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PERCHÉ GESÙ DICE «CHI HA LASCIATO I FIGLI PER IL MIO NOME AVRÀ LA VITA ETERNA?

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PERCHÉ GESÙ DICE «CHI HA LASCIATO I FIGLI PER IL MIO NOME AVRÀ LA VITA ETERNA?

Una domanda su un celebre versetto del Vangelo di Matteo sulle condizioni per seguire Gesù. Risponde don Stefano Tarocchi, preside della Facoltà teologica dell’Italia Centrale.

Percorsi: SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA
Gesù con la Maddalena
18/09/2016 di Redazione Toscana Oggi

Gesù nel Vangelo dice: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna». Mi ha colpito il riferimento ai figli: è davvero possibile che Gesù chieda a un genitore di lasciare i figli per seguirlo? Come vanno interpretate quelle parole?
Lettera firmata

Il lettore fa riferimento alla versione di Matteo di un celebre detto evangelico che nella sua versione integrale va completato così: «Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: “Allora, chi può essere salvato?”. Gesù li guardò e disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”. Pietro gli rispose: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?”. E Gesù disse loro: “In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”» (Mt 19,23-29).
La stessa premessa si trova nel racconto parallelo del vangelo di Marco, che fra l’altro è la fonte anche del testo di Matteo (e di quello di Luca): «Pietro allora prese a dirgli: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”. Gesù gli rispose: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà”» (Mc 10,28-30). In Luca poi leggiamo: «Pietro allora disse: “Noi abbiamo lasciato i nostri beni e ti abbiamo seguito”. Ed egli rispose: “In verità io vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà”» (Lc 18,28-30).
Quest’insegnamento di Gesù che appartiene alla «triplice tradizione», che è alla base della formazione dei tre Vangeli sinottici, dice in sostanza la stessa cosa. Di fronte alla certezza che solo l’Onnipotenza divina rende possibile la salvezza che è impossibile all’uomo, la sequela totale dei discepoli avrà una ricompensa capace di moltiplicare per cento quanto è stato lasciato, e in aggiunta avrà la vita eterna.
Matteo è il più conciso: parla solo di «case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi»; Marco rimane negli stessi termini, precisando però che quest’azione di sequela si compie «per causa mia e per causa del Vangelo». Luca parla addirittura di «casa o moglie o fratelli o genitori o figli», e specifica: «per il regno di Dio».
Per completare il quadro, nei primi tre Vangeli troviamo anche un’altra versione dello stesso detto di Gesù. Nei soli Matteo e Luca leggiamo: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,37-38); «se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami [letteralmente «non odia»] suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Questo solo per accennare ad altri insegnamenti relativi al portare la croce: non c’è spazio per affrontarli in questa occasione.
Tornando al problema posto dal lettore, si va oltre la singola questione dei figli: seguire il Cristo, con tutto quello che implica, comporta un nuovo modo di essere in cui ognuna delle relazioni più sacre, da quella filiale a quelle sponsale e genitoriale.
Gesù non comanda nessuna fuga ma semmai un amore ancora più grande di quelli umani, perfino riguardo la propria stessa vita, che pure sono parte della stessa creazione. San Benedetto nella sua Regola dirà: «Nulla anteporre all’amore di Cristo» (Regola 4,21).
Il discepolo del Vangelo sa quindi inquadrare ogni cosa in un ordine più grande: dovunque sia chiamato a vivere la sua adesione a Cristo, qualunque sia lo stato di vita del discepolo del Vangelo, il Cristo è avanti a tutto.
Non si tratta perciò di lasciare ma di trovare, «per causa del Cristo e per causa del Vangelo» (Marco), o «per il regno di Dio» (Luca). Chi è capace di lasciare «riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Matteo).

Stefano Tarocchi

SI PUÒ SOSTITUIRE, NEL VANGELO, LA PAROLA «CARITÀ» CON «AMORE»? (anche Paolo)

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SI PUÒ SOSTITUIRE, NEL VANGELO, LA PAROLA «CARITÀ» CON «AMORE»? 

Questa settimana la domanda al teologo riguarda l’uso nel vangelo delle parole «carità» e «amore». Risponde don Stefano Tarocchi, Preside della Facoltà teologica dell’Italia centrale,

E’ corretto sostituire, leggendo il Vangelo, la parola «carità» con la parola «amore»? Lo si può fare anche nel caso di una lettura inserita in un incontro di preghiera?
Matteo Corsi

La sostituzione, cui allude il lettore, in realtà è un problema di traduzione del termine greco sottostante: agàpe, che veniva normalmente reso in italiano con la parola «carità», ricalcando il latino charitas, ma può essere correttamente tradotto anche con il termine «amore».
Facciamo qualche esempio, tratti dall’apostolo Paolo, dove i due modelli di tradizione vengono affiancati: «la carità (agàpe) è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio» (1 Corinzi 13,4).
Nello stesso Paolo quando scrive ai Romani troviamo anche due traduzioni diverse in tre versetti: «Non siate debitori di nulla a nessuno, se non dell’amore vicendevole; perché chi ama l’altro ha adempiuto la Legge. Infatti: Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso. La carità (agàpe) non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è la carità» (Romani 13,8-10). O, di nuovo in Paolo, quando scrive al discepolo Timoteo, troviamo ancora: «Dio non ci ha dato uno spirito di timidezza, ma di forza, di carità (agàpe) e di prudenza. Non vergognarti dunque di dare testimonianza al Signore nostro, né di me, che sono in carcere per lui; ma, con la forza di Dio, soffri con me per il Vangelo. Prendi come modello i sani insegnamenti che hai udito da me con la fede e l’amore (agàpe), che sono in Cristo Gesù» (2 Timoteo 1,7-8.13).
Nelle lettere dell’apostolo Giovanni leggiamo: «noi abbiamo conosciuto e creduto l’amore che Dio ha in noi. Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1 Giovanni 4,16; cf. anche 4,18; 2 Giovanni 2,16). Si potrebbe meglio intendere: «noi che abbiamo creduto, e crediamo ora, abbiamo conosciuto l’amore che Dio ha in noi».
Giovanni non vuole dare una definizione di Dio, come quando dice, ancora nella stessa lettera, che «Dio è luce e in lui non ci sono tenebre» (1 Giovanni 1,5). Vuole dire che Dio si è rivelato (ecco perché dice che egli è «luce»), e noi l’abbiamo conosciuto nell’amore che ci ha manifestato quando ha dato il suo Figlio. È ancora Giovanni ad annotare, nel suo Vangelo: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna (Giovanni 3,16)».
Il punto è che nella lingua greca esistono diverse parole che hanno a che fare con il concetto che noi abbiamo dell’amore: dall’amore dei genitori a quello dei figli, a quello degli amici; dall’amore fisico a quello totalmente gratuito dell’agàpe, fino a quello dei credenti fra loro: l’amore per i fratelli (filadelfìa) di Romani 12,10: «amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno».
Si potrebbe aggiungere anche l’amore di Dio per gli uomini, nella lingua greca filantropìa: «si sono manifestati la bontà di Dio, salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini» (Tito 3,4).
Anche in altre lettere troviamo (stavolta è Pietro a scrivere): «mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l’amore fraterno (filadelfìa), all’amore fraterno la carità (agàpe)» (2 Pietro 1,5-7). E ancora: «conservate tra voi una carità fervente (agàpe), perché la carità copre una moltitudine di peccati» (1 Pietro 4,8).
Quindi, come si vede, la versione della CEI oscilla tra i diversi significati, cercando di ottenere uno stile più vario in lingua italiana. Non sempre questo corrisponde al testo originale.
Nella recente intervista rilasciata ad un giornale è lo stesso papa Francesco a dire che l’agàpe «è l’amore per gli altri, come il nostro Signore l’ha predicato. Non è proselitismo, è amore. Amore per il prossimo, lievito che serve al bene comune». All’intervistatore che aggiunge: «Gesù nella sua predicazione disse che l’agàpe, l’amore per gli altri, è il solo modo di amare Dio. Mi corregga se sbaglio», il papa conclude: «Non sbaglia. Il Figlio di Dio si è incarnato per infondere nell’anima degli uomini il sentimento della fratellanza. Tutti fratelli e tutti figli di Dio. Abba, come lui chiamava il Padre. Io vi traccio la via, diceva. Seguite me e troverete il Padre e sarete tutti suoi figli e lui si compiacerà in voi. L’agàpe, l’amore di ciascuno di noi verso tutti gli altri, dai più vicini fino ai più lontani, è appunto il solo modo che Gesù ci ha indicato per trovare la via della salvezza e delle Beatitudini».
In conclusione, vorrei dire al lettore che il problema non è tanto sostituire una parola con un’altra, magari per un capriccio, ma cercare di entrare nell’infinita ricchezza della Parola di Dio. Non è sempre facile tradurre adeguatamente le Scritture, e soprattutto renderne la complessità del linguaggio nelle lingue che parliamo tutti i giorni. Oltre a tutto, più una parola è usata, tanto più rischiosa è la sua interpretazione. E la parola «amore», con l’importanza che riveste nella nostra esistenza di uomini e donne, ma anche di credenti, è particolarmente al cuore di questo di questo rischio, soprattutto quando vogliamo comunicarla: non tanto per quello che intendiamo dire, ma per quello che i nostri ascoltatori afferrano.

Stefano Tarocchi

Publié dans:anche Paolo, TEOLOGIA, teologia - biblica |on 8 novembre, 2017 |Pas de commentaires »

LA MORTE NEL PENSIERO DI SAN PAOLO E DI TEILHARD DE CHARDIN (MARCO GALLONI)

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LA MORTE NEL PENSIERO DI SAN PAOLO E DI TEILHARD DE CHARDIN (MARCO GALLONI)

Pubblicato da Fausto Ferrari Se per l’Apostolo la morte è un insulto alla dignità di Dio e dell’uomo, Teilhard, pur senza nasconderne il carattere drammatico, vede nella morte il momento/luogo privilegiato in cui si nasconde la forza ascensionale del mondo. San Paolo e Pierre Teilhard de Chardin hanno concezioni della morte che a prima vista possono apparire assai diverse, per certi aspetti persino inconciliabili. Per l’Apostolo la morte è l’oltraggio supremo alla dignità di Dio e dell’uomo; entrata nel mondo come conseguenza del peccato (Rm 5,12.17; 1 Cor 15,21), vi regna sovrana (Rm 5,14). Tale concezione è ripresa dalla dottrina cattolica. Il Catechismo della Chiesa Cattolica afferma senza mezzi termini: «Interprete autentico delle affermazioni della Sacra Scrittura e della Tradizione, il Magistero della Chiesa insegna che la morte è entrata nel mondo a causa del peccato dell’uomo (cfr. Concilio di Trento, sess. 5°, Decretum de peccato originali, canone 1: DS 1511). Sebbene l’uomo possedesse una natura mortale, Dio lo destinava a non morire. La morte fu dunque contraria ai disegni di Dio Creatore ed essa entrò nel mondo come conseguenza del peccato (cfr. Sap 2,23 – 24). “La morte corporale, dalla quale l’uomo sarebbe stato esentato se non avesse peccato” [Concilio Vaticano II, cost. past. Gaudium et spes, 18: AAS 58 (1966) 1038], è pertanto “l’ultimo nemico” (1 Cor 15,26) dell’uomo a dover essere vinto» [1]. Nell’affermazione del Catechismo c’è una frase che esige spiegazioni: «Sebbene l’uomo possedesse una natura mortale, Dio lo destinava a non morire». Cosa vuol dire che l’uomo possedeva una natura mortale ma Dio lo destinava a non morire? Il teologo saveriano Battista Mondin lo spiega così: «Di per sé la morte, per quanto odiosa e dolorosa, non è un evento innaturale, ma è una conseguenza naturale della costituzione psicofisica dell’essere umano. Questi non è dotato soltanto di un’anima intellettiva spirituale, la quale è di diritto incorruttibile e immortale, ma anche di un corpo soggetto alla generazione e alla corruzione e pertanto alla disgregazione e alla morte. Tuttavia nei progenitori, Adamo ed Eva, la corruttibilità del corpo e quindi la morte, grazie a un dono speciale, erano state rimosse» [2]. San Tommaso, nella Summa, precisa in cosa consiste questo dono speciale: «Dio, a cui tutte le nature sono soggette, nel creare l’uomo supplì al difetto della natura dando l’incorruttibilità al corpo mediante il dono della giustizia originale. E in questo senso si dice che Dio non fece la morte e che la morte è punizione del peccato» [3].

Il conflitto tra visione scientifica e teologica L’Aquinate, dunque, afferma che con questo dono «della giustizia originale» Dio «supplì al difetto della natura». Qui il divario tra la visione teologica e quella scientifica si fa ampio. Per la scienza moderna la morte non è affatto un difetto di natura ma, al contrario, un elemento vantaggioso e anzi necessario alla sopravvivenza della specie: se non esistesse la morte dei singoli individui le specie non sopravviverebbero né tantomeno potrebbero differenziarsi. Il conflitto tra visione scientifica e teologica, quindi, non sta tanto nella trasmissione del peccato originale, come Pio XII scriveva nella Humani generis – anche perché in questi ultimi anni molti genetisti stanno rivalutando il monogenismo, ritenendo il poligenismo incompatibile con la teoria di Darwin [4] – quanto nell’immortalità dei singoli individui: se Dio non avesse revocato a Adamo ed Eva il dono della giustizia originale quanti uomini ci sarebbero oggi sulla Terra, soprattutto se teniamo conto dell’esortazione a «essere fecondi e moltiplicarci» di Gen 1,28? Possiamo davvero pensare che Dio avesse in mente di riempire fino all’inverosimile il nostro pianeta?

La morte secondo Teilhard de Chardin Se per l’Apostolo la morte è un insulto alla dignità di Dio e dell’uomo, Teilhard, pur senza nasconderne il carattere drammatico, vede nella morte il momento/luogo privilegiato in cui si nasconde la forza ascensionale del mondo. Scrive Teilhard: «Essa (la morte) ci farà subire la dissociazione attesa. Ci porterà allo stato organico richiesto perché si precipiti su di noi il Fuoco divino. In questo modo, il suo nefasto potere di decomposizione e di dissolvimento verrà captato in vista della più sublime delle operazioni della Vita. Ciò che per natura era vuoto, lacunoso, ritorno alla pluralità, può diventare, in ogni esistenza umana, pienezza e unità di Dio» [5]. Questo vale anche e soprattutto per la morte di Cristo, che Teilhard considera non meno feconda della resurrezione e della quale – scrive – ancora «ci sfugge la potenza creatrice». Teilhard – fa notare il teologo protestante Georges Crespy [6] ­– non è affatto insensibile alla sofferenza umana, argomento che affronta sempre con il massimo rispetto e la più grande serietà. Ma per il gesuita francese i dolori che affliggono l’uomo non sono mancanze della creazione: in essi, al contrario, si nasconde quella «forza ascensionale del Mondo» che deve essere in qualche modo liberata. In questo senso la croce di Cristo può essere vista come il simbolo di un’azione di eccezionale intensità. È come se, nel Cristo crocifisso, l’intera creazione si consumasse, senza tuttavia annientarsi: la forza creatrice, al contrario, libera tutta la sofferenza del mondo e la trasporta su un piano più elevato, verso una nuova creazione o meglio, come direbbe Teilhard, verso una nuova fase della creazione [7].  Possiamo fare un parallelo tra questa azione straordinariamente intensa di cui parla Teilhard e il concetto di energia che ricorre negli scritti di Paolo. L’Apostolo utilizza quattro termini differenti per descrivere questa energia: «potenza», che troviamo oltre 50 volte nelle sue opere; «energia» e simili (circa 30 volte); «forza» (5 volte); «vigore» (3 volte) [8]. In Ef 1,18 – 20 li usa tutti insieme, in una sequenza di impressionante intensità: «(Dio) illumini gli occhi del vostro cuore per farvi comprendere a quale speranza vi ha chiamati, quale tesoro di gloria racchiude la sua eredità tra i santi e qual è la straordinaria grandezza della sua potenza (d??aµ??) verso di noi, che crediamo, secondo l’efficacia (e????e?a) della sua forza (???t??) e del suo vigore (?s???). Egli la manifestò in Cristo quando lo risuscitò dai morti…» (cfr. Bibbia CEI ed. 2008).

Comment je vois: la metafisica teilhardiana La visione che Teilhard ha della morte, e del male in generale, discende dalla sua particolare metafisica. Il gesuita la espone nel saggio Comment je vois (1948), uno dei testi presi di mira dal sant’Uffizio nel Monitum del 1962. Teilhard muove critiche radicali alla metafisica classica, nella quale si deduce il mondo a partire dall’essere, considerato come originario. Per il gesuita francese, invece, non esiste un essere immobile e a se stante che in un bel momento decide di mettere in moto l’universo: «Il mobile» – scrive Teilhard – «è fisicamente generato dal movimento che lo anima». Il gesuita parte dall’idea che l’essere sia determinabile grazie a un suo movimento caratteristico, che lui definisce «di unione». Teilhard concepisce l’essere non come «l’essere in sé», in senso statico, ma come «l’essere per sé»: l’essere esiste solo in relazione all’unione con altri esseri; per questo c’è chi ha definito quella teilhardiana una «metafisica dell’unione». Dio, per Teilhard, esiste unendosi («opponendosi trinitariamente a se stesso») e unendosi si completa. L’essere non può concepirsi al di là del movimento per mezzo del quale si unisce. Il nostro universo in evoluzione esiste come premessa di mondo non appena lo fa sorgere la relazione trinitaria; il disordine iniziale non è materia senza forma ma contiene in sé una prestruttura di unione. In altri termini: l’universo esiste e non può non esistere, al contrario di quello che la metafisica classica afferma. San Tommaso, per esempio, ragiona a partire ex contingentia mundi, cioè dall’idea che l’universo non è necessario ma contingente: esiste ma potrebbe non esistere, esiste solo per un atto di volontà di Dio. Secondo Teilhard, insomma, sembrerebbe che Dio non possa fare a meno di creare. In questo modo l’autodeterminazione e l’autosufficienza di Dio sono fatte salve, ma la creazione assume un carattere molto diverso: non è più un atto di volontà del Creatore, una sua scelta, ma appare come una simmetria – o un riflesso, un’immagine, se si vuole – della Trinitizzazione. L’unione non si esercita più, come nella metafisica classica, sopra uno strato esistente che costituisce l’oggetto della creazione. L’essere non preesiste all’unione, così come il mobile non preesiste al movimento: la creazione, intesa come origine, non è che l’atto iniziale di una realizzazione progressiva (pleromizzazione) che si attua su una materia già idonea all’unione perché costituita a immagine della Trinità [9].

La soluzione al problema della teodicea In questo modo Teilhard risolve in modo elegante quanto rigoroso il problema della teodicea. Finché si rimane nella metafisica classica il problema è senza soluzione, oppure trova soluzioni non del tutto convincenti. Teilhard, muovendo sapientemente pochi pezzi della scacchiera, fa invece uscire la partita dalla condizione di stallo. Dio, creando, si unisce alla sua creazione, si immerge nel molteplice e così facendo entra in lotta con il male. Per creare, egli non può che procedere ordinando e unificando una quantità di elementi che dapprima sono estremamente numerosi e semplici, poi man mano diventano più complessi e coscienti. Tutto questo non può non produrre degli errori, dei difetti, dei sottoprodotti di lavorazione, se così possiamo dire. Scrive Teilhard al riguardo, elaborando una sorta di gerarchia del male in tutte le sue forme: «Disarmonie e decomposizioni fisiche nel previvente, sofferenza nel Vivente, peccato nel campo della libertà, non c’è ordine in formazione che, in tutti i gradi, non implichi disordine». In sé il molteplice disorganizzato non è cattivo, ma proprio in quanto molteplice non può progredire verso l’unità senza generare il male, dal momento che è sottoposto al gioco delle possibilità. Se Dio crea l’universo in un solo modo, unificando, il male è praticamente inevitabile, quasi «una pena inseparabile dalla Creazione». Ecco quindi come Teilhard risolve il problema della teodicea: l’onnipotenza, la bontà e la perfezione di Dio non sono messe in discussione, mentre alla perfezione del mondo si può (si deve) rinunciare. Organizzare – e Dio crea organizzando, unificando – vuol dire vincere un disordine, e questo implica necessariamente la produzione di una certa quantità di errori e difetti, il che non mette minimamente in discussione la potenza unificatrice e positiva di Dio [10] e nello stesso tempo libera l’uomo dal senso di colpa che una interpretazione troppo rigida del racconto della caduta può far gravare sulle sue spalle. Si badi bene: lo libera dal senso di colpa, non dal senso del peccato; l’essere umano non è affrancato dall’arduo compito della conversione. Teilhard esprime tutto questo in una splendida pagina de Il significato e il valore della sofferenza: «In un mazzo ci si stupirebbe di scorgere fiori imperfetti, “a disagio”, dal momento che i singoli elementi sono stati raccolti a uno a uno e artificialmente messi insieme. Al contrario, su di un albero che ha dovuto lottare contro gli incidenti connessi al suo sviluppo e quelli esteriori delle intemperie, i rami spezzati, le foglie lacerate, i fiori secchi, fragili o avvizziti si trovano “al loro posto”, esprimendo le condizioni più o meno difficili di crescita del tronco che li sostiene. Allo stesso modo, in un Universo dove ogni creatura formasse un piccolo universo tutto chiuso, voluto per se stesso e teoricamente trasponibile a volontà, avremmo qualche difficoltà a giustificare, nel nostro modo di vedere, la presenza di individui dolorosamente bloccati nelle loro possibilità e nel loro sviluppo. Perché questa gratuita ineguaglianza e queste gratuite restrizioni? In compenso, se il Mondo rappresenta veramente un’opera di conquista attualmente in corso; se, veramente, con la nascita veniamo lanciati nel pieno della battaglia, non possiamo fare a meno di intravedere che, per il successo dello sforzo universale di cui siamo insieme i collaboratori e la posta, sia inevitabile la sofferenza. Il Mondo, visto sperimentalmente al nostro livello, è un immenso brancolare, un’immensa ricerca, un immenso attacco: i suoi progressi sono possibili solo a costo di molti insuccessi e di molte ferite. I sofferenti, a qualunque specie appartengano, sono l’espressione di questa condizione, austera ma nobile. Non rappresentano elementi inutili o sminuiti, ma si limitano a pagare per la marcia in avanti e il trionfo di tutti. Fanno parte dei caduti sul campo» [11]. Nel brano appena riportato risuona l’eco di Rm 8,19 – 23: «La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio [...] e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione. Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino a oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo». Insomma: quello che Paolo chiama redenzione, salvezza, liberazione dalla schiavitù della corruzione, Teilhard lo definisce evoluzione, pleromizzazione, convergenza, ma il concetto è essenzialmente lo stesso. L’inconciliabilità tra la visione di Paolo e di Teilhard sulla morte, il male e la sofferenza, dunque, è solo apparente: in realtà, fatte salve le differenze, c’è una sostanziale identità.

Principio di complementarità, principio di inerzia e peccato originale Resta però uno scoglio, e tutt’altro che piccolo: come conciliare le esigenze evolutive con quelle del singolo, l’interesse della specie con la tragedia personale che ogni morente affronta? Anche in questo caso la scienza può venirci in aiuto. Non la biologia o la genetica, stavolta, ma la fisica del ‘900, e per l’esattezza il principio di complementarità di Niels Bohr. Tale principio afferma che di una particella atomica o subatomica non può essere osservato contemporaneamente, nello stesso esperimento, l’aspetto corpuscolare e quello ondulatorio, la posizione e la velocità. I due aspetti sono complementari, ma si nascondono reciprocamente: li si può osservare soltanto separatamente, uno alla volta. Così è anche per la morte del singolo individuo e per la sopravvivenza della specie: sono il complemento – cioè il completamento, l’integrazione – l’una dell’altra, ma non possiamo afferrarle con lo stesso ragionamento perché si nascondono a vicenda; la morte del singolo è un vantaggio per la specie ma un dramma per l’individuo; per converso, l’immortalità personale sarebbe disastrosa per la specie. La scienza può aiutarci anche a guardare con maggior serenità al momento del trapasso. Noi crediamo per fede che la nostra vita non si concluda con la morte del corpo, ma la fisica ci offre un principio che può soccorrerci nei momenti in cui la fede vacilla o in cui la ragione esige i suoi tributi: è il principio di inerzia, intuito da Galileo Galilei – ma già Giordano Bruno, nella Cena delle ceneri, in qualche modo lo anticipa [12] – e poi elaborato pienamente da Cartesio e da Newton. Il principio di inerzia afferma che «un corpo permane nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme a meno che non intervenga una forza esterna a modificare tale stato». A questa formulazione si è arrivati, dopo circa duemila anni di riflessioni, attraverso un cambiamento di domanda: invece di continuare a chiedere «perché, se lanciamo un sasso, questo a un certo punto cade?» si è cominciato a porre la domanda in quest’altro modo: «Perché, se lanciamo un sasso, questo non prosegue la sua corsa all’infinito?». Sembra la stessa domanda, ma è radicalmente diversa, perché parte dal presupposto che la corsa del sasso duri indefinitamente: se noi oggi riusciamo a mandare le sonde spaziali su Marte è proprio in virtù del principio di inerzia. Possiamo applicare lo stesso ragionamento alla nostra vita, smettere cioè di chiederci perché a un certo punto moriamo e iniziare a domandarci perché la nostra vita non prosegue oltre. Se nel caso della fisica ciò che impedisce al sasso di proseguire la sua corsa è una forza esterna (l’attrazione gravitazionale terrestre, l’attrito dell’aria), per quanto riguarda la nostra vita la forza perturbatrice è il peccato, non nel senso che il peccato causi la morte biologica ma nel senso che, offuscandoci la vista e la mente, riducendo la prospettiva del nostro sguardo, ci impedisce di cogliere che la vita in realtà non termina, non ci viene tolta ma trasformata. Ecco perché Paolo, in 1 Cor 15,56, dice che il peccato è il pungiglione della morte: l’Apostolo non dice che senza il peccato la morte non ci sarebbe, perlomeno non lo dice in questo passo; afferma che senza il peccato la morte non ferirebbe, non farebbe male. Senza il peccato originale attraverseremmo la morte serenamente, come gli uomini di cui parla Dostoevskij ne Il sogno di un uomo ridicolo (1877) [13]. Lo scrittore racconta che, sopraffatto dal senso di colpa, sogna di togliersi la vita e di essere deposto nella tomba. Qui, con sua sorpresa, lui che si aspettava «il perfetto non essere», scopre che dopo la morte continua in qualche modo a esistere. A un certo punto arriva una misteriosa creatura alata (un angelo, un demone?) che lo afferra e lo porta a fare un giro nell’universo. Quindi riconduce lo scrittore sulla Terra, ma è una Terra diversa, senza il peccato originale. E qui Dostoevskij descrive gli uomini che la abitano: sono uomini bellissimi, felici, che vivono in pace tra loro e con gli animali, senza ucciderli né fargli del male; lavorano pochissimo, quanto basta a procurarsi un po’ di frutta e qualche seme. Muoiono anche loro, ma molto in là con gli anni e benedicendo chi rimane come se fossero sicuri di rivederlo poi dall’altra parte. Così moriremmo – in questo modo splendido che solo uno scrittore come Dostoevskij poteva descrivere – se il peccato originale non ottundesse la nostra anima e i nostri occhi.

Marco Galloni

NOTE SUL SITO

La « Kenosi di Cristo » secondo Paolo di Tarso (una prospettiva esegetica)

Http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RUBRICHEAUTORI/FrancescoCuccaro/FClaKenosidiCristoPaolodiTarso.htm

TEOLOGIA BIBLICA DEL NUOVO TESTAMENTO

La « Kenosi di Cristo » secondo Paolo di Tarso

(una prospettiva esegetica)

di Francesco Cuccaro

Il ‘mysterion’ , delineato da Paolo di Tarso nel suo epistolario, concerne un ‘piano divino di salvezza’ , un ‘disegno di comunione e di unità’ , concepito “ab aeternum” nel pensiero di Dio. Che si realizza nella ‘storia’ che, in tal modo, palesa tutto il suo ‘valore salvifico’ .
L’Apostolo delle Genti svela l’essenza di questo piano : ‘ricapitolare tutte le cose in Cristo, quelle del cielo come quelle della terra’ ( Ef. 1,10 ).
Quindi Cristo é il “nucleo” o, per meglio, dire la “sostanza” del ‘mysterion’. Quest’ultimo si concretizza nel tempo e nello spazio attraverso la ‘creazione’ e la ‘storia della salvezza’ .
L’apice di questo ‘eventuarsi’ del ‘mysterion’ é costituito dalla ‘Incarnazione’ , dal farsi presente di Dio come uomo tra i suoi simili e dal prolungamento storico effettivo di questa presenza che é la ‘Chiesa’ .
La ‘ricapitolazione’ e la ‘riconciliazione’ risultano essere possibili non attraverso una semplice teorìa, bensì attorno all’Idea Universale della Storia, così denominata da von Balthasar, un’Idea che é anche Persona*.
*Ci viene da sorridere a volte, ma anche di rammaricarci, solo al pensare come l’uomo sia stato così vittima delle proprie illusioni. Ha fatto valere con la passione, il fanatismo, la violenza, principi astratti di per sé magari buoni, come libertà, giustizia ( giustizia sociale ), uguaglianza, fraternità, o concezioni sbagliate come il comunismo. Ma, invece, di creare un paradiso attorno a questi valori, ha prodotto sulla terra un vero e proprio inferno. Sono state commesse, nei secoli, le ignominie più atroci ed inaudite.
Certo che il Cristianesimo non é stato scevro da incoerenze per colpa dei numerosi peccati commessi da uomini di chiesa e attraverso la strumentalizzazione politica e mondana della religione, ma non si può negare che ha sempre cercato di promuovere l’unità delle coscienze, sensibilizzando l’amore per il prossimo, alleviando sofferenze e miserie materiali, inculcando il rispetto per la persona umana nella sua dignità e libertà. E mai si é “imposto” come una “rivoluzione”, del tipo di quelle che si caratterizzano nel duplice e demoniaco proposito di violentare la natura e di cancellare la storia in nome di modelli apriorici e precostituiti.
L’Incarnazione di Dio in Cristo sta a questo universale ‘disegno divino di comunione’ come il mezzo sta al fine.
Un urto teologico intollerabile per l’antico Giudaismo che ha sempre insistito sul tema della soprannaturalità divina, esasperando una incolmabile distanza tra questo e il livello creaturale. Ma la ‘possibilità da parte di una divinità di farsi uomo’ appare scontata nel paganesimo che la esprime nelle narrazioni mitologiche venate di antropomorfismo, con i suoi cicli di Osiride, Diòniso, Mithra, trattandosi, però, di personaggi veicolati dall’ottica del “simbolo”.
Il Cristianesimo, invece, nasce e si sviluppa già su un terreno abbastanza fecondo di idee su questi argomenti. Ma diffonde la sua prospettiva dell’Incarnazione in una veste unica ed originale. Unica perché Dio si é incarnato, una sola volta, in un individuo umano.
Il ‘mistero dell’incarnazione’ non comprende solo un inizio nel tempo, vale a dire quello relativo al concepimento verginale di Gesù Cristo. Ma trascende la storia stessa. Si tratta di un evento continuo ed aperto : sia nel senso che Gesù non deporrà mai più, per tutta l’eternità, la natura umana; sia per il fatto che il Risorto si rende partecipe della storia, in un modo per così dire “nascosto”, attraverso l’annuncio, la testimonianza, la fede e l’azione sacramentale della Chiesa.
La distanza del kerygma apostolico primitivo dalla mitologìa pagana é assoluta ed irriducibile. Prova il fatto che i Gentili più refrattari alla conversione non riescono proprio ad armonizzare il loro schema di incarnazione divina con quello dei ‘nuovi credenti’, come dimostra lo sconcertante equivoco degli abitanti di Listra, narrato dagli Atti degli Apostoli :
“C’era a Listra un uomo paralizzato alle gambe, storpio sin dalla nascita, che non aveva mai camminato. Egli ascoltava il discorso di Paolo e questi, fissandolo con lo sguardo e notando che aveva fede di esser risanato, disse a gran voce, disse a gran voce : ‘Alzati diritto in piedi !’. Egli fece un balzo e si mise a camminare. La gente, allora al vedere ciò che Paolo aveva fatto, esclamò in dialetto licaonio e disse : ‘Gli déi sono scesi tra di noi in figura umana !’’ . E chiamavano Barnaba Zeus e Paolo Hermes, perché era lui il più eloquente.
Intanto il sacerdote di Zeus, il cui tempio era all’ingresso della città, recando alle porte tori e corone, voleva offrire un sacrificio insieme alla folla. Sentendo ciò, gli apostoli Barnaba e Paolo si strapparono le vesti e si precipitarono tra la folla, gridando : ‘Cittadini, perché fate questo ? Anche noi siamo esseri umani, mortali come voi, e vi predichiamo di convertirvi da queste vanità al Dio vivente che ha fatto il cielo, la terra, il mare e tutte le cose che in essi si trovano. Egli, nelle generazioni passate, ha lasciato che ogni popolo seguisse la sua strada; ma non ha cessato di dar prova di sé beneficando, concedendovi dal cielo piogge e stagioni ricche di frutti, fornendovi di cibo e riempiendo di letizia i vostri cuori’. E così dicendo, riuscirono a fatica a far desistere la folla dall’offrire loro un sacrificio” ( At, 14, 8-18 ).
Anche per Paolo Dio é disceso tra noi, ma non ha assunto un corpo apparente, né si é unito ad una persona umana in modo accidentale. Tantomeno l’Apostolo fa un discorso attorno ad un semidio a guisa di Ercole o di Achille o su un uomo perfettissimo e, pertanto, immortale. Nulla di tutto questo.
L’evento dell’Incarnazione, oggetto del kerygma primitivo, é originale a causa della sua paradossalità e drammaticità e della sua estrema serietà. Pur tuttavìa, si tratta di un processo reale e ontologico in seno a Dio ( ed esistenziale nell’ambito della storia di Gesù di Nazareth ) che non modifica la sua essenza.
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Paolo offre, nella Lettera ai Filippesi, un condensato di teologìa dell’Incarnazione, stimolando la sensibilità religiosa, ma urtando la suscettibilità degli increduli. Si può notare in una tale teologìa l’assenza di termini tecnici desunti dalla metafisica greca ( Platone e Aristotele in primo luogo ), in uso presso i successivi Padri della Chiesa durante le controversie trinitarie e cristologiche.
Il brano biblico di Fil. 2, 5-11, tuttavìa, rivela una ricchezza di contenuto del ‘mistero dell’Incarnazione’, quasi da far da contraltare rispetto alla povertà e staticità di certe formule astratte ( come ‘ousìa’, ‘physis’, ‘ypostasis’, ‘energheia’, ecc. ) che sembrano irrigidirne la stessa trattazione.
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che ( furono ) anche in Cristo Gesù il quale, pur essendo nella forma di Dio, non stimò come un bene da tenersi gelosamente l’essere alla pari con Dio, anzi ‘svotò’ se stesso col prendere forma di servo, diventando simile agli uomini. E dopo essere stato trovato come un qualsiasi uomo, si umiliò ( ancora ) facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce.
Perciò Iddio lo ha anche sovraesaltato e gli ha dato il nome che é al di sopra di ogni altro nome, affinché, nel nome di Gesù ‘si pieghi ogni ginocchio’ ( Is. 45, 23 ) degli esseri celestiali, di quelli terrestri e sotterranei, e ‘ogni lingua proclami’ ( ivi ) che Gesù Cristo é Signore, a gloria di Dio Padre” ( Ef. 2, 5-11 ).
Si tratta di un inno cristologico pre-paolino, come sostiene la maggior parte degi esegeti. Ci interessa considerarlo, piuttosto, come una sua rielaborazione fatta dall’Apostolo delle Genti.
Esaminiamo i temi più salienti racchiusi in Fil. 2, 5-11.
E’ da notare la frequenza di preposizioni come “in” e “con” lungo tutto l’epistolario del Nostro, con i loro “significati più dinamici che statici” (1).
Secondo Gianfranco Ravasi, il versetto ( letteralmente preso ) “abbiate in voi gli stessi sentimenti che ( furono ) anche in Cristo Gesù” suggerisce la facile idea, secondo la quale i fedeli devono avere gli stessi sentimenti già manifestati dal loro Signore nella sua breve parentesi terrena. Concludendo: Cristo sarebbe un modello da seguire e da imitare (2). Ma, a ben riflettere, quell’ ‘in-Cristo sembra indicare un valore aggiuntivo : il Logos é la causa-sorgente dei sentimenti di umiltà, di obbedienza e di pace (3).
Allora, questo “abbiate” dell’Apostolo vuol essere un augurio, un auspicio, più che una raccomandazione. Tenendo conto di questa chiave esegetica suggerita dal Ravasi, l’inno sembra acquisire, in realtà aiuta alla riscoperta di un carattere liturgico con un proprio ritmo di preghiera.
Cristo é all’origine di questa nuova sensibilità religiosa e morale del redento. Nel caso del primo versetto, l’agire presuppone l’essere e un’esigenza, un invito, un “appello richiamano una realtà…..una persona, Gesù, che quanto più vive in noi, tanto più ci abilita ad essere come lui” (4).
Condividiamo questo punto di vista di Ravasi, secondo il quale la fonte dell’agire moralmente retto non va tanto ravvisata nella ragione, la quale opera sempre un necessario discernimento tra ciò che si deve e ciò che non si deve fare ( così come ben delineato in Rom. 1, 18-32, dove si allude ad una legge scritta nel cuore di ognuno, tanto giudeo quanto pagano ), ma alla unione alla persona di Cristo Gesù nell’indicativo del dono della fede’ (5).
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Alla luce del mistero dell’incarnazione di Dio é possibile inquadrare la storia di Gesù di Nazareth.
L’inno cristologico di Ef. 2, 5-11 é ambivalente : tanto nel descrivere un uomo, Gesù Cristo, legato al proprio tempo e vissuto in un determinato luogo; quanto nel delineare il Figlio di Dio che si incarna in lui. Paolo si attiene alla storia forse in un modo non molto esplicito, comunque attraverso l’uso del passato remoto ( “furono”, “stimò”, “ svuotò”, “umiliò” ) e la rimemorazione del dato empirico ed irrefutabile della ‘morte di croce’ del Cristo ( Ef. 2,8 ).
Secondo l’Apostolo, Gesù, nella sua vita terrena. ha la consapevolezza di essere Dio, ma non “stima”, vale a dire non giudica l’uguaglianza ( l’identità sostanziale ) con il Padre come un bene, una perfezione assoluta da conservare nella fierezza, nell’egoismo e nella possessività.
“Pur essendo nella ‘forma di Dio’ , non stimò come un bene da tenersi gelosamente l’essere alla pari con Dio” : quest’asserzione contiene un evidente paradosso costruito sulla parola greca “harpagmòn” che designa in senso attivo “qualcosa da rapire”, o passivo “qualcosa di rapito”. Quindi un “tesoro geloso” o una “preda ambìta” (6). Questo versetto, implicitamente, si riferisce alla chiara contrapposizione tra Cristo e il primo uomo**.
**Per Adamo l’uguaglianza con Dio era oggetto della sua brama e del suo desiderio ( Gn. 3,5 ), “qualcosa da rapire”, da prendere d’assalto, come sottolinea Ravasi (7), espressione di una “hybris”, di un atto di tracotanza e di superbia, non solo del nostro primo progenitore ( che dopo si pente ), ma di ogni uomo che sembra avere di Dio quasi un sentimento di terrore e di repulsione. Atti di tracotanza si moltiplicano nella Bibbia a dismisura ( quello di Nemrod e dei costruttori della Torre di Babele, tanto per citare qualcuno ), oppure narrati dalle più disparate mitologìe ( si cfr., per esempio, la rivolta dei Giganti contro Zeus, oppure le figure di Prometeo e di Capaneo ).
L’uomo Gesù non esibisce in modo velleitario e spropositato la sua altra natura di essere soprannaturale e la sua stessa uguaglianza con Jahveh. E quando si riferisce a Dio, lo chiama ‘Abbà’ –Padre- estremizzando la sua condizione di essere relativo e la sua diversità creaturale da Lui, fatte valere addirittura davanti alle dure e angosciose prove sottoposte dal Maligno ( Mt. 4, 1-11; Mc. 1, 12-13; Lc. 4, 1-13 ) e di fronte alla morte di croce.
La sua ritrosìa a compiere, in modo gratuito, i miracoli, inoltre, é evidente ( si cfr. Mt. 15, 21-28; Mc. 7, 24-30; Gv. 2,1-5. 4, 46-54. 5, 19-21 ), non per non voler beneficare i suoi simili, ma per manifestare la sua origine divina secondo tempi opportuni.
In tutto uguale agli altri uomini, distinto da loro nell’assenza del peccato e della concupiscenza carnale, distinto da loro anche dal suo esercizio di una scienza infusa e di altri doni soprannaturali, Gesù, tuttavìa, era un uomo come gli altri, nel senso che espletava gli elementari bisogni fisiologici ed era soggetto a sofferenze nell’anima e nel corpo, al lavoro, alla morte fisica ( e, per giunta, violenta ). Inoltre, apparteneva al grado più modesto della scala sociale e ai limiti dell’indigenza. Non si escludono in lui né la presenza di un certo fascino anche estetico e di una superiorità psicologica e morale nei comportamenti. Altrimenti non si spiegherebbero gli inizi della sequela da parte degli Apostoli e degli altri Discepoli, nonché la mancanza di indifferenza delle folle nei suoi confronti, tantomeno una ipotetica passione della Maddalena verso di lui ( un “gossip” tanto sbandierato ai giorni nostri ).
“Pur essendo nella forma di Dio…..” ( Fil. 2,5 ) equivale a dire che, prima dell’Incarnazione, Cristo pre-esiste in Dio e come Dio si trova in una condizione di esistenza gloriosa. Paolo, per designare quest’ultima, utilizza due vocaboli greci : “upérchein” e “morphé” . Con il primo intende “l’esserci” con “una nota di stabilità” (8); con “morphé” non soltanto l’aspetto esteriore e la manifestazione visibile di una cosa, ma anche la determinazione dell’esistenza. In che modo si dà un esserci ? Come esiste questo qualcosa o questo qualcuno ? Secondo Fil. 2,5-11 : come Dio ! Quindi la ‘forma’ può richiamare la ‘essenza’ ( anche se non ne é l’equivalente esatto ). Quanto meno é una “figura che scaturisce dalla natura reale di una persona” (9).
Bruno Maggioni sottolinea come la ‘storia di Gesù’ non sia altro che la “rivelazione di un ragionamento di Dio” (10). Il Signore non é stato geloso delle sue prerogative divine, ma ha voluto spogliarsele per condividere fino in fondo la condizione di una realtà finita. Ha illustrato all’uomo due maniere di esistere e di comportarsi per “potersi ritrovare”, “per essere-se-stesso” nel modo più autentico e vero : il ‘dono’ e la ‘umiltà’ . Due atteggiamenti che non sono possibili all’infuori del senso e della dinamica dell’ ‘amore’ . Se io amo una persona senza secondi fini, cosa non faccio se non elargisco qualcosa o, addirittura, me stesso ? “E-largire” significa ‘aprirsi’, e questo “aprirsi all’altro”, “offrirsi”, “darsi”, comporta l’impoverimento del proprio sé per perfezionare l’altro. Tutto l’opposto dell’egoismo che si fonda sulla chiusura del sé, del proprio essere, su una illusoria autosufficienza.
Un uomo per ‘essere-se-stesso’ autenticamente – parlando in termini paradossali- deve donare sé, rendere l’altro partecipe delle proprie prerogative. Addirittura in modo incondizionato, simile all’amore genitoriale ( quello materno in primo luogo ). Poi, se ricambiato con generosità, l’amore ti appaga, ti arricchisce, neutralizza l’angoscia e la solitudine. Pertanto, la perdita di una persona estremamente cara rappresenta un impoverimento del proprio sé, delle proprie energie, della propria e più profonda realtà. La semplice amicizia e l’amore coniugale possono essere un veicolo dell’amore universale di Dio per gli uomini e di questi ultimi tra di loro, in maniera disinteressata, solo se vengono garantiti nella loro purezza e salvaguardati dal pericolo dell’esclusivismo.
Questo crediamo che sia il prezioso succo del processo di ‘svuotamento’ e di ‘spoliazione’ che caratterizza la discesa del Logos in mezzo alle creature. L’autore dell’articolo non condivide tanto la riflessione di Settimio Cipriani (11) dove si insiste sul carattere “metaforico” della ‘kenosi’. Quello che ci espone la Fil. 2,5-11 non sembra mostrare una “immagine letteraria” per indurre a seguire un Cristo maestro morale di umiltà. Ma si tratta di un vero e proprio processo ontologico ed esistenziale, dove Dio, finitizzandosi in un uomo, si rende partecipe delle miserie e delle sofferenze che travagliano il creato, raggiungendo i livelli più bassi ai quali può condurre il peccato. E dove, sulla croce, la sua coscienza di uomo sperimenta la vertigine del nulla e il momento di più totale abbandono ed estraneità da parte di Dio ( si cfr. il grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” in Mt. 27,47 e in Mc. 15.34 ). Strana e sconvolgente teofania !
Lo ‘svuotamento’ non é da interpretare come una modificazione o cancellazione della natura divina, quanto una rinuncia alle prerogative, alla gloria e allo splendore che competono al Logos divino nella sua pre-esistenza; anche se non mancano circostanze eccezionali nelle quali Gesù fa ricorso ai suoi straordinari poteri divini ( come nel caso dei miracoli e, tra questi, delle resurrezioni; o come nella Trasfigurazione sul monte Tabor ).
Questa ‘kenosi di sé da parte di Dio’ viene portata all’estremo. Il Logos “ha voluto limitare anche di più la sua umanità, ponendosi in uno stato di completa obbedienza e sottomissione sia a Dio che agli uomini” (12)
Ultimo in tutto, quindi, nel rapporto con la madre carnale, il padre putativo e i parenti, con le autorità civili e religiose costituite, perfino con i suoi Apostoli, con tutti, salvaguardando, tuttavìa, i diritti della verità e del Vangelo e il giusto rispetto della Legge di Dio ai quali non può derogare ( e che lo porta al duro scontro con i Farisei, i Sinedriti, i mercanti del Tempio, ecc. ). Dimostra anche di avere un senso critico che lo induce a smascherare il carattere puramente convenzionale di certe tradizioni rabbiniche che appesantiscono e snaturano l’osservanza della Toràh. L’obbedienza agli uomini gli impedisce tanto di sprofondare in un gretto, banale ed esagerato conformismo, quanto di incorrere nella ribellione aperta. Il carattere originale della predicazione di Gesù non avvalora affatto la posizione grossolana di certi storici laicisti dei nostri “gloriosi” atenei statali che intendono farlo passare per un “rivoluzionario” di quei tempi lontani.
Obbedienza agli uomini sì, ma non a prezzo di alcun compromesso che possa pregiudicare la volontà di Jahveh, la cui sottomissione é assoluta. Gesù si trova a vivere i momenti drammatici, l’ultimo dei quali lo condurrà alla crocifissione, avvertendo l’acutezza dello scontro tra le due obbedienze che non vengono, però, equiparate come avviene per un conflitto di valori. Anche se sa, in modo premeditato e doloroso, di dover fare la scelta giusta al momento opportuno.
Gesù comprende che la ‘morte violenta’ é parte integrante e culmine del disegno divino, espressione della volontà del Padre e delle conseguenze di una perseverante e fiduciosa sottomissione a Dio. Anche durante il suo ministero pubblico -possiamo asserire heideggerianamente- anticipa questa “possibilità dell’impossibilità”, tanto nell’angoscia e nella tristezza, quanto nella paura, di fronte ad un evento certo ed ineluttabile, per quanto raccapricciante***.
***La condizione di Gesù può essere simile ma non uguale a quella di un uomo che va in guerra a combattere. Quest’ultimo si trova a dover fronteggiare un pericolo che può porre termine alla sua vita. Si badi quel “può”, perché vi sono altre possibilità equivalenti : quella di rimanere incolume e vincitore, oppure ferito, o disperso, o prigioniero o addirittura disertore.
Noi abbiamo solo la certezza della morte, ma non sappiamo di quale tipo, né le modalità, né il tempo. Gesù, invece, conosce in anticipo tutto e sa che deve subire l’evento della crocifissione. Sa di dover morire solo in quel modo. Quando giunge “l’ora”, avviene nel Gethsémani una spossante ed incredibile lotta interiore nel suo animo, dove si scontrano l’io carnale, caratterizzato dall’istinto di conservazione, e il vincente io razionale, conforme al piano divino di salvezza. L’unica possibilità, per un peccatore, di sfuggire la croce é disobbedire alla volontà di Dio. Sarebbe bastato un “no” solo intenzionale in Gesù, perché Dio potesse contraddire se stesso.
“Svuotò ( ekènosen ) se stesso col prendere forma di ‘servo’ “. “Dentro il percorso di Gesù é possibile scorgere due antitesi che ne descrivono, sia pure indirettamente, anche la persona” (13). L’antitesi al ‘Signore’ non é quella di una semplice creatura, ma quella di ‘servo’ (in greco ‘doùlos’), sconvolgendo il pregiudizio dominante in base al quale la schiavitù é considerata il livello più infimo di esistenza che possa interessare un uomo. Questa del ‘servo’, in tal modo, diviene la chiave ermeneutica per una diversa ed originale concezione della divinità****.
****Gesù, nella sua breve parentesi terrena, si trova a vivere in un contesto dove la ‘schiavitù’ é un istituto sociale connesso ad una economìa prevalentemente agricola. Infatti, nel mondo ellenistico-romano, allo ‘schiavo’ non viene riconosciuta una vera e propria dignità personale, come gli sono negati i diritti civili.
Limitato anche nell’esercizio di quelli naturali, si trova ad essere soggetto in tutto e per tutto alla discrezionalità o, addirittura, all’arbitrio del padrone che può anche farlo uccidere. Inoltre, non ha per niente il diritto di disporre, autonomamente, di se stesso in qualche modo.
La possibilità per uno schiavo di mutare, in positivo, la propria misera condizione sociale é molto minima. La stessa sensazione di vivere sotto la signorìa assoluta dell’altro lo accompagna per tutta la vita.
Con l’influsso della filosofia stoica e con l’affermazione del Cristianesimo, anche la legislazione romana stabilisce una serie di misure filantropiche miranti a tutelare la figura del ‘servo’.
Ovviamente, Gesù non é nato in una famiglia di schiavi ma, per l’estrema obbedienza riservata a Dio, egli si é qualificato come ‘servus’, riabilitando anche una figura sociale fin troppo disprezzata, improntando di ‘amore’, di ‘dedizione’ e di ‘fraternità’ il suo rapporto di dipendenza dal signore.
In alcune citazioni evangeliche, Gesù allude non tanto alla condizione di esistenza del servo, quanto al rapporto di obbedienza e di dedizione che il credente deve stabilire con Dio e verso il prossimo. Pensiamo al suo gesto della lavanda dei piedi degli Apostoli e al suo conseguente ‘discorso sul primato del servizio’ ( Gv. 13, 1-20 ).
E poi non dimentichiamo che, nell’ambiente israelitico, la situazione dello schiavo é meno peggiore rispetto a quella vigente presso i Gentili, non solo per alcuni spazi di autonomìa a lui concessi, ma anche per il fatto che ad esso può spettare, di competenza, anche l’amministrazione dei beni del suo padrone ( a Roma ciò può essere di pertinenza solo dei liberti ), come Gesù ci ricorda in una sua similitudine in Mt. 24. 45-51 . Il Maestro galileo, inoltre, loda il centurione romano di Cafarnao non solo per l’illimitata fiducia in lui e per l’interesse mostrato alla religione mosaica, ma anche per lo spirito di carità verso un suo schiavo che lo induce a sottomettersi di buon grado al Cristo ( Mt. 8, 5-13; Lc. 7, 1-10 ).
Ma é pur vero che Paolo, quando scrive “col prendere forma di servo”, si confronta con le profezie messianiche di Isaia che alludono ad una misteriosa figura nota come quella del ‘Servo di Jahveh’ :
“Ecco il mio servo che io ho scelto; il mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Porrò il mio spirito sopra di lui e annunzierà la giustizia alle genti. Non contenderà, né griderò, né si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non si spezzerò, non spegnerà il lucignolo fumigante, finché abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le genti” ( Is. 42, 1-4 ).
Effettivamente, l’inno pre-paolino di Fil. 2, 5-11 richiama la tradizione profetica veterotestamentaria con l’espressione ‘forma di servo’ . Esaminiamo, al riguardo, il quarto carme isaiano sul Messìa :
“Ecco, il mio servo avrà successo, sarà innalzato, onorato, esaltato grandemente. Come molti si stupirono di lui tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo, così si meraviglieranno di lui molte genti; i re davanti a lui si chiuderanno la bocca, poiché vedranno un fatto mai ad essi raccontato e comprenderanno ciò che mai avevano fatto” ( Is. 52, 13-15 ).
Questo brano é un pò la chiave ermeneutica retrospettiva dell’espressione di Fil. 2,7 : “col prendere forma di servo, diventando simile agli uomini. E dopo essere stato trovato come un qualsiasi uomo nell’aspetto esterno”. Puntualizziamo la nostra attenzione su questo versetto paolino “diventando simile agli uomini” e su questo di Isaia “tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo”. Si noti bene : “simile”, cioè non uguale agli uomini sotto un certo rispetto.
L’inno non ci dice che Gesù ha assunto un corpo apparente, oppure che é un essere intermedio tra Dio e noi ( come, per esempio, può essere inteso un angelo ). Non viene messa in discussione la sua identità essenziale ( fuorché nel peccato ) con gli altri uomini.
Il processo di umiliazione e di spoliazione non concerne solo il fatto che Gesù diventi un uomo come gli altri, nascendo, crescendo, subendo gli stessi processi biologici, e morendo. Oppure ad una continua autolimitazione, anche in quanto uomo, perché soggetto all’obbedienza verso i suoi simili.
Esso é una “discesa” che non esclude la ‘derelizione’ , la quale sarà fatto compiuto durante la Passione, dove Cristo sarà sottoposto al potere mortifero dei suoi persecutori, in modo che -come predìce Isaia- il suo aspetto esteriore sarà così sfigurato tanto da apparire diverso ( e quindi “simile” ) dagli altri.
“E alla morte di Croce” : questa citazione sembra essere, secondo le osservazioni di alcuni biblisti, un’aggiunta originale di Paolo all’inno cristologico preesistente. Eppure in Fil. 2,5-11 si evince una ‘teologìa della croce’ o ‘staurologìa’ che si apre in tre direzioni : verso Gesù, verso il Padre e verso gli uomini (14). In rapporto al Padre la ‘croce’ esprime l’obbedienza assoluta ed incondizionata, dove il sacrificio diventa atto di omaggio e di adorazione ( nonché di accoglienza ), da parte di un uomo, a Dio e il culmine della redenzione. Significativo questo suggerimento di Maggioni : “Gesù ha condiviso la sorte dell’ultimo degli uomini” (15), quale può essere inteso uno schiavo, al quale può essere comminata la crocifissione.
La staurologìa di Fil. 2, 5-11, e più precisamente di Fil. 2,8, si regge sui verbi “fattosi obbediente” e “si umiliò” che ci indicano come la crocifissione non sia stata una circostanza fortuita, un semplice incidente di percorso capitato al Maestro galileo, ma la logica conseguenza di questa continua umiliazione e di questa estrema obbedienza al Padre celeste (16).
Quindi, anche la ‘croce’ trova la sua logicità che si ravvisa nel ragionamento con il quale Gesù non intende la sua ‘uguaglianza con Dio’ come un bottino da conservare (17). La ‘Croce’ diviene anche una chiave di comprensione di come Dio sia stato capace di rinunciare alla propria condizione di esistenza gloriosa per poter essere un uomo, per giunta il più reietto, uno “schiavo”, in modo da dimostrare ai sofferenti la propria solidarietà e condivisione nel destino.
E’ chiaro che chi ha composto questo inno cristologico di Fil. 2,5-11 é partito proprio dalla Croce per scoprire il volto dell’Essere supremo, anche se all’incontrario legge la storia di Gesù a partire da Dio(18).
Maggioni asserisce che l’ultimo atto della storia di Gesù Cristo consiste nella sua ‘glorificazione’ come il diretto contrario dello ‘svuotamento’ che funge, rispetto alla prima, da “conditio sine qua non”. Ma non é l’ultimo e conclusivo “capitolo” della ‘storia della salvezza’ (19). La condizione del ‘Servo di Jahveh’ non é definitiva ed assoluta. Se fosse tale, rasenterebbe la più totale insensatezza, la follia più accertata, una forma assurda, inaccettabile e repellente di masochismo o di vittimismo. Non é definitiva perché ha uno scopo ben delineato : il ristabilimento di una ‘signorìa’ universale originaria, compromessa e guastata dal peccato e dalla disobbedienza.
Richiamando una formula felice di Hegel, la ‘positività del negativo’, la condizione del ‘servo’ diventa, paradossalmente, privilegiata. Non perché quest’ultimo possa garantire al suo padrone, ma anche a se stesso, la sopravvivenza materiale con il lavoro. Ma perché acquisisce una coscienza superiore a quella di chi esercita il potere su di lui e dei suoi limiti, la consapevolezza delle potenzialità costruttive della sua esistenza sacrificata. Analogamente alla posizione dello schiavo, Gesù si rende consapevole che di fronte a Dio il peccato e la morte fisica vanno incontro al loro limite e non hanno l’ultima parola su tutto.
“Perciò Iddio lo ha anche sovraesaltato” ( Fil. 2,9 ) : quel “perciò” pone un “legame di causalità tra l’obbedienza della Croce e la gloria della esaltazione” (20). La ‘gloria’ é il frutto della ‘obbedienza’ (21), ma che non esclude l’iniziativa del Padre di donarla in modo gratuito tanto all’uomo Gesù che si é fatto obbediente fino al sacrificio della propria vita terrena per l’attuazione del ‘mysterion’, quanto al Logos preesistente che, incarnandosi in lui, si é svuotato delle sue prerogative divine, donandosi, a sua volta, al Padre e agli uomini nella più totale ‘derelizione’ . Il legame di causalità tra l’obbedienza e la gloria viene rivendicato da Gesù nella sua vita terrena, come attestato dalla tradizione sinottica : “chi si abbassa sarà innalzato” ( Mt. 23, 12; Lc. 18,14 ).
La ‘glorificazione’ deve avvenire attraverso la ‘sofferenza della croce’ . Gesù, in due occasioni, mostra di avere questa angosciosa ma tenace consapevolezza :
“ ‘L’anima mia é turbata e che devo dire ? Padre, salvami da quest’ora ? Ma per questo sono giunto a quest’ora ! Padre glorifica il tuo nome’. Venne allora una voce dal cielo : ‘L’ho glorificato e di nuovo lo glorificherò !’. La folla che era presente e aveva udito, diceva che era stato un tuono. Altri dicevano : ‘un angelo gli ha parlato’. Rispose Gesù : ‘Questa voce non é venuta per me, ma per voi. Ora é il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori. Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” ( Gv. 12, 27-32 ).
“Così parlò Gesù. Quindi, alzati gli occhi al cielo, disse : ‘Padre, é giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te. Poiché tu gli hai dato potere sopra ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. Questa é la vita eterna : che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo. Io ti ho glorificato sopra la terra, compiendo l’opera che mi hai dato da fare. E ora Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse……..Tutte le cose mie sono tue e tutte le cose tue sono mie, e io sono glorificato in loro. Io non sono più nel mondo; essi invece sono nel mondo, e io vengo a te. Padre santo, custodisci nel tuo nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola come noi” ( Gv. 17, 1-11 ).
II termine greco di ‘gloria’ é indicato, sia in Fil. 2,5-11 che negli scritti giovannei, con ‘doxa’ . Maggioni ci informa che con essa si intende tanto la ‘lode’ dal punto di vista della creatura, quanto la ‘manifestazione visibile di Dio’ perché, per l’appunto, l’uomo possa stupirsi, accettarlo, amarlo e riconoscerlo quale supremo Signore (22).
Parafrasando Gv. 12, 17 sembra che Gesù voglia dire : “Padre, manifestati in me !”. Secondo gli schemi religiosi israelitici, riferirsi al ‘Nome’ di Dio significa rapportarsi alla sua Persona, per la sussistenza di una stretta correlazione tra il nome e la realtà da esso designata. Per il pio ebreo Dio é innominabile nella sua assoluta inaccessibilità.
L’angoscia di Gesù si fa più pressante per l’avvicinarsi della fatidica ora della morte e rivela già una tensione tra l’istinto di conservazione e il principio di realtà. Parafrasando lo stesso versetto, é come se dicesse : “Non pensare a me, alla mia vita, ma solo a manifestare la tua potenza e la tua gloria”. Una voce dal cielo intende richiamare l’attenzione degli astanti, confermando le parole del Messìa. Per chi ammette il soprannaturalismo, é indubbio che parecchie persone assistano ad una rivelazione sorprendente di Dio. Non tutte percepiscono il fenomeno allo stesso modo ( forse un tuono, forse una voce magari penetrata direttamente nell’animo ), né la sua origine. E Gesù non precisa più di tanto, lasciando intendere che si tratti di una voce rivolta ai suoi ascoltatori.
Quanto alla ‘elevazione’ , la si può intendere a due livelli : sia attraverso la ‘crocifissione’, sia mediante la ‘resurrezione’ e la ’ascesa al cielo’.
E’ interessante esporre questo ragionamento. Non solo attraverso i miracoli e la sua predicazione, ma anche mediante l’obbedienza e la sofferenza –fino alla morte- del Logos incarnato, é avvenuta la glorificazione del Padre celeste. Attraverso il ‘martyrion’, la ‘testimonianza’ dalle azioni più elementari fino al sacrificio della propria esistenza terrena di Gesù, il Padre ha avuto la sua manifestazione visibile più solenne, sul piano storico, anche se non ultima e definitiva. Ora il Figlio di Dio incarnato invita il Padre a glorificarlo, a donargli, nella pienezza della sua unione ipostatica teandrica, quella gloria che il Logos possedeva ( e possiederà ) sul piano metastorico.
Questa gloria non é vista, per l’appunto, come un “tesoro geloso”, ma dovrà essere partecipata dagli uomini, da coloro che credono e crederanno nel Logos.
Sul piano storico Gesù sarà continuamente glorificato, prima dagli Apostoli e poi ( secondo la figura dell’enallage ) dai fedeli di tutte le generazioni, affinché “siano una cosa sola come noi” ( Gv. 17,11 ). Da non considerare l’ultimo versetto come una semplice metafora, se per ‘cosa’ si intende una realtà fatta di piena comunione tra il creato e il suo Autore.
L’inno cristologico utilizza un termine greco che rafforza, superlativamente, l’esaltazione di Gesù, dono del Padre : “hyperypsosen”. Che concerne un ‘sovraelevamento’, una “possente ascensione del Cristo” (23). “E’ la resurrezione con lui di tutto l’essere” (24). Non solo il ritorno ad un’esistenza originariamente gloriosa ma, per la natura umana, é anche il conseguimento della completezza.
Questo supremo atto divino, denominato “hyperypsosis”, concerne proprio il ristabilimento di quella signorìa che Dio aveva prima dell’Incarnazione, prima ancora che Satana e l’uomo la violassero con il peccato di disobbedienza.
Tuttavìa, é sbagliato pensare che l’atto sia stato compiuto una volta per tutte con l’uscita di Gesù, nel suo corpo risorto, dalla scena del mondo, come sembra suggerire il verbo “hyperypsosen” volto al passato. Si tratta piuttosto di un atto perenne e continuo perché metastorico, ma che si svolge anche nel tempo e nello spazio.
L’Apostolo delle Genti –come, del resto, tutti gli autori neotestamentari, non considera gli eventi della storia della salvezza come conclusi in sé, non solo per la constatazione che tali avvenimenti si richiamano l’un l’altro, oppure perché uno di essi é sempre foriero di conseguenze e “gravido dell’avvenire”. Ma anche perché ciascuno assume una dimensione metastorica che gli permette di trascendersi e di universalizzarsi. In caso contrario, la liturgia cristiana (prendiamo, per esempio, la celebrazione eucaristica) sarebbe una semplice commemorazione di atti del Signore, ormai conclusi una volta per tutte. Il rapporto tra Dio e le creature, nell’ottica neotestamentaria, richiama la distinzione tra l’eternità e il tempo. E una loro implicazione e compenetrazione. Mai la loro separazione. E gli autori biblici sanno molto bene questo dettaglio : quando indicano alcuni eventi importanti -che coinvolgono Gesù- utilizzano un tempo verbale indefinito.
Si esprime, per indicare un atto divino compiuto nel tempo, una forma verbale di passato, ma senza la funzione di indicarlo. Con un verbo volto al passato si descrive la qualità dell’azione colta nel suo svolgersi, senza prendere in considerazione la sua durata.
Così vale per la “hyperypsosis” di Gesù che é continuata nei cieli e sulla terra, nel senso che il Figlio di Dio si glorifica anche attraverso la Chiesa e in ognuno dei credenti che si conforma alla fede ricevuta.
L’atto di ‘innalzamento di Cristo’ –che non si riduce solo alla sua ascensione corporea- ha il suo momento culminante nel conferimento del ‘Nome’ che é al di sopra di ogni altro nome ( Fil. 2,9 ).
Conferire un “nome”, nell’ottica biblica, significa designare una profonda realtà e riconoscerla, effettivamente, per quella che essa é. Lo si é visto già nel racconto della creazione dell’uomo, secondo la tradizione jahvista, dove Adamo viene invitato da Dio a dare un nome a tutti gli esseri viventi ( Gn. 2, 19-20 ), esercitando un potere sul creato in virtù di una scienza a lui infusa. Si badi che a Gesù crocifisso e risorto non viene attribuito un nome, ma il ‘Nome’ per eccellenza che lo pone a livello di Dio ( nel senso che lo si riconosce solo con quello ), al di sopra di ogni altro essere.
Per i pii israeliti Dio ha il suo ‘Nome’ e molteplici attributi con tanto di superlativi assoluti. Esso non può neanche essere pronunciato se non con un rispetto elevato. E’ un nome che designa la sua essenza metafisica ma, durante la rivelazione sul Monte Horeb, andava inteso come “Io sono colui che sono” ( IHWH ) l’aiuto di Israele che farà uscire dall’Egitto, umiliando il Faraone.
Gesù risorto ha lo stesso nome di Dio. Rifacendosi alla tradizione veterotestamentaria, riprendendo una espressione di Isaia ( Is. 45, 23 ) che richiama il gesto di adorazione e di sottomissione – consistente nel “piegare il ginocchio” – di tutti gli esseri creati nei confronti di Jahveh, l’inno cristologico di Fil. 2,5-11 ribadisce che lo stesso atto deve essere rivolto a Gesù nella dignità assunta dalla sua natura umana, “dopo l’umiliazione dell’Incarnazione e della morte di croce” (25).
Ma qual é questo ‘Nome’ ( in greco “to onoma” ) da conferire a Gesù Cristo ?
L’inno di Fil. 2,5-11 lo cita al singolare, ma si guarda bene dal dirci qual é. Non é difficile immaginare che esso, in maniera implicita, si riferisca al sacro tetragramma I H W H che i pii ebrei non osano pronunciare, sostituendolo con il termine ‘Adonai’ che significa ‘Signore’.
Il Padre conferisce il Nome a Gesù. Ma cosa sta a significare ? Che il Nome non era mai appartenuto al Logos ? Si tratta, invece, proprio di riconoscere a quest’uomo, Gesù Cristo ( nel quale il Verbo si é incarnato ), che ha sofferto e morto in modo così violento per totale obbedienza a Dio, la stessa dignità divina e la sovranità universale su tutti gli esseri, permettendo così “di esercitare con pienezza i diritti di sovranità, di giustizia e di giudizio” (26).
Probabilmente Paolo ( come pure gli Evangelisti ) ha letto l’Antico Testamento nella versione greca detta dei ‘Settanta’, dove il termine ‘Adonai’ é tradotto con ‘Kyrios’. Duplice é lo scopo della ‘esaltazione’ : una ‘proclamazione universale’ che equivale ad una ‘confessione di fede’ ( nell’inno viene utilizzato il verbo “exomologhein” ), secondo la quale Gesù Cristo é il Signore ( Fil. 2,11 ), esprimentesi anche come assoluta ‘lode a Dio Padre Onnipotente’ ( Fil. 2,11 ).
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Una confessione che neanche le potenze avversarie al piano di Dio ( Fil. 2,10 ), quelle che agiscono nel mondo umano e le realtà infernali, possono ignorare e negare. E che viene richiesta alla fede dei credenti, soprattutto quelli contemporanei a Paolo di Tarso, e che “sostanzia” la propria vita su questa terra e nell’oltretomba. Non si può evitare nessuna circostanza che possa indurre a sottrarsi alla confessione della propria fede . Altro che a voce ! Addirittura fatta con il sacrificio della propria esistenza terrena.
I cristiani del I secolo, del tempo di Nerone e di Domiziano, hanno la gaudiosa ma anche tragica consapevolezza della loro vita inserita nell’ottica del ‘martyrion’, da meditare e vivere giorno per giorno, in un ambiente difficile, a loro diffidente e ostile, dove sono discriminati e vessati da parte del popolino e dei Giudei, ancor prima della persecuzione legale. Incorrendo poi in circostanze tremende dove non é possibile eludere una tale confessione di fede attraverso un conflitto di valori e di doveri, perché l’Imperatore di Roma ( come pure l’errore ) non ha gli stessi diritti di Dio ( e della verità ).
Domiziano, considerandosi “signore e dio”, esprimeva un atto di tracotanza, una “hybris”, una prevaricazione nei confronti della misura e del giusto equilibrio, urtando la suscettibilità anche dei pagani più rispettosi delle loro tradizioni religiose, nonché degli intellettuali onesti.
Non si é tenuti ad una cieca obbedienza, traducentesi in un atto di omaggio e di adorazione, per non compiere un attentato all’unità di Dio, del Dio biblico; ma anche per non essere ritenuti complici di un inaudito atto di superbia.
Il programma imperiale di una riforma religiosa che sarà perseguito, con tenace determinazione, da Domiziano e da altri “princeps”, mirava non solo a rafforzare l’assolutismo, ma anche a far valere una pretesa totalitaria a tutto il mondo romano. Che si doveva per forza interpretare in termini religiosi.
Il consenso alla persona dell’Imperatore non doveva essere solamente civile e politico, ma anche interiore. Il culto a questo monarca, in quanto “dominus et deus”, non era solo un atto liturgico a favore di un dio accanto ad altri. Possiamo affermare in questo modo : i diversi culti e le varie religioni del Mediterraneo del I secolo avevano il diritto di esistere solo se ritenuti subordinati e in funzione di quelli imperiali.
I pagani si assoggettavano a queste aberrazioni, dimostrando tutta la loro viltà di fronte alle disposizioni imperiali ed incoerenza nel tributare onori alle loro specifiche divinità.
Ma il riconoscimento della ‘signorìa’ di Gesù non può avvenire se non attraverso l’umiliazione più assoluta che non é tanto quella di farsi uomo di Dio, quanto quella del prendere la forma di ‘servo’, gratificando una categoria sociale reietta, dimostrando la sollecitudine dell’unico Creatore di tutte le cose non dalla parte del pre-potere, ma sempre nei confronti dei deboli, dei sofferenti, dei vessati.
Il Cristianesimo, tuttavìa, non si é mai diffuso come un tentativo di rivoluzione sociale. Esso ha sempre rispettato il principio di gerarchia e il diritto naturale della proprietà privata, accettando e coesistendo perfino con strutture socio-economico-giuridiche, sorte con il peccato, immettendovi in esse una nuova e vitale linfa, fatta di fraternità, di amore, di riconoscimento della dignità di qualsiasi uomo, il rispetto dei deboli e dei sofferenti, che deve improntare sempre i rapporti interpersonali, compresi quelli di interdipendenza.
Il ‘Vangelo’ si é proposto come un ‘rinnovamento delle coscienze’ : ha chiamato alla fede “il giudeo e il greco, lo schiavo e il libero, l’uomo e la donna, senza la pretesa di abolire distinzioni naturali o anche le disuguaglianze artificiali. Queste ultime sarebbero venute meno col tempo, grazie anche al trionfo dei principi cristiani nella società greco-romana e in virtù delle contingenze di fatto ( come, per esempio, la fine delle guerre di conquista da parte di Roma, le invasioni barbariche con connessi contrazione dei commerci e impoverimento delle campagne ).
Quella di Paolo é una religione che riesce ad assecondare la domanda di spiritualità e a rispondere alle esigenze di rigenerazione esistenziale anche di una grande massa di uomini senza speranza ( e tali non sono solo gli schiavi ) che prima hanno trovato un debole conforto nei culti misterici, opponendoli alle religioni delle classi medio-alte, ritenute, non a torto, come ipocrita espressione culturale e ideologica del predominio di altri uomini.
L’Apostolo indica, tuttavìa, un’oppressione e una sofferenza ancora peggiori che interessano tutti, potenti e deboli, ricchi e poveri : quelle legate al peccato, all’egoismo e al mancato disciplinamento delle passioni.
Cristo ha mostrato che il vero ‘servizio’ da vivere con umiltà e dono di sé controbatte la peggiore delle servitù, cioé quella al peccato e al demonio. Esso consiste nel “fare la volontà di Dio” e nell’amore disinteressato verso il prossimo e, addirittura, verso i nemici (Mt. 5,43-48; Lc. 6,27-36).

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La valenza teologica della ‘Croce’ di Cristo permette al neofita di fissare la concentrazione di tutta la storia della salvezza e del ‘mysterion’ divino in quello strumento di morte ( e, paradossalmente, di vita ), in quell’evento, in modo che tutto ciò che attiene alla Rivelazione biblica non potrà mai risultare concepibile al di fuori di esso. All’infuori della ‘croce’ più nulla é comprensibile.
Divenendo il segno inequivocabile di una fede che dura da due millenni.
Una tale valenza rispecchiata così bene in questo densissimo e mirabile inno cristologico della Lettera ai Filippesi.

IL SIGNIFICATO DEL TERMINE “GIUDAISMO” IN PAOLO (29.06.2014) – PIERO STEFANI

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IL SIGNIFICATO DEL TERMINE “GIUDAISMO” IN PAOLO (29.06.2014) – PIERO STEFANI

Posted on 28 giugno 2014

Il pensiero della settimana, n. 484

Il significato del termine «giudaismo» in Paolo[1]

Cosa intende Paolo per «giudaismo» (ioudaismòs)? Non basta ovviamente indagare su un semplice lemma; tuttavia è anche circostanza fortunata constatare che Paolo è l’unico autore neotestamentario a far ricorso a questo termine. Egli sembra impiegarlo in un senso, già precedentemente attestato, volto a indicare l’appartenenza a un gruppo che si oppone all’introduzione, da esso giudicata inaccettabile, di innovazioni in seno alla tradizione: «Intanto Giuda e i suoi compagni, passando di nascosto nei villaggi, chiamavano a sé i loro congiunti e, raccolti quanti erano rimasti fedeli al giudaismo, misero insieme circa seimila uomini (2Mac 8,1; cf. 2Mac 2,21; 4,26;14,38).
All’inizio del II secolo, la parola «giudaismo» è giudicata ancora significativa da Ignazio di Antiochia. Infatti è proprio pensando a essa che introdusse, per contrapposizione, il neologismo (almeno stando alle nostre conoscenze) di christianismòs (Ai Magnesi 10,1,3; Ai Romani 3,3; Ai Filadelfesi 6,1).
Paolo fa ricorso a «giudaismo» solo due volte all’interno di uno stesso passo della lettera ai Galati (1,13-14).
Vi dichiaro infatti, fratelli, che il vangelo da me annunciato non è secondo gli uomini: neppure io infatti l’ho ricevuto, né sono stato istruito da parte d’uomo, ma [l’ho ricevuto] per rivelazione di Gesù Cristo. Avete ascoltato al mio riguardo il mio rivolgimento [anastrophe] nel giudaismo, come io perseguitassi oltre misura la chiesa di Dio e la sconvolgessi, progredendo nel giudaismo più di molti mie coetanei della mia stirpe (ghenos), essendo più che zelante nel sostenere la tradizione dei padri (zelotes hypàrchon ton patrikon mou paradoseon). Ma quando colui che mi segregò fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché compissi il buon annuncio di lui in mezzo alle Genti (ta ethne), subito, senza consultare carne e sangue e senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco (Gal 1, 11-17).
Sembra lecito affermare che la parola anastrophè più che significare semplicemente condotta, qui alluda anche a un «volgersi indietro» verso la «tradizione dei padri» (così anche la Vulgata conversatio). Non importa stabilire con precisione i contenuti della «tradizione dei padri», non è questo il punto; il discrimine sta nel fatto che il «principio di verità» del giudaismo»(non a caso termine astratto) è – così come sarà per il cristianesimo – radicato in ciò che si afferma di aver ricevuto. Non è rilevante se i contenuti siano effettivamente quelli del passato o se siano state introdotte delle non dichiarate innovazioni. Quel che conta è che si dichiara di aver ricevuto l’insegnamento da un passato a cui ci si sta conformando. La rottura rispetto a questo schema trova il proprio fulcro nel verbo apokalypto «rivelare» (Gal 1,16; 3,23; cf. apokalypsis Gal 1,12 2,2). Qui siamo di fronte a un «criterio di verità» diverso da quello della traditio. Il genitivo oggettivo «rivelazione del Figlio suo» implica una riapertura di una vocazione paragonabile alla chiamata degli antichi profeti. Il «criterio di verità» è nel presente e non nel passato.
Paolo rivendica per sé una chiamata grazie alla quale il vangelo da lui annunciato dipende solo da Dio. Egli non fa memoria di alcuna apparizione avvenuta sulla via di Damasco, si rifà invece in modo esplicito alla vocazione profetica di Geremia in tutto dipendente da una libera scelta divina: «prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato; ti ho costituita profeta per le genti (goyim)» (Ger 1,5). Alle spalle del mutamento di Paolo non vi è alcuna insoddisfazione per il giudaismo; né si allude a qualche richiesta di perdono nei confronti dei membri della chiesa di Dio da lui perseguitati. Quel che lo costituisce apostolo è soltanto l’azione di Dio che gli rivela il proprio Figlio. È questa «novità» a rendere manifesta, per contrasto, la ragione del suo precedente attaccamento al «giudaismo» che egli, in pratica, fa coincidere con la tradizione dei padri. La grazia e la chiamata di Dio, palesatesi nella rivelazione del Figlio, lo costituiscono evangelizzatore delle Genti, di questo compito deve rendere conto solo a Dio, nessun’ altra autorità ha diritto di intervenire. Da queste righe risulta con evidenza sia il «teocentrismo» del discorso, sia il fatto che Dio, Signore di tutti, chiama un figlio di Israele per essere annunciatore alle Genti. Tuttavia sarebbe un grave errore ritenere che la rottura compiuta da Paolo con il «principio di verità» insito nel giudaismo comporti un rinnegare la sua condizione di giudeo.

Piero Stefani

 

LA PRESENZA DI DIO NEL SUO POPOLO – PROSPETTIVE DI TEOLOGIA BIBLICA: «ABITERÒ IN MEZZO A LORO…»

http://www.indaco-torino.net/gens/06_05_04.htm

LA PRESENZA DI DIO NEL SUO POPOLO – PROSPETTIVE DI TEOLOGIA BIBLICA
 
«ABITERÒ IN MEZZO A LORO…»
 
L’autore è professore di Antico Testamento e decano della Facoltà di teologia cattolica all’Università di Augsburg. Il presente contributo mette a fuoco come il Primo Testamento parla del “prendere dimora di Dio fra gli uomini”. L’articolo segnala poi le ripercussioni storiche di questa nozione veterotestamentaria sia nel discorso postbiblico-giudaico della “Shekhinah” che negli scritti del Nuovo Testamento sulla presenza di Cristo in mezzo ai suoi.
Era un tempo di crisi. Ciò che per secoli aveva fornito appoggi e orientamenti era venuto meno. Mancavano prospettive. Le grandi speranze erano crollate. E nessuno sapeva in che modo si potesse continuare. Il paese era devastato, occupato dai nemici. Il tempio, il luogo della presenza di Dio, giaceva in macerie. Parte della popolazione era stata deportata, viveva in esilio, lontano dalla propria patria. Era subentrato il caos sulla gente di quel tempo. Sembrava che Dio avesse nascosto il suo volto.
1. L’anelito di Dio: l’uomo vivente
Alcuni teologi, di cui non conosciamo i nomi, posero gli uomini del loro tempo davanti a un’alternativa: o ci fissiamo sul negativo, sul caos, e allora questa confusione insanabile continuerà a condizionare la nostra vita. Oppure diamo un’opportunità a Dio e in questo modo anche in mezzo ai deserti crescono gli spazi della speranza, spazi di vita. Perché – questa è l’esperienza degli autori biblici – Dio desidera abitare presso gli uomini. Dio vuole prendere abitazione, impiantare la sua tenda in mezzo al caos umano1.

Scoprire nel caos il sì di Dio
A quell’epoca – nel tempo del cosiddetto esilio babilonese – fu scritto il primo grande testo della Bibbia, Gn 1, 1-2, 4a. Secondo questo “racconto della creazione” Dio realizza – dal caos invivibile (Gn 1, 2) e con l’azione della sua parola potente e generatrice di vita – uno spazio adatto alla vita. Ad ogni creatura, ad ogni essere vivente viene assegnato il proprio ambiente vitale (Gn 1, 3-31). La creazione dell’uomo e della donna rappresenta un vertice del racconto della creazione (Gn 1, 26-31). Dio decide dentro di sé: «Facciamo l’uomo». Si tratta di una presa di posizione consapevole e ponderata per l’uomo. Dio vuole l’uomo! Indipendentemente da come l’uomo sia arrivato ad essere tale da un punto di vista evoluzionistico, vale per lui: tu sei voluto da Dio. Sulla tua vita c’è un grande SÌ. È il SÌ di Dio – fin dal principio.
Allo stesso tempo l’essere umano fa parte della creazione. Voluto e amato da Dio, l’uomo condivide il suo destino con l’intera creazione. Insieme ad essa egli è rinviato a Dio e dipende da Dio.

L’uomo – immagine di Dio
«Facciamo l’uomo: sia simile a noi, sia la nostra immagine». Nell’antico Oriente, nel mondo dal quale proviene la Bibbia, i governanti erano considerati spesso immagini delle rispettive divinità, come ad esempio i re dell’Assiria e di Babilonia o i faraoni egiziani. Ritenevano inoltre che una parte dello splendore e della gloria divini fossero riversati su di loro. Ciò che attorno a Israele veniva considerato vero solamente per i grandi e potenti vale – secondo la testimonianza biblica – per tutti gli uomini. Ogni essere umano, forte o debole, sano o malato, uomo o donna, piccolo o grande: ogni essere umano reca in sé una dignità regale. Lo splendore della luce divina è sopra di lui. Ogni essere umano è chiamato ad essere portatore e diffusore di tale luce.
Si ricordi pure un’altra tradizione del mondo biblico. Spesso i Re che governavano un grande regno, facevano collocare immagini di sé nelle varie province del loro regno. In questo modo intendevano affermare: in questa immagine – una statua o un bassorilievo –  sono presente io. L’immagine rappresentava il sovrano, lo rendeva “presente”.
Applicato all’affermazione che l’uomo è immagine di Dio, ciò significa: nell’essere umano Dio si rende presente ed opera in un modo speciale nella sua creazione. Attraverso di lui Dio vuole essere presente nel mondo. L’uomo è, per così dire, la presenza di Dio nella creazione, il luogo in cui Dio e la creazione possono rendersi presenti in modo particolare l’uno all’altra.

L’immagine tradita
La vocazione ad essere immagine di Dio comprende anche una speciale responsabilità. Per questo motivo l’uomo è incaricato di “dominare” – un’espressione di non facile comprensione, a volte malintesa e abusata. “Dominio” non significa arbitrio e sottomissione né esercizio di potere ad ogni costo o sfruttamento irrispettoso delle risorse disponibili, sia in natura che nell’umanità. Al contrario! “Dominare”, nell’antico Oriente, è un’espressione dalle connotazioni assai positive. Il “dominatore” è al contempo il pastore. Spetta a lui difendere la pace,  preservare e dar forma all’ambiente vitale, imporre il diritto e la giustizia, perché sia possibile una vera convivenza. Secondo il racconto biblico della creazione l’uomo non può concepire tale incarico in modo autosufficiente o arbitrario. È un compito che gli è stato affidato da Dio stesso. E perciò deve compierlo anche con responsabilità di fronte a Dio e secondo le sue intenzioni. L’uomo agisce in quanto immagine di Dio, se segue le indicazioni divine,  se si orienta secondo la volontà di Dio. La potente ed efficace parola di Dio, che l’ha chiamato in essere, deve anche farsi spazio nella sua vita, rinnovarlo e indicargli il cammino.
Ma com’è in realtà il mondo dell’uomo? La Bibbia accosta al racconto della creazione il racconto del diluvio universale: l’uomo tradisce la sua chiamata ad essere immagine di Dio. Esercita violenza – il contrario di “dominio” – e così scatena il caos, che si esplicita nell’immagine cosmica del diluvio. Questa è, spesso, la realtà dell’uomo. I due grandi racconti della creazione e del diluvio universale non rappresentano un “prima” e un “dopo”; mostrano bensì il mondo, così com’è stato pensato da Dio (l’uomo a sua immagine) e così come viene ripetutamente ridotto dall’uomo (l’immagine tradita). All’immagine “reale” del mondo – il diluvio come esperienza del caos: “Il Signore vide che la malvagità degli uomini era grande sulla terra”  (Gen 6, 5) – viene contrapposta l’immagine ideale del mondo voluto da Dio: «E Dio vide che tutto quel che aveva fatto era davvero molto buono» ovvero «molto bello»2. In questo mondo contraddittorio, che da una parte viene scosso dalla distruzione e dal caos, ma che al contempo è realizzato in modo tale da poter accogliere la presenza trasformatrice e rinnovatrice di Dio, vive Israele, vive la Chiesa.
Ma se la vocazione di ogni uomo è già quella di esprimere la presenza di Dio in questo mondo contraddittorio, per quale fine dunque esiste Israele? E perché è necessaria una Chiesa, la quale, secondo gli scritti neotestamentari, traccia il profilo della propria autocomprensione proprio riagganciandosi ai testi veterotestamentari? Perché la Bibbia parla ancora di un “popolo eletto”, se ogni essere umano nella creazione è chiamato ad essere “presenza di Dio”?

2. La tenda di Dio tra gli uomini
Torniamo al primo racconto biblico. Il settimo giorno Dio riposa – un’affermazione significativa. Il settimo giorno è il giorno del compimento e della pienezza di vita (Gn 2, 1-4a). Il riposo di Dio è segno del compimento. Ma espressamente si parla soltanto del riposo di Dio, non del riposo dell’uomo. Presso Dio e in Dio la creazione è compiuta. Ma come giunge questa pienezza agli esseri umani e nel loro mondo? La descrizione di questo settimo giorno in Gn 2, 1-4a, attraverso l’utilizzo di parole-chiave, si spinge ben al di là del racconto della creazione e rinvia al racconto sinaitico di Es 19-403.

Portatori della luce divina
Dopo gli avvenimenti della liberazione dal potere del faraone (Es 1-15), passando attraverso il deserto (Es 15-18), il popolo di Israele raggiunge il Sinai (Es 19ss). Per sei giorni – come si legge in Es 24, 15ss – il monte è coperto dalla nuvola. Non succede nulla. La nuvola è segno della presenza di Dio. Dio appare come l’indisponibile e l’inavvicinabile. Il settimo giorno invece Mosé sale sul monte ed “entra” nella nuvola. Sperimenta il Dio presente. Lo splendore di Dio si mostra all’intero popolo. Israele può prendere parte al compimento e alla gloria di Dio. Questo settimo giorno è per l’appunto il giorno nel quale, secondo Gn 2, 1-4, il mondo è compiuto in Dio.
«Mosé salì dunque sul monte. La nube coprì la cima del monte e il Signore si manifestò sul Sinai in tutta la sua gloria. Essa appariva agli occhi di tutto il popolo come un fuoco divorante. La nube coprì il monte per sei giorni; al settimo il Signore dal mezzo della nube chiamò Mosé, e Mosè entrò nella nube e salì sulla cima. Egli rimase là quaranta giorni e quaranta notti» (Es 24, 15-18).
Ciò significa che in Israele si manifesta – e così diventa visibile nel mondo – qualcosa della pienezza e dello splendore di Dio. La magnificenza di Dio, il suo sabato deve incendiare Israele «come fuoco che consuma» e attraverso Israele deve raggiungere e toccare il mondo. Nel Nuovo Testamento ciò corrisponde al messaggio del discorso della montagna: «Siete la luce del mondo… Una città costruita sopra una montagna non può rimanere nascosta» (Mt 5, 14-16).
Per quale motivo e per quale fine allora esistono Israele e la Chiesa? In un mondo sperimentato come conflittuale e lacerato, attraverso il popolo eletto da Dio deve diventare “visibile” qualcosa dell’integrale pienezza creata da Dio e che lui intende realizzare. Israele viene scelto, perché Dio vuole rendere visibile nel mondo lo splendore della pienezza. Grazie a questa luce viene sempre di nuovo in rilievo la dignità e la grandezza dell’uomo come immagine di Dio. Per questo motivo a Israele e alla Chiesa spetta in modo speciale il compito di proteggere la dignità riconosciuta da Dio all’essere umano e di metterla sempre di nuovo “in luce”.

Una casa di pietre vive
Cosa avviene sulla montagna? Mosè guarda il Santuario celeste, la dimora di Dio in cielo. Perché vede la dimora celeste? Deve costruire quel Santuario sulla terra.
Es 25, 1.8-9: «Il Signore disse a Mosè: “Gli Israeliti mi consacreranno un luogo particolare, così io abiterò in mezzo a loro. Farete la tenda e gli oggetti di culto uguali al modello che io ti mostrerò”».
Dio desidera abitare sulla terra, così come abita in cielo. Israele stesso deve essere il suo santuario, una casa di pietre vive. Dio vuole essere presente nel suo popolo Israele e attraverso di esso nel mondo. Per questo quindi esiste Israele, il popolo eletto, e per questo esiste anche la Chiesa: affinché Dio abiti in mezzo a loro e gli sia possibile comunicare qualcosa della pienezza che è presso di lui.

La presenza trasformante di Dio
Ci soffermeremo ora sulla tenda sacra, sulla “tenda dell’incontro”, e sulla forza trasformante della presenza divina.
«In quel luogo mi incontrerò con gli israeliti, ed esso sarà consacrato dalla mia presenza gloriosa. La tenda dell’incontro e l’altare saranno consacrati a me. Anche Aronne e i suoi figli saranno consacrati a me per servirmi come sacerdoti. Abiterò in mezzo agli Israeliti e sarò il loro Dio. Riconosceranno che io, il Signore, il loro Dio, li ho fatti uscire dall’Egitto per poter abitare in mezzo a loro. Io, il Signore, sono il loro Dio (Es 29, 43-46).
La presenza di Dio in mezzo al suo popolo non conduce soltanto ad una percezione nuova di Dio da parte di Israele. In questo incontro Israele stesso viene rinnovato e santificato. La presenza di Dio fa vedere a Israele in una luce nuova anche la propria storia e gliela fa capire come un cammino con Dio. Il cammino di Dio con il suo popolo è orientato a questo obiettivo: preparare a Dio una dimora.
La ragione d’essere di Israele risiede quindi in questo: essere, se così si può dire, “contenitore” della presenza di Dio nel mondo. Israele, con tutti i suoi limiti, rende possibile che Dio faccia irradiare il suo splendore nel mondo. La forza trasformante della presenza di Dio diviene così messaggio per il mondo.

Tendere l’orecchio
al ritmo di vita di Dio
Del completamento della creazione (Gn 2, 1-4a) fa parte il completamento del santuario (Es 40, 33). Non soltanto la storia della salvezza di Israele, bensì anche l’intera storia della creazione tende a questo: preparare d Dio una dimora, attraverso Israele. Dove Dio è presente, la realtà della creazione e quella della salvezza si incontrano rinviando l’una all’altra.
«Così Mosè terminò tutti i lavori. Allora la nube coprì la tenda dell’incontro e la presenza gloriosa del Signore riempì l’abitazione. Mosè non poté più entrare nella tenda dell’incontro perché su di essa c’era la nube e la presenza gloriosa del Signore riempiva l’abitazione» (Es 40, 33b-35).
Il grande compito di Israele nel mondo e per il mondo consiste quindi nell’affinare l’attenzione alla realtà divina e nel custodire il santo che gli è affidato. Tale opera di custodia della presenza di Dio non può ovviamente essere realizzata esclusivamente nel giorno del sabato e nella celebrazione sacra. Questo impegno abbraccia tutta la vita, il giorno del sabato e la quotidianità. Anche la vita quotidiana con i suoi ritmi dev’essere intrisa di questa presenza divina. Nelle parole del testo biblico: «A ogni tappa, quando la nube si alzava dall’Abitazione, gli Israeliti levavano l’accampamento. Se però la nube non si alzava, essi non partivano e attendevano che la nube si fosse alzata» (Es 40, 36-37).
Il compito principale di Israele lungo il cammino attraverso il deserto verso la Terra Promessa della pienezza consiste dunque in primo luogo nell’essere attento alla presenza divina. I tempi per riposare e per essere attivi, i tempi per riflettere e per ricominciare sono determinati a partire dalla presenza di Dio. La presenza di Dio forgia il ritmo vitale del popolo di Dio. Questo “ante omnia” di un amore vigilante per la presenza di Dio è costitutivo per il cammino di Israele attraverso i tempi e rimane costitutivo anche per il cammino della Chiesa3.

3. Ebrei e cristiani: testimoniare insieme il Dio vivente
Che Dio voglia prendere dimora fra gli uomini è illustrato dall’Antico Testamento in molteplici modi. Non soltanto i racconti dei Patriarchi della Genesi o i testi citati sopra del Libro dell’Esodo, anche i Salmi (cf Sl 23; 46) e gli Scritti profetici si occupano di questo argomento. Così ad esempio il profeta Ezechiele, nel suo annuncio di salvezza, traccia immagini che preannunciano una vita futura e non più perdibile nella presenza di Dio: «… Stabilirò il mio santuario in mezzo a loro per sempre. Abiterò con loro: essi saranno il mio popolo, io sarò il loro Dio. Quando avrò messo il mio santuario in mezzo a loro per sempre, allora le nazioni riconosceranno che io sono il Signore e che ho consacrato Israele al mio servizio» (Ez 37, 26-28).
Questo messaggio biblico-veterotestamentario sul “prendere dimora” di Dio nel suo popolo ha avuto un influsso decisivo, nel suo doppio seguito storico, sia sull’ebraismo che sul cristianesimo. Entrambe le religioni sorelle testimoniano, benché in modi diversi, il Dio vivente che in quanto trascendente si prende cura del mondo e non lo lascia in balia degli eventi.

La teologia giudaica postbiblica della Shekhinah
Nella tradizione ebraica, in epoca post-biblica, il messaggio della dimora di Dio tra gli uomini si ripercuote nell’insegnamento della Shekhinah. Quando i Romani, nel 70 d.C. distrussero il secondo Tempio (luogo della presenza di Dio) e quando il popolo di JHWH fu costretto ad affrontare grosse difficoltà, la teologia della Shekhinah – sorta durante il periodo dell’esilio e dopo l’esilio – venne ulteriormente approfondita nella riflessione rabbinica e venne sviluppata narrativamente in numerosi racconti sotto forma di parabola. Si trattava di dare conforto e motivazione a rimanere fedeli alla comunione con Dio. Questa teologia riflessiva e narrativa serviva ad Israele quale rassicurazione di sé e del proprio cammino con Dio, per vivere saldi nella comunione con Dio specialmente nelle notti della fede5.
Nonostante le differenze evidenti, si rilevano anche forti legami tra la concezione biblica  del “dimorare di Dio fra gli uomini”, il discorso postbiblico-ebraico della Shekhinah e il messaggio del Nuovo Testamento sulla presenza del Signore risorto fra i suoi (cf Mt 18, 20; 28, 20).

Il messaggio del Nuovo Testamento
L’idea veterotestamentaria del dimorare di Dio presso il suo popolo ha trovato espressione anche nel Nuovo Testamento. Accanto alle affermazioni fondamentali del Vangelo di Matteo5, ciò diviene manifesto soprattutto attraverso il Vangelo di Giovanni, il cui prologo interpreta l’incarnazione del Logos divino sullo sfondo del messaggio veterotestamentario del dimorare di Dio fra gli uomini: «E il Verbo si fece carne, e venne ad abitare in mezzo a noi» ovvero: «e venne a porre la sua tenda in mezzo a noi» (Gv 1, 14). Nelle parole di Gesù, nelle sue opere e nel suo patire, il Padre stesso è all’opera. A chi corrisponde all’amore di Gesù, vive la sua parola e le rimane fedele, Gesù promette: «… il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14, 23). Il vivere secondo la Parola fa sì che chi segue Gesù diventi tempio vivo, nel quale Dio stesso prende dimora.
Anche Paolo – facendo riferimento a Lv 26, 1 – in 2Cor 6, 16 sottolinea che la comunità dei credenti in Cristo è «Tempio del Dio vivente». La parola di Cristo abita in mezzo alla comunità dei credenti (Col 3, 17). Ciò vale nella stessa misura dei singoli credenti, che si aprono al mistero di Dio nella fede. In loro abita lo spirito di Dio (Rm 8, 9.11; 1Cor 3, 16; 2Tit 1, 14); Cristo stesso abita nel loro cuore (Ef 3, 17).
Il libro dell’Apocalisse infine ci presenta la promessa veterotestamentaria come il traguardo delle vie di Dio: «Ecco l’abitazione di Dio fra gli uomini; essi saranno suo popolo ed egli sarà “Dio con loro”. Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi. La morte non ci sarà più. Non ci sarà più né lutto né pianto né dolore» (Ap 21, 3-4).
Questa immagine di una salvezza non più perdibile in un futuro realizzato da Dio non toglie però la responsabilità di fronte al presente. Al contrario! La salvezza futura deve agire sulla vita presente e modellarla. Essa chiede di cercare e di mettere in atto già fin da qui ed ora vie e forme di vita nelle quali si prepari una dimora al Dio vivente nel quotidiano. E, come afferma un detto ebraico: Dio prende dimora dove lo si fa entrare.
Israele e la Chiesa sono sollecitati a testimoniare insieme, pur in modi diversi, che Dio vuole abitare in questo mondo ed essere presente agli uomini. Così può farsi strada nel mondo una speranza che non inganna e che sostiene.

Franz Sedlmeier
 
______________________

1)     È presumibilmente al tempo dell’esilio in Babilonia, nel 6° sec. prima di Cristo, che nasce la teologia della Shekhinah, quale teologia narrativa che parla dell’abitare di Dio presso il suo Popolo, nonostante il fatto che i fedeli di JHWH nell’esilio sperimentino in maniera drammatica la perdizione e la lontananza da Dio.
2)     La parola ebraica “buono” può significare anche “bello” e si riferisce pertanto alla beatitudine che Dio prova al cospetto del suo operato.
3)     Questo “ante omnia” muove l’autore della Prima Lettera di Pietro quando chiede alle prime comunità: «Soprattutto conservate tra voi una grande carità» (1Pt 4, 8). Tale sfondo biblico spiega la nota iniziale con cui si aprono gli Statuti generali del Movimento dei focolari e che formula in queste parole la “premessa di ogni altra regola”: «La mutua e continua carità, che rende possibile l’unità e porta la presenza di Gesù nella collettività, è per le persone che fanno parte dell’Opera di Maria la base della loro vita in ogni suo aspetto: è la norma delle norme, la premessa di ogni altra regola».
4)     Per la genesi e il significato della teologia della Shekhinah cf tra l’altro Hanspeter Ernst, Die Schehkina in rabbinischen Gleichnissen, Judaica et Christiana 14, Frankfurt 1994.
5)     Cf più ampiamente il contributo di Gérard Rossé in questo numero di “Gen’s”, pp. 156-163.
 

L’AUTOCOMPRENSIONE DEL GESÙ STORICO ALLA LUCE DELLO SHEMA’ YISRA’EL

http://www.zenit.org/article-35112?l=italian

L’AUTOCOMPRENSIONE DEL GESÙ STORICO ALLA LUCE DELLO SHEMA’ YISRA’EL

Un contributo teologico-esegetico per ricostruire la figura del Nazareno

Robert Cheaib

ROMA, Saturday, 19 January 2013 (Zenit.org).
Nella ormai lunga e travagliata vicenda della «Ricerca del Gesù Storico», la «Third Quest» si presenta come il paradigma con lo strumentario il più moderato. Lungi dalle posizioni a fondo anti-semitico che ricostruivano la figura di Gesù a partire dal criterio di dissimilitudine con il suo ambiente giudeo, la Third Quest colloca decisamente il Nazareno all’interno del giudaismo del suo tempo. J.P. Meier, nella sua celeberrima opera A Marginal Jew riassume così la prospettiva della Terza Ricerca: «Il Gesù storico è il Gesù halakhico, cioè il Gesù preoccupato e impegnato a discutere della Legge mosaica e delle questioni pratiche che ne scaturiscono».
Ma quale tipo di giudeo era il Gesù storico, più esattamente? In quale direzioni ha compreso e rivolto la sua missione? Le risposte dei ricercatori variano. Alcuni ne sottolineano la dimensione socio-politica, altri lo associano ai farisei della scuola moderata di Hillel, altri ancora evidenziano la sua affinità con gli elleni, etc.
La proposta di Daniele Fortuna entra nel solco di questi tentativi di risposta e ricostruzione della figura storica di Gesù. Nel suo libro pubblicato presso le Edizioni San Paolo, intitolato: Il figlio dell’ascolto. L’autocomprensione del Gesù storico alla luce dello Shema‘ Yisra’el, l’autore sviluppa un’ipotesi geniale già enunciata dall’esegeta B. Gerhardsson, secondo cui lo Shema‘ Yisra’el, cuore pulsante della spiritualità giudaica, era il fulcro della spiritualità del Nazareno e il centro attorno a cui si possono unificare i vari fili del tessuto evangelico.
L’autore argomenta che il Credo di Israele, lo Shema‘, recitato da Gesù quotidianamente due volte sin dall’infanzia, ha impresso in lui «un’autentica spiritualità dell’ascolto, lo ha accompagnato nel suo cammino vocazionale e lo ha preparato a compiere ogni giorno la volontà del Padre fino al dono estremo di sé nella morte di croce» (462).
L’opera, frutto di una tesi di dottorato presso la Pontificia Università Gregoriana, gira intorno all’intreccio di due fulcri ermeneutici: lo Shema‘ Yisra’el e l’autocomprensione di Gesù. Essa considera, alla luce del piccolo credo recitato da ogni ebreo osservante, l’evolversi e il dispiegarsi dell’autocomprensione di Gesù, ossia «ciò che lui stesso riteneva di essere (cristologia gesuana), alla luce della singolare conoscenza di Dio come suo abbà (teologia gesuana) e in funzione della missione di cui si credeva investito, quella, cioè, di inaugurare l’avvento del Regno di Dio (escatologia gesuana)» (3).
Come accennato sopra, la tesi sviluppa un’intuizione interpretativa di Gerhardsson riassunta da lui medesimo così: «Gesù di Nazaret ha preso sul serio la confessione delle sue labbra… ogni sera ed ogni mattina Gesù s’impegnava ad ascoltare la parola di Dio, ad amare Dio con tutto il suo cuore, con tutta la sua anima, con tutta la sua potenza, a porre queste parole nel suo cuore, a pensarvi, a insegnarle ai suoi figli (ai suoi discepoli), a ripeterle sia quando era seduto in casa sua, sia camminando sulla via…» (11).
Analizzando il rapporto di Gesù con la Legge, Fortuna mostra il pieno riconoscimento di Gesù che la Torah sia rivelazione di Dio (117), ma anche e soprattutto «la consapevolezza più che messianica» in quanto «Gesù sa di impersonare il Dio d’Israele nel suo amore misericordioso verso ognuno dei suoi figli. Nella sua prossimità incondizionata ai poveri, agli ultimi, alle donne e ai peccatori, nella sua potenza di guarigione dalle infermità e di liberazione da Satana, nella sua commensalità aperta, che non teme alcuna contaminazione e non fa alcuna discriminazione, Gesù si presenta implicitamente come il luogo escatologico della presenza salvifica di yhwh, l’atteso Messia sommo sacerdote, «Il santo di Dio» (Mc 1,24 e Gv 6,69)» (133).
Anche la riflessione sul duplice comandamento dell’amore mostra come la risposta di Gesù nasca da una partecipazione attiva e ponderata di Gesù al dibattito che agitava il giudaismo del I secolo riguardo ai principi fondanti della vita d’Israele. La sua risposta riprende il passo iniziale dello lo Shema‘ Yisra’el (cf. Dt 6,4-5)– sull’amore di Dio – e la prescrizione di Lv 19,18b sull’amore del prossimo. Questo duplice comandamento dell’amore, mostra dunque la centralità dello Shema‘ e il suo ruolo riassuntivo della Legge nella visione di Gesù.
Nel passaggio successivo, Fortuna mostra come lo Shema‘ fosse il motivo di fondo di tutta la sinfonia dell’insegnamento di Gesù, della prassi successiva dei suoi discepoli e anche di quella dei primi cristiani che hanno saputo «comporre testi ispirandosi a questo antico credo d’Israele, coniugandolo sapientemente con le tradizioni di e su Gesù» (352).
L’ultimo passaggio della riflessione di Fortuna è quello di mostrare come lo Shema‘ non fosse solo un insegnamento di Gesù, ma soprattutto e prima di tutto una sua attitudine fondamentale: Gesù era fondamentalmente un «figlio dell’ascolto». Egli che «ha succhiato lo Shema‘ Yisra’el insieme al latte di sua madre» ha fatto dell’«ascolto del Padre» la sua attitudine fondamentale, il suo pane quotidiano. Lo Shema‘ lo ha incamminato sulla via dell’accoglienza incondizionata della volontà del Padre e si è tradotta in un amore incondizionato e obbediente verso il Padre fino alla fine (cf. Gv 13,1) fino alla morte e la morte di croce (Fil 2,8).
L’opera di Daniele Fortuna è un geniale contributo alla Leben-Jesu-Forschung che permette a questa Ricerca di effettuare un passo ulteriore, mostrando e offrendo nello Shema‘ Yisra’el una luminosa chiave interpretativa che raccoglie i vari fili del materiale evangelico su Gesù volta a una comprensione maggiore della sua figura e a un’intuizione più acuta del fulcro portante della sua autocomprensione.

Publié dans:TEOLOGIA, teologia - biblica |on 19 janvier, 2013 |Pas de commentaires »
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