PER UNA TEOLOGIA DELLA PACE
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PER UNA TEOLOGIA DELLA PACE
sintesi della relazione di Armido Rizzi Verbania Pallanza, 10-11 gennaio 1987
Oggi siamo sempre più consapevoli della necessità e dell’urgenza di una cultura della pace, non perché la violenza si sia manifestata solo oggi ma perché la violenza ha raggiunto un eccesso tale da non poter più essere giustificata. La violenza sia della natura (catastrofi, inondazioni, carestie) sia quella prodotta dagli uomini ha sempre accompagnato la storia dell’umanità, ma sempre lo spirito umano è riuscito a darle almeno un senso parziale, in qualche modo a giustificarla. Oggi si sono verificati due avvenimenti in cui la violenza ha raggiunto una tale dimensione da non poter più essere giustificabile, anche parzialmente. Da una parte Hiroshima ci ha reso coscienti della possibilità della distruzione dell’intera umanità (il troppo quantitativo); dall’altra Auschwitz ci ha mostrato la violenza fine a se stessa, la violenza senza giustificazioni (il troppo qualitativo), la volontà pura di negazione dell’altro. La novità essenziale: la distruzione non scaturisce dal puro gioco di forze o dall’istinto belluino, ma dalla volontà umana. È la soggettività violenta. il cuore violento e le radici della violenza umana Il racconto biblico di Adamo, del giardino di Eden e della colpa originaria narra che l’uomo è nel mondo buono di Dio di cui può disporre (albero della vita) a condizione di accettare l’ordine di valori (albero della conoscenza del bene e del male), che Dio ha già inscritto nel mondo stesso. In questo testo viene narrato non il peccato accaduto una volta, ma l’essenza stessa del peccato. Nel testo ci sono due formule (la scienza del bene e del male e l’essere come Dio) che hanno reso possibili due letture. Nella prima lettura l’uomo viene tentato a mangiare il frutto dell’albero proibito, cioè a porre un atto in cui afferma sé come creatore di un nuovo ordine di valori: bene e male non sono già posti nelle cose e in me stesso, ma sono quelli che io produco disegnando e realizzando i miei progetti. L’uomo rifiuta di accettare che ci sia un orizzonte di bene e male con cui confrontarsi e da cui lasciarsi misurare, ma diventa egli stesso misura di tutto, creatore di valori. L’uomo può ad esempio disattendere all’imperativo del « non uccidere » e uccidere per affermare i propri progetti. Questa prima lettura dell’essenza del peccato originale, pur valida, è insoddisfacente, perché non presenta una vera appropriazione della scienza del bene e del male, ma solo una rimozione, un disattendere. Una seconda lettura esprime l’essenza del peccato originale nell’essere come Dio, proprio nell’appropriazione del principio del bene e del male. L’istanza di bene e di male non solo viene disattesa, ma viene assorbita dentro la volontà di potenza dell’uomo, dentro tutto ciò che l’uomo può desiderare e progettare. Il principio etico non viene cancellato o disatteso, ma diventa un momento, una componente della propria volontà di potenza. L’uomo non dice: non devo, ma posso; ma dice: posso ed è giusto che faccia così. Non solo faccio così (prima lettura), ma è giusto che faccia così, perché ne ho il diritto. Non solo il potere fare una cosa ma il diritto di poterla fare. È il soggetto di diritto. Il mio volere e potere viene a identificarsi con ciò che è giusto, è davvero l’appropriarsi della conoscenza del bene e del male, è il « sarete come Dio ». L’esperienza fondamentale del Dio della bibbia è quella del Dio giusto, la cui parola in quanto tale è bene, è giustizia, è verità. L’essenza del peccato è appropriarsi di questo Dio, è ingabbiarlo dentro di me, per cui sono io che decido quando è giusto e quando è ingiusto. Per lo più la violenza umana è sorretta, legittimata, giustificata dalla consapevolezza che è bene, giusto comportarsi in un certo modo. È il significato della favola del lupo e dell’agnello. Il lupo-uomo deve trovare una giustificazione per fare violenza e mangiare l’agnello. Non si limita a rendere lecito il suo atto, lo rende obbligatorio, un dovere a cui non può sottrarsi, un’offesa da lavare, un onore da riscattare. Lo sguardo del Dio giusto lo posso disattendere, senza cancellarlo. Il peccato originale è invece il far proprio lo sguardo di Dio. Lo sguardo che mi dice di non uccidere, di non ferire, di non intorbidare l’acqua, lo faccio diventare mio e lo rivolgo all’altro accusandolo di avere intorbidato l’acqua. Qui si costituisce la violenza propriamente umana, la violenza etica: il principio etico di trascendenza su di me diventa principio etico della mia trascendenza sugli altri, per cui di fronte agli altri e alle cose io sono soggetto di diritto. Gli altri diventano strumenti disponibili per i miei progetti, o, se non accettano di essere strumenti, nemici da abbattere. E quando non riesco ad esercitare effettivamente questo mio sapermi soggetto di diritto, mi ripiego nel vittimismo percependo il mondo come persecutore. Inoltre la gloria di Dio è il povero che vive. Il bisogno del povero, fragile, impotente, viene avvolto e sorretto dallo sguardo di Dio che ci dice che non ci appartiene e che ne siamo responsabili. Ora appropriarsi del bene e del male significa non solo espropriare Dio alla fonte, ma anche l’altro, ogni uomo in quanto povero. L’altro diventa un dato (occasione o ostacolo) dentro i miei progetti. Vivo l’altro come strumento o come nemico. Certamente anch’io, in quanto povero ed essere bisognoso, ho i miei diritti, « miei » in quanto anche in me è presente lo sguardo di Dio. Non è mio diritto come genitivo possessivo, ma è il diritto che mi avvolge. Abitualmente la favola del lupo e dell’agnello ha vigenza generale. Difficilmente uno opera per il proprio vantaggio confessando a sé e agli altri che lo fa per il proprio vantaggio. L’uomo moderno si è costituito sempre di più trasformando i diritti dell’uomo in diritti individuali, in « i miei diritti ». Questo vale anche a livello delle nazioni: la guerra giusta è sempre quella che faccio io, difendendo il mio diritto dall’ingiusto aggressore. Il gesto con cui Adamo si appropria della conoscenza del bene e del male è l’inizio della storia che noi conosciamo, una storia attraversata dalla duplice inimicizia, l’uomo che si fa nemico di Dio nell’atto in cui si fa nemico dell’altro uomo. La buona notizia, l’evangelo è che Dio riconcilia l’uomo a sé e riconcilia gli uomini tra loro. Dio rovescia il rovesciamento che l’uomo ha fatto del proprio essere. Gesù, pace di Dio con l’uomo e pace tra gli uomini
Il NT è la narrazione di quello che Dio ha fatto in Gesù per riconciliare l’uomo a sé e per ricostituire l’uomo nella sua capacità di essere con gli altri. In Gesù Dio riconcilia l’umanità a sé Innanzitutto Gesù è un essere paradossale in cui si uniscono i poli estremi della santità e del peccato. È insieme – risulta questo aspetto dalle lettere di Paolo – l’innocente, il santo, colui che non conosce il peccato ed è colui che è coinvolto come nessun altro nella vicenda di peccato dell’umanità. Ma non c’è simultaneità tra le due facce, ma una si alimenta dell’altra: Gesù è santo proprio perché condivide radicalmente la condizione umana, nella sua adesione radicale alla volontà di Dio. Mentre un certo monachesimo ha inteso la santità come fuga mundi, come una presa di distanza dal partecipare a un mondo di peccato, come progressivo distacco dal mondo per avvicinarsi a Dio, Gesù aderisce a Dio sprofondandosi, in obbedienza, nell’esistenza del mondo. Si siede a tavola con i peccatori e muore in croce, esprimendo così la massima adesione alla storia umana peccatrice e la massima distanza da Dio. Proprio nell’essere maledetto, nello sperimentare l’abbandono di Dio vive la massima adesione al Padre che gli chiede di fare così. La resurrezione non è l’ultimo gradino di una salita, ma è un ribaltamento: il maledetto diventa il benedetto. La ragione della scelta di Gesù è stata forse quella di rovesciare il soggetto di diritto, il soggetto padronale, l’uomo che si è appropriato del divino per autoaffemarsi riducendo tutto a strumento da usare o a ostacolo da abbattere. Gesù, in solidarietà con il mondo perduto, dice di sì a quello che il Padre gli chiede, restituendo al Padre la divinità. Come dice Paolo, Gesù è l’anti-Adamo. La scelta di Gesù di essere radicalmente obbediente alla volontà del Padre ci dice che ciò che si realizza attraverso di lui è il disegno di Dio sull’umanità. Dire che l’identità di Gesù è l’obbedienza radicale al Padre è dire in modo più evangelico il dogma di Calcedonia che Gesù è Dio, che Gesù è la mano tesa di Dio verso l’uomo perduto. La storia di Gesù è la storia di Dio sul mondo. Perché Dio per riconciliare a sé l’umanità non è ricorso ad un gesto di liberalità, ma ha richiesto la fedeltà che ha comportato la croce? Forse una riposta la troviamo nell’analogia con l’esperienza del rapporto tra perdono e pentimento. Il pentimento è espressione del disagio per il male fatto all’altro, ma, a differenza del rimorso, è anche offerta di riconciliazione, è già un rispondere alla offerta di perdono, un volere risarcire il male fatto recuperando il tempo perduto. Il perdono è causa del pentimento, non l’effetto. Il pentimento è cogliere l’offerta di perdono per ricostituire interamente l’amicizia. Il rapporto tra perdono e pentimento sul piano individuale mostra quello che è avvenuto sul piano universale nella storia di Gesù. Dio dona il perdono e Gesù è in seno all’umanità la coscienza penitente. Gesù è il grande penitente che prende su di sé il peccato del mondo, la maledizione, la croce perché è convinto che è giusto. L’umanità che il Padre ha riconciliato a sé in Gesù riceve ora da Dio, individualmente, il suo spirito, cioè la capacità di vivere come Gesù, non come soggetti di diritto, padroni del mondo, ma come obbedienza a Dio e al diritto del povero e quindi come solidarietà e giustizia. L’amore di Dio si è manifestato in questo, nell’aver amato l’uomo quando l’uomo era suo nemico. In Gesù è avvenuto il riavvicinamento dell’umanità a Dio, in modo tale che, qualunque cosa l’uomo faccia, l’ultima parola non sarà il no dell’uomo, ma il sì di Dio. Dio dona all’uomo un cuore di carne (Ezechiele), che Paolo chiama spirito: lo spirito è la soggettività di Dio che diventa soggettività dell’uomo, capacità di vivere la storia secondo la vocazione originaria. « beati i costruttori di pace »: evangelo e cultura di pace Tratti essenziali di un soggetto di pace. L’essere soggetti di pace non deriva ultimamente da fattori psichici, sociali, istintuali. Nell’ottica biblica l’uomo è libertà in quanto responsabilità. L’uomo non è, ma è chiamato a farsi di fronte alla scelta tra bene e male, tra vita e morte, tra essere per o essere contro, tra promuovere e uccidere. Credere in Gesù Cristo vuol dire credere che la storia umana è tenuta sempre aperta dal sì di Dio, dallo spirito di Dio, aperta verso la possibilità di un mondo di pace. Credere in Gesù Cristo è credere nell’uomo, non per le sue risorse psichiche o culturali ma per la presenza dello spirito del risorto che riapre continuamente la storia. Secondariamente il dono dello spirito, il cuore nuovo donatoci da Dio, non è una realtà già tutta compiuta. La nostra appartenenza di base è la storia peccatrice (qui è il senso del battesimo). Il cuore nuovo è un dono iniziale e insieme un compito, è il dono di un compito, è la conversione continua. Le strutture sociali (e questo è il compito di una cultura di pace) possono essere in sintonia con il cuore nuovo, ma non lo possono produrre. Il cuore nuovo, costruttore di pace, è sempre un atto di libertà Terzo. Il gesto fondatore del cuore costruttore di pace è un cuore che consente di lasciarsi pacificare dentro di sé, di accettare di spogliarsi del cuore padronale, del soggetto di diritti. Nel cuore padronale c’è la violenza originaria di chi già in cuor suo ha costituito l’altro come nemico e quindi come legittimamente aggredibile. Dobbiamo abbattere dentro di noi il gesto fondatore dell’altro come nemico. Può darsi che effettivamente l’altro sia nemico, ma ciò di cui dobbiamo spogliarci è il cuore padronale che non tiene conto di ciò che realmente l’altro è. Occorre rifarci uno sguardo capace di vedere le cose come sono. Quarto. Il superamento del cuore padronale e del cuore vittimista che arma la mano è quanto c’è di più arduo. Non si fa pace senza far penitenza. La croce fondamentale che dobbiamo portare sulle spalle è la rinuncia all’inflazionamento dell’io, riaprendo la strada dall’io all’altro. Quinto. Anche la non violenza va posta sotto il segno della responsabilità. Io sono chiamato a costruire positivamente la pace e per questo devo evitare il ricorso a strumenti violenti. Però devo farmi carico (Bonhoeffer) del male che c’è nel mondo arrivando a condividerlo anche nella forma della violenza, nel senso che la non violenza diventa la minor violenza possibile. Il cuore padronale fa violenza senza problemi, il cuore pacificato con la consapevolezza di essere partecipe del peccato del mondo. Sesto. Una cultura della pace integra il cuore pacificato. Dal centro della libertà buona si dilata la cultura della pace, dal primo cerchio dei rapporti interpersonali, al secondo dei rapporti sociali (con il superamento dello spirito corporativo), al terzo cerchio della politica sia statuale che internazionale. Ad ogni livello la cultura della pace ha problematiche specifiche. Settimo. La chiesa muove verso Gerusalemme, visione di pace. Compito della chiesa è quello di dire a tutti che il loro fine ultimo è quello di essere momenti della universale fraternità, che la volontà di pace di Dio nella storia è il fine ultimo della storia stessa.