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INTRODUZIONE ALL’EBRAISMO – RAV RICCARDO DI SEGNI

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INTRODUZIONE ALL’EBRAISMO – RAV RICCARDO DI SEGNI 

Rabbino capo di Roma

Tra le grandi religioni monoteistiche quella ebraica è la più antica. Il suo contributo alla storia delle religioni e alla evoluzione spirituale dell’umanità è essenziale. Le altre due grandi religioni monoteistiche, Cristianesimo ed Islamismo, che raccolgono centinaia di milioni di fedeli in tutta la terra, nascono dalla matrice ebraica, a cui attribuiscono valore sacro, e dalla quale traggono continua ispirazione negli aspetti fondamentali delle proprie istituzioni religiose. Una lunga storia tormentata e una cronaca, purtroppo ancora attuale, di polemiche e incomprensioni tende a sottolineare soprattutto le diversità che separano questi mondi religiosi; ma in una prospettiva più distaccata queste differenze sono certamente di minore importanza rispetto al complesso dei valori comuni da tutti e tre i gruppi condivisi, e che per unanime riconoscimento hanno il loro fondamento nella religione ebraica.

Il contributo del pensiero ebraico alla fondazione della società moderna non si esaurisce in prospettive strettamente religiose, ma si estende in altri ambiti, come quello civile e politico: l’esigenza di fondare una giusta società, e la tensione ad un rinnovamento « messianico » hanno precise radici nella Bibbia ebraica, e sono state trasmesse con forza e continuamente dagli ebrei sparsi in tutto il mondo. Infine la drammatica evoluzione storica che ha fatto degli ebrei il simbolo dell’uomo perseguitato in quanto diverso, ha rappresentato per le coscienze più nobili il segno distintivo di una condizione di imbarbarimento e di negatività sociale, contro la quale lottare per la liberazione e la dignità umana.
Gli ebrei sono oggi una comunità relativamente piccola dal punto di vista numerico, circa quattordici milioni, secondo stime numeriche che hanno ampie variabili dovute a difficoltà obiettive di valutazione. Secondo le regole interne della tradizione ebraica, ebreo è colui che nasce da madre ebrea, o che si converte all’ebraismo, accettandone la disciplina religiosa. È evidente già in questa definizione che la condizione ebraica non si esaurisce strettamente in una appartenenza religiosa; è piuttosto una appartenenza a una comunità nazionale o etnica che si riconosce in una storia comune; oggi solo una parte degli ebrei si identifica nella religione ebraica, per quanto ne accetti, in gradi molto diversi di partecipazione, le idee fondamentali o i modelli di comportamento prescritti dalla tradizione. La società occidentale è abituata a definizioni precise, a dogmi, alla necessità di inquadramenti dottrinali; la condizione ebraica, che ha remote radici storiche, provenienti da un ambito geografico e culturale molto diverso da quello da questa società, si inserisce con difficoltà nelle moderne categorie classificatorie, mentre al suo interno rifiuta di formulare, tranne che in rarissime eccezioni, principi dogmatici e verità assolute; e questo vale in primo luogo per il problema dell’identità ebraica, almeno per come viene avvertito nella realtà quotidiana degli ebrei.
Gli ebrei di oggi sono gli eredi e i continuatori, fisici e spirituali, di una comunità nazionale e di una esperienza religiosa che ha almeno tre millenni di storia. Parlando di millenni, l’approssimazione è d’obbligo; se da un lato il testo fondamentale dell’ebraismo, la Bibbia, cerca di dare notizie in un certo senso precise sui tempi e sui modi di svilupo di questa esperienza, è da tener presente che esiste una tradizione critica -nata e sviluppata in particolare nel modo protestante tedesco- che mette sistematicamente in discussione la validità delle notizie che l’ebraismo dà delle sue origini, e quindi ne sposta le date e le circostanze, mettendo in dubbio anche concetti finora ritenuti per scontati. Secondo la narrazione biblica l’ebraismo nacque in un’epoca intorno al XIV-XV secolo prima dell’era volgare con Abramo, un nomade pastore originario di Ur dei Caldei, città mesopotamica di controversa identificazione. Abramo arrivò nella terra allora detta di Canaan, dal nome del popolo che l’abitava, e che dieci secoli dopo i Greci avrebbero iniziato a chiamare Palestina, dai Filistei, il popolo che vi si era insediato dal XII secolo nelle sue regioni costiere. Per gli ebrei il nome di questa terra rimarrà a lungo quello di Canaan, per poi divenire, fino ad oggi, la terra d’Israele. Delle origini di Abramo la Bibbia quasi tace, e da qualche traccia del testo non si può escludere una sua condizione elitaria; egli assume la qualifica di ‘ivrì , da cui in lingua italiana ebreo, che trasmetterà ai suoi discendenti. In base ad alcuni documenti archeologici oggi si sa che un nome simile, hapiru, designasse nella società dell’epoca una classe sociale instabile, costituita da fuoriusciti privi di diritti; ma secondo la Bibbia il termine può indicare il discendente di ‘Ever, o colui « che viene dall’altra parte »: parte del fiume, in senso geografico, o in senso metaforico l’altra parte della società, essendo Abramo colui che ha operato una scelta che lo distingue da tutti gli altri. La scelta di Abramo è quella di porsi al servizio fiducioso e rischioso di un unico Dio, abbandonando il culto degli idoli e tutto il suo mondo originario; in compenso Dio gli promette, con un patto vincolante, una discendenza numerosa come le stelle del cielo, il possesso della terra dove si è recato, abbandonando tutti, e una benedizione continua che da lui e dalla sua discendenza si irradierà a tutte le famiglie della terra. La Bibbia poi racconta le vicende della famiglia di Abramo, del figlio Isacco, e del nipote Giacobbe; quindi dei dodici figli di questi, che saranno i capostipiti delle dodici tribù di Israele. Giacobbe con i suoi figli emigrò in Egitto, dove un altro figlio, Giuseppe, era divenuto ministro del Faraone, e così si chiuse l’epoca detta patriarcale. Giacobbe, lottando contro una figura angelica in un episodio pieno di simboli profondi e oscuri, si conquistò un nuovo nome, Israel, « colui che ha lottato con Dio », ed è riuscito a vincere. Da quel momento la comunità sarà definita con il nome, forse più nobile, di « figli di Israele », o semplicemente di Israele. Sempre seguendo il racconto biblico, dopo un breve periodo di benessere egiziano, gli ebrei, che nel frattempo erano cresciuti numericamente fino a diventare un popolo, vennero sottoposti a una dura schiavitù dai Faraoni per un periodo di uno-due secoli, e quindi liberati per intervento di un grande capo, Mosè. Questi condusse il popolo nel lungo cammino tra l’Egitto e la terra promessa, fermandosi alle falde del monte SInai per ricevere la legge divina. Dopo quarant’anni di permanenza nel deserto Mosè morì, e il popolo entrò nella terra promessa, che riuscì a conquistare parzialmente, sotto la guida di Giosuè. Con Giosuè inizia l’epoca detta dei Giudici, capi politici, militari e giudiziari che secondo le necessità contingenti unirono le tribù, o una parte di esse, per contrastare una minaccia esterna. All’unità nazionale si arrivò piuttosto tardivamente con la fondazione della monarchia unificata; il primo re fu Saul, a cui succedette David, di un’altra famiglia, che dette origine a una linea dinastica permanente. Il regno di David è collocato dagli storici all’inizio del primo millennio. La presentazione biblica della più antica storia ebraica è ampiamente e variamente contestata dai critici, che arrivano da un lato a negare qualsiasi realtà storica alle scelte religiose che la tradizione attribuisce ad Abramo e all’epoca patriarcale, dall’altra proseguono negando tutta la storia della schiavitù egiziana, dell’uscita dall’Egitto e della conquista della terra di Canaan; secondo opinioni che attualmente circolano con insistenza tra gli studiosi (e che ovviamente sia i tradizionalisti ma anche i critici meno estremistici non accettano) il popolo ebraico si sarebbe formato originariamente nella terra di Canaan, fondendo genti di varie origini, e inventandosi miticamente l’intera storia patriarcale, della schiavitù e della conquista. L’unica storia vera e verificabile, in questo tipo di approccio, è quella che ha riscontri nei documenti archeologici e storici dei popoli vicini, e ciò è possibile solo con gli inizi del regno.
Dopo la morte del figlio di David, Salomome, il regno unito si divise in due; la parte settentrionale prese il nome di regno d’Israele e la meridionale di regno di Giuda (dal nome della tribù principale che lo costituiva; di qui Giudea, per designare la regione, e anche Giudei per indicare fino ad oggi gli ebrei come i discendenti sopravvissuti di questo regno). Il regno di Israele finì nel 720, per opera degli Assiri, e i suoi abitanti deportati si dispersero senza lasciare probabilmente alcuna traccia; da allora solo il regno di Giuda rappresentò la continuità dell’ebraismo. Anche questo regno viene distrutto, nel 586, dai Babilonesi; i suoi abitanti portati in esilio in Babilonia, tornarono in parte a partire dal 538, con l’editto di Ciro. A Gerusalemme venne edificato un nuovo Tempio, e la Giudea restò sotto il dominio persiano. Tutta l’epoca dei regni, e l’inizio dell’epoca del secondo Tempio, sono contrassegnate da una intensa attività culturale e una produzione spirituale notevole, che culminò nell’azione dei profeti, che espressero al massimo le potenzialità religiose dell’ebraismo biblico. Secondo l’idea tradizionale i libri biblici sono stati scritti nell’epoca dei fatti narrati; secondo la critica sono molto più tardi, ma in ogni caso la scrittura dei libri del Pentateuco e delle opere profetiche avrebbe avuto il suo compimento all’inizio del secondo Tempio.
Nel 332 Alessandro conquistò la regione, che quindi passò sotto il dominio dei Tolomei e poi dei Seleucidi; nel 174 con la rivolta dei Maccabei la Giudea iniziò ad avere una relativa indipendenza, che avrebbe progressivamente perduto con l’arrivo dei Romani. Nel 70 dell’era volgare il Tempio di Gerusalemme venne distrutto da Tito; nel 135 l’ultima rivolta giudaica contro i Romani fu definitivamente domata nella repressione più brutale. Da allora gli ebrei non ebbero più unità statale, e si dispersero progressivamente per il mondo. In verità la Diaspora, la dispersione degli ebrei, era già una realtà nel primo secolo prima dell’era volgare, ma con la distruzione del Tempio e la perdita dell’indipendenza politica ebraica divenne una condizione negativa e inevitabile, senza tutela giuridica e quindi sempre più contrassegnata da discriminazioni, sofferenze e persecuzioni. Con il trionfo politico del cristianesimo, agli inizi del quarto secolo, i rapporti di questo con l’ebraismo, tesi fin dalle origini, si tradussero nella formulazione, sempre più sistematica, di una ideologia oppositoria e quindi di sistemi giuridici di vessazione e avvilimento. Secondo il Cristianesimo il ruolo dell’ebraismo si era esaurito con l’avvento di Gesù, il Messia annunciato dalle scritture bibliche; da allora l’ebraismo non poteva essere altro che una parvenza di sè stesso, al quale tuttalpiù poteva essere riconosciuto il ruolo di testimone inconsapevole della verità del Cristianesimo, e come tale, almeno parzialmente, tollerato in attesa della sua conversione. La civiltà cristiana espresse di conseguenza nei confronti dell’ebraismo una ideologia molto poco tollerante, e nei fatti ciò produsse nel corso dei secoli discriminazioni, espulsioni e massacri. Diverso per molti aspetti fu il rapporto con la religione Islamica, che fu capace di elaborare nei confronti dell’ebraismo un sistema di relativa tolleranza, nel quale pure vi furono espulsioni e massacri, ma in misura relativamente modesta se confrontati con quelli della storia cristiana. In ogni caso la tolleranza musulmana arrivò a tollerare l’ebreo in quanto diverso, di rispettabili origini, ma pur sempre come sottomesso, mai come persona di pari dignità. La lunga storia del rapporto difficile del mondo con gli ebrei culminò in questo secolo con la persecuzione nazista, nel corso della quale sei milioni di ebrei, pari a un terzo del popolo ebraico allora vivente, venne massacrato. A tre anni dalla fine della guerra mondiale, nel 1948 un altro evento decisivo ribaltò la storia ebraica, con la fondazione dello Stato d’Israele, creato per volontà del movimento sionista, che proponeva in forma politica l’antico ideale della raccolta delle Diaspore. Il resto è storia recente di vivissima attualità quotidiana.
Se per la antica teorizzazione cristiana l’ebraismo aveva praticamente cessato di vivere spiritualmente con la nascita di Gesù, la realtà dei fatti è radicalmente diversa. I primi secoli dell’era volgare sono contrassegnati da una produzione culturale, che ha come protagonisti i rabbini, cioè i maestri della tradizione giuridica e spirituale di Israele, che elaborarono e sviluppano un enorme patrimonio morale e giuridico. L’ebraismo stesso cambiò aspetto, per effetto degli avvenimenti di cui era stato vittima. Nell’anno 70 la distruzione, da parte dei Romani, del Santuario di Gerusalemme privò l’ebraismo del centro fisico della sua vita cultuale, nella quale avevano una importanza essenziale i riti sacrificali e l’osservanza di pratiche di purità, e dei quali erano protagonisti e custodi i sacerdoti: tali si è, nell’ebraismo, per nascita, discendendo dalla stirpe sacerdotale di Aron, fratello di Mosè. Nel momento in cui l’ebraismo politico si avviava alla tragedia della sua distruzione si avvertì il rischio che questa rovina potesse trascinare con sè anche il mondo spirituale e religioso dell’ebraismo. Rabban Jochannan ben Zakkai, il capo spirituale della sua generazione, decise di assumersi la responsabilità di venire a patti con i Romani e di salvare il salvabile. Fuggì da Gerusalemme assediata con uno stratagemma: fece annunciare la sua morte e si fece portare fuori dalla città in una bara. Riuscì quindi a parlare con Tito, e gli strappò la concessione di una zona franca nella quale poter insediare il Sinedrio, il massimo tribunale rabbinico, e continuare la trasmissione della cultura ebraica attraverso lo studio e l’insegnamento. Fu così possibile riorganizzare un mondo religioso che doveva trovare la sua nuova identità dopo che alcune sue strutture essenziali, legate al Santuario, erano venute a mancare. Fu questo l’epilogo di una lunga storia di contrapposizioni tra i due poli culturali e religiosi dell’ebraismo, quello sacerdotale e quello rabbinico. Il rabbino, a differenza del sacerdote, non è tale per nascita, ma è un maestro della dottrina religiosa, che è arrivato a questa dignità con lo studio e con la pratica di una condotta esemplare. Con la distruzione del Tempio, finito il ruolo del sacerdozio (in senso pratico, anche se tuttora i sacerdoti nell’ebraismo esistono, senza le funzioni di un tempo), furono i rabbini ad assumere la guida culturale e spirituale dell’ebraismo.
Da questa opera grandiosa, che si compì nel quinto secolo, nacque la letteratura talmudica, che fu la base delle elaborazioni successive. Nei secoli seguenti ogni generazione fu segnata dalla presenza di grandi personalità dello spirito che svilupparono in diversi aspetti le potenzialità religiose dell’ebraismo: dall’aspetto rituale e giuridico a quello filosofico, fino a quello del fervore religioso e all’esperienza mistica. Quest’ultima, dopo essere stata per secoli patrimonio di pochi, nel XVIII secolo in Europa Orientale riuscì a coinvolgere, con il movimento chassidico, grandi masse in espressioni di intensa spiritualità, che ancora oggi ispirano e dirigono la vita religiosa di ampie fascie di comunità ebraiche.
Anche in una evoluzione storica così lunga e articolata è possibile mettere in evidenza alcuni punti essenziali e comuni che rappresentano le basi fondamentali dell’ebraismo. La più importante è l’idea monoteistica. Questa idea apparve nell’antichità come una vera e propria rivoluzione, forse preannunciata da alcune intuizioni presso gli egiziani, ma che solo nella cultura ebraica trovò uno sviluppo fecondo e costante, una fedeltà assoluta, insieme alla determinazione storica a mantenerla e a mantenerla a ogni costo. Il Dio in cui crede Israele è l’unico ritenuto possibile, creatore di tutta la realtà esistente, che non ammette alcuna divisione di ruoli; non esiste aldifuori di Lui alcun altro dio; gli idoli in cui l’uomo pone fiducia non hanno senso, non hanno fondamento. Nulla può esistere senza di Lui, mentre Egli preesiste alla creazione e a ogni realtà. Fin dalle origini l’ebraismo immagina questo Dio come unico non solo nel suo ruolo, ma anche nella sua essenza; e per quanto nella Bibbia si moltiplichino le espressioni antropomorifche, che rappresentano simbolicamente gli interventi divini sulla terra, è chiara la coscienza che la realtà divina non ha nulla a che fare con quella materiale e umana; è infinita, assolutamente spirituale e incorporea, non rappresentabile: ogni immagine che se ne pretenda di fare è una terribile offesa, un tentativo di rapportare alle dimensioni umane un’essenza che per definizione non le appartiene. Ma qui l’idea ebraica sviluppa il suo paradosso essenziale: se da un alto la realtà divina è assolutamente superiore e diversa da quella umana, al punto che non sarà mai possibile arrivare a comprenderla nel suo aspetto più profondo; dall’altra l’ebraismo pretende che questa realtà sia, per quanto imperscrutabile, estremamente vicina all’uomo. In molti sensi differenti, iniziando dall’essenza stessa dell’uomo, che è creato a immagine e somiglianza divina, concetto che si esprime nelle sue qualità intellettuali, nella sua dignità, nella possibilità di scelte morali, nella parola, nelle capacità di dominare la realtà e di trasformarla; quindi nel governo divino della storia, per cui si ammette, anzi si sostiene con forza, l’idea di un intervento continuo da parte di Dio nelle vicende umane. Ciò si esprime in vari modi: nell’insegnamento agli uomini di una strada corretta da seguire, e nell’illuminazione di personalità eccezionali che comunicano agli uomini questi insegnamenti in momenti speciali; poi nella garanzia di un ordine in cui la giustizia e la rettitudine siano conservati. L’ebraismo crede nel concetto della ricompensa e della punizione, e vede in Dio il garante di questo ordine, che privilegia la giustizia. Forti di questa fede, per secoli gli autori ebrei, dal libro di salmi a Giobbe, alla letteratura rabbinica, fino ai pensatori della nostra epoca, hanno cercato di trovare una tormentata risposta al problema della sofferenza del giusto in questo mondo. La questione della ricompensa è stata risolta in vari modi: pensando ad esempio a una realtà successiva e diversa da quella di questo mondo, riservata come premio ai giusti; oppure elaborando una concezione divina come criterio assoluto, stimolo e modello da imitare nella promozione della dignità umana; o evitando di affrontare direttamente il problema, avvertendo la realtà quotidiana, anche nei suoi aspetti negativi, come segno di una volontà che per noi è incomprensibile, ma che è pur sempre giusta. Solo raramente, e forse di più nella nostra epoca, dopo Auschwitz, è stata messa in dubbio la tutela divina sulla storia.
Ma il Dio adorato da Israele non è soltanto, come si è soliti pensare, il terribile garante della giustizia e il tremendo e collerico punitore degli empi. Questa è un’immagine distorta e parziale, che l’ebraismo ha ricevuto dalle polemiche antiebraiche di alcuni circoli cristiani, che hanno voluto delineare una presunta opposizione tra il Dio dell’Antico Testamento, vendicativo e collerico, e quello del Nuovo, fatto di solo amore. In realtà nell’una e nell’altra tradizione Dio è giustizia e amore. Basti leggere per l’Antico Testamento la splendida parabola dell’ultimo capitolo di Giona, in cui Dio insegna che il mondo non si può reggere sulla sola giustizia, e che Dio è un padre misericordioso, che ha pietà per tutte le sue creature. Amore e giustizia sono i prototipi dei due attributi divini con i quali la tradizione rabbinica immagina la presenza, che per la mente umana è apparentemente contradditoria, della realtà divina nella storia, dalla creazione (che fu atto d’amore, perchè sulla sola giustizia il mondo non avrebbe potuto resistere un solo istante), alla vicenda quotidiana.
Secondo la concezione ebraica la volontà divina sulla terra si realizza e si esprime secondo un programma preciso, che è stato consegnato all’uomo. Questo programma ha un nome, è la Torà, l’insegnamento divino, e si identifica inizialmente con la prima parte della Bibbia, il Pentateuco. In questo libro sono narrate e interpretate in chiave religiosa le vicende essenziali che segnano la vocazione del popolo ebraico al servizio divino. Una piccola tribù di pastori seminomadi, diventata popolo e soggetta in schiavitù in Egitto, si immagina come legata ad una missione speciale nei confronti dell’umanità da un vincolo che ha stretto con il Dio di cui i suoi patriarchi hanno cominciato a scoprire l’esistenza. Questo vincolo è il patto, o meglio una serie di patti che Israele strinse con Dio, stabilendo un impegno per tutte le generazioni successive. Da un lato Israele riconosce Dio come il suo Signore, e si impegna a osservarne la volontà, che è quella espressa nei comandi della Torà; dall’altra Dio sceglie Israele come suo popolo, lo considera un reame di sacerdoti, e gli promette, in una terribile sfida storica, il bene e il male che possono nascere da una scelta e da un impegno superiore. L’elezione di Israele non è un dono incondizionato, ma una sfida e una provocazione continua, che comportano un prezzo altissimo. Un insegnamento rabbinico sostiene che Dio ha fatto tre buoni doni ad Israele, ma tutti quanti a prezzo di grandi sofferenze: la Torà, la terra d’Israele, il mondo futuro. Tra le poche consolazioni, è la coscienza di Israele, che anche nelle peggiori circostanze sa che l’impegno divino non è rinunciabile nè soggetto a ripensamenti, e che Dio quindi non potrà mai lasciare il suo popolo e svincolarlo dal suo patto. Israele si considera come « un reame di sacerdoti » rispetto all’umanità, nel senso che si è imposto, come tutti coloro che sono sottoposti a servizi speciali, una disciplina aggiuntiva che gli altri non devono o vogliono avere. Da questi presupposti nasce una dottrina articolata sui rapporti con gli altri popoli e le altre fedi, che ha già notevoli espressioni nei libri profetici della Bibbia e che poi la tradizione rabbinica sviluppa. Vi sono elementi particolaristici, insieme a visioni di respiro universale. L’umanità tutta è chiamata da Dio, e l’elezione di Israele non esclude altre elezioni. Solo che la disciplina imposta ad Israele, che si esprime nei 613 doveri o precetti che sono prescritti dalla Torà, non deve essere necessariamente condivisa da altri. Per tutti i popoli, che vengono chiamati tecnicamente i « noachidi », cioè i discendenti da Noè, sopravvissuto con la sua famiglia al diluvio, c’e ugualmente una strada aperta per un rapporto sacro con Dio e per conseguire la pienezza dei beni e la benedizione che non è esclusiva per Israele, ma di cui Israele si considera solo un annunciatore e un promotore. Ai popoli della terra per arrivare al livello di « giusti » sarà sufficiente il rispetto una normativa essenziale, che nella tradizione rabbinica è stata riassunta in sette principi, che riguardano il rapporto con Dio (rifiuto dell’idolatria e della bestemmia), con gli altri uomini (divieto di omicidio e di furto, costituzione di tribunali) e il rispetto dell’ordine « naturale » (morale sessuale essenziale, rispetto degli animali).
L’ebraismo ha sempre avvertito, fin dalle origini, la tensione tra le realtà oggettiva del momento e il desiderio di vedere realizzate tutte le sue speranze e i suoi ideali. Molti ideali hanno un senso concreto: per quanto riguarda Israele, la fine della suadispersione e della sofferenza in mezzo alle nazioni del mondo, e il ritorno dei dispersi nella terra d’Israele; l’esigenza di una società fondata e dominata dalla giustizia, sia all’interno del popolo d’Israele, sia più in generale nei rapporti tra le nazioni del mondo; la fine delle violenze e degli strumenti di violenze; di qui progressivamente la prospettiva ideale si allarga su immagini escatologiche di redenzione universale e totale. Tutte queste speranze hanno un nome comune, messianesimo, da « messia » che in ebraico indica l’attributo del re, che saprà fondare la società giusta. È importante rilevare che nella Bibbia ebraica, così come nella tradizione successiva, non esiste una formulazione unitaria di queste idee, che convivono anche con molte contraddizioni e opposizioni. Ma l’elemento comune in tanta diversità è la coscienza dell’imperfezione, la costanza della tensione, che segna la vita dell’ebreo con un anelito continuo al rinnovamento.

HANUKKAH – IL MIRACOLO NEGATO – RAV RICCARDO DI SEGNI, RABBINO CAPO DI ROMA – 2015: 7-14 DICEMBRE

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HANUKKAH – IL MIRACOLO NEGATO – RAV RICCARDO DI SEGNI, RABBINO CAPO DI ROMA – 2015: 7-14 DICEMBRE

La recente scomparsa del dottor Marco Spizzichino, che prima di esercitare per molti anni a tempo pieno la professione medica era stato insegnante di materie ebraiche alle scuole elementari di Roma, ha evocato, proprio alla vigilia di Hanukkah, l’immagine del morè Spizzichino che dirigeva il coro dei bambini nella tradizionale festa delle scuole che si svolgeva al Tempio Maggiore (e ancora vi si svolge). Ricordo i suoi gesti decisi e ritmati che guidavano i bambini a cantare Mi yemallel gvurot Israel… Uno dei tanti canti per Hanukkah, che ancora oggi circola nelle nostre scuole e nelle riunioni pubbliche festive. Sollecitato da questo ricordo, ho provato a cercare qualche notizia su questo canto e mi si è aperto davanti un mondo intero. Che va riscoperto e spiegato perché è una chiave di comprensione (o di incomprensione) dei significati contraddittori della festa di Hanukkah. Ogni canto è fatto di un testo e di una melodia. Il testo del Mi yemallel è stato scritto, verso gli anni Trenta, da un personaggio abbastanza noto, Menashe Rabina. Nato nel 1899 in Ucraina, fece studi laici, tradizionali in yeshivòth e soprattutto musicali; dal 1924 si insediò a Tel Aviv; morì nel 1968. Musicista e musicologo impegnato, dette un grande impulso all’educazione musicale in Erez Israel e alla crescita delle sue musiche, che contribuirono a creare l’atmosfera del paese. Fu autore di testi e melodie famose. Nel caso del Mi yemallel, del solo testo, mentre la musica è “popolare”, sembra di origine inglese. Uno strano miscuglio, che diventa ancora più enigmatico quando si riflette al significato dei pochi versi della canzone. In italiano: “Chi potrà dire le prodezze di Israele, chi potrà enumerarle?/ Ecco in ogni generazione sorgera l’eroe redentore del popolo./ Ascolta: in quei giorni, in questo tempo/ il Maccabeo salva e riscatta/ E nei nostri giorni tutto Israele/ Si unirà, sorgerà e sarà redento”. A parte la retorica, comune in molti inni del genere, l’esame del testo, che cita espressioni antiche e tradizionali, a un esame appena più approfondito è rivelatore di una rivoluzione. Perché l’espressione iniziale, Mi yemallel gvurot, è presa dalla Bibbia, dal Salmo 106:2, solo che nel Salmo le prodezze sono quelle del Signore, mentre qui sono quelle di Israele. Nello spirito tradizionale il “redentore” non sorge da solo, ma viene fatto sorgere, e chi “salva e riscatta” è il Signore stesso, talora per mezzo degli uomini, ma mai gli uomini per conto proprio. Dunque la poesia rivela uno spirito a-religioso se non antireligioso, in cui si sostituisce, all’opera redentrice divina che guida la storia, l’autonoma rivolta umana. L’autore lo fa usando il vocabolario della tradizione, persino quello liturgico (“ascolta”; “in quei giorni in questo tempo”) che viene però stravolto. E’ un’operazione tipica di un certo periodo e di una certa anima del movimento sionistico, che predicava il risorgimento del popolo ebraico in contrasto con i gruppi più religiosi che vedevano in questo un sovvertimento della storia e del destino diasporico segnato dall’alto. In terra d’Israele questo contrasto veniva perfettamente notato, e quindi accettato polemicamente da ampie fasce sioniste e rigettato dagli antisionisti o dai sionisti religiosi. Stupisce un po’ la diffusione di questo canto nella Roma ebraica, che non sappiamo quando sia arrivato, probabilmente dopo la guerra, e passi per i sionisti non religiosi, ma non si capisce molto l’uso comune e accettato dentro al Tempio Maggiore, dove molti l’hanno sentito cantare e anche imparato. Se si pensa al repertorio comune dei canti di Hanukkah, la contraddizione è notevole. L’uso dei sefarditi e degli italiani si limitava al canto del Salmo 30, Mizmor shir chanukkat habayt leDavid. Gli ashkenaziti invece hanno dal medioevo il famoso Ma’oz Tzur, che è un inno religioso, in quanto è preghiera di redenzione rivolta alla “Fortezza, roccia della mia salvezza”; un canto che riassume le storie di salvezza, che tra le righe contiene allusioni piuttosto dure alla fine dei nemici, e che conserva un certo carattere militaresco sottolineato dall’antica marcetta tedesca che tutti conoscono (ne esiste anche una variante italiana forse un po’ più dolce). Nel secolo scorso i canti si sono moltiplicati, con testi nuovi e melodie talvolta nuove, talvolta riciclate (fino allo Judas Maccabaeus di Handel). Mi yemallel nasce nell’atmosfera sionista rivoluzionaria, in cui tutto è rivolto alla capacità e alla volontà del popolo ebraico di scriversi da solo il proprio destino. E non è l’unico canto che rivisita le concezioni tradizionali. In Yemè haChanukkà il ritornello parla dei “miracoli e prodigi che hanno realizzato i Maccabei”, per intendersi, i Maccabei da soli hanno fatto il miracolo. In altri testi si nega direttamente il miracolo dell’olio. Prima di Yom ha’atzmaut, il giorno dell’Indipendenza, la festa più adatta per segnare lo spirito di rivolta ebraica era proprio quella di Hanukkah, di cui veniva esaltato il ricordo di un pugno di uomini che si ribellarono all’oppressione e crearono uno stato indipendente. Che poi i ribelli fossero sacerdoti, e lo facessero non tanto per l’indipendenza quanto per la libertà religiosa e in opposizione all’assimilazione all’ellenismo, contava meno nella rielaborazione mitica proto-sionista. Ma a ben vedere questa opposizione di significati accompagna Hanukkah fin dalla sua istituzione. Il tema della luce e del miracolo, sottolineato dai maestri, è in chiara opposizione allo spirito rivoluzionario e militaresco della festa. I Farisei erano stati vittime della casa regnante degli Asmonei, gli eredi dei sacerdoti vittoriosi di Hanukkah, che erano diventati re. I Farisei consideravano questa regalità un’usurpazione (il re legittimo di Israele può essere solo un discendente da David), e pagarono a duro prezzo questa loro opposizione. Se Hanukkah doveva essere la celebrazione dell’insediamento di una monarchia illegittima, non c’era motivo di celebrarla. Ma Hanukkah era anche la vittoria contro l’ellenismo, la restaurazione del Tempio; questa era l’anima di cui i Rabbini non potevano fare a meno. E da qui la centralità della storia del miracolo e la sua importanza centrale nella celebrazione. Hanukkah riassume in questo modo una delle più importanti contraddizioni dell’ebraismo, tra anima laica e libertaria e tra anima religiosa permeata alla fede. Non è che la contraddizione sia così semplicistica. Esistono cento modi di viverla e ricombinare le cose insieme. Ma il risorgimento ebraico ha esaltato questa contraddizione. Oggi che viviamo nell’era definita “post-sionista” alcune di queste durezze si sono un poco attenuate. Ma solo poco. Tra chi vede la storia universale e quella ebraica in particolare come un prodotto umano e chi la vede invece come provvidenziale, tra chi privilegia un’identità ebraica statale e chi la vuole antistatale (se lo stato è quello ebraico non religioso), tra chi teorizza il diritto all’autodifesa militare (e all’attacco quando necessario) e chi considera la violenza sostanzialmente estranea all’anima ebraica, il dibattito, e spesso la polemica feroce, è estremamente attuale. E tutto questo si nasconde dietro le fiammelle di questa festa, che continuiamo ad accendere in segno unificante, anche se al segno attribuiamo tanti significati differenti. Tra i messaggi nascosti nella storia del miracolo dell’olio c’è quello della permanenza nel tempo (x 8) dell’energia, che si verifica in un nucleo di “duri e puri”, contro ogni regola razionale e naturale, energia che consente a tutti di sopravvivere anche nei momenti più drammatici. Erano così energici anche i sionisti che ricostruivano la terra e lo stato, anche se molti di loro, con la loro ideologia, negavano proprio il simbolo che li rappresentava.

 

RICCARDO DI SEGNI – LEGGE E LIBERTÀ NELL’EBRAISMO

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RICCARDO DI SEGNI

LEGGE E LIBERTÀ NELL’EBRAISMO

Intervento per il convegno del S. Egidio, Palermo, 2 Settembre 2002

Ringrazio…

L’argomento che discutiamo questa mattina ha un posto di tutto rilievo nell’esperienza religiosa ebraica. Quando Charlton Heston nei panni di Mosè nel film I dieci comandamenti scende dal monte Sinai e scopre il vitello d’oro, gli sceneggiatori gli fanno dire che “non c’è libertà senza legge”. In questo caso la battuta non è un’invenzione holliwoodiana, ma ha un preciso riscontro nella tradizione. Il rapporto tra legge e libertà è definito con precisione nel racconto della Bibbia, in particolare nel libro dell’Esodo. La storia a tutti nota è quella di un popolo che viene strappato, forse anche contro la sua volontà, dalla schiavitù egiziana, e che poi , a 50 giorni dal giorno in cui è stato liberato, assiste alla rivelazione divina con la promulgazione del decalogo sul monte Sinai. Il modello dell’uscita dall’Egitto diventa fondamento dell’esperienza religiosa ebraica, base della legge, criterio di riferimento per un sistema di diritto dove non c’è posto per l’ingiustizia e l’oppressione. La prima affermazione dei cosiddetti 10 comandamenti è quella in cui D. si presenta come Colui “che ti ha fatto uscire dall’Egitto, dalla terra della schiavitù” (Esodo 20:2). La legge che regola la schiavitù si basa sul principio che “i figli d’Israele sono per me schiavi che ho fatto uscire dall’Egitto (Lev. 25:55). Come spiegano i rabbini, schiavi di D. ma solo di Lui, e quindi di nessun altro. Sottomissione a D. come libertà da qualsiasi altro assoggettamento. Il tema della libertà si caratterizza quindi in un modo del tutto particolare, nel legame inscindibile con D. e la sua volontà e il dovere che impone. Mosè davanti al Faraone cita le parole divine: “manda via il mio popolo, perché mi servano” (Es. 7:16, 26, 9:1,13, 8:16) da una parte la libertà, dall’altra il servizio.

Come è noto, nell’ebraismo il racconto biblico non rimane solo un documento del passato, ma è base dell’esperienza quotidiana, oggetto di studio e modello di pratica che viene sistematicamente rivisitato. Il ricordo dell’uscita dall’Egitto, che è in altri termini quello della libertà acquisita, è base di tutta la vita cerimoniale, dal Sabato alla Pasqua. Ma la scansione liturgica del tempo comprende necessariamente la celebrazione di Shavuot, la Pentecoste ebraica, a sette settimane dalla Pasqua, e alla quale ci si prepara giorno per giorno, contando letteralmente ogni giorno, con una piccola cerimonia, in ossequio al dettato biblico di Lev. 23:15. Il messaggio è chiaro: che la libertà conquistata non ha senso se non c’è la la legge, la cui promulgazione si celebra appunto a Shavuot.

I rabbini hanno voluto ribadire questo concetto con una specie di slogan. E’ un famoso midrash, un insegnamento rabbinico del secondo secolo, che gioca sull’espressione biblica con cui si descrive la scrittura delle tavole della legge. Il testo dice che “le tavole erano opera divina e la scrittura era scrittura di D. incisa sulle tavole” (Esodo 32:16). “Incisa” in ebraico è “charut”; sostituendo una vocale –cosa possibile perchè il testo non è vocalizzato- si può leggere cherut, che significa libertà: Quindi i Maestri suggerivano di leggere la frase nel senso che “la scrittura di D. è libertà nelle tavole”1. La frase ha un grande effetto di per sè, ma i rabbini continuarono a ragionarci sopra. Alcuni spiegarono: “chi si occupa di Torà è libero per sè stesso”. 2 Altri discussero il senso di questa libertà: Rabbì Jehuda dice “libertà dai regni”, o in altre versioni “dagli esili”; rabbi Nechemia dice “libertà dall’angelo della morte”, gli altri Maestri dicono “libertà dalle sofferenze” 3 La divergenza rabbinica, che ora cercheremo di capire, scopre l’aspetto al tempo stesso debole e forte del principio. Perchè può essere facile parlare di libertà, ma di libertà ce ne se sono tante e diverse e lo slogan non ha senso se non si chiarisce di che libertà si tratti. E se qualcuno si potrebbe stupire per la mancanza di consenso rabbinico su un così importante pilastro del sistema, usi almeno questo rilievo come conferma di un primo dato molto importante: che la divergenza sul senso della libertà dimostra come ci sia nel sistema un ampio margine di libertà di pensiero e di dissenso. Entrando nel dettaglio della divergenza possiamo spiegare che la prima interpretazione, quella che parla di libertà dai regni o dagli esili, è essenzialmente politica; si tratta di indipendenza nazionale e il messaggio è che per il popolo ebraico solo se c’è l’accettazione della legge c’è la garanzia di non dipendere o ed essere sottomessi ad altri. Ma quello che sembra un semplice discorso politico probabilmente contiene un profondo messaggio religioso perché sostiene per gli ebrei l’unicità e l’esclusività della legge divina come garante di una libertà che altri popoli invece possono acquistare anche solo in termini meramente politici. Quando poi si parla, nelle altre due interpretazioni, di libertà dalle sofferenze o dall’angelo della morte, il discorso non è più – almeno in apparenza- politico, ma sale sulla scala dell’esperienza religiosa, per integrare la dimensione collettiva con quella personale, per passare dalla sofferenza materiale all’equilibrio e alla crescita spirituale, fino alla trasformazione totale della condizione dell’uomo. Beninteso, i messaggi che cerchiamo di interpretare sono in parte ancora misteriosi, con ampio raggio di significati, e le proposte di lettura non potranno mai garantire la certezza del risultato; ma questo nell’ebraismo fa parte del gioco.

Se dunque sul primo termine del discorso, la libertà, tutti concordano che c’è ma ognuno l’ intende a modo suo e abbiamo qualche difficoltà a capire fino in fondo di cosa si parli, sul secondo termine, quello della legge, l’intenzione è chiara, malgrado il terribile equivoco che lo circonda. Quando in tutti i testi tradizionali si parla di legge, si intende sempre qualcos’altro, che non è strettamente legge, è la Torà. Torà significa essenzialmente insegnamento ed è il nome che viene dato in senso stretto alla prima parte della Bibbia, il Pentateuco, che rappresenta la Torà scritta, e in senso più largo a tutta la tradizione sacra, che viene definita orale perché fino a circa il secondo secolo veniva trasmessa solo a viva voce. In tutti i testi che abbiamo citato la parola legge è da sostituirsi con Torà. Di questa traduzione parziale e fuorviante è responsabile il tramite greco, che spesso rende Torà con nomos e poi ne riduce il significato. In questo processo riduttivo, e in qualche modo emarginante, ha una notevole responsabilità il cristianesimo dei primi secoli, e di questo dato, proprio nel contesto attuale che è di confronto rispettoso e costruttivo, dobbiamo tener conto con grande attenzione. Il cristianesimo di Paolo nasce alimentandosi su una contrapposizione con la legge, che è poi contrapposizione alla Torà, e proprio in questa contrapposizione trova parte della sua identità rispetto alla matrice originaria ebraica. Le espressioni rabbiniche sopra citate vanno lette anche in questa luce, come un tentativo di sistematizzazione che ha sullo sfondo la nascita di una nuova religione che critica all’ebraismo la sua fedeltà alla Torà. Il paradosso è che il cristianesimo eredita dall’ebraismo il tema della libertà che si conquista solo nella strada di una disciplina spirituale, ma allo stesso tempo rifiuta il modello globale presentato dall’ebraismo, definendolo come “legge”. Nei secoli successivi il distacco si farà ancora più profondo, accompagnato anche dal disprezzo e dall’accusa di freddo legalismo.

Questa prima grande rivolta del figlio contro il padre ha avuto la sua ripetizione quasi vendicativa nella rivolta del nipote contro padre e nonno; uscendo di metafora, la nascita del mondo contemporaneo intorno all’idea della democrazia, fondata sui concetti di libertà ed uguaglianza. La modernità, mentre attinge questi concetti -anche senza ammetterlo- dalle fonti mai prosciugate della tradizione giudeo-cristiana rifiuta in qualche modo l’ispirazione religiosa sottolineando il diritto ad una legge che l’uomo si dà da solo, senza dipendere dall’autorità divina o di chi pretende di rappresentarla in questa terra. Alcune religioni monoteistiche hanno faticato molto nel tentativo di conciliare i fondamenti della società attuale con l’idea di origine sacra degli ordinamenti dei propri sistemi; spesso il risultato è quello di un compromesso più o meno onorevole nel quale si cerca di far convivere le differenze separando gli ambiti di competenza. Altre religioni non hanno neppure fatto questo tentativo, o sono giunte, in alcune loro componenti , alla conclusione di opporsi totalmente al sistema democratico. E siamo così arrivati alla dolorosa recente constatazione che in questo mondo globalizzato l’estremismo religioso, opposto ai valori centrali della democrazia, è diventato veramente una minaccia seria.

La dicotomia tra secolarismo e religione sul tema della libertà, dopo essere stata una delle basi del conflitto degli ultimi due secoli tra progresso e reazione, torna alla tragica ribalta nella tormentata ricerca attuale di un equilibrio. La società occidentale deve trovare la sua strada tra le minacce dell’estremismo religioso da una parte e del relativismo morale dall’altra 4. Il ruolo delle religioni, specialmente delle tre grandi monoteistiche, potrebbe essere determinante in questo processo, ma è difficile dire se le religioni riusciranno a trovare una piattaforma condivisa per una risposta comune. Non si può ignorare quanto, proprio su questi temi, in ciascuna religione l’identità sia costruita su un’immagine forte, e spesso, almeno nel passato, polemica verso le altre realtà. Ma perchè non possiamo rifiutare la richiesta e la responsabilità, dobbiamo ragionare sui nostri fondamenti, sui valori e sulle proposte da offrire, ciascuno partendo dalla propria esperienza.

L’idea che guida l’ebraismo è la riflessione sulla natura e sul dovere dell’uomo. L’uomo è libero di scegliere il suo destino ma non è indipendente dalla creazione e dal Creatore, ed è per questo chiamato ad una vocazione superiore, alla realizzazione della spiritualità cui lo chiama la sua natura duplice, materiale e spirituale. Come l’accampamento, dove il popolo si raccoglie e si ferma deve essere sacro (Deut. 23:15), così il singolo individuo deve realizzare la santità per diventare egli stesso accampamento e sede di immanenza divina; un’immanenza che cerca l’uomo singolo come la collettività organizzata e vi si posa sopra anche suo malgrado, “sta in mezzo a loro tra le loro impurità” (Lev.16:16). L’uomo è sottoposto e minacciato da ogni tipo di schiavitù, da quella delle passioni personali a quella politica e ideologica della società che lo circonda. In opposizione a queste minacce il modello di santità proposto rappresenta una forma di riscatto e di liberazione totale dalle seduzioni passionali e culturali; e rispetto alle forme politiche di oppressione una linea di resistenza attiva e passiva, e un’espressione di speranza nella forza divina liberatrice. Di libertà ce ne sono tante, come di schiavitù. Quando un essere umano serve più di un padrone sta facendo una qualche forma di idolatria. Il richiamo assoluto ebraico alla spiritualità non estranea l’uomo dalla società ma ve lo reimmerge decisamente con un progetto di rinnovamento e di correzione, indicando un modello di libertà molto più ampio e comprensivo di quelli di cui la società laica si accontenterebbe. Senza estremismi e imposizioni, possiamo e dobbiamo rivendicare, nel confronto con gli altri sistemi e le altre culture, e potremmo farlo anche insieme, che la nostra idea di servizio assoluto ad un unico Re è la risposta necessaria, è una sfida alla crescita, è un lievito fecondo.

1 Avot 6 :2 dove il testo prosegue: « e’ libero solo colui che si dedica allo studio della Tora’ »
2 Avot de Rabbi Nathan 2
3 Numerose le fonti: Tanchuma Waera 9, Shir haShirim Rabba 8, Shemot Rabba 51, Waikra Rabba 18
4 Paul Eidelberg, Beyond the Secular Mind. A Judaic Response to the Problems of Modernity, Greenwood Press

IL SILENZIO DI DIO

http://www.nostreradici.it/silenzio_DiSegni.htm

IL SILENZIO DI DIO

Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma, Direttore del Collegio Rabbinico Italiano

Il tema del silenzio e dell’assenza di Dio davanti alle sofferenze dell’umanità è salito improvvisamente alla ribalta per un motivo quasi casuale, un recente intervento del Papa che lo ha affrontato nel corso di un’omelia. Parlare di quest’argomento ha sorpreso un po’ tutti, sia per la natura del tema, così difficile e speciale, che per la forza con cui è stato trattato. Ma per la sensibilità ebraica non si è trattato di una novità né di una sorpresa.
È un tema importante della teologia biblica che viene costantemente ripreso ed elaborato nel corso della storia e che davanti a fenomeni di particolare gravità, come la Shoà, esplode travolgendo le coscienze. Esaminando le pagine bibliche si può vedere come l’interrogativo sulla presenza divina accompagni la storia ebraica dal momento stesso in cui nasce come popolo. La Bibbia cerca di dare qualche risposta, anche molto precisa a questa domanda terribile, ma la questione evidentemente non è semplice da risolvere per le coscienze turbate.
Il tema trova espressione in una grande metafora antropomorfica, quella del panim, del volto divino. Nel rapporto tra esseri umani guardarsi in faccia è un modo di comunicare, anche se non necessariamente benevolo, mentre volgersi la faccia, rivoltarsi, è segno di chiusura, di interruzione di comunicazione, di rifiuto. Sono pertanto sinonimo di speciale benedizione, simpatia, protezione, benevolenza le espressioni iaer haShem panaw elekha e issà haShem panaw elekha, « che il Signore illumini e volga te il suo volto », che compaiono nella benedizione sacerdotale di Numeri 6:25-26, che quotidianamente ripetiamo nella nostra liturgia.
Al contrario è il celarsi, il nascondersi del volto divino il segno di allontanamento. Leggiamo in proposito un brano fondamentale:
 » La mia ira divamperà contro di lui in quel giorno e li abbandonerò e nasconderò loro il mio volto (letteralmente: mi nasconderò il volto da loro) e diventerà preda di chi vuole divorarlo e lo incontreranno numerose disgrazie e cose cattive e in quel giorno dirà ‘è perché il mio Dio non è in mezzo a me che mi sono capitate queste brutte cose’. Ma Io avrò nascosto il mio volto in quel giorno per tutto il male che aveva fatto, perché si era rivolto ad altri dei ». (Deuteronomio 31:17-18).
In questo brano c’è la prefigurazione dell’evento (l’abbattersi delle sciagure nazionali, il diventare preda dei nemici), la sua rappresentazione teologica (Dio che si nasconde all’uomo), la constatazione umana dell’abbandono (Dio non è in mezzo a me) e l’interpretazione teologica (il volto si nasconde perché l’uomo si è ri-volto altrove).
Che non si vadano a cercare responsabilità divine primarie nel male; questo dipende in primo luogo dall’uomo e dal dono che gli è stato fatto di poter scegliere tra bene e male, tra premio e punizione. E all’uomo viene quindi chiesto di fidarsi e scommettere. Non a caso, in un brano che per molti versi è l’anticipazione di quest’interpretazione del Deuteronomio, la domanda su dove è Dio nasce in un contesto storico preciso: usciti dall’Egitto, dopo tutti i miracoli cui hanno assistito, gli ebrei si trovano nel deserto senza acqua; e allora, immemori e ingrati dei beni precedenti, protestano, fino a minacciare Mosè di lapidazione. Racconta la Bibbia:
« (Mosè) chiamò quel luogo Massà e Merivà (contesa e lite) per la lite dei figli d’Israele e per aver loro messo alla prova il Signore dicendo: ‘se Dio è in mezzo a noi o no’  » (Esodo 17:7).
E subito dopo ecco quello che succede:
« Arrivò Amaleq e combatté con Israele a Refidim » (ibid, v. 18).
Amaleq è il nemico mortale perenne d’Israele, senza pietà per i più deboli. Amaleq arriva e colpisce non in un momento qualsiasi, ma quando Israele non è più capace di avvertire la presenza divina dentro di sé. Dio fugge e si nasconde secondo il Deuteronomio dopo che gli ebrei gli si rivoltano contro; ma la prima fuga -quella che apre il varco al nemico divoratore- avviene nella coscienza degli uomini che diventano sordi e incapaci di avvertire la presenza divina. Prima ancora di un volto che si nasconde c’è l’incapacità umana di vederlo quando c’è. L’importanza di questa storia supera il caso isolato, diventa emblematica. Non a caso nella Torà uno dei comandi più importanti che si riferiscono all’uso della memoria, riguarda proprio la storia di Amaleq: « ricorda cosa ti ha fatto Amaleq » (Deuteronomio 25:17). Ricorda cosa ti ha fatto, ma anche che cosa può averlo provocato.
Il celarsi del Deuteronomio non è isolato, ma lo ritroviamo in tanti altri brani biblici,da Isaia (8:17, 54:8), Ezechiele 39 (23,24,29), ai Salmi (« non nascondermi il tuo volto »: 27:9, 102:3, 143:7; e ancora 13:2, 30:8, 44:25 ecc), espressioni di una angoscia e di una ricerca costante. Di fatto il tema del Dio che si nasconde diventa la costante dell’esperienza successiva, specialmente diasporica. Giocando sulla lingua, la radice satar che indica il celarsi (da cui forse anche il mistero) viene riscontrata dai Maestri nel nome dell’eroina biblica Ester: un nome che in realtà dovrebbe essere collegato a Astarte e Aster-Astro, ma che per i Maestri non indica il fulgore ma il buio. Con una consolazione: perché la regina Ester opera in un periodo storico in cui il Volto non è più visibile e accessibile, e per questo può sempre sorgere qualcuno che decide di distruggere l’intero popolo ebraico; ma anche se la presenza diretta, la visione luminosa del volto non c’è più, la presenza divina, la sua provvidenza, la sua assistenza non mancano mai e al momento giusto intervengono nella storia e liberano.
Per questo motivo consolatorio e di speranza gli ebrei celebrano ancora oggi (e continueranno a farlo anche quando tutte le altre feste saranno abolite), per una volta all’anno, con gioia fisica quasi sfrenata, la festa del Purim, per segnalare che anche in un regime di volto nascosto la protezione non viene mai meno. È sul filo di questa speranza che si gioca un’esperienza drammatica, una domanda con tante risposte sempre insufficienti, una provocazione alla fede che coinvolge quasi quotidianamente la vita di ogni ebreo, che sia religioso o no.
Nel momento in cui lo Stato si accinge a celebrare il Giorno della Memoria, con importanti intenti memoriale ed educativi, lo spirito ebraico partecipa con un ricordo sconsolato e con il peso di una domanda e di una ricerca che ha più di 32 secoli di storia.

RAV. RICCARDO DI SEGNI – FUORI DALLE ROVINE

http://www.ucei.it/giornodellamemoria/default.asp?subpag=34&pag=3

RAV. RICCARDO DI SEGNI

FUORI DALLE ROVINE

(mi accorgo che ci sono delle lettere che non sono venute bene, ora è tardi, non faccio a tempo a correggere, scusate!)

AllÆinizio del Talmud Babilonese, nel secondo foglio del trattato di Berakhot (3a) Rabbi Iosý racconta che una volta stava camminando per la strada ed entr‗ a pregare in una delle rovine di Gerusalemme. Lo vide Eliahu,  il profeta, e lo aspett‗ facendogli la guardia fuori dalla rovina.Finita la preghiera i due si salutarono ed Eliahu fece delle domande: ôPerchÚ sei entrato lÓ dentro?ö. ôPer pregareö.ôNon potevi pregare per strada?ö.ôTemevo di essere disturbato dai passantiö.ôPotevi dire una preghiera cortaö.Rabbi Iosý commenta che da quella conversazione apprese da Eliahu tre regole: che non si entra in una rovina, che si pu‗ pregare per strada e che chi prega per strada deve recitare una formula abbreviata.Il racconto prosegue con Rabbi Iosý che riferisce di aver udito, dentro la rovina, il lamento del Signore per la distruzione del Suo Santuario e per lÆesilio dei Suoi figli.Questo racconto Þ esemplare di un tipo di espressione rabbinica nella quale, dietro un fatto apparentemente banale, si nasconde la discussione su questioni molto importanti.Proviamo a vedere di che si tratta, alla luce di alcuni commenti (come quello di Rav Steinsalz e quello del Maharal di Praga). Prima di tutto chi era Rabbi Iosý: era un maestro del quarta generazione, allievo di Rabbý AqivÓ. Era stato quindi testimone della repressione da parte di Adriano della rivolta di Bar KokbÓ, finita nel 135 con un massacro senza precedenti nella storia ebraica (dellÆordine di grandezza del milione di vittime), la ShoÓh dellÆantichitÓ classica. Lo stesso maestro di Rabbi Iosý, Rabbý AqivÓ, era morto martire, Gerusalemme distrutta era stata riedificata dai romani, trasformata in Aelia Capitolina, e interdetta agli ebrei. Forse quando Rabbi Iosý parlava di una sua visita alle rovine di Gerusalemme non ci sarebbe neanche potuto entrare. E allora? Nel linguaggio rabbinico ôlÆandare per la viaö non ha solo un significato letterale, ma pu‗ significare che il Rav andava vagando dietro ai suoi pensieri, immerso nelle sue meditazioni e sulle preghiere per la  distruzione di Gerusalemme. Eliahu se ne accorse e aspett‗ che finisse, rimproverandolo poi con una serie di osservazioni. Da un punto di vista normativo, Þ proibito entrare in un edificio diroccato, per vari motivi, di cui il pi¨ semplice Þ che ci possano essere ulteriori crolli provocando un danno allo sprovveduto visitatore. Quindi Rabbi Iosý aveva violato quella che oggi definiremmo una norma di sicurezza. Ma lÆaveva fatto con il pensiero, ed Eliahu lo aveva rimproverato. Che senso ha questo colloquio? I commenti suggeriscono questa lettura: Rabbi Iosý trascinato da suoi pensieri si isola su quello della distruzione di Gerusalemme e sulla richiesta della fine delle sofferenze ed Eliahu gli dice che sarebbe stato meglio pregare per strada. Se in strada qualcuno potrebbe distrarre o disturbare Þ meglio recitare una formula abbreviata e sbrigativa. Eliahu sta spiegando, in altri termini, che sul tema della sofferenza non bisogna entrare dentro la rovina, ma bisogna riflettere restando per strada. E se per strada qualcuno non ti capisce e potrebbe disturbarti, si deve restare per strada e pregare di corsa.Il tema qua in discussione Þ quello della ricerca di un equilibrio per chi Þ sopravvissuto ad una tragedia storica. Il rischio Þ quello di sprofondare nei propri pensieri e restare vittima di un altro crollo perchÚ, appunto, il luogo della rovina Þ pericoloso, il luogo stesso Þ vittima ma anche carnefice.Meglio rimanere sulla strada, nella vita, nella realtÓ che scorre, anche se lÓ si rischia di non potersi concentrare perchÚ chi non capisce potrebbe interromperti. Il compromesso giusto Þ una preghiera corta, un impegno che non si interrompe ma che deve essere limitato nel tempo.Oggi come 19 secoli fa il rischio del ricordo della Shoah Þ quello di rimanere intrappolati dentro senza poter riprendere la strada.Per molti lÆidentitÓ ebraica si limita al negativo, al ricordo, anzi allÆincubo di fatti terribili. EÆ unÆidentitÓ pericolosa e patologica per il singolo e per la collettivitÓ ebraica.Ben vengano le giornate e le settimane speciali, si mantenga vivo il ricordo come assoluta necessitÓ morale, ma si faccia attenzione a non fuggire dalla realtÓ e a non dimenticare, oltre il nostro passato la necessitÓ di continuare la nostra strada

LA HANUKKAH DEI PATRIARCHI – RAV RICCARDO DI SEGNI

http://digilander.libero.it/parasha/varie/librohanuka/otto.htm

LA HANUKKAH DEI PATRIARCHI

RAV RICCARDO DI SEGNI

Secondo un principio stabilito dai Rabbini del Talmud, « i Patriarchi biblici osservarono l’intera Torà (che non era stata ancora promulgata), conoscendola grazie ad una sacra ispirazione », e l’intera Torà comprende, secondo Rashì (commento a Gen. 26:5), anche la tradizione rabbinica. È un principio che solleva molte perplessità, anche davanti ad esplicite contraddizioni, ma che se viene esaminato in profondità mostra una concezione della storia e della Torà particolarmente forte ed originale. Restando nell’ottica di questo principio ci si potrebbe chiedere se e quando i Patriarchi celebrarono Hanukkah. La domanda sembra apparentemente assurda; Hanukkah è una festa istituita molto più tardi, nel II secolo avanti l’era volgare, per ricordare un avvenimento storico preciso. Eppure la riflessione su questa domanda provocatoria, apparentemente senza senso, aiuta a comprendere sia le motivazioni della strana idea rabbinica sul rapporto dei Patriarchi con la Torà, che il significato profondo di Hanukkah. Il precetto fondamentale di Hanukkah, come è ben noto, è l’accensione dei lumi, preceduta dalla recitazione di benedizioni, di cui la più specifica dice: « Benedetto… il Signore… che ci hai comandato di accendere i lumi di Hanukkah ». Ma il precetto di accensione dei lumi è senza dubbio una norma rabbinica, di cui la Torà ovviamente non parla. Ma allora perché attribuire al Signore l’origine di un obbligo che è invece chiaramente di istituzione umana? Altri precetti rabbinici si segnalano per lo stesso paradosso, ma solo per questo di Hanukkah il Talmud (Shabbat 23a) si interroga (« Dove mai ci ha comandato? ») alla ricerca di una spiegazione. La risposta ‘tecnica’ è che quando i Rabbini stabiliscono una norma e danno un precetto, hanno una sorta di delega divina, per cui è come se l’ordine fosse stato dato dal Signore stesso. Eppure il fatto che proprio su questa norma di Hanukkah il Talmud sollevi una questione di legittimità, per risolverla con una generica dichiarazione di principio sull’autorità rabbinica, deve far riflettere sui significati più profondi e nascosti della festa. Hanukkah è il luogo di tanti paradossi e contraddizioni, e la sua istituzione sembra venire di necessità a colmare uno strano vuoto. Ciò perché malgrado la sua tarda istituzione i significati più o meno nascosti della festa sono tanti, di origine remota e possibilmente conflittuali. Non c’è solo l’opposizione tra la commemorazione di una rivolta militare (che portò al potere una dinastia che avrebbe perseguitato i rabbini) e un significato religioso (il miracoloso aiuto divino a chi lotta per difendere la propria identità); ma c’è anche la celebrazione di un evento del ciclo annuale (il solstizio invernale), potenzialmente carico di rischi di festa pagana; e c’è un legame con il ciclo agricolo, quello del tempo della raccolta delle olive. Di tutto questo la tradizione ha privilegiato senza dubbio l’elemento religioso, la lotta in difesa del culto monoteistico, l’eliminazione dell’idolatria, la scelta sofferta di accettazione della Torà da parte della comunità di Israele, la preparazione al servizio divino con un nuovo altare restaurato, e tutto questo nella fiducia nell’aiuto divino, che protegge il suo popolo dai suoi nemici nel momento in cui Israele torna a cercare il Signore. Nella coscienza rabbinica, ma anche nella percezione collettiva del popolo ebraico, questo tema non può essere legato ad un unico evento storico, ma rappresenta una situazione che si ripete. E allora la domanda se vi sia nella Torà e in particolare nelle storie dei Patriarchi un modello di Hanukkah antica e primordiale non è più una stranezza e un paradosso, ma una legittima richiesta di ricerca storica e ideologica. In effetti è possibile identificare una situazione con molti punti di contatto nella storia dei Patriarchi, in Genesi 35 (Parashath Wayshlach). Subito dopo il drammatico episodio di Dinà, Giacobbe riceve l’ordine di partire verso Beth El con tutta la sua famiglia; Giacobbe quindi ordina alla famiglia di « allontanare gli dei stranieri » prima della partenza. Beth El era il luogo in cui Giacobbe aveva visto in sogno la scala e dove aveva eretto una stele, giurando di trasformarla in casa divina. Al suo ritorno nella terra di Canaan giunge per Giacobbe il tempo di mantenere la promessa, ma si frappongono molti ostacoli, e per ultimo l’episodio di Dinà, con tutte le sue conseguenze: pericolo di vendetta da parte dei popoli vicini, ma anche pericolo di assimilazione e di paganesimo. « Gli dei stranieri » che Giacobbe comanda di eliminare, erano, secondo il midrash, quelli presi dal bottino di Shekhem (cft. Rashi a Gen. 35:2) il che dimostra da un lato che malgrado la circoncisione loro imposta i Sichemiti non avevano rinunciato all’idolatria (cfr. Nachai Qedumim a Gen. 34:13), e dall’altro che il pericolo di idolatria e di influenze negative esterne era forte nella stessa famiglia di Giacobbe e nella stessa terra di Canaan. Per questo Giacobbe ordina l’eliminazione dell’idolatria e la purificazione, secondo uno schema che sarà ricorrente nella Bibbia, con le stesse parole (cfr. Gios. 27:23, Giud. 10:16, I Sam. 7:3, 2 Cron. 33:15), e che rappresenta costantemente il desiderio di ritorno della comunità al Signore e la condizione per il ritorno del Signore alla protezione della sua comunità. Solo dopo questo è possibile partire per Beth El ed erigervi una casa e un altare, che sono, a confronto con la primitiva stele, il segno di un nuovo culto, in cui il popolo partecipa in comunione e riceve i precetti divini (cfr. N. Leibowitz, ‘Yiurum besefer Bereshith 270-275). Accettando questo giogo, viene in soccorso l’aiuto divino: « la paura del Signore fu sulle città… » (Gen. 35:). Malgrado gli aspetti terribili del fatto di Shekhem, e l’esplicita condanna che ne fa Giacobbe (che rappresentano un modello primordiale delle perplessità rabbiniche sul tema della violenza armata che caratterizza la rivolta dei Maccabei e il trionfo della casa Asmonea), esistono nelle motivazioni dei protagonisti delle componenti positive, come l’intenzione di lottare contro l’idolatria e in particolare contro coloro che con la forza o la seduzione vogliono conquistare le persone e le anime di Israel. Non a caso uno dei due combattenti è Levi, antenato di Pinchas e antenato dopo molti secoli della famiglia dei Maccabei. Dunque l’intero racconto è quello di una sorta di Hanukkah patriarcale, dove compare il motivo della lotta contro l’idolatria esterna ed interna, il paradosso della violenza e della sua difficile valutazione, e poi la purificazione e l’erezione dell’altare, sotto l’ala protettrice divina. Manca solo il lume, ma l’olio già c’è, nelle due prime volte che viene citato nella Bibbia: quando Giacobbe lo versa sulla stele che ha eretto a Beth El, e quando viene nuovamente versato sull’altare alla fine del racconto.

Il tema del miracolo di Hanukkah dunque è molto più antico di quello dei tempi dei Maccabei, così come l’olio che brucia in ogni hanukkià esprime una speranza sofferta e complessa, profondamente radicata nella coscienza ebraica senza limiti di tempo.

Rav Riccardo Di Segni

…UNO DEI PIÙ CARATTERISTICI RITI EBRAICI: I TEFILLÌN – RAV RICCARDO DI SEGNI

http://www.morasha.it/alefdac/alefdac_15.html#1501

RAV RICCARDO DI SEGNI

L’INTERPRETAZIONE DEI SIMBOLI DI UN’ANTICA LEGGENDA TALMUDICA INTRODUCE ALLA COMPRENSIONE DI UNO DEI PIÙ CARATTERISTICI RITI EBRAICI: I TEFILLÌN

Il Talmud Babilonese (Shabbàth 49a) racconta la leggenda di un tale Elishà’, vissuto durante una persecuzione romana antiebraica. I romani avevano proibito agli ebrei l’osservanza dei tefillìn, minacciando ai trasgressori la pena di morte mediante decapitazione. Elishà’ non si era preoccupato del divieto ed era uscito in strada indossando i tefillìn; una guardia però se ne era accorta e l’aveva inseguito. Elishà’ fece appena in tempo a togliersi i tefillìn e a nasconderli nel pugno; la guardia lo raggiunse e gli chiese cosa nascondeva. Rispose che erano ali di colombo. Da quel giorno, conclude il Talmùd, Elishà’ fu chiamato ba’al hakenafàim, lett. ‘il padrone delle ali’.
La leggenda nasconde sotto forme mitiche semplificate dei concetti molto importanti. Vi è lo scontro tra un potere brutale e grossolano e un’umanità semplice legata alla propria tradizione fino al punto di rischiare per questa la morte; un momento simbolico della lotta tra la forza e lo spirito. Ma vi è inoltre indicata una simbologia specifica propria del rito dei tefillìn. Probabilmente in questa, come in numerose altre immagini presenti nell’antica letteratura ebraica, il colombo (jonàh) simboleggia Israele: animale dal colore chiaro, mite e delicato, segno di pace (si pensi al racconto di Noè); il colombo è opposto qui al simbolo di Roma, l’aquila imperiale rapace. I tefillìn, nell’ambito di questa similitudine, diventano le ali del colombo: in altri termini il mezzo con cui Israele può spiccare il volo, può alzarsi verso il cielo. I romani, che hanno minacciato la morte a chi osserva questo rito, ne hanno avvertito l’importanza come segno esteriore di identità ebraica; ma il loro rappresentante, la guardia che deva fare osservare l’ordine, non riesce a distinguerne il significato spirituale essenziale.
Questa leggenda è una delle numerose testimonianze del rapporto con cui la tradizione ebraica vive questo rito così particolare. Per uno strano equivoco linguistico il mondo occidentale ha invece spesso travisato il senso di questo atto rituale, e la diffusa disinformazione in proposito continua a produrre equivoche e paradossali descrizioni: per rendersene conto basta andare a consultare qualche dizionario della lingua italiana alla voce ‘filatteri’. Nelle lingue europee infatti, l’ebraico tefillìn è tradotto con i derivanti del termine greco ‘phylacteria’, che indica ciò che protegge. L’antica traduzione greca si spiega in due modi (non contraddittori, ma complementari): l’assonanza del termine ebraico con quello greco (il singolare di tefillìn è tefillàh) e un generico valore protettivo.
Da qui è nato l’equivoco per cui il valore del rito è stato pensato come genericamente ‘protettivo’, e più specificamente come una sorta di magico amuleto che salva chi lo porta da ogni disgrazia. È chiaro che non si può negare, per questo come per ogni altri rito, la possibilità di un uso magico ed automatico da parte di chi lo osserva; ma gli insegnamenti e le intenzioni della tradizione sono tutti contro questa forma di utilizzazione, che viene avvertita come un rischio, come una degenerazione, che deve essere evitata. Vediamo allora quali sono i reali significati.
È noto che l’istituzione del rito deriva dall’interpretazione letterale del comando biblico di ‘legare come segno’ le parole divine sul braccio e di tenerle ‘come segni e ricordo tra li occhi’. La finalità di questo comando è specificata: « affinché l’insegnamento di Dio sia nella tua bocca, perché con mano forte ti ha fatto uscire dall’Egitto » (Esodo 13:9). Ma sia l’interpretazione letterale del comando biblico che la spiegazione delle sue finalità sollevano delle discussioni. Ad esempio molti hanno contestato la legittimità della deduzione dalla parola biblica; a loro detto, quando si parla di segno, di braccia e di occhi, l’intenzione è metaforica, ed è esagerato e formalista pensare che si voglia alludere ai tefillìn. Ad un esame più accurato del testo biblico e al confronto con altri usi questa critica appare infondata. Bisogna prima di tutto tenere presente le particolarità culturali dell’ebraismo religioso, nel quale ogni idea viene espressa attraverso dei segnali visibili, dei mezzi materiali, concreti. Ma nel caso dei tefillìn il discorso si allarga, perché è possibile stabilire un confronto con norme per alcuni versi analoghe, che riguardano la decorazione del gran sacerdote. Si può dimostrare che nelle prescrizioni di alcuni suoi abiti sacri, come ad esempio per il frontale, ricorrono espressioni e concetti analoghi a quelli della regola sui tefillìn (v. Esodo 28:29 e 36-38).
Nessuno critica il rapporto tra la norma biblica sulle vesti sacerdotali e la prassi rituale successiva; il discorso deve essere analogo per i tefillìn. Dal confronto deriva non solo la legittimità della deduzione, ma un allargamento del senso del rito. È evidente che gli abiti sacri si addicono al gran sacerdote come i tefillìn ad ogni ebreo.
In altri termini, i tefillìn sono per l’ebreo come una specie di segno che segnala una dignità sacerdotale. Qui emerge la doppia valenza di questo rito. Stando alla lettera del verso biblico, la loro funzione è mnemonica, di segnale; portandoli l’ebreo ricorda la sua condizione e l’obbligo di approfondire le sue radici culturali (studio e osservanza, le due accezioni della frase ‘l’insegnamento di Dio nella sua bocca’). In questo senso non si differenziano da altre norme analoghe, come la Mezuzàh e gli tzitziòth. Ma contemporaneamente questi segni introducono in una dimensione diversa, uno stimolo e veicolo di sacralità. Sono il segno di una chiamata sacerdotale collettiva. Il concetto va ulteriormente chiarito.
Generalmente si insiste sulla duplicità di funzione dei due tefillìn: quello legato al braccio, in corrispondenza del cuore, a segno del controllo dei sentimenti, e quello sul capo, per il dominio della ragione. La tradizione rabbinica ha integrato questa opposizione con un’altra; la tefillàh sul braccio, legata in una parte nascosta all’esterno, rappresenta l’interiorità e l’aspetto privato dell’esperienza religiosa; la tefillàh sul capo, esposta e visibile a tutti, l’aspetto pubblico ed esteriore, e in senso più ampio la decorazione formale e la caratteristica nazionale della condizione ebraica. Una precisa normativa insiste sul fatto che la tefillàh del capo debba di regola essere messa solo mentre si indossa già quella del braccio; dalle premesse è evidente che il senso di questa norma è che la religiosità esteriore, la decorazione, la distinzione nazionale diventano pienamente legittimi solo se l’interiorità della vita religiosa è stata realizzata. Quindi il concetto di sacralità e di distintivo sacerdotale assumono in questa prospettiva un significato ben preciso: la forma non deve mai prevalere sul contenuto, il distintivo non può fare a meno di un impegno. Inizia così ad essere chiaro perché i tefillìn sono le ‘ali del colombo’; ma l’analisi deve essere integrata da altri che vedremo in un successivo articolo.

Riccardo Di Segni
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I tefillìn consistono di due astucci a forma di cubo che contengono delle pergamene nelle quali sono scritti quattro passi biblici (due brani del cap. 13 dell’Esodo — vv. 1-10 e 11-16, e due dal Deuteronomio: cap. 6: 4-9 e 11: 13-20). Anche gli astucci, malgrado l’apparenza, sono di pelle animale che al termine di una complessa lavorazione artigianale viene verniciata di nero e coperta di lacca lucida.
L’astuccio del braccio contiene un’unica cavità centrale; quello per il capo è diviso in quattro cavità. L’ideale sarebbe costruire ogni elemento con un solo pezzo di cuoio che viene lavorato fino a formare la singola cavità o le quattro tasche affiancate; ma ciò richiede abilità particolari e procedimenti più complicati; più semplicemente si uniscono vari pezzi con una colla, derivata anch’essa dal cuoio. Le pergamene usate per la scrittura devono essere state lavorate ad hoc; la scrittura richiede la conoscenza di una specifica normativa, che nel corso dei secoli si è arricchita e complicata, specialmente per una serie di influssi mistici. L’ordine di inserimento delle quattro pergamene nell’involucro del capo non è casuale; si conoscono quattro diverse tradizioni; quella più seguita è di Ra.SH.I.; ma in alcune comunità vi è chi usa, dopo aver pregato i tefillìn di Ra.SH.I., metterne un altro paio dove i brani sono ordinati secondo lo schema di Rabbènu Tam. Dopo l’inserimento delle pergamene nell’involucro, questo viene chiuso con una cucitura fatta con nervi — I tefillìn, per essere legati al braccio o stretti sul capo, sono uniti a delle strisce di cuoio che vengono verniciate in nero da una parte; è importante che la parte nera rimanga all’esterno quando la striscia è legata al corpo.

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