LE CORBUSIER «FAR DI PIETRE INERTI UN DRAMMA»
http://www.tracce.it/default.asp?id=471&id_n=31421&ricerca=spiritualit%C3%A0
GUARDARE LA CITTÀ
LE CORBUSIER «FAR DI PIETRE INERTI UN DRAMMA»
di Carlo Maria Acerbi e Lorenzo Margiotta
06/11/2012 – Oggi qualunque oggetto di uso quotidiano porta il segno della sua opera. Con la razionalità della tecnica e la spiritualità della natura, progetta mettendo al centro l’uomo. Per commuoverlo. Seconda puntata della serie sull’architettura
Gli edifici in cui abitiamo, le città in cui viviamo, le autostrade sulle quali viaggiamo o, più semplicemente, le poltrone o le sedie su cui sediamo; di tutto questo niente è rimasto invariato dopo essere stato ridisegnato da Le Corbusier. Icona del razionalismo, tanto quanto Picasso lo è del cubismo e Andy Warhol della pop art, Le Corbusier è architetto, scultore, pittore, geniale pensatore del suo tempo e padre della moderna urbanistica. A lui il Maxxi di Roma dedica la mostra « L’Italia di Le Corbusier » (dal 17 ottobre al 13 gennaio, a cura di Marida Talamona). Le Corbusier, che significa “il corvo”, è lo pseudonimo con cui Charles-Édouard Jeanneret (1887-1965) firma i suoi primi articoli che lo rendono famoso in tutto il mondo. Da allora non lo lascerà più. Nato nel 1886 a La Chaux du Fonds, nella Svizzera francese, passerà la maggior parte della sua vita a Parigi. Il padre lavora nell’industria dell’orologeria; la madre è pianista e insegnante di musica. Saranno questi due fattori – la razionalità della tecnica e la spiritualità della natura – ad accompagnarlo per tutta la vita. Éduard studia alla scuola di arti decorative ma la sua vera formazione saranno i viaggi; le immagini dei luoghi che gli resteranno impresse negli occhi costituiranno un archivio della memoria cui tornerà sempre. «Ho avuto la fortuna di non essere mai stato a scuola e di avere viaggiato, tra i venti e i ventidue anni, con il mio zaino, nei Balcani, in Grecia, in Turchia, in Asia Minore. Per sette mesi viaggiai con ogni mezzo, osservando ovunque l’architettura. Vidi i templi e per giorni interi non feci altro che osservare intorno a me fattorie, case, costruzioni, i più modesti edifici in pietra che mi hanno permesso di capire che le costruzioni spontanee nel loro evolversi attraverso i secoli recano con sé l’architettura». Con i cinquecento franchi guadagnati con il progetto della sua prima casa parte per l’Italia – a Firenze, Ravenna, Padova, Venezia, Trieste. «1907. Ho 19 anni. Prendo contatto per la prima volta con l’Italia. In piena Toscana, la Certosa di Ema, coronando una collina, lascia vedere le feritoie formate da ciascuna delle celle dei monaci a picco su un immenso muro della roccaforte. La feritoia si apre sugli orizzonti toscani. L’infinito del paesaggio, la compagnia di se stessi. Mi sento pervaso da una sensazione di armonia straordinaria. Mi rendo conto che si è colmata un’aspirazione umana autentica: il silenzio, la solitudine; ma anche il contatto quotidiano con i mortali; e ancora, l’accesso alle effusioni verso l’inafferrabile». Nel corso dei viaggi scrive lunghe lettere ai genitori e disegna su semplici taccuini, i leggendari Croquis de voyages. Sono i suoi laboratori d’idee, annotazioni e considerazioni sull’architettura appresa sul campo. «Comprai una piccola Kodak, ma poi mi resi conto che affidando le mie emozioni all’obiettivo dimenticavo di guardare. Così abbandonai la macchina fotografica e presi un taccuino e una matita e da allora ho sempre disegnato, dappertutto, anche nella metropolitana. Se trasferisco qualcosa alla mano la ricordo, mentre se premo un pulsante non avverto alcuna partecipazione». Visita le capitali dell’architettura contemporanea e lavora dai più grandi architetti del tempo. Da ognuno impara qualcosa. A Parigi è nell’atelier di August Perret, che gli insegna a credere nella forza della struttura e nelle straordinarie potenzialità del cemento armato; a Berlino da Peter Behrens, dove lavorano anche Gropius e Mies van der Rohe, altri due grandi maestri del ‘900.
L’UOMO AL CUORE DELL’ARCHITETTURA. LE MODULOR «Dobbiamo riscoprire l’uomo, dobbiamo riscoprire la linea retta che congiunge l’asse delle leggi fondamentali: biologia, natura, il cosmo. Una linea retta che si stende come l’orizzonte del mare». Nella sua indomita indagine artistica Le Corbusier cavalca ogni corrente d’avanguardia, inventando forme ed espressioni sempre nuove. La sua poetica incredibilmente varia lo porta a essere in diverse fasi regionalista, funzionalista, purista, brutalista, espressionista. La pratica architettonica va di pari passo con un’assidua attività teorica che segna di libro in libro le pietre miliari del suo pensiero. Ma il punto su cui s’incardinano le sue ricerche è l’uomo, considerato ultimo destinatario e protagonista di ogni architettura. Tra le immagini-simbolo che sono associate al suo nome, quella del Modulor è una delle più rappresentative: un uomo stilizzato, con il braccio alzato e la mano aperta, a cui ogni edificio, ogni manufatto, ogni oggetto d’uso quotidiano deve commisurarsi. «Il sistema metrico è astratto e noi abbiamo disumanizzato il nostro sistema di misurazione. Ho creato un sistema dimensionale che risponde a tutte le esigenze dell’uomo – seduto, in piedi, sdraiato ecc».
L’OSSO E LA CONCHIGLIA. L’INSEGNAMENTO DELLA NATURA «Ho un debole per le conchiglie fin da quando ero bambino. Non c’è niente di più bello di una conchiglia che si basa sulla legge dell’armonia e su un’idea molto semplice. Si sviluppa in una spirale o si irradia, all’interno o all’esterno. Questi oggetti si possono trovare ovunque. Il punto è vederli, osservarli. Essi riassumono le leggi della natura e offrono il migliore insegnamento». La seconda protagonista degli edifici di Le Corbusier è la natura, che informa tutti i suoi progetti, dalle case ai piani urbani. Con essa Le Corbusier instaura un rapporto fisico e profondo. Non si tratta di mimetismo, di riprodurre la natura attraverso l’architettura – esse rimangono sempre distinte – quanto di un’aspirazione continua che è animata da uno sguardo di meraviglia per il creato, che corrisponde alla sua dimensione più autenticamente religiosa. «Io preferisco un sasso sulla spiaggia creato da Dio, una farfalla o un vecchio osso se levigato dall’oceano a un oggetto che rappresenta colombe che si abbracciano. Sono un architetto. Lavoro con piani, alzati e sezioni. Ebbene, un osso ti offre tutto questo. Un osso è un oggetto mirabile fatto per resistere a qualsiasi colpo e sostenere sforzi dinamici. La sezione di un osso può insegnare molto e anch’io ho molto da imparare».
QUATTRO ARCHITETTURE Tra le decine di opere di Le Corbusier che si trovano nei manuali di storia dell’architettura, ce ne sono alcune che parlano più apertamente del loro autore. La prima è Ville Savoye, costruita nel 1929 a Poissy, nella periferia ovest di Parigi. È l’opera cardine del Le Corbusier modernista, la machine a habiter (macchina per abitare), che trascrive i cinque punti professati in Verso una architettura, il suo libro-manifesto del 1923: finestre “a nastro”, tetto giardino, facciata libera, pianta libera, pilotis (pilastri che sollevano la casa da terra). Per rifondare un’architettura agonizzante, che riproduce ordini e stili del passato, Le Corbusier progetta la casa dell’uomo europeo del Novecento. Forme semplici, volumi che si leggono chiaramente. È l’inizio di una lunghissima ricerca sull’abitazione, che ha il suo epilogo nel Cabanon di Roq-Cape-Martin, dove trascorrerà gli ultimi anni di vita. La seconda architettura è l’Unité d’Habitation di Marsiglia (1947-‘52), poi costruita anche a Nantes, a Firminy e in altre città francesi. L’Unité si presenta come un organismo unitario, un grande blocco edilizio dalla struttura standardizzata, e costituisce un elemento fondamentale della città ideale lecorbuseriana, la Ville Radieuse (città radiosa). Lo sviluppo urbano tipico della città ottocentesca, ottenuto dalla ripetizione infinita degli isolati, appartiene al passato. «Le città sono diventate disumane, ostili all’uomo, pericolose per la sua salute fisica e morale», dice Le Corbusier. Nella Ville Radieuse, invece, le persone vivono in edifici alti che si stagliano in grandi pianure verdi, collegati da una circolazione veloce e razionalizzata. «Un avvenimento di importanza rivoluzionaria: sole, spazio, verde, un luogo dove la famiglia viva nell’intimità, nel silenzio, conforme alla natura… Le case saranno alte 50 metri. Bimbi, giovani e adulti avranno a disposizione il parco intorno all’edificio. La città sarà immersa nel verde e sul tetto delle case troveremo gli asili per i piccoli. Quando sarete nel vostro appartamento, guarderete il mare o le montagne grazie a una finestra di quindici metri quadrati. Due vedute straordinarie di cui nessuno dei residenti di Marsiglia gode». Degli stessi anni è la Cappella di Notre Dame du Haut, a Ronchamp (1950-’55). Qui protagonista è la luce: quella che entra dalle strombature nel profondissimo muro sul lato principale, colorata dalle vetrate; quella tagliente che si infila nella fessura tra i muri e il grande tetto in cemento armato, e che lo fa apparire sospeso; quella potente, zenitale, che cade dall’alto nelle tre cappelle con gli altari secondari. Qui trova compimento quel rapporto con la natura da lui sempre cercato e finalmente, definitivamente trovato. La cappella domina la pianura. Le sue linee curve accolgono i quattro orizzonti, tutti diversi l’uno dall’altro: visitandola si percepisce una reale compartecipazione con il paesaggio. «Architettura è costruire rapporti emozionali con materiali grezzi. L’architettura è al di là dell’utile. La passione fa di pietre inerti un dramma». La cappella di Ronchamp non è l’unica architettura sacra di Le Corbusier. Due anni dopo, nel 1957, il domenicano Marie-Alain Couturier (direttore de L’Art Sacrè dal 1936 e protagonista del dibattito sul rinnovamento dell’arte e dell’architettura cristiane), lo chiama per il convento di Santa Maria de La Tourette (Eveux-sur-l’Arbresle, Lione, 1957). Un incarico a cui Le Corbusier tiene molto, «perché padre Couturier mi aveva spiegato il rituale domenicano, che è vecchio di ottocento anni e molto umano». Costruito su un pendio con materiali «i più radicalmente semplici», il convento racchiude un’altra grande invenzione di Le Corbusier: le celle dei monaci non guardano verso la corte interna, come la tipologia dei chiostri imporrebbe, ma all’esterno, verso la valle, riaffermando una volta di più il rapporto tra natura e religiosità. «Quando andai alla cerimonia di inaugurazione, celebrata con una messa solenne e magnifici canti gregoriani, rimasi davvero colpito. L’obiettivo era stato raggiunto e credo che tutti siano rimasti colpiti. Persino l’arcivescovo di Lione, che pronunciò un breve discorso, disse di essersi convertito a Le Corbusier, che fino a quel giorno aveva sempre considerato un demonio. Aveva capito che sono capace di creare un’arte che forse non è religiosa ma che è propria dei luoghi di preghiera e meditazione, i fenomeni e le manifestazioni del sacro nel cuore dell’uomo».