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L’UTOPIA È MENO REALE DELLA SPERANZA (DA JOSEPH RATZINGER)

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L’UTOPIA È MENO REALE DELLA SPERANZA (DA JOSEPH RATZINGER)

Scritto da Redazione de Gliscritti: 21 /12 /2007 -

Da J.Ratzinger, Chi ci aiuta a vivere?, che riprende “Che cosa devo fare per acquistare la vita eterna?”. Omelia su Lc 10,25-37, in J.Ratzinger, Guardare a Cristo.

Presente ed eternità non stanno come presente e futuro uno accanto all’altro e uno separato dall’altro, bensì stanno uno nell’altro. Questa è la vera differenza tra utopia ed escatologia. Da tempo ci è stata proposta l’utopia, ossia l’attesa del mondo migliore futuro, al posto della escatologia, al posto della vita eterna. La vita eterna sarebbe irreale, non farebbe che alienarci rispetto al tempo. L’utopia, invece, sarebbe una meta reale a cui possiamo tendere con tutte le nostre forze.
Questa idea, però, è un inganno che ci porta alla distruzione delle nostre speranze. Infatti, questo mondo futuro, per il quale viene consumato il presente, non riguarda mai noi stessi; esiste sempre soltanto per una generazione futura a noi sconosciuta. Esso è come l’acqua e come i frutti che vengono messi davanti a Tantalo: l’acqua gli arriva sempre fino al collo e i frutti gli arrivano sempre vicino alla bocca. Ma quando egli, nella sua grande sete, vuole bere, l’acqua si ritira e diventa irraggiungibile e quando egli, nella sua fame, vuol gustare i frutti, accade la stessa cosa.
Questa antica immagine della condanna della superbia quale autentico peccato dell’uomo riguarda esattamente quella hybris che sostituisce l’escatologia con l’utopia costruita da noi stessi, che vuole cioè soddisfare la speranza dell’uomo con le sue stes¬se forze e senza la fede in Dio. L’utopia sembra sempre totalmente vicina, ma non si realizza mai, perché l’uomo resta sempre libero e perciò non può mai essere fissato in una situazione definitiva. Ogni generazione deve riprendere di nuovo la lotta contro il male, che non le può essere risparmiata dall’opera di una generazione precedente.
L’affermazione di una logica interna alla storia che alla fine produce necessariamente la società giusta (dunque crea uomini diversi) è un mito primitivo che cerca di sostituire il concetto di Dio con un potere anonimo, credere al quale non è affatto da intelligenti, ma semplicemente illogico.
La fede nell’utopia ha potuto sostituire, nel mondo moderno, così largamente la speranza nella vita eterna perché soddisfaceva le due condizioni di fondo della modernità: si trattava di ciò che noi stessi facciamo, per il quale non occorreva alcun Dio trascendente (ovviamente una divina logica storica immanente). Poiché si tratta di ciò che è fattibile, questo mondo futuro è anche pensabile: sempre così vicino come i frutti di Tantalo e, come quelli, anche sempre così lontano. Dovremmo liquidare finalmente come mito l’idea di costruire la futura società ideale e, al suo posto, lavorare con grande impegno perché aumentino le forze che resistono al male nel presente e che perciò possono fornire anche una prima garanzia per il prossimo futuro.
Questo, però, accade proprio quando la vita eterna riprende forza dentro il tempo. Infatti, ciò significa che la volontà di Dio si compie «come in cielo così in terra». La terra diventa cielo, regno di Dio, quando in essa si fa la volontà di Dio come in cielo. Per questo preghiamo, poiché sappiamo che non sta in nostro potere far scendere il cielo. Il regno di Dio, infatti, è il suo regno e non il nostro regno, non la nostra signoria; soltanto per questo è affidabile e definitivo. Ma ci è sempre totalmente vicino quando la volontà di Dio viene accettata.
Allora, infatti, sorge verità, sorge giustizia, sorge amore. Il regno di Dio è assai più vicino dei frutti di Tantalo dell’utopia, perché non è un futuro cronologico, un dopo cronologico, ma descrive il totalmente Altro rispetto a ogni tempo, che, proprio per questo, può immergersi nell’oggi di ogni tempo per assumerlo totalmente in sé e renderlo puro presente.
La vita eterna che inizia qui e ora nella comunione con Dio squarcia questo qui e ora e lo immerge nell’ampiezza di ciò che è autentico, che non viene più frazionato dal flusso del tempo. In essa neppure l’io e il tu possono più essere impenetrabili, cosa che è strettamente legata alla frammentazione del tempo. In realtà, chi mette la sua volontà nella volontà di Dio la pone là dove ha la sua dimora ogni buona volontà; la nostra volontà si fonde così anche con la volontà di tutti gli altri. Quando questo avviene, si avvera la parola di Paolo: non sono più io che vivo – Cristo vive in me. Il mistero di Cristo, che secondo una bella espressione di Origene è il regno di Dio fatto persona, è il centro decisivo per comprendere la vita eterna.
Prima di sviluppare ulteriormente questo pensiero vorrei aggiungere ancora un accenno conclusivo al realismo della speranza cristiana nel totalmente Altro, nel regno eterno di Dio. Quanto forte sia l’influsso della fede nella vita eterna sul presente, forse nessun autore lo esprime con tanta intensità quanto Agostino, il quale ha dovuto vivere di persona il crollo dell’impero romano e di tutti i suoi ordinamenti civili, dunque una storia piena di tribolazioni e di orrori.
Ma egli avvertì e vide che una nuova città stava crescendo, la città di Dio. Quando ne parla, si sente come egli si infiammi interiormente: «Quando la morte sarà vinta, allora queste cose non ci saranno più; e ci sarà pace – pace piena ed eterna. Saremo in una specie di città. Fratelli, anche se qui i dispiaceri aumentano, io non posso fare a meno di parlare di questa Città… ». La città futura lo sostiene perché, da un certo punto di vista, è già anche una città presente: ovunque il Signore ci raduna nel suo corpo e mette la nostra volontà nella volontà di Dio.
Vivere con Dio, la vita eterna nella vita temporale è perciò possibile, perché Dio vive con noi: Cristo è il Dio con noi. In lui Dio ha tempo per noi, egli è il tempo di Dio per noi e così, allo stesso tempo, è l’apertura del tempo all’eternità. Dio non è più il Dio lontano, indeterminato, che nessun ponte raggiunge ma è il Dio vicino: il corpo del Figlio è il ponte per le nostre anime.
Attraverso di lui il rapporto di ogni singolo con Dio è inserito nel suo rapporto unico con Dio, così che guardare a Dio non è più un togliere lo sguardo dall’altro e dal mondo, ma fusione del nostro sguardo e del nostro essere con l’unico sguardo e con l’unico essere del Figlio. Poiché egli è disceso nelle profondità della terra (Ef 4,9s.), Dio è ora non più semplicemente un Dio in alto, ma Dio ci abbraccia dall’alto, dal basso e dal di dentro. Egli è tutto in tutto: «Tutto ciò che è mio è tuo». Il «Dio tutto in tutto» inizia dall’autoespropriazione di Cristo in croce. Sarà completo quando il Figlio, alla fine, renderà il regno, ossia l’umanità riunita e in essa la creazione, al Padre (1 Cor 15,28).
Perciò ora non c’è più neppure la dimensione semplicemente privata dell’io isolato, ma «tutto ciò che è mio è tuo». Questa stupenda parola del padre al figlio perduto (Lc 15,31), con cui poi Gesù, nella preghiera sacerdotale, ha descritto il suo personale rapporto con il Padre (Gv 17,10), vale nel corpo di Cristo anche per tutti noi, nei nostri rapporti reciproci. Ogni sofferenza accettata, per quanto nascosta, ogni male sopportato in silenzio, ogni vittoria interiore, ogni apertura frutto di amore, ogni rinuncia e ogni tranquillo volgersi a Dio – tutto questo diventa ora efficace nel tutto: nulla di bene, altrimenti.
Al potere del male che, come un polipo con i suoi tentacoli, minaccia di afferrare l’intera compagine della nostra società e di soffocarla in un abbraccio mortale, si contrappone ora questa silenziosa circolazione della vera vita, quale potere liberante in cui il regno di Dio, senza chiasso, come dice il Signore, è già in mezzo a noi (Lc 17,2 1). In questo circolare della vera vita viene il regno di Dio, perché la volontà di Dio si compie sulla terra come in cielo.

LETTERA DI SAN PAOLO AI PRESBITERI

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LETTERA DI SAN PAOLO AI PRESBITERI

DALLA « LETTERA » DI S. PAOLO AI PRESBITERI

L’apostolo delle genti, contemplativo e attivo, è un modello per i presbiteri di oggi. Pastori « formato Paolo », innamorati di Cristo e felici della propria vocazione pur nelle difficoltà del trapasso culturale e pastorale della modernità, desiderosi di affascinare altri con l’esempio e la parola. Molte le indicazioni pratiche e le intuizioni pastorali che si possono ricavare dalla sua esperienza e dai suoi scritti.
«Io sono l’infimo degli apostoli. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è in me» (1Cor 15,9-10). Con questo autoritratto Paolo invita i sacerdoti a un’esistenza spirituale alta, sul suo esempio: «Fatevi miei imitatori!» (1Cor 4,16).
La teologia cristocentrica di Paolo caratterizza anche la sua concezione del presbitero. Questi ha una relazione fondamentale con Cristo, che egli impersona nelle azioni sacerdotali più tipiche; e da Cristo, alla cui sponsalità sacramentale partecipa, è posto in relazione intrinseca con la chiesa. La ragione del sacerdozio non può essere una funzione che si predetermina a partire dalla vita del popolo, ma è la percezione di poter vivere perché Cristo esiste e perché continui ad esistere. La perdita di coscienza della priorità assoluta di Cristo e della sua presenza privilegia il « ruolo » del sacerdote riducendolo a funzionario del settore religioso.
In quanto amato, il presbitero può amare gratuitamente: non è senza peccato ma un peccatore «afferrato» da Cristo. L’apostolo itinerante testimonia che la prima comunità cristiana si è irradiata « per contagio », non per programmi e aggiornamenti.

Paolo apostolo mistico
Nel bagliore sulla via di Damasco, Paolo ha colto non un cambiamento morale immediato, ma un’illuminazione interiore della realtà. Egli non ha parlato di « conversione » ma di « rivelazione e di grazia », accentuando che tutto gli è stato donato: l’obiettivo non è stato raggiunto per sforzo morale o per pratiche ascetiche. Paragonandosi ad un «aborto», Paolo non ha fatto una dichiarazione di umiltà, ma ha ribadito che il Risorto è entrato nella sua esistenza con violenza, sradicandolo dalla sua vita precedente come un feto strappato a forza dal grembo materno. Attirato da Cristo, egli ha avviato con lui un’intimità profonda, tanto da non sentirsi inferiore agli altri apostoli.
Paolo non ha basato la sua esistenza su un’idea o su un mito e neppure su un modello di condotta morale, ma su Colui che aveva « visto ». Il suo approccio al mistero di Cristo non è di tipo storico ma mistico: non narra miracoli, parabole o episodi della vita di Gesù. Questi non sta davanti a Paolo o al suo fianco, ma dentro di lui, è vita della sua vita: «Non io, ma Cristo in me» (Gal 2,20). La personalità di Paolo non viene annullata dalla presenza di Cristo: al centro del suo « io » sta la presenza reale e regale di Cristo, morto e risorto per lui. Lo Spirito di Gesù ha trasformato il suo cuore.
San Giovanni Crisostomo suggeriva: «Cor Pauli cor Christi». Nella Bibbia il « cuore »è sede di grandi decisioni e centro di ogni ricchezza personale. Per Paolo il presbitero è colui che ha lo stesso cuore di Cristo: un uomo sedotto dal Dio di Gesù Cristo, un alter Christus! Egli non scioglie il fatto cristiano in una serie di valori condivisibili dai più, per la tolleranza e l’apertura al mondo. La sollecitudine di incontrare i fratelli non si traduce in un’attenuazione della verità.
Sulla via di Damasco l’apostolo ha percepito che Cristo si identificava con i suoi discepoli: «Perché mi perseguiti?». Un’esperienza travolgente: egli ha visto Cristo e intravisto la chiesa, negando quindi « Cristo sì, chiesa no ». L’affezione a Cristo fonda la sua missione apostolica. Percezione mistica di Dio e chiamata all’apostolato sono unite in Paolo. Il presbitero può spaziare nell’ampiezza risanante e affascinante del kerigma, rifiutando corte vedute e orizzonti limitati che intrappolano mente e cuore e negano la « cattolicità » dell’eucaristia.
L’attività del presbitero nasce come conseguenza inevitabile del rapporto vivo, vivente e vitale col Cristo risorto. Benedetto XVI invita spesso i sacerdoti a non lasciarsi prendere dall’attivismo e dalla fretta, quasi che il tempo dedicato a Cristo in silenziosa preghiera sia tempo perduto. È proprio lì, invece, che nascono i più meravigliosi frutti del servizio pastorale. I fedeli si aspettano che il sacerdote sia esperto nella vita spirituale, specialista nel promuovere l’incontro con Dio, testimone dell’eterna sapienza contenuta nella parola rivelata, esercitato nella comunanza del pensare e del volere di Cristo, capace di paternità spirituale. Le attuali comunità sono ben più organizzate e complesse di quelle della chiesa originaria e abbisognano di essere movimentate dall’interno. Guai se il primato dell’amministrazione prevale sul primato dell’azione pastorale mediante la Parola e l’esempio, la vicinanza e il consiglio. La grandezza del prete non sta nell’esercitare questo o quell’incarico nella comunità ma nell’essere guida e maestro del gregge.

Prima di tutto evangelizzatore
Paolo ha descritto con vari termini e immagini il ministero apostolico: diacono e servitore, architetto dell’edificio di Dio, rematore nella barca della chiesa, amministratore di un bene che non è suo. L’apostolo non è il padre-padrone della propria comunità, ma un seminatore e un collaboratore nel campo del Signore. Chi fa crescere è Dio.
Due termini definiscono la natura del ministero sacerdotale: liturgo (la Cei traduce «ministro») e ambasciatore. Ai Romani Paolo scriveva di aver ricevuto da Dio la grazia di «essere liturgo/ministro di Cristo fra i pagani, esercitando l’ufficio sacro del vangelo di Dio perché i pagani divengano un’oblazione gradita, santificata dallo Spirito Santo» (15,16). Egli esercitava il suo sacerdozio annunciando il vangelo così da fare dei neoconvertiti un’offerta sacra al Signore. Per qualificarsi, Paolo non usava il titolo di hiereus-sacerdote, termine legato alla liturgia del tempio. Egli equiparava la vera liturgia all’evangelizzazione: da questa sintesi scaturiva il culto spirituale, capace di trasformare l’esistenza dei credenti in un sacrificio santo e gradito a Dio.
Paolo si è sentito ambasciatore della riconciliazione (in greco il verbo è presbeuo, da cui «presbitero»). Col vangelo e i sacramenti il presbitero porta a tutti l’amnistia universale di Dio in Cristo. Ciò che è costitutivo del ministero non può essere il prodotto delle proprie capacità personali. Si è mandati non ad annunciare se stessi o opinioni personali, ma il mistero di Cristo e, in lui, la misura del vero umanesimo. Si è incaricati non di dire molte parole, ma di farsi eco e portatori di una sola Parola. Cristo affida se stesso al presbitero così che possa parlare con il suo « io », in persona Christi capitis.
Benché incardinato in una chiesa particolare, in quanto partecipe della missione di Cristo, il presbitero riceve una destinazione universale e missionaria. Il suo servizio a una determinata porzione del popolo di Dio non può mai essere esaustivo ed esclusivo del suo ministero. Compito del ministero pastorale è far crescere la gioia di credere e di essere gregge di Cristo, di prestarsi ad andare nei territori e ambiti di vita della diocesi dove la chiesa soffre la povertà della testimonianza evangelica nel quotidiano (quartieri più poveri della città e zone più lontane e meno servite del territorio diocesano).

«Essere con e per»
L’addio di Paolo ai presbiteri di Mileto, suo testamento spirituale, descrive il suo modo di esercitare il ministero di evangelizzatore e ambasciatore: servizio al bene comune, distacco dai beni materiali e aiuto ai poveri (At 20,17-35). Il suo «farsi tutto a tutti» si esprime per i sacerdoti nella vicinanza quotidiana, nell’attenzione per ogni persona e famiglia, nella santa inquietudine di portare a tutti la salvezza. Lasciarsi santificare porta a capire la profondità dell’uomo e a servirlo. Non c’è vera conoscenza dell’altro senza amore fattivo, che impedisce ai presbiteri di ridursi a distributori di « cose » sacre o a cedere a depressione e rassegnazione.
Paolo ha esercitato il suo ministero nella condivisione e nella comunicazione con i fratelli. L’analogia con l’amore di un genitore esprime l’intenso rapporto di Paolo con i suoi: «Potreste infatti avere anche mille pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri, perché sono io che vi ho generati in Cristo Gesù, mediante il vangelo» (1Cor 4,14-15). E: «Siamo stati amorevoli in mezzo a voi come una madre nutre e ha cura delle proprie creature» (1Ts 2,7). Il presbitero è nella chiesa e per la chiesa, ma è anche di fronte ad essa in quanto rappresenta Cristo capo, pastore e sposo della chiesa. La sua identità lo porta ad essere amorevole garante dell’ortodossia e dell’ortoprassi, mai spettatore silente e tollerante di fronte a errori o a deviazioni.
Cristo ha bisogno di sacerdoti maturi, virili, capaci di coltivare un’autentica paternità spirituale, e tale obiettivo è raggiungibile tramite l’onestà con se stessi, l’apertura al direttore spirituale e la fiducia nella divina misericordia. La presidenza è ben più di un’assistenza spirituale o di una consulenza religiosa: pur fratello tra fratelli, si tratta di guidare i credenti nell’annuncio, nella fedeltà e nel servizio di Cristo Signore. Sempre per la verità e l’edificazione.
Per costruire comunità, Paolo non ha legato i credenti a sé ma ha fatto loro sentire il cuore di Cristo, rendendoli così liberi e aperti. La vera « vicinanza » avviene nel Signore. La cura pastorale richiede sacerdoti di qualità dal punto di vista sia intellettuale sia spirituale e morale, che rendano per tutta la loro vita una testimonianza di attaccamento senza riserve alla persona di Cristo e alla sua chiesa.
Ebreo della diaspora con studi a Gerusalemme, greco di Tarso, cittadino romano, Paolo è vissuto con gruppi di diversa estrazione sociale e culturale. Le sue comunità composte da ebrei, greci e romani, schiavi e liberi, uomini e donne come potevano non creare problemi? Paolo ha colto due grandi dimensioni della vita ecclesiale, l’unità nella molteplicità, la complementarietà nella reciprocità. Unica la sorgente («Un solo Signore, un solo Dio che opera tutto in tutti») e molteplice la sinergia dei membri, chiamati ad armonizzare nel bene comune i doni e le funzioni differenti. Un posto per ognuno e ognuno al suo posto nella fraternità presbiterale. Inoltre, non una casta sacerdotale, che monopolizza tutto e impedisce la crescita matura dei cristiani laici. Il presbitero non possiede la sintesi di tutti i carismi, ma ha ricevuto il ministero di facilitare la comunione fra i vari carismi.
A livello personale, nelle liturgie e nei rapporti sociali ha raccomandato di agire sempre per l’edificazione comune. Ogni presbitero può imparare qualcosa di importante dal modo di essere dell’apostolo delle genti: una vita appassionata e appassionante, in continua ricerca, conscia della propria miseria e del primato della grazia di Dio. Liberato da tanti impegni di supplenza, il sacerdote può dedicarsi a ciò che è essenziale e insostituibile del suo ministero, nella « pace » di Cristo.

Umiltà e fierezza
A Mileto Paolo sintetizzava così il suo ministero: «Ho servito il Signore con tutta umiltà, tra lacrime e prove». L’apostolo è anzitutto un servitore del Signore e questo gli genera una grande libertà. Egli risponde solo a Cristo e tramite lui può amare tutti. Dal riconoscimento della propria indegnità, primo dei peccatori e ultimo degli apostoli, fiorisce l’ammirazione di ciò che il Signore opera in lui e attraverso di lui. Per il bene della comunità, Paolo non si astiene da un sano orgoglio per avversare quanti cercano di inquinare la fede autentica e di avere un pretesto per apparire. Paolo non si vanta per mettersi in mostra, ma per la foga dell’amore, per l’ansia di aprire gli occhi a chi si lascia trascinare da falsi apostoli, così da riconquistarli a Cristo. La fonte del suo vanto è la stessa della sua umiltà: «Chi si gloria si glori nel Signore!» (2Cor 10,17). In Paolo, annotava il cardinale G. Biffi, non c’è l’eccessivo senso autocritico che affligge la cristianità odierna.
Il pianto rivela l’intensità emotiva che ha caratterizzato l’esperienza pastorale dell’apostolo che, lungi dall’essere un freddo burocrate si lasciava coinvolgere in ciò che faceva. Prove e insidie, battiture e lapidazioni, disavventure e pericoli: un elenco sconcertante. La fondazione e l’accompagnamento delle comunità sono state un travaglio generativo: «Figli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!» (1Ts 2,7). Tutto rientrava nell’assillo quotidiano della preoccupazione per tutte le chiese, forse la sua vera «spina nella carne».
Per il bene dei suoi figli, l’apostolo era pronto ad agire sia con il bastone che con amore e spirito di dolcezza; distingueva i suoi pareri e consigli dalla volontà del Signore; si poneva al servizio della gioia dei suoi fratelli di fede, godeva del loro sostegno nella preghiera; temeva di trovare i fratelli diversi da come desiderava e di apparire egli stesso diverso da come era atteso; non si lasciava condizionare da quanto si diceva di lui (autorevole nelle sue lettere e fragile come persona); di tutti conosceva i nomi, le situazioni di famiglia, di lavoro e di malattia. Niente di generico e di burocratico.

Debolezza e comunione
Paolo ha creduto che Cristo lo ha amato e ha dato la sua vita per lui. Il Crocifisso è diventato il punto d’appoggio su cui egli ha fondato la sua esistenza. Dopo l’insuccesso di Atene, l’apostolo è sceso a Corinto con «timore e tremore» per opporsi alla pretesa del mondo greco di salvarsi con il sapere e per annunciare Cristo crocifisso. Dio è entrato nella storia in una forma scandalosa (skandalon e morìa, cioè »stupidità »). Dio salva non con la forza orgogliosa della ragione, ma con la «follia della croce», cioè con il dono totale di sé. È questa la sapienza del credente: la grazia è anteposta alla giustizia, alle opere e alla ragione degli uomini. Il Signore sceglie di preferenza i piccoli e gli umili per far risaltare la sua potenza e per confondere i forti e i sapienti di questo mondo.
Paolo ha sperimentato anche nella sua carne il disegno di Colui che lo aveva chiamato a condividere il destino pasquale di Cristo. È divenuto missionario del vangelo senza altro mezzo e strategia che la forza dell’annuncio. Il senso di sproporzione tra la sua debolezza e il compito immane affidatogli lo ha sempre accompagnato. Alla richiesta di aiuto si è sentito dire:«Ti basta la mia grazia: la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2Cor 12,9).
Nell’apparente assenza di mezzi si evidenzia un’altra forza che opera con grande vigore: «Mi vanterò ben volentieri delle mie debolezze, perché in me dimori la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi, nelle necessità, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: quando sono debole, è allora che sono forte» (2Cor 12,9-10). È, questo, il più grande paradosso paolino, che riconosce, da un lato, la propria pochezza ma, dall’altro, la potenza della grazia divina. È un messaggio forte per i presbiteri di oggi, tentati di cedere all’efficientismo. Paolo insegna che al tempo dello slancio missionario e dell’assestamento subentra il tempo delle prime delusioni e delle stanchezze, delle deviazioni e delle fughe, delle dottrine erronee e delle divisioni. Si avverte il peso dei cattivi cristiani e ci si accorge che l’evangelizzazione non cammina tanto rapidamente come si era pensato. È il messaggio delle Lettere Pastorali, che sollecitano discernimento e vigilanza, cooperazione e speranza, pazienza e longanimità, preziose virtù del presbitero.
Paolo non ha agito da solo. All’inizio ha avuto bisogno di chiarire e di approfondire il messaggio di Cristo. Anania lo ha battezzato, Barnaba gli è stato vicino, Pietro gli ha garantito la validità e solidità del vangelo che intendeva predicare (Gal 2,2). In tutta la sua azione missionaria, l’apostolo si è preoccupato di formare un’équipe di evangelizzatori. Non un gruppo elitario chiuso, autoreferenziale o separato dal tessuto sociale; non una setta di « perfetti », ma una comunità alternativa che aveva la funzione di orientamento e di proposta nella società di allora. Tra questi collaboratori non si possono dimenticare Aquila e Priscilla, una coppia che ha accolto Paolo a Corinto e, su sua indicazione, si è trasferita prima ad Efeso e poi a Roma per preparargli il terreno dell’evangelizzazione. Paolo è stato da loro aiutato sia sul piano materiale (lavoro e alloggio) sia sul piano pastorale. Dal come affronta il tema del matrimonio in 1Cor 7 a come ne parla, in modo mirabile, nella lettera in Efesini 5,21-33, si comprende quanto Paolo abbia maturato a contatto con questi sposi un’alta teologia sponsale e familiare.
Dagli Atti e dalle Lettere emerge il nome di ben 72 collaboratori di Paolo, numero non casuale perché indicativo delle razze e dei popoli allora conosciuti. Con sorpresa di molti, si contano ben 14 donne come fedeli collaboratrici. Per Paolo il presbitero non è un eroe solitario: si fa aiutare, accetta la collaborazione di tanti e punta a formare dei formatori, per un effetto moltiplicatore. La pastorale integrata non nasce anzitutto dalla scarsità del clero, ma da uno stile comunionale generato dal mistero creduto, celebrato e condiviso.

Originale e creativo
Paolo è stato un seguace appassionato di Gesù. Il suo amore per Cristo non poteva rimanere nascosto o silenzioso. Egli ripeteva a se stesso: «Guai a me se non annunciassi il vangelo!». La successione dei viaggi missionari sta a dimostrare quella forza interiore da cui era afferrato: «Tutto posso in Colui che mi dà forza» (Fil 4,13). È intrinseco alla condizione di cristiani il desiderio che Gesù di Nazaret sia riconosciuto da tutti come il Figlio di Dio e l’unico Salvatore del mondo.
La sua passione nell’evangelizzazione si può definire originale, creativa e aderente alla situazione socio-culturale dei suoi destinatari. Ciò che per pura grazia aveva compreso nella folgorazione di Damasco, egli ha saputo tradurlo in un linguaggio diversificato che, cammin facendo, ha assunto la forma dell’esposizione dottrinale, della catechesi, dell’esortazione, della diatriba e altre forme ancora.
La capacità di evangelizzare di Paolo si è manifestata nell’aderenza alla situazione culturale dei suoi destinatari. Nessuno più di Paolo ha saputo « inculturare la fede » ed « evangelizzare la cultura ». Ad esempio: a Listra, scambiato per il dio Hermes, ha parlato del Dio unico che ha fatto il cielo e la terra (At 14,13-17); all’areopago di Atene ha valorizzato l’ara dedicata al dio ignoto, citando a memoria i poeti greci (At 17,22-31). Ai cristiani di Efeso, città dei « misteri » pagani e delle luminarie, ha esposto il mistero della salvezza (Ef 1,3-14) e raccomandato di essere «figli della luce» (Ef 5,8). In ambiente giudaico ha ripercorso la storia del popolo ebreo (At 13,16-41), mentre in Grecia, sede delle Olimpiadi, ha usato molte immagini tratte dal mondo sportivo. Modi diversi e complementari per andare incontro alle esigenze degli uditori, così da portare tutti alla maturità della fede nel Crocifisso-Risorto.
Paradossalmente, l’apostolo delle genti non si è sentito di respingere neppure un’evangelizzazione compiuta in malafede e senza retta intenzione da chi era a lui ostile: «Purché in ogni maniera, per ipocrisia o per sincerità, Cristo venga annunciato, io me ne rallegro e continuerò a rallegrarmene (Fil 1,18). «Purché Cristo venga annunciato»: questo è il principio in base al quale ogni iniziativa deve essere valutata.
La grazia trasforma la natura umana, che lascia però il segno. Certe intemperanze ed eccessi del carattere di Paolo risultano evidenti nelle sue lettere. È l’uomo del paradosso nell’esprimere la gioia (2Cor 7,4) e le pene (2Cor 1,8). Pur non amando la contestazione come metodo, era capace di grande franchezza e di foga polemica (Gal 55,2 e Fil 3,2). È stato un uomo consacrato a Dio, con lo sguardo fisso sulla meta, Cristo (1Cor 9,26; Fil 2,12-13), ispirato dai consigli evangelici. La povertà come garanzia di un annuncio gratuito e solidale del vangelo; la castità come donazione indivisa del cuore al Signore, nella libertà e nella dedizione ai fratelli; l’obbedienza come offerta gradita al Signore. L’apostolo delle genti, contemplativo e attivo, è un modello per i presbiteri di oggi. Pastori « formato Paolo », innamorati di Cristo e felici della propria vocazione pur nelle difficoltà del trapasso culturale e pastorale della modernità, desiderosi di affascinare altri con l’esempio e la parola. Non sarebbe difficile trarre dalle Lettere Pastorali il « decalogo » del presbitero secondo il cuore di Paolo. Lo lasciamo ai lettori.

Guglielmoni L. – Negri F.
(Da settimana del clero n. 16 2009)

DELLA SPIRITUALITÀ, OSSIA IL MISTERO DI CRISTO E LA VITA DEL CRISTIANO – PARTE PRIMA

http://www.sanfrancescodipaola-palermo.it/format/spiri.pdf

(Paolo è presente in molte parti del testo; è un PDF l’ho dovuto trasformare in Txt e stringere, se c’è qualche errore scusate)

DELLA SPIRITUALITÀ, OSSIA IL MISTERO DI CRISTO E LA VITA DEL CRISTIANO – PARTE PRIMA

DON MASSIMO NARO

 «Un giorno rabbì Nahum entrò all’improvviso nella scuola del Talmud e trovò gli studenti che giocavano a dama. Quando questi videro entrare il maestro, si confusero e smisero di giocare; ma il maestro scosse benevolmente la testa e chiese: « Conoscete le regole del gioco della dama? ». E siccome gli allievi non aprivano bocca per la vergogna, Nahum si rispose da sé: « Vi dirò io le regole del gioco della dama. Primo, non è permesso fare due passi alla volta. Secondo, è permesso andare solo in avanti ma non tornare indietro. Terzo, quando si è arrivati in alto, beh, allora si può andare dove si vuole »».  Questa breve e simpatica lezione «rabbinica» è tratta dall’opera del filosofo ebreo Martin Buber, intitolata I racconti dei Chassidim (Milano 1979). Rabbì Nahum, senza umiliare i suoi giovani allievi, più inclini a giocare a dama che a studiare il Talmud, coglie l’occasione per dar loro un importante insegnamento sulla vita del credente, servendosi — secondo lo stile che fu già di Gesù — del gioco della dama a mo’ di parabola. La lezione è trasparente e immediata: il gioco della vita si evolve secondo regole ben precise, procedendo gradualmente verso il suo pieno sviluppo; ma, allorché si raggiunge la maturità interiore, si conquista allora la libertà dello spirito.  La parabola di Nahum può servire per introdurci nella riflessione di oggi, che ho preferito intitolare Il mistero di Cristo e la vita del cristiano, in quanto — per noi credenti in Cristo Gesù — la piena realizzazione della nostra vita avviene quando raggiungiamo «la statura» (per usare una parola di san Paolo) del nostro Maestro e Redentore, grazie al dono del suo stesso Spirito che opera in noi.  Lo schema, che dovreste avere in mano, prevede tre punti, su cui ci fermeremo un po’ a riflettere:  a) «nella foresta dei vocaboli»: cercheremo di chiarire il significato di alcune parole che spesso sentiamo pronunciare e usiamo noi stessi, in riferimento alla vita cristiana;
 b) «la spiritualità cristiana»: identificando la vita cristiana con la vita
spirituale, tenteremo di comprendere in cosa questa consiste;
 c) «una mistica dell’azione e per l’azione»: tenuto conto che la vita cristiana è
vivere nel mistero di Cristo, vedremo in che senso essa può e deve coincidere con la nostra
esperienza quotidiana, sino ad assimilarla tutta quanta in sé.
 NELLA FORESTA DEI VOCABOLI
 Innanzitutto tentiamo di districarci nella «foresta dei vocaboli», ossia di capire, almeno per sommi capi, di cosa parliamo quando usiamo certe parole come vita cristiana, mistero di Cristo, attività apostolica, contemplazione, ascetica e mistica.  La nozione di vita cristianadovrebbe essere scontata per tutti noi, che ormai da un certo tempo, più o meno lungo, abbiamo intrapreso un rapporto di amicizia con Cristo Gesù. Già questa semplicissima affer-mazione: «intraprendere un rapporto d’amicizia con Gesù», dovrebbe bastarci per comprendere nella sua essenza più intima la vita cristiana. Tuttavia può tornare utile ricordare che nella Bibbia, come pure negli scritti dei Padri della Chiesa, la parola «vita», accompagnata e qualificata dall’aggettivo «cristiana», ha un significato particolare e per niente ovvio. Nella traduzione greca dell’A.T., e poi anche nel N.T. e negli scritti cristiani dei primi secoli — anch’essi redatti prevalentemente in greco –, si incontrano due termini diversi per dire «vita»: bìos e zoé.  Il termine bìos sta ad indicare la vita biologica, quella che il Creatore pone in essere allorché crea dal nulla il cosmo, e in esso la terra, e in essa tutti gli esseri viventi, che 2popolano il cielo, il mare, la terraferma; è il principio biologico di cui anche Adamo usufruisce da Dio quando questi gli alita nelle narici il suo soffio vitale. In quanto tale bìos è una prerogativa creaturale: appartiene a tutti gli esseri viventi creati da Dio; essa è destinata a terminare il suo ciclo vitale, ad estinguersi, a cedere il posto alla morte, a ritornare presso il Creatore, da cui era scaturita in forma di alito vivificatore.  Il termine zoé, invece, sta ad indicare, nel linguaggio biblico, la completezza della vita. Completezza intesa in senso antropologico, poiché zoé è la vita dell’essere esistente razionale, dell’uomo, che ha un cuore e una mente che lo innalzano su un gradino superiore rispetto a tutte le altre creature terrestri. Completezza, inoltre, intesa anche e soprattutto in senso teologico, in quanto zoé è la vita che rimanda inequivocabilmente al suo divino datore, a Colui che la dona gratuitamente all’uomo, offrendogliela in segno della sua predilezione fra tutte le altre creature, e che la preserva da mille pericoli facendosene il garante fedele e provvidente. In questa prospettiva, zoé è un concetto più vasto e più ricco di significato rispetto a bìos; zoé risulta essere una vita più intensa e più piena, che include anche la dimensione della vita biologica, ma che, al contempo, la trascende. Zoé, insomma, è l’esistenza stessa dell’uomo che si identifica col suo fondamento: il rapporto di comunione, di intima vicinanza, di amicizia, di alleanza indefettibile con Dio Creatore e Liberatore. Nel N.T. — specialmente nelle lettere paoline e, ancor più, negli scritti giovannei –, zoé comincia a indicare la partecipazione dell’uomo, reso solidale al Cristo crocifisso-risorto, alla Vitadel Dio uni-trino che Gesù è venuto a rivelare. Secondo san Paolo, l’uomo, liberato dal peccato, riassurge alla sua originaria dignità di creatura prediletta di Dio, arricchito però della dignità che gli deriva ora dalla figliolanza adottiva ottenutaci dal e nel Figlio. Secondo san Giovanni, l’uomo, visitato dal Verbo di Dio, diventa discepolo e testimone del Cristo. In tal senso, se bìos rimane una prerogativa creaturale e in quanto tale appartiene all’uomo creato, zoé diventa invece una prerogativa salvifica e in quanto tale compete esclusivamente all’uomo redento, all’uomo ri-creato, che accetta di rinascere nella vita nuova del Crocifisso-Risorto e di farsi suo discepolo, assurgendo così alla nuova condizione di figlio del Padre nell’Unigenito Figlio. Zoé diventa il principio vitale del cristiano, che avverte in sé e proclama davanti a tutti gli altri uomini la vocazione a vivere con Dio e di Dio, partecipe della vita divina in solidarietà col Figlio incarnato e redentore. La vita cristiana, dunque, risulta essere una conseguenza e una continuazione del mistero di Cristo, della sua morte e resurrezione intese a rivelare l’Amore del Padre e a salvare gli uomini, e di tutto ciò che tale mistero comporta per gli uomini. La vita cristiana è vita del cristiano, che gli appartiene del tutto e per sempre, ma che tuttavia egli ha ricevuto come un dono gratuito, una sorta di «talento» (per usare l’immagine evangelica), che deve essere trafficato secondo delle «regole» (per tornare alla lezione di rabbì Nahum) ben precise: la sequela e l’imitazione di Cristo Gesù, realizzate con quella dedizione totalitaria che Gesù stesso richiede ai suoi discepoli nel vangelo: «Chi mette mano all’aratro ma poi si volge indietro, non è degno di me». E l’inserimento nel mistero di Cristo, cioè nella sua pasqua di morte e resurrezione, — inserimento che inizia col battesimo e si fa sempre più profondo man mano che si cresce nella fede, nella speranza e nella carità –, costituisce come il «cordone ombelicale», per mezzo del quale il cristiano riceve il dono della vita divina. Ripeto: «vita divina», perché, in realtà, la vita del cristiano, in quanto zoé, si caratterizza anche teologicamente, e non solo antropologicamente: è vita che proviene dal Dio uni-trino, vita che scaturisce dal seno del Padre, e tramite il Cristo e per la potenza dello Spirito Santo, si attenda in mezzo all’umanità, nel cuore dell’uomo redento, mentre — allo stesso tempo — innesta l’umanità nel cuore di Dio.  La vita del cristiano, cioè la vita di colui che entra per Grazia di Dio nel mistero di Cristo, diventando discepolo e amico di Gesù, si caratterizza comunemente come «apostolato». Coloro che Gesù di Nazareth chiamò a sé, divennero gli apostoli del suo vangelo. Ciò avviene, in un certo qual modo, anche oggi: tutti noi siamo, in un certo senso, «apostoli», perché testimoniamo il vangelo di Cristo nella comunità ecclesiale e nel mondo. Il termine «apostolato», in questo senso, indica il modo più comune di vivere la sequela di Cristo. Esso fa pensare all’attività dell’evangelizzatore: di colui che predica il vangelo, ma anche di chi opera la carità tra i fratelli. E’ apostolato quello che svolgono gli operatori pastorali (per esempio: i catechisti). Ma è apostolato anche quello che ciascun cristiano, nella sua vita d’ogni giorno, svolge nel proprio ambiente di lavoro, nella famiglia, nella società, nella misura in cui si mantiene coerente allo stile di vita che col battesimo ha intrapreso. Si tratta, comunque, di una vita di tipo «attivo», in cui il cristiano si apre sì, passivamente, alla Grazia, lasciandosi da essa condurre e rinfrancare, ma collabora, nel contempo, con essa prestando il proprio impegno in una serie di «attività» apostoliche.  Per quanto riguarda la contemplazione, se stiamo al significato etimologico della parola, essa altro non è che fissare lo sguardo su una realtà che attira fortemente l’attenzione e il desiderio di chi guarda. Si contempla la bellezza dei paesaggi naturali, del mare, dei monti, del cielo d’estate. Nell’ambito della vita cristiana, l’oggetto della contemplazione è Dio uni-trino: il mistero del Padre che crea e salva gli uomini, del Cristo che ce lo rivela, dello Spirito che ce lo fa conoscere e comprendere. E’, insomma, il mistero trinitario, che si realizza in mezzo a noi nel mistero pasquale di Cristo Gesù e che illumina, includendolo in sé, il nostro stesso mistero, il mistero dell’uomo redento. Contemplare, in questo orizzonte, significa affondare gli occhi della fede, della speranza e dell’amore in questo mistero. Contemplare significa sapere, a prescindere dalle nostre umane conoscenze e dalle nostre umane capacità di conoscere, che un tale mistero esiste e si realizza per noi. Contemplare è un sapere tale mistero; sapere nel senso originario di «sàpere», ossia di «gustare», «assaporare» il mistero, più che di scandagliarlo o di anatomizzarlo. E’ chiaro, comunque, che la contemplazione più autentica e più «pura» non è, di fatto, appannaggio di tutti i cristiani, anche se tutti i cristiani possono approdarvi: non tutti i cristiani sono dei contemplativi nel senso proprio del termine, benché la storia del cristianesimo ne conosca moltissimi; ma tutti i cristiani possono giungere a contemplare il mistero di Dio. Questo perché, in verità, colui che giunge alla contemplazione non vi riesce per suo merito personale, ma perché gli viene concesso in dono da Dio stesso. In questo senso, coglieva nel segno san Francesco d’Assisi, che fu vero contemplativo, quando augurava a tutti coloro che incontrava sulla sua strada: «Il Signore faccia splendere su di te il suo viso, ti mostri la sua faccia, volga a te il suo sguardo e ti dia pace!». Un’altra parola che spesso si sente pronunciare, o che noi stessi pronunciamo, parlando della vita cristiana, è il termine «ascetica». L’ascetica, lo dice la parola stessa, indica la «salita» che l’uomo religioso compie per trascendere, in un certo qual modo, la propria situazione «terrena», anelando ad attingere Dio stesso, dopo essersi perfezionato dalle proprie mancanze e difetti umani. Insomma, mentre il contemplativo attinge Dio perché questi si china su di lui, lasciandosi quasi vedere dagli occhi della fede, l’asceta dal canto suo tenta di attingere Dio, innalzandosi da sé e percorrendo gli irti sentieri che portano, dalla condizione umana alla presenza dell’Altissimo. Per riuscire in tale scopo, l’asceta disciplina la propria vita, sottoponendosi volontariamente a una serie di «esercizi». Si tratta, ovviamente, principalmente di esercizi di tipo spirituale, ma, tante volte, anche di esercizi corporali, ossia di pratiche di autoperfezionamento che implicano la partecipazione di tutto l’essere dell’asceta, anche del suo corpo. E’ chiaro, del resto, che in questo orizzonte l’asceta può anche non essere cristiano: basti pensare ai mitici «fachiri» indiani e ai santoni indù. Esiste, però, certamente un’autentica ascesi cristiana: l’asceta cristiano sa bene che il proprio perfezionamento è solo un riflesso della divina perfezione; l’asceta cristiano, soprattutto, sa che l’«esercizio» che deve compiere è quello di portare, insieme a Cristo, la sua stessa croce. L’ascesi cristiana esige che si accolga la croce di Cristo, come dei novelli «cirenei». Si capisce, però, in questo caso, che l’ascesi cristiana non è uno sforzo semplicemente e solamente umano, che l’uomo compie per conto suo tendendo alla perfezione in quanto tale o comunque a una non meglio definita perfezione divina. Sappiamo bene, infatti, che nel caso cristiano è in realtà la croce di Cristo che porta e sostiene l’asceta, che gli dà la forza e il desiderio necessari per continuare con perseveranza nel cammino della perfezione. Non si tratta, cioè, di un conato soltanto umano; si tratta, ancora una volta, di un dono che viene dall’alto e che mette l’asceta cristiano nelle condizioni di conformarsi in maniera particolarissima al Cristo crocifisso e di partecipare alle sue sofferenze. Tuttavia, a questo dono dall’alto — che è, poi, pur sempre la Grazia — l’asceta cristiano si sforza eroicamente di collaborare.  Più difficile risulta definire, e persino descrivere, che cosa è la mistica; anche gli studiosi specialisti in questo campo non sono del tutto d’accordo sul significato da attribuire al termine «mistica». Secondo don Divo Barsotti la mistica consiste nel fatto che «Dio Padre genera il Figlio suo nel cuore dell’uomo, così che l’uomo partecipi in qualche modo a una divina « maternità ». Dio si comunica all’uomo prolungando, in qualche modo, all’uomo la generazione del Verbo». La mistica, allora, sarebbe, in tal senso, la generazione del Verbo in noi da parte di Dio Padre, per la potenza dello Spirito Santo. Altri autori preferiscono sottolineare l’aspetto «sponsale» della mistica: l’anima del credente celebra le «nozze» col suo amato Sposo Cristo Gesù. A noi può bastare, innanzitutto, distinguere ancora tra una mistica genericamente religiosa o misteriosofica e la mistica propriamente cristiana: la mistica misteriosofica è stata e continua ad essere, presso le religioni non cristiane, il proiettarsi da parte di alcuni eletti dentro il mistero, o i misteri, che circondano l’uomo,ma che rimangono inaccessibili ai più. La mistica cristiana, invece, rimanda sì al mistero, ma al mistero cristiano così come lo si intende sin dai tempi neotestamentari, secondo la lezione di san Paolo, cioè il mistero di Dio, per secoli rimasto nascosto nel seno del Padre, ma che poi si è manifestato agli uomini in Cristo Gesù e che tra gli uomini continua a realizzarsi per la potenza dello Spirito Santo. In questo orizzonte, il mistero non è più considerato come l’«arcano» invisibile,inconoscibile e inaccessibile, bensì come la realtà di Dio-Amore, che si è fatta manifesta e si è messa alla portata di tutti in Cristo Gesù, di «tutti», nessuno escluso. In tal senso, la mistica diventa alla portata del cristiano, di ciascun cristiano, già al momento del battesimo, che nel nome della Trinità inserisce l’uomo nel mistero di Dio, facendolo «mistericamente» (non semplicemente «misteriosamente»!) morire insieme a Cristo e risorgere insieme con Lui. E tale inserimento nel mistero continua e si approfondisce man mano che il credente progredisce nella vita cristiana in seno alla Chiesa, ricevendo in mezzo ai fratelli l’unzione del crisma e realizzando con i fratelli il vincolo della comunione eucaristica. In questa prospettiva, già i sacramenti — e in modo eminente il sacramento dell’iniziazione cristiana — sono «eventi» mistici per tutti e per ciascun cristiano. Che esistano, poi, anche dei «fenomeni» mistici, come l’estasi e le stimmate, non contraddice alla veritàche la mistica cristiana non è un fatto elitario, per pochi eletti, ma un fatto che interessa da vicino tutti i cristiani. Spesso i fenomeni mistici si pongono al culmine di un rapporto d’amicizia particolarmente intenso con Gesù, a coronamento di un determinato cammino di santità; ma altre volte può avvenire che un fenomeno mistico sia il primo passo nell’itinerario della santità cristiana, basti pensare all’esperienza di san Paolo sulla via di Damasco. Sperimentare — ancora una volta per Grazia di Dio — i fenomeni mistici, come è avvenuto a san Francesco d’Assisi e a santa Caterina da Siena (tanto per citare due santi italiani), significa partecipare al mistero di Cristo in modo particolare, ma non per forza in modo più eccelso. Prova di ciò che sto affermando è il fatto che la santità cristiana, che in un certo senso è proprio la mistica, non è realizzata solo dai grandi mistici.  La chiamata alla santità, insegna il Vat. II nel n. 40 della Lumen Gentium, è rivolta dal Padre, in Cristo, a tutti i cristiani, nessuno escluso. La santità è l’orizzonte che attende tutti i cristiani. L’attività apostolica, la contemplazione, l’ascesi e la mistica, sono modalità diverse, spesso tra di esse complementari, dell’unica santità cristiana in cui deve maturare e culminare la vita di ciascun cristiano.  Se così stanno le cose, forse è proprio il caso di sfatare la preminenza di una semplice modalità della santità sulle altre, e di riconoscere, invece, il primato a Dio che realizza in ciascuno la santità e a ciascuno dà una particolare vocazione di santità. Solo nella consapevolezza che la santità non è una conquista umana, bensì un dono e una chiamata — una chiamata rivolta atutti! — ogni cristiano può giungere a fare della propria vita il teatro in cui si realizza l’esperienza di Dio. Si badi bene: diciamo «esperienza di Dio», nel senso che è Dio che agisce principalmente nell’esistenza dell’uomo. La preposizione «di» (esperienza di Dio) regge un genitivo soggettivo, non oggettivo: l’esperienza di Dio è l’esperienza che Dio fa nei confronti dell’uomo e non l’esperienza che fa l’uomo captando o impossessandosi o mettendo alla prova Dio. Nella Bibbia — ricordiamolo – è sempre Dio che mette alla prova i suoi fedeli, è Dio che saggia l’amore del suo popolo, la fedeltà dei patriarchi (Noé, Abramo, Mosé), la giustizia dei giudici e dei re (Jefte, Davide), il coraggio e l’abnegazione dei profeti (Isaia, Geremia, Giona, Osea), la pazienza dei santi d’Israele (Giobbe). E’ sempre Dio che si china gratuitamente sugli uomini e li rende suoi interlocutori, è Dio che si pone graziosamente alla portata del loro cuore e della loro mente, delle loro orecchie e dei loro occhi, sino al punto che, in Gesù di Nazareth, si consegna persino nelle loro mani. Agli uomini non resta che accogliere con gratitudine il Dio che si fa loro vicino, accettarne la presenza nella loro storia; e nella misura in cui lo fanno, riescono, a loro volta, a «sperimentare» l’amore di Dio: è Dio che entra nella loro esistenza e poi li accoglie nell’intimo del suo mistero, non gli uomini che lo afferrano e ne scandagliano le profondità.

PREDICA DEL CARDINALE SODANO NELLA MESSA « PRO ELIGENDO ROMANO PONTIFICE »

http://www.zenit.org/it/articles/offrire-agli-uomini-la-luce-del-vangelo-e-la-forza-della-grazia

(citazioni da Paolo)

« OFFRIRE AGLI UOMINI LA LUCE DEL VANGELO E LA FORZA DELLA GRAZIA »

PREDICA DEL CARDINALE SODANO NELLA MESSA « PRO ELIGENDO ROMANO PONTIFICE »

Citta’ del Vaticano, 12 Marzo 2013 (Zenit.org)

Riprendiamo di seguito il testo dell’omelia pronunciata dal cardinale Angelo Sodano, Decano del Collegio Cardinalizio, durante la Messa “pro eligendo Romano Pontifice”, concelebrata questa mattina nella Basilica Vaticana dai 115 cardinali che entreranno questo pomeriggio in conclave.
***
Cari Concelebranti, distinte Autorità, Fratelli e Sorelle nel Signore!

« Canterò in eterno le misericordie del Signore » è il canto che ancora una volta è risuonato presso la tomba dell’Apostolo Pietro in quest’ora importante della storia della Santa Chiesa di Cristo. Sono le parole del Salmo 88 che sono fiorite sulle nostre labbra per adorare, ringraziare e supplicare il Padre che sta nei Cieli. « Misericordias Domini in aeternum cantabo »: è il bel testo latino, che ci ha introdotto nella contemplazione di Colui che sempre veglia con amore sulla sua Chiesa, sostenendola nel suo cammino attraverso i secoli e vivificandola con il suo Santo Spirito.
Anche noi oggi con tale atteggiamento interiore vogliamo offrirci con Cristo al Padre che sta nei Cieli per ringraziarlo per l’amorosa assistenza che sempre riserva alla sua Santa Chiesa ed in particolare per il luminoso Pontificato che ci ha concesso con la vita e le opere del 265º Successore di Pietro, l’amato e venerato Pontefice Benedetto XVI, al quale in questo momento rinnoviamo tutta la nostra gratitudine.
Allo stesso tempo oggi vogliamo implorare dal Signore che attraverso la sollecitudine pastorale dei Padri Cardinali voglia presto concedere un altro Buon Pastore alla sua Santa Chiesa. Certo, ci sostiene in quest’ora la fede nella promessa di Cristo sul carattere indefettibile della sua Chiesa. Gesù, infatti, disse a Pietro: « Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa, e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa » (cfr. Mt 16,18).
Miei fratelli, le letture della Parola di Dio che or ora abbiamo ascoltato ci possono aiutare a comprendere meglio la missione che Cristo ha affidato a Pietro ed ai suoi Successori.
1. IL MESSAGGIO DELL’AMORE
La prima lettura ci ha riproposto un celebre oracolo messianico della seconda parte del libro di Isaia, quella parte che è chiamata « il Libro della consolazione » (Is 40-66). È una profezia rivolta al popolo d’Israele destinato all’esilio in Babilonia. Per esso Dio annunzia l’invio di un Messia pieno di misericordia, un Messia che potrà dire: « Lo spirito del Signore Dio è su di me… mi ha mandato a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di misericordia del Signore » (Is 61,1-3).
Il compimento di tale profezia si è realizzato appieno in Gesù, venuto al mondo per rendere presente l’amore del Padre verso gli uomini. È un amore che si fa particolarmente notare nel contatto con la sofferenza, l’ingiustizia, la povertà, con tutte le fragilità dell’uomo, sia fisiche che morali. È nota al riguardo la celebre Enciclica del Papa Giovanni Paolo II « Dives in misericor dia », che soggiungeva: « il modo in cui si manifesta l’amore viene appunto denominato nel linguaggio biblico ‘misericordia’ » (Ibidem, n. 3).
Questa missione di misericordia è stata poi affidata da Cristo ai Pastori della sua Chiesa. È una missione che impegna ogni sacerdote e vescovo, ma impegna ancor più il Vescovo di Roma, Pastore della Chiesa universale. A Pietro, infatti, Gesù disse: « Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?… Pasci i miei agnelli » (Gv 21,15). È noto il commento di S. Agostino a queste parole di Gesù: « sia pertanto compito dell’amore pascere il gregge del Signore »; « sit amoris officium pascere dominicum gregem » (In Iohannis Evangelium, 123, 5; PL 35, 1967).
In realtà, è quest’amore che spinge i Pastori della Chiesa a svolgere la loro missione di servizio agli uomini d’ogni tempo, dal servizio caritativo più immediato fino al servizio più alto, quello di offrire agli uomini la luce del Vangelo e la forza della grazia.
Così lo ha indicato Benedetto XVI nel Messaggio per la Quaresima di questo anno (cfr. n. 3). Leggiamo, infatti, in tale messaggio: « Talvolta si tende, infatti, a circoscrivere il termine ‘carità’ alla solidarietà o al semplice aiuto umanitario. È importante, invece, ricordare che massima opera di carità è proprio l’evangelizzazione, ossia il ‘servizio della Parola’. Non v’è azione più benefica, e quindi caritatevole, verso il prossimo che spezzare il pane della Parola di Dio, renderlo partecipe della Buona Notizia del Vangelo, introdurlo nel rapporto con Dio: l’evangelizzazione è la più alta e integrale promozione della persona umana. Come scrive il Servo di Dio Papa Paolo VI nell’Enciclica Populorum progressio: è l’annuncio di Cristo il primo e principale fattore di sviluppo (cfr. n. 16) ».
2. IL MESSAGGIO DELL’UNITÀ
La seconda lettura è tratta dalla Lettera agli Efesini, scritta dall’Apostolo Paolo proprio in questa città di Roma durante la sua prima prigionia (anni 62-63 d.C.).
È una lettera sublime nella quale Paolo presenta il mistero di Cristo e della Chiesa. Mentre la prima parte è più dottrinale (cap. 1-3), la seconda, dove si inserisce il testo che abbiamo ascoltato, è di tono più pastorale (cap. 4-6). In questa parte Paolo insegna le conseguenze pratiche della dottrina presentata prima e comincia con un forte appello alla unità ecclesiale: « Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace (Ef 4,1-3).
S. Paolo spiega poi che nell’unità della Chiesa esiste una diversità di doni, secondo la multiforme grazia di Cristo, ma questa diversità è in funzione dell’edificazione dell’unico corpo di Cristo: « È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo » (cfr. 4,11-12).
È proprio per l’unità del suo Corpo Mistico che Cristo ha poi inviato il suo Santo Spirito ed allo stesso tempo ha stabilito i suoi Apostoli, fra cui primeggia Pietro come il fondamento visibile dell’unità della Chiesa. 
Nel nostro testo San Paolo ci insegna che anche tutti noi dobbiamo collaborare ad edificare l’unità della Chiesa, poiché per realizzarla è necessaria « la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro » (Ef 4,16). Tutti noi, dunque, siamo chiamati a cooperare con il Successore di Pietro, fondamento visibile di tale unità ecclesiale.
3. LA MISSIONE DEL PAPA
Fratelli e sorelle nel Signore, il Vangelo di oggi ci riporta all’ultima cena, quando il Signore disse ai suoi Apostoli: « Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati » (Gv 15,12). Il testo si ricollega così anche alla prima lettura del profeta Isaia sull’agire del Messia, per ricordarci che l’atteggiamento fondamentale dei Pastori della Chiesa è l’amore. È quell’amore che ci spinge ad offrire la propria vita per i fratelli. Ci dice, infatti, Gesù: »nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici » (Gv 15,12).
L’atteggiamento fondamentale di ogni buon Pastore è dunque dare la vita per le sue pecore (cfr. Gv 10,15). Questo vale soprattutto per il Successore di Pietro, Pastore della Chiesa universale. Perché quanto più alto e più universale è l’ufficio pastorale, tanto più grande deve essere la carità del Pastore. Per questo nel cuore di ogni Successore di Pietro sono sempre risuonate le parole che il Divino Maestro rivolse un giorno all’umile pescatore di Galilea: « Diligis meplus his? Pasce agnos meos… pasce oves meas »; « Mi ami più di costoro? Pasci i miei agnelli… pasci le mie pecorelle! » (cfr. Gv 21,15-17).
Nel solco di questo servizio d’amore verso la Chiesa e verso l’umanità intera, gli ultimi Pontefici sono stati artefici di tante iniziative benefiche anche verso i popoli e la comunità internazionale, promovendo senza sosta la giustizia e la pace. Preghiamo perché il futuro Papa possa continuare quest’incessante opera a livello mondiale.
Del resto, questo servizio di carità fa parte della natura intima della Chiesa. L’ha ricordato il Papa Benedetto XVI dicendoci: « anche il servizio della carità è una dimensione costitutiva della missione della Chiesa ed è espressione irrinunciabile della sua stessa essenza » (Lettera apostolica in forma di Motu proprio Intima Ecclesiae natura, 11 novembre 2012, proemio; cfr. Lettera Enciclica Deus caritas est, n. 25).
È una missione di carità che è propria della Chiesa, ed in modo particolare è propria della Chiesa di Roma, che, secondo la bella espressione di S. Ignazio d’Antiochia, è la Chiesa che « presiede alla carità »; « praesidet caritati » (cfr. Ad Romanos, praef.; Lumen gentium, n. 13).
Miei fratelli, preghiamo perché il Signore ci conceda un Pontefice che svolga con cuore generoso tale nobile missione. Glielo chiediamo per intercessione di Maria Santissima, Regina degli Apostoli, e di tutti i Martiri ed i Santi che nel corso dei secoli hanno reso gloriosa questa Chiesa di Roma. Amen!

SAN GIOVANNI DELLA CROCE: SALITA DEL MONTE CARMELO (selezione)

http://www.cafarus.ch/GiovanniCroce.html

SAN GIOVANNI DELLA CROCE (1542-1591) Dottore della Chiesa,

(citazioni da San Paolo)

SALITA DEL MONTE CARMELO, alcune selezioni del secondo libro

Al buio uscii e sicura, per la segreta scala, travestita, - oh felice ventura! -al buio e ben celata, stando già la mia casa addormentata.

1- In questa seconda strofa l’anima canta la sorte felice che ha avuto di liberare lo spirito da ogni imperfezione e da ogni desiderio di possedere beni spirituali. Ella stima questa sorte migliore della precedente, perché maggiore è stata la difficoltà per addormentare la casa della parte spirituale ed entrare in questa oscurità interiore, che consiste nello spogliarsi spiritualmente di tutti i beni, sensibili e spirituali, appoggiandosi unicamente sulla pura fede e salendo per essa a Dio. Questa virtù viene chiamata scala segreta perché tutti i gradi e gli articoli che essa comprende sono segreti e nascosti al senso e all’intelletto. L’anima dunque, resta all’oscuro completamente, abbandonando ogni lume della natura e della ragione perché vuole salire per questa divina scala della fede che ascende e penetra fino alla profondità di Dio. Perciò dice che camminava travestita perché, salendo per mezzo della fede, ella ha cambiato in divino l’abito e il portamento umano. A causa di questo travestimento ella non fu riconosciuta e trattenuta né dai beni temporali, né da quelli razionali, né dal demonio perché nessuno di questi ostacoli può arrecar danno a colui che cammina in fede.
Ma c’è qualcosa di più, poiché l’anima procede tanto coperta, nascosta ed esente dagli inganni del demonio da camminare veramente, secondo quanto ella dice in questo luogo, al buio e di nascosto, perché per il maligno la luce della fede è più che tenebre. Possiamo dunque conchiudere che l’anima, la quale procede per questa via, procede al buio e di nascosto al demonio, come si vedrà più chiaramente in seguito.
2 – Essa afferma di essere uscita al buio e sicura; colui infatti che ha la bella sorte di poter camminare in mezzo all’oscurità della fede, prendendola per guida come un cieco, liberandosi da tutti i fantasmi naturali e da tutti i ragionamenti spirituali, procede con molta sicurezza. L’anima aggiunge di essere uscita per questa notte dello spirito allorché la sua casa, eioè la parte spirituale e razionale, era già addormentata poiché, quando giunge all’unione con Dio, ella ha già posto in riposo le sue potenze naturali e gli impèti e le ansie del senso nella parte spirituale. Perciò qui ella non dice che uscì con ansia, come nella prima notte del senso; infatti per entrare in questa e spogliarsi una buona volta di ciò che appartiene al senso, le erano necessarie ansie di amore sensibile; mentre per addormentare la casa dello spirito si richiede solo la mortificazione in pura fede di tutte le potenze, di tutti i gusti e di tutti gli appetiti spirituali. Compiuto questo lavoro, l’anima si congiunge con l’Amato in unione di semplicità, di purezza, di amore e di somiglianza.
3 – Bisogna notare che nella prima strofa, parlando della parte sensitiva, si dice che l’anima uscì nella notte oscura; qui invece, dove si tratta della parte spirituale, si afferma che ella uscì nel buio. Invero le tenebre dello spirito sono maggiori di quelle del senso, come il buio è più tenebroso della notte, perché di notte, per quanto fonda essa sia, si può sempre vedere qualche cosa, mentre se è buio non si scorge niente. Nella notte del senso resta un po’ di luce perché rimangono, senza essere accecati, l’intelletto e la ragione, mentre la notte dello spirito, cioè la fede, priva di tutto, sia nell’intelletto che nel senso. Per questa ragione l’anima in questa notte, cosa che non faceva nell’altra, afferma di camminare al buio e sicura poiché quanto meno opera usando delle sue facoltà naturali tanto più cammina sicura, perché procede in fede. Di ciò parlerò per esteso in questo secondo libro; ma bisogna che il devoto lettore mi segua con attenzione perché dirò cose molto importanti per chi possiede il vero spirito. E, sebbene alcune di esse siano un po’ oscure, tuttavia sono certo che la conoscenza di una aprirà la via alla comprensione delle altre e in tal maniera egli capirà tutto.
CAPLTOLO 11
Si parla dell’impedimento e del danno che vi possono essere nelle percezioni dell’intelletto per mezzo di ciò che soprannaturalmente si rappresenta ai sensi esterni e si tratta del modo in cui l’anima deve comportarsi.
I – Al primo gruppo di notizie, di cui ho trattato nel capitolo precedente, appartengono quelle che l’intelletto riceve per via naturale. Poiché ne ho parlato nel primo libro, dove indirizzavo l’anima nella notte del senso, ora non ne farò parola, avendo là esposta una dottrina conveniente intorno ad esse. Perciò in questo capitolo mi occuperò soltanto delle apprensioni soprannaturali che l’intelletto riceve attraverso i sensi esterni, vista udito odorato gusto e tatto, intorno ai quali possono e sogliono nascere nelle persone spirituali immagini e oggetti soprannaturali. Circa la vista sogliono presentarsi loro figure e personaggi dell’altra vita, sembianti di santi e di angeli, buoni e cattivi, luci e splendori straordinari. Con l’udito possono percepire parole strane, ora pronunziate dalle figure loro apparse, ora senza vedere chi le proferisce. Con l’odorato avvertono talvolta odori soavissimi, senza sapere di dove provengano. Accade che anche con il gusto possono percepire qualche sapore molto piacevole e con il tatto un diletto che talvolta è cosi grande da sembrare che tutte le midolla e le ossa esultino e fioriscano e nuotino nel piacere. Tale è la così detta unzione dello spirito che da questo si diffonde nelle membra delle anime pure. Nelle persone spirituali è molto comune questo gusto sensibile il quale deriva in loro dall’affetto e dalla devozione sensibile dello spirito, in maggiore o minore abbondanza, a seconda della capacità di ciascuna di esse.
2 – Si deve dunque ricordare che, sebbene tutti questi fenomeni possano accadere nei sensi per opera divina, l’anima non deve mai ritenersi sicura ed ammetterli; deve anzi assolutamente rifuggire da essi senza volere esaminarli se siano buoni o cattivi, poiché quanto più sono esteriori e corporei, tanto maggiore è il dubbio che essi provengano da Dio. Questo infatti ordinariamente e con maggior convenienza preferisce manifestarsi allo spirito, in cui v’è più sicurezza e più profitto per l’anima, che al senso, nel quale v’è in generale grande pericolo d’inganno, in quanto che il senso corporeo si fa giudice ed estimatore delle cose spirituali, pensando che esse siano così come egli le percepisce, mentre sono tanto diverse come lo sono il corpo dall’anima e la sensibibità dalla ragione. L’ignoranza del senso nei confronti delle cose della spirito è uguale e anche superiore a quella di un giumenta circa le cose razionali.
3 – Colui dunque che fa stima di queste cose erra molto e si espone al grande pericolo di essere ingannato o per lo meno, troverà in sé un grave impedimento a passare nella via dello spirito, perché tutte queste notizie corporee, come ho detto, non hanno alcuna proporzione con quelle spirituali. Perciò si deve sempre ritenere come cosa più probabile che tali notizie più che da Dio provengano dal demonio, il quale ha maggiore possibilità di agire e di tessere inganni in ciò che è esterno e corporeo che in quello che è interno e spirituale.
4 – Questi oggetti e queste forme corporee quanto più sono in sé esteriori, tanto meno giovano all’interiore e allo spirito, a causa della grande differenza e della sproporzione che vi è fra lo spirituale e il corporeo. Infatti, quantunque da queste immagini sensibili venga camunicata qualche cosa di spirituale, come sempre avviene quando esse provengono da Dio, tuttavia ciò è molto inferiore a quella che sarebbe se le stesse cose fossero più spirituali e interiori. In tal modo sono causa di errore, presunzione e vanità nell’anima poiché, essendo tanto palpabili e materiali, muovono molto il senso e così, proprio perché più sensibili, sembrano a quella qualcosa di grande. Perciò l’anima va dietro a loro, abbandonando la fede e credendo che quella luce sia la guida e il mezzo per raggiungere la mèta, cioè l’unione con Dio; invece quanto più ella fa conto di tali cose, tanto più smarrisce la vera via e il mezzo sicuro, che è la fede.
5 – Inoltre l’anima, appena si accorge che le accadono tali fenomeni straordinari, sente spesso nascere segretamente una certa opinione di sé credendo di esser qualcosa davanti a Dio, il che è contrario all’umiltà. Il demonio poi, da parte sua, riesce a far sorgere in essa un’occulta soddisfazione di sé, che talvolta diventa assai manifesta. A tale scopo egli presenta frequenternente ai sensi questi aggetti, mostrando alla vista figure di santi e bellissimi splendori, facendo risonare all’udito parole ingannatrici, presentando all’olfatto odori molto soavi, facendo assaporare al gusto dolcezze e diletto al tatto: con questi mezzi adesca i sensi per indurli al male. E dunque necessario rigettare sempre queste immagini e questi sentimenti poiché, dato il caso che qualcuna di esse provenga da Dio, agendo così non si fa oltraggio a Lui né si lascia di conseguire l’effetto e il frutto che per mezzo di tali fenomeni Egli vuole produrre nelle anime, anche se queste li disprezzano e non li cercano.
6 La ragione di ciò va ricercata nel fatto che la visione corporea e la percezione di ogni altro senso, come del resto ogni altra comunicazione fra le più interne, se provengono da Dio, producono il loro effetto nello spirito nello stesso tempo in cui avvengono, senza dar possibiltà all’anima di deliberare se volerle o no. Dio infatti, come le concede quei favori in maniera soprannaturale, senza che ella ponga in atto la propria capacità e diligenza, allo stesso modo produce l’effetto che Egli vuole operare con tali grazie poiché queste avvengono e si compiono passivamente nello spirito. Perciò non giova per niente alla loro realizzazione o meno, desiderare o no tali cose, come per nulla gioverebbe il desiderio di non bruciarsi alla persona nuda contro la quale fosse stato gettato del fuoco che necessariamente produrrebbe il suo effetto. Lo stesso accade con le visioni e le appariziani buone, le quali prima di tutto e in modo speciale non produrranno il loro effetto nel corpo, ma nell’anima, sebbene questa non ne voglia. Anche quelle che provengono dal demonio, senza che l’anima le desideri, producono in lei turbamento o aridità, vanità o presunzione di spirito. Esse però non hanno tanta efficacia nel male, come quelle divine l’hanno nel bene, poiché possono generare nella volontà i primi movimenti, ma non muoverla ulteriormente se ella vi si oppone. Possono inoltre causare un po’ di inquietudine che però non dura molto se il poco coraggio e la poca prudenza dell’anima non ne facciano aumentare la durata. Al contrario, le visioni e le rivelaziani che vengono da Dio penetrano nell’anima, spingono la volontà ad amare e producono il loro effetto a cui l’anima, pur volendolo, non può resistere più di quanto una vetrata non possa opporsi al raggio di sole dal quale è colpita.
7- Pertanto l’anima non si azzardi ad ammettere tali favori, quantunque siano divini, perche, se li accetta, va incontro a sei inconvenienti. In primo luogo le va diminuendo la fede, perché ciò che si sperimenta con i sensi toglie forza a quella virtù poiché, come ho già detto, essa è al di sopra di ogni senso. Perciò l’anima, non chiudendo gli occhi a tutte queste cose sensibili, si allontana dall’unico mezzo dell’unione con Dio. Il secondo inconveniente consiste nel fatto che tali favori, se non si rifiutano, sono d’impedimento allo spirito, perché l’anima si indugia in essi e quello non vola verso l’invisibile. Questa fu una delle cause per cui Gesù disse ai discepoli essere necessario che Egli se ne andasse perche potesse venire lo Spirito Santo; per lo stesso motivo, cioè perché ella si fondasse sulla fede, o lo stesso Nostro Signore, dopo la Resurrezione, non permise che Maria Maddalena gli toccasse i piedi. Il terzo è che l’anima va nutrendo lo spirito di proprietà in tali manifestaziani soprannaturali e non si incammina verso la vera rinuncia e nudità di spirito. Il quarto sta in ciò che a poco a poco ella perde per l’effetto prodotto da questi fenomeni e la devozione che essi producono nell’intimo, perché pone gli occhi su quanto vi è di sensibile in loro, cioè sull’elemento meno importante. E così ella non riceve in tanta copia di spirito che essi producono, il quale tanto più si imprime e si conserva se rinneghiamo tutto ciò che vi è di sensibile, che è molto diverso dal puro spirito. Il quinto è quello di perdere insensibilmente le grazie di Dio, perché l’anima le riceve con spirito di possesso e non sa trarne profitto. E prenderle con spirito di possesso e non trarne profitto, equivale a desiderare di riceverle, poiché Dio non le dà all’anima affinché ella desideri di averle; ella anzi non si deve risolvere a credere che esse provengano da Dio. Il sesto inconveniente è che l’anima, volendo ammetterle, apre la porta al demonio perché la inganni con altre simili che egli sa mascherare e camuffare così bene da farle sembrare buone poiché, come dice l’Apostolo, quello può trasformarsi in angelo di luce (2 Cor. II, 4). Col favore di Dio, parlerò di ciò nel bibro III, nel capitolo dedicato alla gola spirituale. 8 – Pertanto è necessario che l’anima rigetti a occhi chiusi tutti questi fenomeni, da qualunque parte essi provengano. Se non facesse così, ella porgerebbe l’occasione al demonio di ingannarla e lo aiuterebbe in maniera tale da ricevere insieme con i favori divini, anche le illusioni diabobiche, le quali anzi si moltiplicherebbero mentre gli altri diminuirebbero; così ella giungerebbe al punto in cui avrebbe tutto del diavolo e niente di Dio. Così accadde a un gran numero di anime imprudenti e poco sagge, le quali, ricevendo tali grazie, Si credettero tanto sicure che molte di esse dovettero impiegare grande fatica per ritornare a Dio in purità di fede e parecchie non poterono ritornarvi perché ormai il demonio aveva gettato in esse molte radici. Perciò è necessario chiudere loro il cuore e rifiutarle tutte; ciò facendo, nelle cattive si eludono gli inganni del demonio, nelle buone si evita l’impedimento alla fede e lo spirito ne coglie il frutto. Come se si accettano volentieri, Dio toglie tali grazie, perché l’anima nutre dell’attacco per queste, senza ricavarne generalrnente alcun vantaggio, mentre il demonio insinua e aumenta le sue, perché trova luogo e libero accesso per esse, così, se l’anima è umile e contraria a questi favori, il demonio, accorgendosi di non arrecarle danno, desiste dalla sua opera. Dio invece moltiplica e accresce le sue grazie in quell’anima umile e spoglia di tutto, facendola padrona di molti beni, come avvenne al servo rimasto fedele nel poco (Mt. 25, 21-23).
9 – Se in questi favori l’anima continuerà ad essere fedele e distaccata, Dio nan si arresterà finché di grado in grado non l’avrà elevata sino all’unione e trasformazione divina. Infatti Nostro Signore prova e innalza l’anima in modo tale che prima le concede grazie molto esteriori e ordinarie, conforme alla di lei poca capacità, poi, se essa si comporta come deve prendendo quei primi bocconi con sobrietà per rinforzarsi e sostenersi, Egli la eleva ad un cibo più abbondante e più sostanzioso. In tal mado l’anima, qualora vinca il demonio nel primo grado, passerà al secondo; se riuscirà vittoriosa anche in questo, passerà al terzo e così via per tutte e sette le mansioni che sono i sette gradi di amore, fino a che lo Sposo non la introdurrà nella cella vinaria (Cant. 2, 4) della sua perfetta carità.
10- Felice l’anima che saprà lottare contro la bestia dell’Apocalisse (12, 3) che ha sette teste, contrarie ai sette gradi di amore, con le quali fa guerra a ciascuno di questi e combatte con l’anima in ognuna delle sette mansioni in cui ella si esercita guadagnando progressivamente tutti i gradi dell’amore di Dio. Se in ogni dimora ella combatterà fedelmente restandone vittoriosa, senza dubbio meriterà di passare di grado in grado e di mansione in mansione fino all’ultima, dopo avere mozzato le sette teste con le quali la bestia le faceva una guerra tanto spietata da far dire a San Giovanni nel luogo citato (Apoc. 13. 7) che le fu concesso di lottare centro i Santi e di poterli vincere in ognuno di questi gradi di amore, adoperando contro ciascuno armi e munizioni sufficienti. Perciò è cosa assai dolorosa che molti, i quali entrano in queste battaglie spirituali contro la bestia, non abbiano neppure il coraggio di tagliare la prima testa, rinunziando ai beni sensibili del mondo. Alcuni poi, sebbene si decidano finalmente a tagliare la prima testa, non mozzano la seconda, non rigettano cioè le percezioni del senso di cui sto parlando. Ma ciò che addolora maggiormente è il constatare come altri, dopo avere tagliata non solo la prima e la seconda, ma anche la terza testa, in cui sono simboleggiate le percezioni dei sensi interni, oltrepassando lo stato di meditazione e spingendosi molto più avanti, al momento di entrare nel puro dello spirito, si lasciano vincere da questa bestia spirituale, che torna a levarsi contro di loro e fa risuscitare perfino la prima testa. E poiché essa prende seco sette spiriti peggiori di lei, lo stato dell’anima, a causa della ricaduta, sarà peggiore di quella precedente.
11 – L’anima dunque deve rinnegare tutte le apprensioni e tutti i diletti temporali dei sensi esterni, se vuole troncare la prima e la seconda testa alla bestia, entrando nella prima stanza dell’amore e nella seconda della viva fede, senza volersi legare e imbarazzare con ciò che si presenta ai sensi, perché ciò nuoce più di ogni altra cosa alla fede.
12 – Dunque e chiaro che tali visioni e perceziani sensibii non possono essere mezzo per l’unione, perché non hanno alcuna proporzione con Dio. Questa era una delle cause per cui Gesù Cristo non volle che la Maddabena e S. Tommaso (Gv. 20, 17-29) lo toccassero. Perciò il demonio è molto soddisfatto allorché un’anima desidera ricevere rivelazioni o sente inclinazione per esse, poiché in tal caso gli si offrono molte accasioni e possibilità di insinuare errori e di distruggere in lei la fede. Infatti, come ho detto, grande grossolanità nei confronti di questa virtù e talvolta pesanti pastoie e terribili tentazioni sorgono nell’anima che desidera tali favori.

LIBRO 2 – CAPITOLO 16
2 – E da notare che con il termine di visioni immaginarie intendo indicare tutto quanto può rappresentarsi soprannaturalmente all’immaginazione, rivestito di immagini, di forme, di figure e di specie. Infatti tutte le apprensioni e le specie che, per via naturale, i cinque sensi corporei producono nell’anima, in cui trovano la loro sede, possono essere generate e trovare il loro posto in essa anche per via soprannaturale, senza cioè che i sensi esterni vi concorrano. Infatti la fantasia, congiunta alla memoria, è come un archivio e ricettacolo dell’intelletto in cui vengono accolte tutte le forme e immagini intelligibili. Essa inoltre, come uno specchio, le conserva dopo averle avute per mezzo dei sensi esterni o con un processo soprannaturale, per presentarle poi all’intelletto che riflette su di esse e di esse giudica. La fantasia poi può fare ancora di più, perché può elaborare e formare altre immagini simili a quelle che già conosce.
3 – È bene ricordare che come i cinque sensi esterni presentano le immagini e le specie dei propri oggetti a quelli interni, cosi Dio e il demonio, secondo quanto è stato detto, possono presentare loro soprannaturalmente, cioè senza l’aiuto dei sensi esterni, queste stesse immagini e specie e altre molto più belle e più perfette. Perciò Dio, servendosi di esse, spesso presenta all’anima molte verità e le comunica molta sapienza, come si legge in ogni pagina della Sacra Scrittura. Così Isaia vide il Signore in trono circondato dal fumo che copriva il tempio e dai Serafini i quali si nascondevano il volto e i piedi con le ali (6, 2); Geremia vide la verga che vegliava (1,11) e Daniele ebbe molte altre visioni (7, 10).
Anche il demonio cerca di ingannare le anime con le sue manifestazioni apparentemente buone, come si può vedere nel libro terzo dei Re (22, I I-23), dove si legge che egli trasse in inganno tutti di profeti di Acab, mostrando alla loro immaginazione le corna con cui volle far credere. ma era una menzogna, che gli Assiri sarebbero stati distrutti. Si possono aggiungere le visioni avute dalla moglie di Pilato (Mt. 27, 19) per impedire la condanna del Cristo e molte altre apparizioni dalle quali risulta come, nello specchio della fantasia, ai proficienti, quelle immaginarie si verifichino con maggiore frequenza di quelle corporee esterne. Sotto l’aspetto di immagini e specie le visioni immaginarie non si differenziano da quelle che provengono dai sensi esterni; ma sono invece molto diverse per l’effetto che producono e per la perfezione di cui sono dotate, essendo più sottili e più interne delle altre perché soprannaturali e più intime di quelle soprannaturali esterne. Tuttavia con ciò non si vuol negare che qualche visione corporea esterna possa produrre un effetto maggiore, ché, in fondo, l’intensità della comunicazione dipende dalla volontà di Dio; voglio soltanto dire che le interne, prese in se stesse, producono effetti maggiori perché più spirituali.
4 – Verso l’immaginazione e la fantasia ordinariamente si dirige il demonio con i suoi inganni, naturali e soprannaturali, perchè esse sono la porta d’ingresso dell’anima e ad esse, secondo quanto ho detto, come ad un porto o ad un mercato, ricorre l’intelletto per fare le sue provviste. Per questo Dio e anche il demonio si affrettano verso di loro, per offrire all’intelletto le pietre preziose delle loro immagini e forme soprannaturali, quantunque Nostro Signore per ammaestrare l’anima non usi soltanto questo mezzo ma, dimorando sostanzialmente in lei, può far ciò da sé o servendosi di altri mezzi.
5 – Non v’è ragione che io mi dilunghi ora a parlare dei segni necessari per distinguere le visioni che provengono da Dio da quelle che provengono dal demonio e i modi diversi in cui esse avvengono. Mio unico scopo è quello di ammaestrare l’intelletto, affinché, nelle buone, non trovi un impedimento e un ostacolo all’unione con la Sapienza divina e, nelle cattive, qualche inganno.
6 – Dico dunque che l’intelletto non deve ingombrarsi e nutrirsi con tutte queste apprensioni e visioni immaginarie e con altre forme e specie, di qualunque genere siano, allorché esse gli si offrono sotto l’aspetto di forme, di immagini o di qualche conoscenza particolare, siano false perché da parte del demonio, sia che si riconoscano vere perché da parte di Dio. L’anima poi non le ammetta né le ritenga, onde possa rimanere distaccata e nuda, pura e semplice, senza modo alcuno di percezione, come si richiede per l’unione.
7 – La ragione di ciò va ricercata nel fatto che tutte queste forme, secondo quanto è stato detto, nel momento in cui vengono apprese si rappresentano sempre sotto qualche maniera e modo limitato, mentre la sapienza divina, alla quale l’intelletto deve unirsi, non ha modo e maniera, né cade sotto il dominio del limite e della cognizione distinta e particolare, perché è completamente pura e semplice. Se è necessario che due estremi, quali sono l’anima e la sapienza increata, perché si possano unire, debbano avere in comune qualche mezzo di somiglianza, è chiaro che l’anima, nel caso presente, deve essere pura e semplice, non limitata e attaccata a nessuna conoscenza particolare, né modificata da alcuna circoscrizione di forma, di specie e di immagine. Dio non cade sotto il dominio di una una immagine o di una forma, né è contenuto da una cognizione particolare; perciò l’anima, per unirsi a Lui, non deve cadere sotto una forma o una conoscenza distinta.
8 – Che in Dio non vi sia forma né somiglianza alcuna lo fa ben capire lo Spirito Santo, quando dice nel Deuteronomio (4, 12): Vocem verborum eius audistis, et formam penitus non vidistis – Udiste il suono delle sue parole, ma non vedeste per niente alcuna forma in Dio. Soggiunge poi che sul monte Oreb vi erano tenebre, nubi e oscurità, simbolo della notizia confusa e oscura della quale ho parlato, in cui l’anima si unisce con Dio. Più avanti ancora dice Non vidistis aliquam similitudinem in die, qua locutus est vobis Dominus in Horeb de medio ignis (4, 15), che, tradotto, vuol dire: Voi non vedeste in Dio nessuna somiglianza il giorno in cui Egli vi parlò, di mezzo al fuoco, sul monte Horeb.
9 – Inoltre, volendo affermare che l’anima, servendosi di forme e figure, non può pervenire alle altezze di Dio, per quanto è possibile sulla terra, nel libro dei Numeri (12, 6-8) lo Spirito Santo dice che l’Altissimo rimproverò Aronne e Maria perché avevano mormorato contro il fratello Mosè, per far loro capire a qual grado di unione e di amicizia con Lui egli era stato elevato: Si quis inter vos fuerit pro pheta Domini, in visione apparebo ez, vei per somnzum loquar ad ilium. At non taiis servus meus Moyses, qui in omni dome mea fidelissimus est: ore enim ad os loquar ei, et palam et non per aenigmata et figuras Dominum videt, cioè: Se vi sarà fra voi un profeta del Signore, io gli apparirò in qualche visione o immagine e gli parlerò in sogno; ma non così con il mio servo Mosè, che in tutta la mia casa è fedelissimo: a lui parlerò faccia a faccia, ed egli mi vedrà apertamente e non per mezzo di comparazioni, di analogie e di figure. In questo passo il Signore fa chiaramente intendere come, nel sublime stato dell’unione di cui stiamo parlando, Egli Si comunica all’anima non sotto i veli di visioni immaginarie, di somiglianze o di figure, ma apertamente, cioè nella nuda e pura sua essenza, che è la faccia di Dio, unendosi per amore con la vuota e pura essenza dell’anima, che è la faccia dell’anima in amore divino.
13 – Ma ora nasce un dubbio: se è vero che Dio concede all’anima le visioni soprannaturali non perché ella le desideri, vi si attacchi o le stimi, per quale altro motivo gliele elargisce, dal momento che nei loro confronti essa può andare incontro a molti errori e pericoli o, per lo meno, agli inconvenienti già descritti che le impediscono di progredire, tanto più che il Signore potrebbe comunicarle spiritualmente e in sostanza ciò che le dà per mezzo dei sensi nelle visioni e forme suddette?
14 – Risponderò a questo dubbio nel capitolo seguente con una dottrina ricca e, a mio parere, molto necessaria alle persone spirituali e a coloro che le dirigono, poiché vi si insegna il modo con cui Dio si comporta e il fine che in esse si prefigge, per la cui ignoranza molti non si sanno governare e non sanno dirigere né se stessi né altri all’unione. Costoro credono che sia sufficiente il semplice fatto di conoscere che tali visioni siano vere e provengano da Dio, per ammetterle e rassicurarsi in esse, dimenticando che l’anima potrà trovarvi spirito di proprietà, attaccamento e impaccio, come in quelle del mondo, se anche in questo caso non sa rinunciarvi. Allo stesso modo sembra loro che sia bene ammetterne alcune e rifiutarne altre, gettando se stessi e le anime in preda ad una grande angustia e ad un grande pericolo quando si tratta di discernere quali siano vere e quali false. Dio invece non comanda loro di mettersi in tale impaccio e di esporre le anime umili e semplici a pericoli e incertezze. Possiedono una dottrina sana e sicura, quella della fede; camminino per questa via.
15 – Ma non è possibile procedere su questa via, se non si chiudono gli occhi a tutto ciò che appartiene al senso e che è cognizione chiara e particolare. Per questo S. Pietro, pur essendo certo della visione della gloria di Gesù Cristo avuta sul Tabor, dopo aver narrato l’episodio nella sua seconda lettera canonica, vuole che i fedeli non la prendano come argomento principale di certezza nella fede, ma per incamminarli sulla via di questa virtù, scrive: Et ha be-mus firmiorem pro pheticum sermonem, cui benefacitis at ten-dentes, quasi lucernae ardenti in caliginoso bce, donec dies elucescat (2 Pietro. I, 19). Abbiamo un argomento più solido di questa visione del Tabor, cioè i detti e le parole dei profeti, che rendono testimonianza a Cristo, ai quali fate bene a prestare attenzione come a lucerna che risplende in luogo oscuro. Se esaminiamo questa comparazione, vi troviamo tutta la dottrina che andiamo spiegando. Invitandoci a guardare alla fede, di cui parlano i profeti, come a lucerna che arde in luogo oscuro, S. Pietro vuole indicarci che dobbiamo rimanere al buio, chiudendo gli occhi a ogni altra luce, e che solo la fede, in queste tenebre, deve essere il lume a cui dobbiamo affidarci. Se preferiremo appoggiarci a gualche altra luce di conoscenze distinte, ci allontaneremo da quella oscura della fede, la quale cesserà di illuminarci nel luogo oscuro di cui parla l’Apostolo. Questo luogo poi, che è simbolo dell’intelletto, il quale è il candelabro su cui viene collocata la lucerna della fede, deve restare all’oscuro fino al momento in cui non albeggi per lei nell’altra vita il giorno della chiara visione di Dio e, in questa, quello della trasformaziane ed unione divina.

CAPITOLO 17
Si parla dello scopo che Dio si prefigge e del modo che tiene nel comunicare all’anima i beni spirituali per mezzo del senso, dottrina con la quale si risponde al dubbio proposto nel capitolo precedente.
5 – In questo modo dunque Dio istruisce e rende spirituale l’anima, incominciando a comunicarle lo spirituale delle cose esteriori, palpabili e accomodate al senso, secondo la piccolezza e la poca capacità di essa, affinché, mediante la corteccia di quelle cose sensibili, che sono buone di suo, lo spirito faccia a poco a poco atti particolari e riceva successivamente tante piccole comunicazioni spirituali da farsene un abito e giungere all’attuale sostanza dello spirito, che è aliena da ogni senso; a questa l’anina non può arrivare che progressivamente e secondo il suo modo di agire, cioè per il senso, a cui è stata sempre attaccata. E così a mano a mano che si avvicina allo spirito circa il tratto con Dio, l’anima si spoglia e si vuota delle vie del senso, che sono quelle del discorso e della meditazione immaginanria. Perciò quando ella giungerà a intrattenersi con Dio in modo perfetto, si sarà spogliata necessariamente di tutto ciò che intorno a Lui può cadere sotto il dominio dei sensi. Infatti quanto più una cosa si avvicina ad un estremo, tanto più si allontana da quello opposto; anzi la sua vicinanza assoluta all’uno, comporta la sua lontananza ugualmente assoluta dall’altra, secondo il proverbio spirtuale molto diffuso: Gustato spiritu, desipit omnis caro, che vuel dire: assaporato lo spirito, tutto ciò che è carne diventa insipido, cioè, tutte le vie della carne, che simboleggiano ogni tipo di relazione del senso con lo spirito, non giovano e non producono alcun diletto. Ciò è chiaro perché se è spirito, non cade sotto il senso, e se è tale da essere cempreso dal senso, non è più puro spirito. Infatti quanto più il senso e l’apprensione naturale possono conoscere di questo, tanto meno spirito soprannaturale esso pessiede.
6 – Pertanto la persona spirituale che ha raggiunto la perfezione non fa caso del senso né riceve alcuna cosa per mezzo di esso; inoltre nelle sue relazioni con Dio non si serve né ha bisogno di servirsi precipuamente di esso come faceva prima, quando ancora non era perfetta. È quanto vuole insegnare S. Paolo nel seguente brano della lettera ai Corinti (1 Cor. 13,11): Cum essem parvulus, loquebar ut parvulus, sapiebam ut parvulus, cogitabam ut parvulus. Quando autem factus sum vir, evacuavi quae erant parvuli – Quando ero fanciullo parlavo come un fanciullo, conoscevo come un fanciullo, pensavo come un fanciullo; ma quando diventai uomo mi liberai dalle cose proprie di un fanciullo.
Ho già dimostrato come le cose del senso e la conoscenza che lo spirito può raggiungere per mezzo di esse, siano esercizio da fanciulli; perciò se l’anima vorrà rimanervi sempre attaccata senza mai distogliersene, non cesserà mai di essere un fanciullo e quindi parlerà sempre di Dio come un fanciullo, conoscerà Dio come un fanciullo e penserà a Dio came un fanciullo. Infatti attaccandosi alla corteccia del senso, che è il fanciullo, mai parverrà alla sostanza della spirito, che è l’uomo perfetto. L’anima, dunque, se vuole progredire non deve ammettere le rivelazioni, quantunque le siano offerte da Dio, simile al bimbo il quale per assuefare il palato a cibo più sostanzioso e più solido, ha bisogno di staccarsi dal petto materno.
7- Mi domanderete ora: non sarà necessario che l’anima, finché è piccola, desideri di ricevere tali favori e li abbandoni solo quando sarà cresciuta, com’è necessario che un bambino prenda il latte per nutrirsi, finché non sia divenuto grande e possa farne a meno? Per quanto riguarda la meditazione e il discorso naturale in cui l’anima incomincia a cercare Dio, rispondo dicendo che in verità ella non deve abbandonare il petto materno del senso per nutrirsi e sostentarsi altrimenti fino al momento in cui possa staccarsene, cioè sino a quando il Signore la porrà nello stato più perfetto della contemplazione, di cui ho parlato al capitolo undecimo di questo libro. Affermo invece che l’anima non deve ammettere visioni immaginarie e altre apprensioni soprannaturali, che possono cadere nel senso, indipendentemente dalla libertà dell’uomo, in qualunque tempo e stato esse avvengano, sia in quello perfetto che in quello imperfetto, anche se provengono da Dio. Le ragioni sono due. La prima è perché Egli produce il suo effetto nell’anima senza che costei riesca ad impedirglielo, anche se, come spesso avviene, ostacoli o possa ostacolare la visione. In conseguenza di ciò l’effetto che tale visione dovrebbe produrre nell’anima viene causato in essa molto più sostanzialmente, quantunque in maniera diversa. Ella infatti non può né è capace di allontanare quei beni che Dio le vuol cemunicare, se non a causa di qualche imperfezione e spirito di proprietà, il che non si verifica quando ella rinuncia a tali cose con umiltá e diffidenza di sé. La seconda è quella di liberarsi dal pericolo e dalla difficoltà che_vi_è_nel discernere le cattive dalle buone e nel conoscere se sono prodotte dall’angelo della luce o da quello delle tenebre. In questo lavoro non vi è alcun giovamento, ma vi si perde tempo, vi si imbarazza lo spirito e, non collocando l’anima in ciò che le gioverebbe liberandola dalle piccolezze di apprensioni e di conescenze particolari, secondo quanto è stato detto a proposito delle visioni corporee e quanto si dirà relativamente a queste immaginarie, ci si pone nell’occasione di commettere molte imperfezioni e di non fare un passo avanti.
8 – Ci si convinca che se Nostro Signore non dovesse condurre l’anima a seconda della natura di essa, non le comunicherebbe mai l’abbondanza del suo spirito mediante questi canali così angusti di forme, figure e cognizioni particolari, dei quali Egli si serve per darle il nutrimento a briciole. Per questo David afferma: Mittit crystallum suam sicut buccellas (Sal. 147, 17), come se volesse dire: Comunica alle anime la sua sapienza quasi a bocconi. È cosa veramente dolorosa di dover constatare come l’anima, dotata di capacità infinita, venga nutrita con i bocconi del senso a causa del suo poco spirito e della sua poca sensibilità. Anche S. Paolo si mostra addolorato da questa meschinità e inettitudine dell’aniina a ricevere lo spirito, quando scrive ai Corinti (1 Cor. 3, 1-2): Et ego, fratres, non potui vobis loqui quasi spiritualibus, sed quasi carnalibus. Tanquam parvulis in Christo, lac vobis potum dedi, non escam: nondum enim poteratis; sed et nunc quidem non potestis. Adhuc enim carnales estis – Fratelli miei, quando venni da voi, non potei parlare come a spirituali, ma come a gente carnale. Come a bambini in Cristo vi detti del latte da bere e non del cibo solido.
9 – È bene dunque ricordare che l’anima non deve porre attenzione su quella corteccia di figure e di oggetti che le vengono posti dinanzi soprannaturalmente e che riguardano i sensi esterni, come sono per esempio, locuzioni e parole che risuonano all’udito, visioni di santi e splendori luminosi che si presentano agli occhi, odori che vengono percepiti dall’olfatto, gusti e soavità del palato e altri diletti del tatto, cose che precedono in generale dallo spirito e che ordinariamente accadono alle persone spirituali. Inoltre non deve posare lo sguardo su qualsiasi visione dei sensi interni, come sono quelle immaginative, ma deve rinunciare a tutte.

CAPITOLO 21
Si dichiara come, pur rispondendo talvolta a quanto Gli si domanda, Dio non è contento e si dimostra che, sebbene Egli qualche volta accondiscenda e risponda, spesso però si sdegna.
1- Alcune persone spiritali ritengono tranquillamente per buone le curiosità di cui talvolta usano onde sapere qualche cosa per via soprannaturale, credendo che questo loro modo di fare sia buono e piaccia a Dio, perché questi risponde qualche volta alla loro domanda. Invece è vero che, quantunque il Signore li esaudisca, questo modo di procedere non è buono ed Egli non è contento; anzi è vero il contrario, cioé che Dio spesso se ne sdegna e se ne offende molto. Ciò accade perché a nessuna creatura è lecito evadere dai termini che Dio le ha naturalmente imposto per sua norma. L’uomo, per governarsi, ha ricevuto dal Signore dei mezzi naturali e razionali: non gli è quindi permesso di volersene liberare; indagare e raggiungere alcunché per via soprannatunale è pretendere sottrarsi ad essi. Dunque non è cosa lecita e non può piacere a Dio, giacché si offende di tutto ciò che è illecito. Conosceva bene questa verità il re Acaz il quale, sebbene Isaia da parte di Dio lo spingesse a chiedere qualche segno, se ne schernì dicendo: Non petam et non tentabo Daminum (Is. 7, 12) – Non io chiederò, né tenterò il Signore, perché pretendere di trattare con Dio per vie straordinarie come sono quelle soprannaturali è tentare il Signore.
2 – Mi direte: se Dio non ha piacere di tali richieste, perché qualche volta risponde? Dico che spesso è il diavolo che risponde; quando è Dio, questo si accomoda alla debolezza dell’anima che vuole andare per questa via. Perché dunque ella non si lasci vincere dallo sconforto e non torni indietro e perché non soffra in modo eccessivo pensando che il Signore sia irritato con lei, o per qualche altro fine a Lui noto e fondato sulla debolezza di quell’anima, Dio crede opportuno risponderle e accondiscendere per tale via. È questo il metodo che Egli adopera anche con numerose anime fiacche e delicate concedendo loro, secondo quanto è stato detto sopra, gusti e soavità sensibli quando esse trattano con Lui. Avviene così non perché Egli voglia e provi piacere che si adoperi questo mezzo e questa via nel trattare con Lui, ma perché dà a diascuno secondo la propria natura. Dio infatti è come una fonte, dalla quale ciascuno attinge a seconda della capacità del proprio vaso. Talvolta Egli permette che l’acqua sia raccolta usando di quei canali straordinari, ma da ciò non segue che sia lecito attingerla per mezzo di essi se non a Dio stesso, il quale la può concedere quando, come e a chi vuole e per il fine da Lui inteso, senza che l’uomo possa avanzare alcuna pretesa. Perciò, come ho detto, alcune volte viene incontro al desiderio e alle preghiere di alcune anime che Egli intende esaudire, non perché si compiaccia delle lore richieste, ma perché sone buone e semplici.
3 – Tale affermazione si comprenderà meglio per mezzo della seguente cemparaziene. Un padre di famiglia ha sulla tavola numerosi e diversi cibi, alcuni dei quali sono più delicati che altri. Un suo bimbo, gli chiede, non la pietanza migliore, ma quella contenuta nel piatto a lui più vicino e gliela chiede perché mangia più volentieri quella che un’altra. E poiché il padre vede che il figlio non prenderà il cibo più delicato, che vorrebbe dargli, ma quello di cui ha fatto richiesta, il solo che sia di suo gusto, affinché non si affligga e non resti senza mangiare, glielo concede sebbene contro voglia. Così vediamo che Dio fece con i figli di Israele quando gli chiesero un re; lo concesse ma a malincuore, perché per loro non era un bene. Disse perciò a Samuele: Audi vocem populi in omnibus quae loquuntur tibi: non anim te abiacerunt, sed me (I Re 8, 7) – Ascolta la voce di questo popolo e concedi lore il re che chiedono, poiché me, non te hanno rigettato, affinché non io regni su di loro. Allo stesso modo Dio accondiscende ai desideri di alcune anime, accordando loro ciò che non è più utile, non volendo esse o non sapendo camminare per altra via. E così alcune ottengono persino dolcezze e soavità dello spirito a del senso, che Dio accorda loro perché non saprebbero mangiare il cibo più forte e più solido della croce di suo Figlio, verso la quale più che verso altro oggetto vorrebbe che tendessero la mano.
4 – Tuttavia io ritengo sia molto peggio voler saper qualche cosa per via soprannaturale che cercare altri gusti spirituali del senso, poiché non vedo come l’anima che lo pretende possa essere esente da peccato almeno veniale, per quanto siano buoni gli scopi che ella si propone, e grande la perfezione a cui è giunta. Lo stesso vale per chi glielo comandasse o vi acconsentisse. Infatti non v’é alcuna necessità di ciò, perchè abbiamo la ragione naturale e la legge e la dottrina evangelica con cui ci possiamo sufficientemente regolare e non v’é difficoltà che non possa essere risolta e necessità a cui non si possa rimediare in maniera molto gradita a Dio e vantaggiosa per le anime. Dobbiamo anzi servirci della ragione e della dottrina evangelica in modo tale che se, volendo o no, ci fossero rivelate soprannaturalmente alcune cose, dovremmo accettare solo quelle conformi alla ragione e alla legge evangelica. Però anche in tal caso le dovremmo ricevere, non perché rivelate, ma perché razionali, lasciando da parte ogni senso di rivelazione. Anzi allora conviene guardare ed esaminare quella ragione molto di più che se non vi fosse intessuta qualche rivelaziane perché il demonio per ingannare dice molte cose che sono vere, che accadranno e che sono conformi a ragione.
5- Deriva da ciò che in tutte le nostre necessità e difficoltà e in tutti i nostri travagli noi non abbiamo altro aiuto migliore e più sicuro della preghiera e della speranza che il Signore provvederà con quei mezzi che a Lui piaceranno. Tale consiglio ci viene dato dalla Sacra Scrittura in cui si legge che il santo Re Giosaffatte, molto afflitto perché circondato dai nemici, si mise in orazione e disse a Dio: Cum ignoramus quid facere debeamus, hoc solum habemus residui, ut oculos nostros dirigamus ad te (2 Cron. 20, 12), come se dicesse: Quando mancano i mezzi e la ragione nan arriva a provvedere nelle necessità, ci resta solo di elevare i nostri occhi a te, perché tu provveda come meglio ti piace.
6 – Quantunque ne sia già stato parlato, sarà bene provare con testimonianze desunte dalla Sacra Scrittura come, pur venendo incontro a tali ingiuste richieste, il Signore qualche volta si sdegna. Nel primo libro dei Re (28, 15) Si narra come la richiesta che Saul fece di parlare con Samuele ormai morto fu esaudita con l’apparizione del profeta; Dio però si adirò perché Samuele poi rimproverò il re di averlo costretto a ciò: Quare inquietasti me ut suscitarer? – Perché mi hai disturbato facendomi risuscitare? Sappiamo inoltre che Dio, anche se concesse ai figli di Israele le carni da essi richieste, si sdegnò molto con loro; infatti, li punì immediatamente, inviando fuoco dal cielo, secondo quanto si legge nel Pentateuco e viene narrato da David con le parole: Adhuc escae eorum erant in ore ipsorum et ira Dei descendit super eos (Sal. 77, 30-31), che vuol dire: Avevano ancora il boccone in bocca quando l’ira divina discese su di loro. Nei Numeri infine (22, 32) è scritto che Dio si adirò molto contro il profeta Balaam perché si recò dai Madianiti, chiamato dal loro re Balac: eppure il Signore stesso gli aveva detto di andare, allorché il profeta, avendone un gran desiderio, glielo aveva chiesto. E durante il cammino gli apparve l’angelo del Signore che, con la spada in mano, minacciandolo di morte gli disse: Perversa est via tua mihique contraria – Perversa è la tua via e a me contraria, ragione per cui gli voleva togliere la vita.
7- In questa e in molte altre maniere Dio, sebbene corrucciato, asseconda i desideri delle anime. Senza contare i numerosi esempi, abbiamo di ciò molte testimonianze nella Scrittura, delle quali però non c’è bisogno data la grande chiarezza della cosa. Affermo soltanto che è estremamente pericoloso, più di quanto io non sappia dire, voler trattare con Dio per tali vie. Colui che vi sarà attaccato, non sarà esente da gravi errori e si troverà spesso confuso; chi poi ne ha fatto caso, cenoscerà per esperienza quello che dico. Infatti oltre alla difficoltà che si trova nell’evitare di ingannarsi riguardo alle locuzioni e visioni che provengono da Dio, c’è da notare che ve ne sono ordinariamente molte da parte del demonio. Questi in generale si comporta con l’anima nella stessa maniera di Dio per introdursi in lei come il lupo nel gregge con la pelle di pecora, proponendole verità tanto verosimili che a stento si possono distinguere da quelle comunicatele dal Signore. Dicendo infatti cose vere o che poi risultano tali e conformi a ragione, le anime si possono ingannare facilmente; quando poi vedono che quelle cose si avverano e che egli predice il futuro, pensano che siano da parte di Dio. Non sanno che è facilissimo per chi possiede lume naturale limpido conoscere nelle loro cause tutte le cose o molte di esse che sono state o che saranno. Poiché il demonio ha sempre questo lume naturale molto vivo, può con somma facilità dedurre un certo effetto da una certa causa, anche se poi non sempre accade così perché tutte le cause dipendono dalla volontà divina.
8 – Facciamo un esempio. Il demonio conosce come lo stato della terra, dell’aria e del sole è tale ed è disposto in tale grado che, giunto un tempo determinato, proprio in forza della loro disposizione questi elementi diventeranno contaminati e comunicheranno il contagio alle persone con la peste, dicendo anche in quali luoghi essa avrà maggiore o minore intensità. Ecco prevista la peste nelle sue cause. C’è dunque da meravigliarsi se il demonio in una rivelazione dirà ad un’anima che entro un anno o sei mesi ci sarà una pestilenza e che la sua parola risulti vera? Ed è profezia del demonio! Similmente egli, notando che le viscere della terra si riempiono di aria, può conoscere le cause dei terremoti e predire che in un tempo determinato se ne avrà qualcuno. Questa però è conoscenza naturale, per il cui conseguimento basta avere lo spirito libero dalle passioni dell’anima, secondo quanto afferma Boezio: Si vis claro lumine cernere verum, gaudia pelle, timorem spemque fugato, nec dolor adsit – Se vuoi conoscere la verità con chiarazza naturale, rigetta da te il gaudio, il timore, la sparanza e il dolore.
9 – Inoltre si possono conoscere fatti a avvenimenti, soprannaturali nelle loro cause, che seguono l’ordine della Provvidenza divina la quale interviene con grande giustizia e certezza secondo quanta esigono le cause buone o cattive poste dai figli degli uomini. È possibile infatti conoscere naturalmente che una determinata persona, città e cosa giungerà a tale estremo e necessità da costringere Dio provvidente e giusto a intervenire con punizione, con premio o in qualche altro modo adeguato, a seconda delle esigenze della causa e in conformità alla natura di essa. Allora sarà facile affermane che in un determinato tempo Dio darà o farà qualche cosa o che ne accadrà certamente qualche altra. Santa Giuditta fece intendere questa verità ad Oloferne quando, onde persuaderlo che i figli di Israele dovevano essere inesorabimente distrutti, prima gli parlò delle molte miserie e dei gravi peccati che essi commettevano e poi soggiunse: Et quoniam haec faciunt, certum est qoad in perditionem dabuntur (Giudit. 11, 12), che si spiega: Poiché fanno queste cose, saranno certamente distrutti. Parlare così è conoscere il castigo nella causa ed equivale ad affermare che tali peccati causano tali castighi da parte di Dio, il quale è giustissimo, come del resto afferma anche la Sapienza divina: Per quae quis peccat, per haec et torquetur (11, 17) -In quello e con quelle cose con cui uno pecca, sarà punito.
10 – Il demonio può conoscere questi fatti non solo per natura, ma anche per l’esperienza che ne ha, avendo veduto Dio comportarsi in modo simile; può quindi annunziarli prima e indovinarli. Anche il santo Tobia conobbe nella causa la punizione riservata alla città di Ninive e poté avvertirne il figlio dicendo: Stai attento, figlio, quando io e tua madre saremo morti lascia subito questa terra, perché essa non continuerà ad esistere – Video enim quia iniquitas eius finem dabit ei – Poiché vedo bene che la sua stessa iniquità sarà causa del suo castigo, che consisterà nella sua rovina e distruzione totale (14, 13). Il demonio e Tobia potevano conoscere tale punizione non solo a causa dell’iniquità dei cittadini, ma anche per esperienza, vedendo che i Niniviti commettevano peccati simili a quelli degli uomini per i quali Dio distrusse il mondo con il diluvio, e a quelli dei Sodomiti, che perirono per mezzo del fuoco. Tobia però la conosceva anche per ispirazione divina.
11 – Il demonio può conoscere e predire che Pietro secondo natura non può vivere più di quei dati anni. Lo stesso vale per tante altre cose in molte altre maniere intorno alle quali non si potrebbe mai finire né incominciare a parlare perché intricatissime. Egli poi è sottilissimo nell’insinuare menzogne, da cui ci si può liberare soltanto fuggendo da ogni rivelazione, visione e locuzione soprannaturale. Dio si sdegna giustamente con chi le ammette perché sa che esporsi a tale pericolo è temerità, presunzione, curiosità, principio di superbia, radice e fondamento di vanagloria, disprezzo delle cose di Dio a causa di numerosi mali a cui molti andarono incontro. Costoro irritarono Dio così tanto che lasciò di proposito che errassero e si ingannassero e permise che oscurassero il proprio spirito e abbandonasserò le vie ordinate della vita per dar luogo alle loro vanità e fantasie, compiendo così il detto di Isaia: Dominus miscuit in medio eius spiritum vertiginis (19, 14) – Il Signore diffuse in mezzo lo spirito di rivolta e di confusione o, per dirlo in parole semplici, lo spirito di intendere a rovescio. Queste parole del profeta fanno al proposito nostro, perché egli le disse per coloro che volevano conoscere il futuro per via soprannaturale. È questo il motivo per cui afferma che Dio diffuse in mezzo a loro lo spirito di intendere a rovescio: non perché Egli volesse che quelle persone cadessero in errore o desse loro di fatto lo spirito di errare, ma perché volevano intromettersi in cose alle quali naturalmente non petevano pervenire. Irritato di questo, il Signore permise che si ingannassero non concedendo loro il lume necessario a conoscere ciò in cui voleva che non si intromettessero. Il profeta afferma che Dio mescolò quello spirito in senso privativo in quanto che, non dando loro la sua luce e la sua grazia onde potessero evitare di cadere in errore, fu causa privativa di quel danno.
12 – In tal mado il Signore permette al demonio di accecare ed ingannare molte anime, perché esse lo meritano a causa dei loro peccati e della loro presunzione. Il maligno lo può e ottiene il suo effetto perché esse lo ritengono per spirito buono e quantunque si sia fatto molto per persuaderle del contrario, non si riuscirà a disingannarle perché, per permissione divina, sono ormai imbevute dello spirito di intendere a rovescio. Sappiamo che accadde così anche ai profeti di Acab: Dio permise che fossero ingannati dallo spirito di menzogna e dette perciò licenza al demonio, dicendogli: Decipies et praevalebis; egredere et fac ita (3 Re 22, 22) – Con le tue menzogne prevarrai su di loro e li ingannerai: esci pure a fa così. La sua potenza ingannatrice sul re e sui profeti fu tanta che non vollero credere a Michea allorché questi predisse loro le verità contrarie del tutto a quanto era stato profetizzato dagli altri. Avvenne ciò perché Dio lasciò che si ingannassero a causa dello spirito di proprietà che nutrivano bramando che le cose accadessero secondo il loro desiderio e che Dio rispondesse conforme ai loro appetiti, il che costituiva un mezzo e una disposizione certissima perché il Signere permettesse di proposito il loro inganno e il loro accecamento.
13 – Così in nome di Dio profetizzò Ezechiele parlando contro chi vuol sapere le cose per via soprannaturale, secondo la curiosità e vanità del suo spirito: Allorché il tale uomo verrà dal profeta onde interrogarmi per suo mezzo, io, il Signore, gli risponderò da me stesso, gli mostrerò la mia faccia irritata, e se il profeta avesse sbagliato nel rispondere a ciò che gli era stato domandato: Ego, Daminus, decepi prophetam illum: Io, il Signore, ho tratto in inganno quel profeta (Ez. 14, 7-9). Queste ultime parole si devono intendere nel senso che Dio non concorse con la sua gnazia per impedire che il profeta fosse ingannato, come risulta anche dall’altra espressiene: Io, il Signore, gli risponderò da me, irritato, vale a dire, togliendogli la sua grazia e il suo favore. Conseguenza necessaria di ciò è che questi cada subito in errore a causa dell’abbandono divino. Allora il demonio si affretta a rispondere secondo il gusto e l’appetito di quell’uomo il quale, provandone piacere e vedendo che le risposte e le comunicazioni sono conformi alla sua volontà, si lascia grandemente ingannare.

CAPITOLO 22
4 — Tale è il senso del testo mediante il quale S. Paolo vuole indurre gli Ebrei ad abbandonare i modi primitivi di trattare con Dio permessi dalla legge mosaica per fissare gli occhi unicamente in Cristo: Multifariam multisque modis olim Deus loquens patribus in prophetis: novissime autem diebus istis locutus est nobis in Filio (Ebr. 1, 1-2), come se dicesse: Quel che Dio in molti modi e in più riprese disse in antico ai nostri padri per mezzo dei profeti, l’ha detto in questi giorni in una volta a noi per mezzo del Figlio suo. Con queste parole l’Apostolo vuol far capire che Dio è rimasto quasi come muto non avendo altro da dire poiché, dandoci il Tutto, cioè suo Figlio, ha detto ormai in Lui tutto ciò che in parte aveva manifestato in antico ai profeti.
5 — Perciò chi oggi volesse interrogare il Signore e chiedergli qualche visione o rivelazione non solo commetterebbe una sciocchezza, ma arrecherebbe un’offesa a Dio, non fissando i suoi occhi interamente in Cristo per andare in cerca di qualche altra cosa o novità. Invero il Signore gli potrebbe rispondere in questo modo: Se Io ti ho detto tutta la verità nella mia parola, cioè nel mio Figlio, e non ho altro da manifestarti, come ti posso rispondere o rivelare qualche altra cosa? Fissa gli occhi su Lui solo, nel quale io ti ho detto e rivelato tutto, e vi troverai anche più di quanto chiedi e desideri. Tu infatti domandi locuzioni e rivelazioni che sono soltanto una parte, ma se guarderai Lui, vi troverai il tutto, poiché Egli è ogni mia locuzione e risposta, ogni mia visione e rivelazione in quanto che io vi ho già parlato, risposto, manifestato e rivelato ogni cosa dandovelo per fratello, compagno, maestro, prezzo e premio. Dal giorno in cui sul Tabor discesi con il mio Spirito su di Lui dicendo: Hic est Filius meus dilectus, in quo mihi bene complacui, ipsum audite (Mt. 17, 5).- Questo è il mio Figlio diletto nel quale mi sono compiaciuto, ascoltatelo, cessai di istruire e rispondere in queste maniere e commisi tutto a Lui: ascoltatelo perché ormai non ho più materia di fede da rivelare e verità da manifestare. Prima parlavo ma unicamente per promettere Cristo e gli uomini mi consultavano solo per chiedere e aspettare Lui nel quale dovevano trovare ogni bene, come ora tutta la dottrina degli evangelisti e degli apostoli fa capire. Colui che ora mi consultasse in quel modo e desiderasse che io gli dicessi e rivelassi alcunché, sotto un certo aspetto mi chiederebbe di nuovo Cristo e altre verità della fede, in cui però sarebbe debole perché tutto è già stato dato in Lui. In tal modo farebbe un grave oltraggio al mio amato Figlio poiché non solo in ciò mancherebbe alla fede, ma perché lo obbligherebbe ad incarnarsi di nuovo e ad affrontare ancora una volta la vita e la morte qui in terra. Tu dunque non desidererai né chiederai nessuna rivelazione o visione da parte mia: guarda bene il Cristo e in Lui troverai già fatto e detto molto più di quanto tu vorresti.
6 — Se vuoi che Io ti dica qualche parola di conforto, guarda mio Figlio, obbediente a me e per amor mio sottomesso ed afflitto, e sentirai quante cose ti risponderà. Se desideri che io ti sveli alcune cose o avvenimenti occulti, fissa in Lui i tuoi occhi e vi troverai dei misteri molto profondi, la sapienza e le meraviglie di Dio le quali, secondo quanto afferma il mio Apostolo, sono in Lui contenute: in quo sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae Dei absconditi (Col. 2, 3), cioè: Nel quale Figlio di Dio sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza di Dio, tesori di sapienza che saranno per te profondi, saporosi e utili più di tutte le cose che vorresti sapere. Per questo lo stesso Apostolo si gloriava dicendo di aver fatto intendere che egli non conosceva se non Gesù Cristo e questo crocifisso (1 Cor. 2, 2). Inoltre se tu desideri altre visioni e rivelazioni divine o corporee, mira il Cristo umanato e vi troverai più di quanto pensi, poiché S. Paolo afferma a tale proposito: In ipso inhabitat omnis plenitudo divinitatis corporaliter (Col. 2, 9) – In Cristo dimora corporalmente tutta la pienezza della divinità.

CAPITOLO 24
7 — Anche il demonio può causare nell’anima tali visioni usando di qualche luce naturale in cui, per suggestione spirituale, lo spirito conosce cose o presenti o assenti. Perciò, riguardo al testo di S. Matteo dove si legge che il demonio mostrò al Cristo omnia regna mundi et gloriam eorum (Mt. 4, 8) cioè tutti i regni della terra e il loro splendore, alcuni dotti interpreti affermano che il maligno si servì della suggestione spirituale perché non era possibile far vedere a Gesù con gli occhi del corpo tante cose, cioè tutti i regni del mondo e la loro gloria. Tuttavia grande è la differenza fra le visioni del demonio e quelle di Dio: gli effetti prodotti nell’anima dalle prime non sono come quelli causati dalle seconde, poiché le diaboliche non solo non producono per niente dolcezza di umiltà e di amore divino, ma generano aridità di spirito nella conversazione con Dio, e inclinazione ad inorgoglirsi e ad ammetterle e a dare loro qualche importanza. Inoltre le loro immagini non restano impresse nell’anima con la stessa soave chiarezza delle altre e non durano a lungo, ma si cancellano presto, a meno che ella non le apprezzi molto, nel qual caso la stima farà si che ella se ne ricordi naturalmente. Tale ricordo però sarà molto arido e non produrrà l’effetto di amore e di umiltà causato dalle visioni buone quando l’anima le ricorda.
8 — Queste visioni non possono servire all’intelletto come mezzo prossimo per l’unione con Dio, perché hanno per oggetto le creature con le quali il Signore non ha alcuna proporzione e convenienza essenziale. È quindi necessario che nei loro confronti l’anima si comporti in maniera puramente negativa, come ho già detto che si deve regolare con le altre, affinché possa andare avanti usando del mezzo prossimo, che è la fede. In conseguenza di ciò, ella non deve conservare quasi come in un archivio o in uno scrigno le forme di quelle visioni che le restano impresse, né deve appoggiarsi ad esse perché rimarrebbe imbarazzata da quelle figure, immagini e persone che risiedono nel suo intimo, e non camminerebbe verso Dio attraverso la negazione di tutte le cose. Ammesso il caso che tali immagini si rappresentino continuamente nel suo interno, non le arrecheranno alcun impedimento se essa non ne farà caso. Infatti se è vero che il loro ricordo spinge l’anima a qualche grado di amore di Dio e di contemplazione, molto di più ve la spingeranno e innalzeranno la fede pura e la nudità oscura di tutte quelle cose, senza che ella sappia come né da dove le vengano. Accade cosi che l’anima sia infiammata da ansie di puro amore divino senza sapere da dove le vengano e quale fondamento abbiano avuto. La ragione di ciò va ricercata nel fatto che insieme con la fede, la quale si è radicata ed è penetrata molto a fondo a causa del vuoto, delle tenebre e della nudità di tutte le cose, o povertà di spirito [cose tutte che potrebbero essere chiamate con uno stesso nome] si è molto di più approfondita e abbarbicata nell’anima la carità di Dio. Da ciò segue che quanto più ella si sforza di ottenebrarsi e annientarsi circa tutte le cose esteriori e interiori che può ricevere, tanto più fede e quindi amore e speranza le vengono infuse poiché queste tre virtù teologali progrediscono insieme.
18 — Tutte queste conoscenze, vengano o no da Dio, possono servire ben poco al cammino dell’anima verso di Lui, qualora ella intenda attaccarvisi; al contrario, se non si prenderà cura di rinnegarle, esse non solo le saranno d’inpedimento, ma le arrecheranno grave danno e la faranno cadere in molti errori. In esse infatti possono essere, in misura uguale e anche maggiore, tutti i pericoli e gli inconvenienti che si possono verificare nelle apprensioni soprannaturali di cui si è parlato fino a questo momento. Avendone quindi già dato una dottrina sufficiente quando parlavo di queste, non mi dilungo a trattarne ora, limitandomi solo a dire che l’anima deve avere una gran cura di rifiutarle sempre desiderando di andare a Dio non sapendo e di parlarne ogni volta al confessore o al maestro spirituale, alle cui decisioni deve sottostare in modo assoluto. Questi poi cerchi di far passare l’anima al di sopra di esse negando loro ogni importanza per il cammino verso l’unione, poiché di queste cose che le vengono date passivamente, rimarrà in lei l’effetto voluto da Dio senza che ella vi ponga alcuna diligenza. Non mi sembra dunque necessario parlare dell’effetto che le vere e le false producono, poiché mi stancherei senza esaurire l’argomento. Infatti i loro effetti non possono essere compresi nel giro di una breve trattazione, visto che sono molteplici e vari, come molte e varie sone le notizie, poiché le buone producono quelli buoni, le cattive quelli cattivi. Consigliando di rifiutarle tutte, è detto a sufficienza quanto basta per non cadere in errore.

CAPITOLO 27
3 — Il demonio può intromettersi molto nei confronti di questa specie di rivelazioni. Poiché esse ordinariamente avvengono per mezzo di parole, di figure, di somiglianze ecc., egli può fingere qualche cosa di simile con più facilità di quando sono puramente spirituali. Pertanto, se nell’una o nell’altra delle due maniere suddette ci fosse rivelato alcunché di nuovo o di diverso nel campo della fede, non dobbiamo acconsentirvi in nessun modo, neppure se fossimo certi che colui il quale ce lo manifesta è un angelo del cielo. Così afferma S. Paolo: Licet nos, aut angelus de coelo evangelizet vobis praeterquam quod evangelizavimus vobis, anathema sit (Gal. 1, 8), che vuol dire: Anche se noi stessi o un angelo del cielo vi annunziasse o vi predicasse cose diverse da quelle che vi abbiamo annunziato noi, sia anatema.
4 — Non essendovi quindi da rivelare, circa la sostanza della fede, altri articoli, all’infuori di quelli già manifestati dalla Chiesa, ne segue che non solo è necessario per l’anima rigettare quanto di nuovo le venga rivelato in rapporto a quella virtù, ma le conviene, per cautela, non ammettere altre verietà involute. A causa poi della purezza che deve avere nella fede, ella, anche se le vengono rivelate di nuovo verità già di fede, non deve credere ad esse per la semplice ragione che le sono nuovamente manifestate, ma perché sono già sufficientemente rivelate alla Chiesa; anzi, chiudendo loro gli occhi dell’intelletto, si appoggi con semplicità alla dottrina e alla fede di lei, la quale, come dice S. Paolo, entra attraverso l’udito (Rom. 10, 17). Infine, se non vuole essere ingannata, non presti credito né attenzione a queste verità di fede nuovamente rivelate, quantunque le sembrino conformi e vere. Il demonio infatti, per ingannare e per insinuare menzogne, alimenta in primo luogo con verità o con cose verosimili, onde genenare sicurezza e subito dopo trarre in inganno. Si comporta come la setola che si usa per cucire il cuoio: prima entra la setola rigida, poi il filo floscio, il quale non potrebbe entrare se quella non gli facesse da guida.
5 — L’anima dunque stia bene attenta a ciò poiché, ammesso il caso che non vi sia da temere di essere ingannata in tal modo, sarà conveniente che ella non desideri di intendere chiaramente le verità riguardanti la fede, onde conservarne puro e intero il merito e giungere per questa notte dell’intelletto alla divina luce dell’unione con Dio. In qualsiasi nuova rivelazione importa molto attenersi alle profezie passate; ce ne dà una dimostraziene l’Apostolo S. Pietro il quale pur avendo veduto in qualche modo sul Tabor la gloria del Figlio di Dio, nella sua lettera canonica scrive queste parole: Et habemus firmiorem pro pheticum sermonem, cui bene facitis attendentes (2 Piet. I, 19), come se dicesse: sebbene sia vera la visione del Cristo da me avuta sul Tabor più ferma e certa è la parola della profezia che ci è stata annunziata, a cui fate bene ad appoggiare la vostra anima.
6 — Se è vero che, per le cause suddette, è conveniente chiudere gli occhi alle rivelazioni che hanno per oggetto le proposizioni di fede, quanto più sarà necessanio non ammettere e non dare importanza alle altre cencernenti cose diverse dalla fede, nelle quali ordinariamente il demonio si intromette in modo da farmi ritenere impossibile che eviti di essere ingannato colui il quale non si sforza di rifiutarle, tanto è grande l’apparenza di verità e la certezza che il maligno vi pone. Questi infatti, perché vi si creda, unisce loro tante verosimiglianze e convenienze e le stabilisce nel senso e nell’immaginazione così fermamente da far sembrare all’anima che esse avverranno proprio in quel mado. La spinge inoltre ad attaccarvisi con ostinazione e se essa non sarà umile, sarà molto difficile distaccarla e farle credere il contrario. Pertanto l’anima pura, prudente, semplice e umile deve resistere con grande forza e cura alle rivelazieni e alle visioni come se fossero tentazioni pericolose, poiché non è necessario desidrarle, anzi si devono rifiutare per progredine verso l’unione di amore. A ciò vuole alludere Salomone quando disse: Qual necessità ha l’uomo di volere e di cercare le cose che sono al di sopra della sua capacità? (Eccle. 7, 1), come se dicesse: per essere perfetto l’uomo non ha bisogno alcuno di volere cose soprannaturali per via soprannaturale, il che è al di sopra delle sue capacità.
7 — Poiché alle obiezioni possibli contro tale dottrina è già stato risposto ai capitoli diciannovesimo e ventesimo del presente libro, rimandando ad essi, dico solo che l’anima, per camminare puramente e senza errore nella notte della fede verso l’unione, deve guardarsi da tutti quei favori.

Preghiera a san Paolo

http://www.paoline.org/paoline__italiano_/preghiere/00004763_Preghiera_a_san_Paolo.html

DAL SITO DELLE FIGLIE DI SAN PAOLO

Preghiera a san Paolo

« L’apostolo Paolo bisogna che viva, e significa che viva con la sua scienza, col suo zelo, che viva con il suo spirito. Dobbiamo aspirare a questo:
di risuscitare il suo spirito in noi; di apprendere la sua scienza; di rivivere, di ridestare il suo zelo altissimo di apostolo…
Egli in verità ha saputo penetrare la scienza della carità di Gesù Cristo: in alto, nella sua profondità, nella sua larghezza, nella sua ampiezza… » (FSP34, p. 93).

G. Preghiamo nell’atteggiamento della lode e del rendimento di grazie, nel desiderio di far risuscitare lo spirito di san Paolo in noi… Come Paolo possiamo anche noi vivere la profonda consapevolezza: mi ha scelto, mi ha chiamato per grazia, ha rivelato in me il Figlio, perché lo annunziassi. Invochiamo la luce dello Spirito Santo perché ci doni di penetrare, come Paolo, la scienza della carità di Gesù Cristo.

Canto allo Spirito Santo: Emilie Spiritum tuum (n. 155)
Ascoltiamo l’esperienza diretta dell’apostolo Paolo

L 1 : Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio e la devastavo, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco (Gai 1,13ss).
Rit. Sancte Paule aposlole

L 2: Mi presentai a voi nella debolezza e con molto timore e trepidazione. La mia parola e la mia predicazione non si basarono su discorsi persuasivi di sapienza, ma sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non fosse fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio (ICor 2,3-4).
Rit. Sancte Panie apostole

L 1: Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare il diritto conferitemi dal Vangelo (ICor 9,16-18).
Rit. Sancte Panie apostole

L 2: Abbiamo questo tesoro in vasi di creta, affinchè appaia che questa straordinaria potenza appartiene a Dio, e non viene da noi. In tutto, infatti, siamo tribolati, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo (2Cor 4,7-10).
Rit: Sancte Panie apostole…

L 1: Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati (Rm 8,35.37).
Rit. Chi ci separerà dalla sua pace, la persecuzione, forse il dolore? Nessun potere ci separerà da Colui che è morto per noi.

L 2: lo sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore (Rm 8,38ss).
Rit. Chi ci separerà dalla sua gioia,
chi potrà strapparci il suo perdono? Nessuno al mondo ci allontanerà dalla vita in Cristo Signore.

G. Paolo è stato affascinato da Cristo e ormai per lui c’è un solo tesoro, Cristo stesso. Quando Paolo pensa alla sua esperienza di incontro con Gesù, l’immagine che gli viene in mente è quella di una forza travolgente: « Sono stato conquistato da Gesù Cristo ». La sua conversione è un atto da innamorato, provocato dalla follia dell’amore: lascia le cose più stimate per seguire la persona amata. Dirà al suo discepolo Timoteo:

Rendo grazie a colui che mi ha dato la forza, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia chiamandomi al ministero: io che per l’innanzi ero stato un bestemmiatore, un persecutore e un violento (ITm 1,12-13).

Inno a San Paolo (dal vespro proprio)

Esalti festante la Chiesa l
a gloria sublime di Paolo
che Dio tramutò da nemico
in docile apostolo suo.

Se prima spirava minacce
agli umili servi di Cristo
amore più intenso ora spira
ghermito dal Cristo risorto.

O sorte stupenda di eletto!
al ciclo rapito in visione
ascolta un arcano linguaggio,
contempla i misteri di Dio.

Spargendo il buon seme del Verbo
edifica chiese ferventi:
in terra sua lettera viva,
in ciclo suo gaudio e corona.

Al mondo smarrito nel buio sono faro di luce i suoi scritti; le tenebre eterne egli sfida finché Verità non trionfi.
A Cristo l’onore e la gloria col Padre e lo Spirito Santo, che in Paolo ha donato alle genti un padre e un maestro di vita. Amen.
Con i sentimenti di Paolo e sentendoci unite a tutte le sorelle che in questi giorni emettono la prima professione o la professione perpetua, rinnoviamo l’offerta della nostra vita.

Tutte: Rinnovazione dei voti (LdP p. 55).

Ant. al Magnificat
Paolo, apostolo del Vangelo e maestro di tutti i popoli, prega per noi Dio che ti ha eletto.
Preghiera conclusiva
Signore, Dio nostro, che nel tuo amore per gli uomini hai scelto e inviato l’apostolo Paolo ad annunciare il vangelo di Gesù Cristo morto e risorto, concedi a noi che lo onoriamo ispiratore e padre, di imitarlo nel portare la Parola che salva agli uomini del nostro tempo. Per Cristo nostro Signore.

Canto finale: Laudate omnes gentes (n. 813).

La donna valorizzata nell’opera di S. Luca per merito di Gesù il Signore sotto l’azione dello Spirito Santo (anche Paolo)

http://www.credereoggi.it/upload/2000/articolo119-120_111.asp

La donna valorizzata nell’opera di S. Luca per merito di Gesù il Signore sotto l’azione dello Spirito Santo

(anche Paolo)

Maria Luisa Rigato

Introduzione

L’evento della Pentecoste cristiana è uno dei temi più commentati e dipinti della cristianità. Essendo considerato l’evento originario della chiesa (At 11,15: «in principio»), è comunque sempre pieno di suggestione e oggetto di rinnovata interpretazione. Anziché definire le comunità cristiane delle origini come post-pasquali, in riferimento alla risurrezione del Signore Gesù, sarebbe più preciso definirle post-pentecostali, includendovi anche l’azione dello Spirito Santo, ossia dell’Inviato-dell’Apostolo da parte del Risorto che afferma[1]: «Io invio la Promessa del Padre mio su di voi» (Lc 24,49). Si noti l’enfatico «Io», grammaticalmente superfluo.
All’inizio del terzo millennio dalla venuta del Signore Gesù è forse (?) giunto il tempo di chiudere la fase della rivendicazione femminile[2], tipica dell’ultimo quarto del ventesimo secolo e frutto saporoso del concilio Vaticano II, per leggere e comprendere titoli e/o appellativi ministeriali presenti negli scritti del Nuovo Testamento – riferiti per secoli solamente agli uomini – finalmente e semplicemente in maniera inclusiva, ossia riferiti a discepoli donne e uomini, anche se grammaticalmente al maschile. Possa davvero adempiersi l’augurio-manifesto verosimilmente già pre-paolino: «né donna separatamente da uomo né uomo separatamente da donna, nel Signore» (1Cor 11,11), in un contesto non matrimoniale, ma liturgico. La prevaricazione dell’uno sull’altra e viceversa non è evangelica.
Le pagine seguenti sono una rilettura di alcuni dettagli della narrazione pentecostale lucana, per ri-scoprire una volta di più l’aspetto inclusivo – in questo caso nell’opera lucana (Vangelo secondo Luca e Atti degli Apostoli) –, ossia la graduale comprensione tra i discepoli del «Signore Gesù»[3] circa la pari dignità tra uomini e donne, capaci queste di pari responsabilità nella chiesa, anche a livello dei carismi di profezia, di invio (= apostolato), di testimonianza, di evangelizzazione (attiva), in seguito al battesimo in Spirito Santo e fuoco (Lc 3,16 = Mt 3,11; senza «fuoco»: Mc 1,8; Gv 1,33; At 1,5).
Procedo pertanto dalla precomprensione, fondata sullo studio dei testi, che nella chiesa delle origini, e già in embrione nella sequela di Gesù, si possa o si debba parlare di inclusività;detto diversamente, i titoli al maschile riguardano uomini e donne. Pensiamo ad esempio al ben noto passo di Rm 16,1, dove Paolo in prima istanza raccomanda «Febe, la nostra sorella, che è anche diacono della chiesa in Cencre» (il porto orientale di Corinto). «Diacono» – come il nostro «ministro» – è dunque un titolo maschile adoperato da Paolo qui per una donna, ossia in maniera inclusiva.
Tra i discepoli del Signore Gesù si possono distinguere «i Dodici», poi la cerchia larga dei discepoli-fratelli, donne e uomini, poi – per effetto speciale della Pentecoste – un gruppo più ristretto di discepoli-apostoli, donne e uomini. Quanto a «i Dodici», – in cima alla piramide o alla base della medesima – anch’essi discepoli-apostoli[4], ma solo uomini, rappresentano nella chiesa i capostipiti, ovviamente maschi, delle dodici tribù d’Israele. Essi «nel regno» di Gesù «siederanno su troni giudicando le dodici tribù d’Israele» (Lc 22,30).
È vero, oggi si tratta spesso di cercare puntigliosamente, tra le righe, affermazioni, indicazioni, indizi, che alla fine si trovano come delle perle preziose nascoste a conferma e supporto di una interpretazione inclusiva! Ritengo comunque che qui si tratti di un nostro problema, non di un problema per i primi lettori degli scritti del Nuovo Testamento. Per essi l’inclusività era presumibilmente ovvia, per cui quando si leggeva nel testo «discepoli» questo appellativo includeva donne e uomini. Prima della riforma liturgica del Vaticano II la proclamazione del Vangelo durante la Messa iniziava spesso con la frase: «Il Signore disse ai suoi discepoli». Nella comprensione dei cristiani e nelle prediche questa espressione era l’esatto equivalente di: «Il Signore disse ai suoi apostoli, cioè ai Dodici»! È difficile superare tanti secoli di lettura ideologica al maschile!
Le analisi lessicali del testo greco ed ebraico sono giustificate dal presupposto che il vocabolario e la forma letteraria del testo sono già il contenuto del testo stesso.

Il racconto di Pentecoste

Ecco una traduzione la più letterale possibile di At 2,1-4:
1E nel compiersi il giorno della Pentecoste, erano tutti insieme nello stesso posto. 2Improvvisamente ci fu un suono come di soffio irruento violento e riempì l’intera casa dove erano seduti. 3E apparvero ad essi lingue divise come di fuoco e sedette/stette sopra ciascuno di essi 4e tutti furono ricolmi di Spirito Santo e cominciarono a parlare con altre lingue così come lo Spirito dava ad essi di esprimersi.
Chi sono i «tutti» presenti all’effusione dello Spirito Santo? La prima domanda che esige una risposta è proprio questa: chi sono i «tutti» di At 2,1.4, beneficiari dell’effusione dello Spirito Santo? Nei commentari si trovano tre diverse posizioni:

-     sono soltanto i Dodici apostoli;
-     sono gli Undici assieme al gruppo di donne e dei fratelli di Gesù elencati in At 1,13, ma non i centoventi di At 1,15;
-     sono la totalità dei presenti dichiarata per ultima, e cioè i centoventi di At 1,15, inclusi i nominati in At 1,13:«Pietro, Giovanni, Giacomo, Andrea, Filippo, Tommaso, Bartolomeo, Matteo, Giacomo di Alfeo, Simone lo zelota, Giuda di Giacomo, insieme a[lle] donne e a Maria la Madre di Gesù e ai fratelli [consanguinei] di Lui».

Per motivi di spazio bisogna qui rinunciare ad un’analisi minuziosa[5] dei passi significativi per l’argomento in esame in cui troviamo in Luca il termine «tutti». Riassumo pertanto sinteticamente.
Siccome letterariamente e canonicamente gli Atti degli Apostoli sono la continuazione ideale del Vangelo secondo Luca, non possiamo prescindere da esso. Dunque le persone presenti nella duplice narrazione lucana dell’ascensione del Signore Gesù e nel contesto narrativo immediato sono le medesime, sia nel Vangelo (Lc 24,33-53) sia negli Atti (At 1,1-14). In Lc 24,33 si tratta dei «due» ritornati da Emmaus, tra cui Cleofa, e «gli Undici e quelli con essi»; chi sono «quelli con essi»? Sono le stesse persone, narrativamente parlando, nominate da Luca all’inizio del capitolo 24: le donne Maria Maddalena, Giovanna e Maria di Giacomo e le rimanenti con esse (Lc 24,10). Queste, avendo vissuta l’esperienza sconvolgente presso il sepolcro di uomini-angeli (Lc 24,4-23) che danno loro l’annuncio della risurrezione di Gesù, «annunziarono tutte queste cose agli Undici e a tutti i rimanenti» (Lc 24,9). Questa proposizione è letterariamente parallela con: «dicevano/ripetevano queste cose agli apostoli» (Lc 24,10), nel senso che anche «i rimanenti» sono apostoli accanto agli Undici. Anche in At 2,37 ricorre una formula analoga: «Pietro e i rimanenti apostoli» più ampia di «Pietro con gli Undici» (At 2,14). Nel capitolo 24 del Vangelo, Luca non nomina né la Madre di Gesù, né i parenti di lui: lo farà in At 1,14.
Nel prologo degli Atti, in prima battuta Gesù risorto dà disposizioni «agli apostoli [...] che si era scelto» (At 1,2). Siccome Luca fa un preciso riferimento al suo «primo libro» (At 1,1), e siccome in Lc 6,13 ricorre lo stesso termine riferito a Gesù che «di tra i discepoli si scelse dodici e li denominò anche apostoli», viene spontanea l’identificazione degli apostoli di At 1,2 con «i Dodici», rispettivamente «gli Undici» perché nel frattempo Giuda era morto. In At 1,3 «gli Undici» non sono più soli, anche se narrativamente Luca ce lo fa sapere soltanto in At 1,14 dove gli Undici sono «con donne e parenti stretti», e in occasione dell’elezione di Mattia (At 1,21-26). Nel primo caso si tratta di un numero relativamente ristretto di persone, comunque individuate e individuabili. L’aver ricordato esplicitamente la presenza di «donne», tra cui Maria la Madre di Gesù», è, a mio avviso, estremamente importante.
In At 1,24 Luca allarga l’idea di «tutti». È vero che il Signore è conoscitore del cuore di tutti in senso assoluto, ma qui si tratta del gruppo che a lui si rivolge in preghiera, ossia i «circa centoventi fratelli» (At 1,15). Per rimpiazzare Giuda, deve trattarsi di uno presente alle vicende «del Signore Gesù, incominciando dal battesimo di Giovanni fino» a quando «fu assunto di tra voi/noi» e vengono proposti due. Viene eletto tramite la sorte il dodicesimo. Deve comunque trattarsi di uno degli uomini (un essere maschile) del gruppo, «testimone della Sua risurrezione con noi uno di questi».
Mattia[6] viene annoverato «insieme agli Undici apostoli» dopo una preghiera rivolta al Signore di scegliere  tra i due (At 1,11.22.24).
In At 2,1 i «tutti» riuniti per l’evento della Pentecoste sono dunque in primo luogo il gruppo di At 1,14. In secondo luogo anche i circa centoventi fratelli (At 1,15), tenendo presente che «circa» non esprime un numero preciso, ma un gruppo ragguardevole multiplo dei Dodici. Se così non fosse, bisognerebbe escludere sia la Madre di Gesù sia il neoeletto Mattia! Questi «tutti» (At 2,4.11) furono ricolmi di Spirito Santo e incominciarono a parlare un linguaggio ispirato: «con altre lingue». Oggetto del parlare ispirato di tutti, non solo dei Dodici, sono «le grandi opere di Dio».
In At 2,7 «tutti questi che parlano» sono definiti «Galilei». Tra essi possiamo pensare ad una parte di «tutti i noti/conoscenti» a/di Gesù presenti alla crocifissione, uomini e donne, ma da lontano (Lc 23,49) e soprattutto «donne alla sequela (che seguono con) di lui dalla Galilea vedenti queste cose».
Non sarebbe giusto glissare sull’evidente enfasi lucana a proposito dei due participi al femminile «quelle che seguono con» e «quelle che hanno visto». Non soltanto queste donne vengono definite «seguaci» di Gesù, ma anche testimoni «oculari». Luca ritorna ancora sull’argomento con altri due participi al femminile e un verbo di visione al momento della sepoltura di Gesù. Rimane sempre la difficoltà di tradurre dal greco queste forme verbali: «Le donne seguaci però, le quali erano venute con lui dalla Galilea osservarono il sepolcro e come fu deposto il suo corpo» (Lc 23,55). Di queste donne i «due» sulla via verso Emmaus riferiranno a Gesù risorto – come se non lo sapesse! – «che esse vanno dicendo anche di aver visto una visone di angeli» (Lc 24,23). Difficile non pensare ad un richiamo a Lc 1,2: «come hanno trasmesso a noi coloro che fin dal principio hanno visto con i propri occhi e divennero ministri della parola».
Quanto ai «galilei» di At 2,7 – limitatamente ai sudditi della tetrarchia di Erode Antipa (Lc 3,1) – possiamo almeno pensare, quanto alle donne, a Maria di Magdala, a Giovanna moglie di Cusa amministratore di Erode, a Susanna (Lc 8,2-3; per le prime due anche Lc 24,10) e alle «molte altre le quali[7] li servivano con i loro beni» (Lc 8,3). La struttura grammaticale di Lc 8,1.3 è particolarmente intrigante e permette la lettura seguente: Gesù proclama ed evangelizza il regno di Dio ««ed i Dodici con lui e alcune donne, che erano state guarite [...] e molte altre». Le «alcune donne» non sono le «molte altre». Così come tra i discepoli vi era un gruppo ristretto di dodici «con Gesù», analogamente tra le donne vi era un gruppetto ristretto di tre[8] (un quarto di dodici) «con Gesù», quasi a rappresentare le madri d’Israele – Sara (Rm 4,19; Rm 9,9; Eb 11,11; 1Pt 3,6), Rebecca (Rm 9,10), Rachele (Mt 2,18) –. L’imperativo «ricordatevi» (Lc 24,6c) riguarda le donne «galilee» in maniera del tutto particolare. I due messaggeri [angeli] ingiungono alle donne di ricordarsi la profezia di Gesù sulla sua morte-risurrezione che egli aveva fatto proprio a loro, nella Galilea. I riscontri letterari conducono alle predizioni fatte ai Dodici in particolare, e ai discepoli in generale (Lc 18,31-34; Lc 9,22). Per Luca dunque le donne erano presenti in entrambi i gruppi.
Altre seguaci galilee sono probabilmente la suocera di Simon Pietro che «li serviva» (Lc 4,39); Maria di (= moglie di) Giacomo [il piccolo cf. Mc 15,40] e «le rimanenti con esse» (Lc 24,10), definite dai «due di tra essi» (Lc 24,13) «alcune donne di tra noi» (Lc 24,22). Nella redazione lucana il villaggio di Marta e Maria è anonimo (Lc 10,38). Vuole Luca forse annoverare tra le donne «galilee» anche le due sorelle discepole?
Quanto ai fratelli-parenti possiamo pensare a Giacomo[9] consanguineo di Gesù (Mt 13,55; Mc 6,3; Gal 1,19), a Maria di (= moglie di) Joses (Mc 15,47), a Cleofa (Lc 24,18), verosimilmente il Clopa giovanneo (Gv 19,25) e ad altri della famiglia di Maria e/o di Giuseppe, non nomini esplicitamente da Luca.
Tra i non-Galilei possiamo annoverare i padroni di casa: «l’intera casa» (At 2,2) ed altri. Tra gli apostoli pentecostali – come mi piace chiamarli – vanno certamente annoverati Barnaba, Giovanni evangelista (distinto dal figlio di Zebedeo), che ho definito «ultimo dei prestigiosi Presbiteri di Gerusalemme, discepolo del Signore Gesù»[10], l’ex-cieco nato giovanneo (Gv 9,7.38), Maria di Magdala; Andronico e Giunia, e infine lo stesso Saulo-Paolo. Egli sembra voler fornire un identikit degli apostoli della prima generazione in due contesti diversi di autodifesa del suo essere apostolo: essere liberi (non schiavi), aver veduto Gesù il Signore risorto, essere ingaggiati da Lui e pere Lui, essere Ebrei (ossia di lingua ebraica), di stirpe israelitica, discendenti di Abramo (1Cor 9,1-2; 2Cor 11,22-23).
Quanto ad essere «testimoni» della risurrezione di Gesù e alla «missione» post-pentecostale, per motivi di spazio rimando al mio studio indicato nella Bibliografia.

Conclusione

Possiamo vedere un’analogia nella presentazione lucana di due eventi originari: l’inizio apostolico-profetico di Gesù e l’inizio apostolico-profetico della chiesa. Detto diversamente, «Gesù di Nazaret, come Dio lo unse di Spirito Santo e potenza» (At 10,37-38; At 4,27; Lc 4,18) e l’essere battezzati in Spirito Santo e fuoco dei discepoli (Lc 3,16) per essere apostoli-profeti-testimoni del Risorto. Per il primo evento Luca cita esplicitamente Isaia (Lc 4,18 = Is 61,1-2). Per il secondo Luca cita esplicitamente Gioele: «profeteranno i vostri figli e le vostre figlie [...] i miei servi e le mie serve» (At 2,17-18 = Gl 3,1-2). Non si può inoltre negare la vicinanza impressionante di Is 6,5-8 ad At 2,3-4. Alla luce di questi passi profetici e ad un’attenta rilettura del racconto lucano sulla Pentecoste emerge l’inclusività di tre titoli carismatico-ministeriali, nel senso che ne furono investiti uomini e donne presenti, i «tutti» di At 1,15, intimamente legati al Maestro e rappresentativi di tutta la chiesa di allora e di adesso. Nella comunità pentecostale non viene sminuito il ruolo dei Dodici ma si allarga la cerchia degli apostoli e dei testimoni, con caratteristiche ben precise. I presenti, donne e uomini, ricevono dallo Spirito una lingua purificata dal fuoco divino per essere inviati a rendere testimonianza al/del Signore Gesù; sono cioè costituiti apostoli-profeti-testimoni pentecostali della sua risurrezione.
Aver rappresentato per secoli pittoricamente l’evento della Pentecoste come se riguardasse soltanto «gli Undici»/«i Dodici» e Maria la Madre di Gesù, con lo Spirito Santo discendente come una colomba, è dunque un duplice falso esegetico e teologico, perché secondo la narrazione lucana le persone presenti erano in numero maggiore e di «colomba» non c’è l’ombra. Se c’era Maria, c’erano anche gli altri «tutti»!
Possiamo allora chiederci come mai attraverso i secoli i carismi ministeriali ri-divennero sempre più esclusivi, riservati cioè al genere maschile. Mentre l’inclusività del titolo di «profeta» non ha creato problema perché si trova al femminile sia nell’Antico come nel Nuovo Testamento, l’inclusività dei titoli ministeriali di apostoli e testimoni ha rappresentato un tabù nella chiesa dei secoli successivi a quello delle origini, forse per un fenomeno di normalizzazione restaurata. La comunità originaria, nonostante i condizionamenti culturali di diversa natura, fece uno sforzo enorme sotto l’azione dello Spirito Santo, assecondando una precisa volontà del Signore risorto.
Insieme a Luca, anche Giovanni, alla sua maniera, narra della promessa e dell’effusione dello Spirito Santo. Parafrasando Gv 14,26 con Gv 16,13 e Gv 20,22: il Consolatore, lo Spirito Santo, ripresentò alla memoria dei discepoli quanto il Signore aveva detto. Egli, «lo Spirito della Verità» ossia lo Spirito di Gesù rivelatore introdusse i discepoli ad una ulteriore verità che prima non erano neppure in grado di sopportare, dopo che il Signore risorto «alitò e disse loro ricevete Spirito Santo». Nel «discorso del congedo», quando Gesù prega non soltanto per «questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in» lui (Gv 17,20), chiede al Padre «che tutti siano una cosa sola come Noi» (Gv 17,11.21.22.23). In questa preghiera del Gesù giovanneo possiamo tranquillamente collocare anche, e forse prima di tutto, l’istanza dell’unità tra discepole e discepoli.

Maria-Luisa Rigato

Sommario
È giunto il tempo di comprendere finalmente e semplicemente tutti gli appellativi ministeriali del Nuovo Testamento in maniera inclusiva, ossia donne e uomini inclusi. Senza nulla togliere all’importanza dei «Dodici» apostoli, da tutta la narrazione lucana sulla Pentecoste (At 2,1-13, ­ messa anche a confronto con Is 6,5-8) ­ emerge che «gli altri» non costituiscono una cornice decorativa per i «Dodici», ma «tutti» i presenti, donne e uomini, ricevono dallo Spirito Santo una lingua purificata dal fuoco divino per essere inviati a rendere testimonianza per Gesù il Signore: tutti diventanoapostoli-profeti-testimonidella sua risurrezione.

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