrezione!” (id., n. 15).
Sì, per il culmine di questo amore estremo del Padre, il corpo di Gesù è stato segnato per sempre dalle piaghe impresse dal ferro dei chiodi e della lancia, le quali saranno contemplate in eterno in quel Cielo di cui, dalla terra, si può vedere solo una finestra.
La drastica incredulità di Tommaso (“se non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, io non credo” – Gv 20,25) non ci sorprende molto, se la confrontiamo con la moltitudine di coloro che, trovandosi nell’angoscia, vorrebbero anch’essi “toccare” le piaghe del Signore per credere all’amore di Dio e guarire l’infermità della loro fede, spesso paralizzata e come svuotata dal dolore.
Ebbene, tale contatto salvifico delle nostre piaghe profonde con quelle di Cristo è già avvenuto a Pasqua, e può essere rinnovato sacramentalmente in ogni momento, come annunzia l’apostolo Pietro: “dalle sue piaghe siete stati guariti” (1 Pt 2,24). Da queste piaghe, infatti, cioè dal corpo glorioso del Signore risorto, non cessa di scaturire la vita nuova e vivificante dello Spirito, in particolare mediante i sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione.
Canonizzando suor Faustina Kowalska all’inizio del terzo millennio, Giovanni Paolo II ha indicato al mondo intero la piaga del cuore squarciato e glorioso di Cristo quale fonte perenne di vita e di misericordia, come testimonia Giovanni: “..e subito ne uscì – per sempre e per tutti – sangue ed acqua” (Gv 19,34b).
L’Eucaristia, che è realmente il cuore di Cristo, è simile al contatto vivo della mano di Tommaso che, attraverso il fianco aperto del Signore, raggiunge il cuore e “tocca con mano” il suo amore estremo, guarendo dall’incredulità e da ogni altra piaga dell’anima.
Ha scritto Benedetto XVI: “E’ essenziale il fatto che con la risurrezione di Gesù non è stato rivitalizzato un qualsiasi singolo morto in un qualche momento, ma nella risurrezione è avvenuto un salto ontologico che tocca l’essere come tale, è stata inaugurata una dimensione che ci interessa tutti e che ha creato per tutti noi un nuovo ambito della vita, dell’essere con Dio” (“Gesù di Nazaret”, seconda parte, p. 304). Ora, se il salto ontologico operato dalla risurrezione del Signore tocca “l’essere come tale” (cioè la persona umana), non può non toccare anche le piaghe che dell’essere fanno parte, poiché esse sono piaghe non semplicemente fisiche, ma “personali”.
Perciò a Pasqua la sofferenza viene sanata dal suo effetto peggiore, quello di farci dubitare della presenza di Dio. Non solo, ma lungi dal separarci da Lui, la piaga del dolore diventa una finestra spalancata sopra l’abisso infuocato della sua Misericordia.
Ma che cos’è questo “salto ontologico”? E’ il livello sperimentato della “vita eterna”, è Cristo risorto “che vive in me”, è “questa vita, che io vivo nel corpo, vissuta nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Gal 2,20).
Per capirlo, più che cercare definizioni conviene ascoltare le testimonianze. Ecco quella di una donna affetta da cancro, la quale, dopo aver sperimentato dolore intollerabile e disperazione, scrive: “La cosa sconvolgente è che quando tutto è distrutto, quando non c’è più niente, allora non ci sono la morte ed il vuoto come si pensa, assolutamente no. Ve lo giuro. Quando non c’è più niente, c’è solo l’Amore. Non c’è altro che l’Amore. Tutte le barricate crollano. E’ un tuffo, un’immersione. L’amore non è un sentimento. E’ la sostanza stessa della creazione…fino a poco tempo fa credevo che l’amore fosse un legame che ci unisce gli uni agli altri. Invece è molto di più. Questo è il mistero. Questo provoca la vertigine più grande. In fondo io vengo solo a portarvi la buona novella: al di là del peggio ti aspetta l’Amore. In realtà non c’è niente da temere. Con questa capacità di amare, che è enormemente cresciuta, è cresciuta anche la capacità di accogliere l’amore…bisogna conoscere l’agonia, bisogna essere abbattuti come alberi per liberare attorno a sé una potenza d’amore simile. Un’onda, un’onda immensa. Osare amare dell’unico amore che merita questo nome e dell’unico amore la cui misura sia accettabile: l’amore esagerato”. (C. Singer, in “Ultimi frammenti di un grande viaggio”, p. 30-40).
La natura umana, quando è colpita dal dolore, rifiuta istintivamente di cercare nelle proprie piaghe il Dio della vita e della gioia, e, per così dire, ha ragione, poiché il Creatore ha lasciato la sua impronta nelle “cose buone” (Gen 1) e non nella sofferenza e nella morte, che sono conseguenze del peccato. Tuttavia l’incarnazione del Verbo ha cambiato profondamente lo stato delle cose, poiché avendo Egli preso sopra di sé la sofferenza, ne ha fatto un mezzo di redenzione, di partecipazione alla sua Vita e al suo Amore, che trasforma ogni piaga, per mezzo della fede, in sorgente attuale di grazia e felicità.
Il fatto è che le sue piaghe sono diventate le nostre e le nostre le sue, poiché facendosi uomo Cristo, in certo modo, si è fatto ogni uomo; e facendosi piaga, si è fatto ogni piaga, che in Lui è perciò divenuta “profumo di Cristo” per il mondo intero.
Per questo non solamente la prospettiva della sofferenza può far trasalire il cuore di gioia, ma l’amarezza stessa del dolore può comunicare un’esperienza così profonda e trasformante di comunione con il Risorto, da generare nell’anima come un’ineffabile beatitudine.
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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E’ diventato carmelitano nel 1987. E’ stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.