Ascension
painting of the Ascension above the sanctuary.
Saint Mary’s of the Barrens Church, in Perryville, Missouri.
http://www.romeofthewest.com/2008/01/photos-of-saint-marys-of-barrens-church.html
painting of the Ascension above the sanctuary.
Saint Mary’s of the Barrens Church, in Perryville, Missouri.
http://www.romeofthewest.com/2008/01/photos-of-saint-marys-of-barrens-church.html
dal sito:
http://www.caffarra.it/incontro140307.php
« Se uno è in Cristo, è una nuova creatura »
Catechesi al Movimento Apostolico
Catanzaro, 14 marzo 2007
(Card. Caffarra)
Vorrei iniziare questo nostro incontro ascoltando la voce di uno dei più radicali nichilisti del nostro tempo e nello stesso tempo testimone del bisogno che l’uomo oggi ha di incontrare Gesù, L. Pirandello.
Egli ha scritto una novella di struggente bellezza, struggente per il bisogno dell’incontro che questa pagina esprime: Ciaula scopre la luna. La vicenda è nota: Ciaula è più un animale che un uomo, costretto come è a lavorare sempre, spesso anche di notte, nella miniera. Ma una notte, distrutto dalla fatica, era appena sbucato dal buio della miniera: « Restò – appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico gli cadde dalle spalle… Grande, placida, come in un fresco, luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna… Estatico cadde a sedere sul suo carico… E Ciaula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva… per lei non aveva più paura, né si sentiva più stanco, nella notte ora piena del suo stupore » [Novelle per un anno, volume secondo - tomo I, Mondadori ed. Milano 1996, pag. 463-464].
Ed ora poniamoci all’ascolto di S. Paolo: « E Dio che disse: rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo » [2Cor 4,6].
L’ateo Pirandello si incontra coll’apostolo Paolo: l’uomo ha bisogno di luce, altrimenti è costretto a vivere come Ciaula lavorando penosamente dentro una tana. E poiché ne ha bisogno, ciascuno di noi desidera profondamente essere illuminato; desidera di poter vedere la realtà nella sua bellezza, nella sua bontà, nella sua verità.
1. Ciascuno di noi può trovarsi in tre diverse condizioni, che ora cercherò di descrivere.
- Vorrei descrivere la prima condizione con una parabola. Immaginate di viaggiare in treno e che a causa di un guasto si sia fermato. Ma ciò è accaduto in una lunga galleria, in un punto in cui non si vede più la luce dell’inizio e non si vede ancora la luce della fine. Un viaggiatore vi dice: « non vi preoccupate; intanto possiamo passare qualche ora assieme; possiamo parlare di ciò che ci interessa maggiormente; possiamo anche inventare qualche gioco che ci diverta: non ci accorgeremo neppure alla fine di essere fermi in una galleria » -.
Ora cercherò di spiegarvi questa breve parabola. Ad una riflessione attenta e pacata, ci rendiamo conto che i quesiti fondamentali della vita sono due: da dove vengo? verso dove vado? Se uno vi rispondesse: « tu, come ogni persona umana, vieni dal caso; esisti cioè per caso; sei un incidente fortuito, casuale dell’evoluzione della materia ». Se alla seconda domanda poi vi rispondesse: « tu, come ogni persona umana, non sei in possesso di una vita sensata, orientata cioè ad uno scopo ultimo: sei in cammino, ma senza un traguardo finale: un vagabondo, non un pellegrino ».
Se tu ti convincessi che questa è la verità, sulla tua vita, la parabola del treno esprimerebbe perfettamente la tua condizione esistenziale: buio alle spalle; buio davanti. Qualcuno ha vissuto tragicamente questa condizione; altri, hanno cercato di vivere comunque con gli altri nel modo migliore l’attimo di luce fra le due notti. Oggi purtroppo si sceglie spesso la soluzione peggiore: non pensare troppo; soprattutto non porre quelle due domande; e vivere come a ciascuno pare e piace, nella misura del possibile.
- La seconda condizione è narrata stupendamente nella novella di Pirandello. Invece che in un treno fermo sotto una galleria, Ciaula vive nel buio di una miniera perché lavora faticosamente. E la vita è in larga misura fatica e lavoro. Ma Ciaula, l’uomo, può « sbucare all’aperto » e rimanere « sbalordito »: è lo « sbalordimento » di fronte alla bellezza dell’essere. Voi provate questo quando per esempio vi siete resi conto per la prima volta che un/a ragazzo/a vi amava; quando vi siete trovati di fronte alla bellezza di spettacoli naturali. Quanto maggiore è la possibilità di conoscere, quanto più vaste e dettagliate sono le conoscenze dei processi della vita, tanto maggiore è – o almeno dovrebbe essere – lo stupore. Ciaula è ancora nel buio, nella notte, ma la sua notte è « ora piena del suo stupore ».
Anche voi potete essere in questa situazione; o forse conoscete amici vostri che vi si trovano. Può essere l’inizio di un cammino.
- La terza condizione è quella suggerita da S. Paolo. Anche l’Apostolo parla di tenebre. Ma la notte in cui si trova l’Apostolo è all’improvviso illuminata da una luce, potremmo dire, esterna e da una luce interna. La luce esterna è il volto di Cristo, il sole che illumina la notte; la luce interna rifulge nel cuore. Si dà come una sorta di riverbero: il sole che è il volto di Gesù illumina il cuore della persona.
Che cosa significhi questa « illuminazione » cercherò di spiegarlo con due « brevi narrazioni, una evangelica ed una contemporanea ».
La narrazione evangelica. Ricordate tutti l’incontro di Zaccheo con Gesù. Zaccheo desiderava vedere Gesù: curiosità? Stupore e meraviglia per ciò che sentiva dire? Egli comunque « desiderava ». E si sente fare una proposta incredibile: cenare insieme con Gesù; stare a tavola con Lui. È durante quella compagnia che Zaccheo esce dalla « galleria »: il suo cuore è illuminato. Vede la possibilità di una nuova esistenza: non più basata sul possesso ma sul dono. Ha visto Cristo; è stato con Lui: è stato rigenerato nella sua umanità. Le radici della sua persona e della sua esistenza sono state trapiantate in un nuovo terreno: è diventato « figlio di Abramo ». Le promesse di beatitudine fatte da Dio all’uomo sono ora sue: sono fatte anche a lui.
La narrazione contemporanea. Il 14 settembre 1946 una suora professoressa di lingua e letteratura inglese stava accompagnando in treno alcune ragazze al noviziato della sua Congregazione religiosa situato in una piccola città indiana. Ad un certo momento la suora vide non fisicamente ma spiritualmente una folla innumerevole di poveri e di disperati e sentì dentro di sé il grido di Gesù sulla Croce: « ho sete ». Ella vide in ciascuno di quei disperati Cristo sulla Croce che chiedeva di essere saziato sia materialmente sia spiritualmente: fame di pane e di amore: sete di acqua e di affetto. E « si arrese ». In quel momento « nacque » madre Teresa di Calcutta.
Il sole che è il volto sfigurato di Cristo nei poveri, illumina il cuore di quella donna, nel senso che le fa vedere la vocazione, il significato della sua vita: « vivo per dissetare Gesù nei poveri ».
Vi ho descritto le tre condizioni in cui una persona può trovarsi: dentro un treno sotto una galleria, avendo buio alle spalle e buio davanti a sé; sbucati dal buio di una miniera in una notte, ma piena di stupore e con il carico non più sulle spalle; illuminati dalla luce che splende nel volto di Cristo, la quale ci fa vedere da dove veniamo e verso dove andiamo.
Pascal dice tutto questo quando scrive che ci sono tre classi di uomini. Coloro che cercano ed hanno trovato; coloro che cercano e non hanno ancora trovato; coloro che né cercano né trovano.
2. A questo punto potete capire il significato esistenziale dell’affermazione paolina: « se uno è in Cristo è una nuova creatura ».
Chi è in Cristo? il viaggiatore del treno guasto in galleria, Ciaula, Zaccheo – madre Teresa? Sono sicuro che avete già risposto: in nessuna maniera il viaggiatore ["è in Cristo"]; Ciaula è in cammino per diventarlo; Zaccheo – madre Teresa « sono in Cristo ». Non mi ripeto. Ma richiamo subito la vostra attenzione su ciò che accade a chi « è in Cristo »: diventa una nuova creatura.
Vorrei fermarmi brevemente su questa rigenerazione, e così concludere la nostra catechesi.
Questa novità riguarda le radici stesse della nostra esistenza. E quali sono le radici della nostra vita? Che cosa cioè nutre il nostro quotidiano esistere: ciò che ci fa lavorare o studiare, che ci fa prendere moglie/marito, che ci fa desiderare e pensare? Come ha visto bene Agostino: è il desiderio di beatitudine, di pienezza di essere. Le nostre scelte sono sempre in vista di un bene particolare; ma alla fine ciascuna di esse si inscrive e si radica nel desiderio di un bene che sia tale da dare piena soddisfazione alla nostra fame e sete di beatitudine, al nostro sconfinato desiderio di verità, di bontà, di bellezza. Solo una cultura disumana e superficiale come la nostra poteva tentare di estenuare nell’uomo questo suo desiderio, insegnandogli che è possibile ben navigare anche se si naviga sempre a vista senza avere nessun porto a cui dirigersi; che è possibile ben camminare anche senza sapere dove andare.
L’incontro con Cristo pesca in questa profondità dell’essere: Cristo è « sentito » come la risposta vera e totale al proprio desiderio illimitato di beatitudine: « mio Signore e mio tutto » [pregava S. Francesco]. Zaccheo ha capito che non nel denaro, ottenuto con tutti i mezzi, era la risposta al suo desiderio, ma la risposta era Lui, lo « stare a tavola » con Lui. Madre Teresa ha capito che la vita vale nella misura in cui è donata.
Ho parlato di « radici » del nostro essere, della nostra persona. Di radici che pescano nella persona di Cristo, che si impiantano in Lui. Vorrei fermarmi ancora un momento su questo punto richiamando la vostra attenzione all’esperienza di S. Agostino.
Egli era cresciuto nella fede cristiana. Ci confida che fin da bambino era segnato dalla madre Monica con segno della croce: « di tutte queste cose ero certo ». Tuttavia aggiunge: « eppure ero totalmente incapace di godere di te » [Conf. VII, 20,26]. Uno può sapere tutto di una persona, ma non goderne: non godere della sua presenza, della sua compagnia. Si può vivere una dedizione alla « causa » cristiana, ma non essere attratti dalla bellezza di Cristo ed affascinati dal suo volto. La dedizione non è l’attrazione.
Ecco che cosa intendo dire quando dico che siamo rinnovati nella radice della nostra persona. Uso ancora un’espressione agostiniana: « amata est foeda ne remaneret foeda » [È stata amata quando era brutta, ma perché non rimanesse brutta] (En. in ps. 44,3). Siamo attratti da un Amore che ci trasforma; da una Bellezza che ci rende belli. Dice stupendamente Agostino: « evertit foeditatem, formavit pulchritudinem ».
Rinnovati alla radice del nostro vivere, lo siamo di conseguenza anche nei due dinamismi spirituali fondamentali della nostra persona: l’intelligenza e la libertà.
A livello di intelligenza, è soprattutto il testo paolino citato all’inizio ad illuminarci. Sarebbe necessario fare un lungo discorso per comprendere che cosa accade nell’intelligenza della persona che incontra Cristo, che « è in Cristo ». Mi limito ad una sola riflessione.
L’incontro con Cristo mette in moto la tua intelligenza perché tu vuoi sapere la verità e il valore di ciò che è e di ciò che fai alla luce di Cristo. Ti chiedi: che cosa è l’amore umano? Quale è il valore della sofferenza? E così via. Chi « è in Cristo » cerca colla sua ragione la risposta nella luce di Cristo, nella luce della Sapienza stessa di Dio. Ecco perché la ragione del credente è spinta ad esercitarsi al massimo, senza precludersi nulla. Nasce una nuova cultura.
A livello di libertà, è soprattutto la pagina evangelica che narra la storia di Zaccheo ad illuminarci. Anche su questo sarebbe necessario un lungo discorso, perché penetriamo nella chiave di volta di ogni umana esistenza: l’idea e l’esperienza che ciascuno ha della propria libertà. Mi limito ad una sola riflessione.
Zaccheo ha radicalmente cambiato il suo modo di essere libero: dal possesso al dono. Tutto qui! La sua libertà è stata liberata, perché è stata resa capace di amare. Ha acquistato la libertà del dono. Nasce l’amore e l’amicizia. E Paolo con Giovanni dirà che questo è tutto.
Ma c’è qualcosa d’altro nella vita di chi incontra Cristo: colui che incontra Cristo, non può tacere. Paolo percorre quasi tutto l’impero romano per annunciare Cristo; Madre Teresa diventa la pura testimone dell’amore. Non si può tacere!
Conclusione
Mi piace concludere con l’insegnamento di un bambino ed ancora di S. Agostino.
Durante una recente visita pastorale ho tenuto una catechesi ai bambini sul tema della fede, dell’incontro con Gesù. Ad un certo punto un bambino di seconda elementare mi disse: « ma come faccio ad incontrare un morto? ». Si alzò una bambina: « ma Gesù è morto, ma poi è risorto ed è presente in mezzo a noi ».
Ed ora S. Agostino: « Volevo essere considerato sapiente, ma pieno della mia tristezza non piangevo » [VII, 20,26]. Possiamo conoscere tutta la dottrina cristiana, ma questo non basta perché il cuore sia commosso da una presenza, dall’esperienza di una persona che ti ama.
La Chiesa esiste per rendere possibile l’incontro di ogni uomo con Cristo; per rendere possibile ad ogni uomo di essere in Lui. Esiste perché ogni uomo possa piangere di commozione di fronte a Cristo: « habet et laetitia lacrimas suas » [S. Ambrogio, De excessu fra tris sui Satyri I.10].
MARTEDÌ 1 MARZO 2011 – VIII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO
UFFICIO DELLE LETTURE
Seconda Lettura
Dalle «Confessioni» di sant’Agostino, vescovo
(Lib. 10, 1. 1 – 2, 2; 5. 7; CSEL 33, 226-227. 230-231)
A te, o Signore, chiunque io sia, sono manifesto
Conoscerò te, o mio conoscitore, ti conoscerò come anch’io sono conosciuto (cfr. 1 Cor 13, 12). Forza della mia anima, entra in essa e uniscila a te, per averla e possederla «senza macchia né ruga» (Ef 5, 27). Questa è la mia speranza, per questo oso parlare e in questa speranza gioisco, perché gioisco di cosa sacrosanta. Tutto il resto in questa vita tanto meno richiede di essere rimpianto, quanto più si rimpiange, e tanto più merita di essere rimpianto, quanto meno si rimpiange. «Ma tu vuoi la sincerità del cuore» (Sal 50, 8), poiché chi la realizza, viene alla luce (cfr. Gv 3, 21). Voglio quindi realizzarla nel mio cuore davanti a te nella mia confessione e nel mio scritto davanti a molti testimoni.
Davanti a te, o Signore, è scoperto l’abisso dell’umana coscienza: può esserti nascosto qualcosa in me, anche se m’impegnassi di non confessartelo? Se mi comportassi così, io nasconderei te a me, anziché me a te. Ma ora il mio gemito manifesta che io dispiaccio a me stesso, e che tu rifulgi e piaci e meriti di essere amato e desiderato, al punto che arrossisco di me e rifiuto me per scegliere te, e non bramo di piacere né a te né a me, se non in te.
Dunque, o Signore, tu mi conosci veramente come sono. Ho già espresso il motivo per cui mi manifesto a te. Non faccio questo con parole e voci della carne, ma con parole dell’anima e grida della mente, che il tuo orecchio ben conosce. Quando sono cattivo, l’atto di confessarmi a te non è altro che un dispiacere a me; quando invece sono buono, l’atto di confessarmi a te non è altro che un non attribuire a me questa bontà, poiché, «Signore, tu benedici il giusto» (Sal 5, 13), ma prima lo giustifichi quando è empio (cfr. Rm 4, 5). Perciò, o mio Dio, la mia confessione dinanzi a te avviene in forma tacita e non tacita: avviene nel silenzio, ma è forte il grido dell’affetto.
Tu solo, Signore, mi giudichi; infatti «chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui?» (1 Cor 2, 11). Tuttavia c’è qualcosa nell’uomo che non è conosciuto neppure dallo spirito che è in lui. Tu però, Signore, conosci tutto di lui, perché l’hai creato. Io invece, quantunque mi disprezzi davanti a te e mi ritenga terra e cenere, so di te qualcosa che non so di me.
«Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia» (1 Cor 13, 12), e perciò, fino a quando sono pellegrino lontano da te, sono più vicino a me stesso che a te, e tuttavia so che tu sei inviolabile in modo assoluto. Ma io non so a quali tentazioni possa resistere e a quali no. Io ho speranza, perché tu sei fedele e non permetti che siamo tentati oltre le nostre forze, ma con la tentazione tu ci darai anche la via d’uscita e la forza per sopportarla (cfr. 1 Cor 10, 13).
Confesserò, dunque, quello che so e quello che non so di me; perché anche quanto so di me, lo conosco per tua illuminazione; e quanto non so di me, lo ignorerò fino a quando la mia tenebra non diventerà come il meriggio alla luce del tuo volto (cfr. Is 58, 10).
LUNEDÌ 28 FEBBRAIO 2011 – VIII SETTIMANA DEL T.O.
Prima Lettura
Dal libro di Giobbe 2, 1-13
Giobbe, tutto ricoperto di piaghe, è visitato dagli amici
Quando un giorno i figli di Dio andarono a presentarsi al Signore, anche satana andò in mezzo a loro a presentarsi al Signore. Il Signore disse a satana: «Da dove vieni?». Satana rispose al Signore: «Da un giro sulla terra che ho percorsa». Il Signore disse a satana: «Hai posto attenzione al mio servo Giobbe? Nessuno è come lui sulla terra: uomo integro e retto, teme Dio ed è alieno dal male. Egli è ancor saldo nella sua integrità; tu mi hai spinto contro di lui, senza ragione, per rovinarlo». Satana rispose al Signore: «Pelle per pelle; tutto quanto ha, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in faccia!». Il Signore disse a satana: «Eccolo nelle tue mani! Soltanto risparmia la sua vita».
Satana si allontanò dal Signore e colpì Giobbe con una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo. Giobbe prese un coccio per grattarsi e stava seduto in mezzo alla cenere. Allora sua moglie disse: «Rimani ancor fermo nella tua integrità? Benedici Dio e muori!». Ma egli le rispose: «Come parlerebbe una stolta tu hai parlato! Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremo accettare il male?».
In tutto questo Giobbe non peccò con le sue labbra.
Nel frattempo tre amici di Giobbe erano venuti a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz il Temanita, Bildad il Suchita e Zofar il Naamatita, e si accordarono per andare a condolersi con lui e a consolarlo. Alzarono gli occhi da lontano ma non lo riconobbero e, dando in grida, si misero a piangere. Ognuno si stracciò le vesti e si cosparse il capo di polvere. Poi sedettero accanto a lui in terra, per sette giorni e sette notti, e nessuno gli rivolse una parola, perché vedevano che molto grande era il suo dolore.
Responsorio Sal 37, 2. 3. 4. 12
R. Signore, non castigarmi nel tuo sdegno. Le tue frecce mi hanno trafitto; * per il tuo sdegno non c’è in me nulla di sano.
V. Gli amici si scostano dalle mie piaghe, i miei vicini stanno a distanza;
R. per il tuo sdegno non c’è in me nulla di sano.
Seconda Lettura
Dal «Commento al Libro di Giobbe» di san Gregorio Magno, papa
(Lib. 3, 15-16; PL 75, 606-608)
Se da Dio accettiamo il bene,
perché non dovremo accettare anche il male?
Paolo, osservando in se stesso le ricchezze della sapienza interiore e vedendo che all’esterno egli era corpo corruttibile, disse: «Abbiamo questo tesoro in vasi di creta» (2 Cor 4, 7).
Ecco che nel beato Giobbe il vaso di creta sentì all’esterno i colpi e le rotture, ma questo tesoro internamente rimase intatto. Al di fuori si screpolò a causa delle ferite, ma il tesoro della sapienza all’interno rinasceva inesauribilmente, tanto da manifestarsi all’esterno in queste sante espressioni: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?» (Gb 2, 10).
Chiama beni i doni sia temporali che eterni; mali invece i flagelli presenti, dei quali il Signore dice per bocca del profeta: «Io sono il Signore e non c’è alcun altro; fuori di me non c’è dio. Io formo la luce e creo le tenebre, faccio il bene e provoco la sciagura» (Is 45, 5a. 7).
«Io formo la luce e creo le tenebre», perché, mentre con i flagelli si creano all’esterno le tenebre del dolore, si accende all’interno la luce delle grandi esperienze spirituali. «Faccio il bene e provoco la sciagura», perché alla pace con Dio veniamo riportati quando le cose create bene, ma non bene desiderate, si mutano, per noi, in flagelli e sofferenze. Noi entrammo in conflitto con Dio a causa della colpa. E’ giusto dunque che torniamo in pace con lui per mezzo dei flagelli. Quando infatti ogni cosa creata bene si volge per noi in sofferenza, siamo ricondotti sulla retta via, e l’anima nostra è rigenerata con l’umiltà alla pace del Creatore.
Ma nelle parole di Giobbe bisogna osservare attentamente con quanta abilità di ragionamento egli sappia concludere contro le affermazioni di sua moglie, dicendo: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».
E’ certamente un grande conforto nelle tribolazioni richiamare alla memoria i benefici del nostro Creatore, mentre si sopportano le avversità. Né ciò che viene dal dolore ci può scoraggiare, se subito richiamano alla mente il conforto che i doni ci recano. Per questo è stato scritto: Nel tempo della prosperità non dimenticare la sventura e nel tempo della sventura non dimenticare il benessere (cfr. Sir 11, 25).
Chiunque gode prosperità, ma nel tempo di essa non ha timore anche dei flagelli, a causa del benessere cade nell’arroganza. Chi invece, oppresso da flagelli, non cerca al tempo stesso di consolarsi con la memoria dei doni ricevuti, è annientato dai sentimenti di sconforto o anche di disperazione. Bisogna dunque unire assieme le due cose, in modo che l’una sia sempre sostenuta dall’altra: il ricordo del bene mitigherà la sofferenza del flagello; la diffidenza circa le gioie terrestri e il timore del flagello freneranno la gioia del dono.
L’uomo santo perciò, per alleviare il suo animo oppresso in mezzo alle ferite, nella sofferenza dei flagelli consideri la dolcezza dei doni, e dica: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?».
SABATO 26 FEBBRAIO 2011 – VII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO
UFFICIO DELLE LETTURE
Seconda Lettura
Dalla «Spiegazione dell’Ecclesiaste» di san Gregorio di Agrigento, vescovo
(Lib. 8, 6; PG 98, 1071-1074)
L’anima mia esulti nel Signore
Và, mangia con gioia il tuo pane, bevi con cuore lieto il tuo vino perché Dio ha già gradito le opere tue (Qo 9, 7).
Potremmo prendere queste parole come una sicura e sana norma di saggezza umana per la vita di tutti i giorni. Tuttavia la spiegazione anagogica ci porta ad una considerazione più alta, e ci insegna a considerare il pane celeste e mistico che è disceso dal cielo e ha portato la vita nel mondo. Così pure bere il vino spirituale con cuore sereno significa dissetarsi di quel vino che uscì dal costato della vera vite, al momento della sua passione salvifica. Di essi così parla il vangelo della nostra salvezza: Avendo preso del pane, dopo averlo benedetto, Gesù disse ai suoi discepoli: Prendete e mangiate: questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi in remissione dei peccati. Similmente prese anche il calice e disse: Bevetene tutti: questo è il mio sangue della nuova alleanza, sparso per voi e per molti in remissione dei peccati (cfr. Mt 26, 26-28). Coloro dunque che mangiano questo pane e bevono questo mistico vino gioiscono ed esultano e possono esclamare a gran voce: Hai portato la gioia nel nostro cuore (cfr. Sal 4, 7).
A mio giudizio, è proprio a questo pane e a questo vino che si riferisce la Sapienza di Dio sussistente, cioè Cristo nostro salvatore, quando ci invita alla comunione vitale con se stesso, Verbo divino. Lo fa con le parole del libro dei Proverbi: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Pro 9, 5). Coloro ai quali viene rivolto questo invito, devono compiere opere di luce, in modo da avere le loro anime splendenti non meno della luce stessa, come dice il Signore nel vangelo: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt 5, 16). Anzi in tal caso vedranno scendere sul loro capo anche l’olio, cioè lo Spirito di verità, che li proteggerà e li preserverà da ogni maleficio di peccato.
VENERDÌ 25 FEBBRAIO 2011 – VII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO
UFFICIO DELLE LETTURE
Seconda Lettura
Dalla «Spiegazione dell’Ecclesiaste» di san Gregorio di Agrigento, vescovo
(Lib. 8, 6; PG 98, 1071-1074)
L’anima mia esulti nel Signore
Và, mangia con gioia il tuo pane, bevi con cuore lieto il tuo vino perché Dio ha già gradito le opere tue (Qo 9, 7).
Potremmo prendere queste parole come una sicura e sana norma di saggezza umana per la vita di tutti i giorni. Tuttavia la spiegazione anagogica ci porta ad una considerazione più alta, e ci insegna a considerare il pane celeste e mistico che è disceso dal cielo e ha portato la vita nel mondo. Così pure bere il vino spirituale con cuore sereno significa dissetarsi di quel vino che uscì dal costato della vera vite, al momento della sua passione salvifica. Di essi così parla il vangelo della nostra salvezza: Avendo preso del pane, dopo averlo benedetto, Gesù disse ai suoi discepoli: Prendete e mangiate: questo è il mio corpo, offerto in sacrificio per voi in remissione dei peccati. Similmente prese anche il calice e disse: Bevetene tutti: questo è il mio sangue della nuova alleanza, sparso per voi e per molti in remissione dei peccati (cfr. Mt 26, 26-28). Coloro dunque che mangiano questo pane e bevono questo mistico vino gioiscono ed esultano e possono esclamare a gran voce: Hai portato la gioia nel nostro cuore (cfr. Sal 4, 7).
A mio giudizio, è proprio a questo pane e a questo vino che si riferisce la Sapienza di Dio sussistente, cioè Cristo nostro salvatore, quando ci invita alla comunione vitale con se stesso, Verbo divino. Lo fa con le parole del libro dei Proverbi: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato» (Pro 9, 5). Coloro ai quali viene rivolto questo invito, devono compiere opere di luce, in modo da avere le loro anime splendenti non meno della luce stessa, come dice il Signore nel vangelo: «Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli» (Mt 5, 16). Anzi in tal caso vedranno scendere sul loro capo anche l’olio, cioè lo Spirito di verità, che li proteggerà e li preserverà da ogni maleficio di peccato.
GIOVEDÌ 24 FEBBRAIO 2011 – VII SETTIMANA DEL TEMPO ORDINARIO
UFFICIO DELLE LETTURE
Seconda Lettura
Dalle «Istruzioni» di san Colombano, abate
(Istr. 1 sulla fede, 3-5; Opera, Dublino, 1957, pp. 62-66)
L’immensa profondità di Dio
Dio è dappertutto; egli è immenso e dovunque presente, secondo quanto egli ha detto di se stesso: Io sono un Dio vicino e non un Dio lontano (cfr. Ger 23, 23). Non cerchiamo dunque Dio come se stesse lontano da noi, perché lo possiamo avere dentro di noi. Egli dimora in noi come l’anima nel corpo, purché siamo suoi membri sani, siamo morti al peccato e immuni dalla corruzione di una volontà perversa. Allora abita veramente in noi, perché lo ha detto egli stesso: abiterò in essi e camminerò fra loro (cfr. Lv 26, 12).
Se noi siamo degni che egli abiti in noi, allora siamo vivificati da lui nella verità, come sue membra vive. «In lui, come dice l’Apostolo, viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17, 28).
Chi mai, dico, potrà investigare la sublime essenza di Dio, ineffabile e incomprensibile? Chi potrà scrutare i suoi altissimi misteri? Chi oserà dire qualcosa di colui che è il Principio eternamente esistente di tutte le cose create? Chi potrà vantarsi di conoscere Dio infinito, che tutto riempie di sé e tutti abbraccia, tutto penetra e tutto trascende, tutto comprende e a tutti sfugge? Nessuno mai lo ha visto così com’è (cfr. Gv 1, 18). Nessuno pertanto presuma di investigare i misteri incomprensibili di Dio: che cosa sia, come sia, dove sia. Questi sono misteri ineffabili, inscrutabili, impenetrabili. Devi credere questo solo, però con tutta la forza del tuo cuore: che Dio è così, come è sempre stato e come sempre sarà, perché è immutabile.
Chi dunque è Dio? Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo Dio. Non cercare altro di Dio, perché volendo conoscere la misteriosa profondità di Dio, è necessario innanzi tutto investigare la natura delle cose. La conoscenza della Trinità infatti viene giustamente paragonata alla profondità del mare, secondo il detto del Sapiente: E l’immensa profondità chi potrà trovarla? (cfr. Qo 7, 24). Come la profondità del mare è invisibile agli sguardi umani, così la divinità della Trinità si dimostra incomprensibile ai sensi dell’uomo. Se dunque qualcuno vuol conoscere quello che deve credere, deve rendersi conto che non potrà capire di più parlandone, che credendo. La conoscenza di Dio, infatti, quanto più viene discussa, tanto più sembra allontanarsi da noi.
Cerca perciò la conoscenza di Dio più alta, quella che non sta nelle dispute verbose, ma nella santità di una buona vita; non nel parlare, ma nella fede che sgorga dalla semplicità del cuore; non quella conoscenza che si ottiene mettendo insieme le opinioni di una dotta empietà.
Se cercherai colui che è ineffabile con le discussioni, egli «fuggirà da te più lontano» (Qo 7, 23) di quanto non fosse prima. Se invece lo cercherai con la fede, troverai la sapienza presso le porte della città, dov’è la tua dimora. Lì almeno in parte la potrai vedere; anche allora però potrai raggiungerla solo in parte, proprio perché è invisibile e incomprensibile. Dio è invisibile e tale dobbiamo crederlo, anche se è possibile averne qualche conoscenza da parte di chi ha il cuore puro.
Responsorio Sal 35, 6-7; cfr. Rm 11, 33
R. Signore, la tua grazia è nel cielo, la tua fedeltà sino alle nubi, * la tua giustizia è come i monti più alti, il tuo giudizio come il grande abisso.
V. O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto impenetrabili sono i suoi giudizi!
R. La tua giustizia è come i monti più alti, il tuo giudizio come il grande abisso.