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BENEDETTO XVI – SAN PAOLO (11). – L’IMPORTANZA DELLA CRISTOLOGIA: LA DECISIVITÀ DELLA RISURREZIONE

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BENEDETTO XVI – SAN PAOLO (11). – L’IMPORTANZA DELLA CRISTOLOGIA: LA DECISIVITÀ DELLA RISURREZIONE

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 5 novembre 2008

Cari fratelli e sorelle,

“Se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede… e voi siete ancora nei vostri peccati” (1 Cor 15,14.17). Con queste forti parole della prima Lettera ai Corinzi, san Paolo fa capire quale decisiva importanza egli attribuisse alla risurrezione di Gesù. In tale evento infatti sta la soluzione del problema posto dal dramma della Croce. Da sola la Croce non potrebbe spiegare la fede cristiana, anzi rimarrebbe una tragedia, indicazione dell’assurdità dell’essere. Il mistero pasquale consiste nel fatto che quel Crocifisso “è risorto il terzo giorno secondo le Scritture” (1 Cor 15,4) – così attesta la tradizione protocristiana. Sta qui la chiave di volta della cristologia paolina: tutto ruota attorno a questo centro gravitazionale. L’intero insegnamento dell’apostolo Paolo parte dal e arriva sempre al mistero di Colui che il Padre ha risuscitato da morte. La risurrezione è un dato fondamentale, quasi un assioma previo (cfr 1 Cor 15,12), in base al quale Paolo può formulare il suo annuncio (kerygma) sintetico: Colui che è stato crocifisso, e che ha così manifestato l’immenso amore di Dio per l’uomo, è risorto ed è vivo in mezzo a noi.
E’ importante cogliere il legame tra l’annuncio della risurrezione, così come Paolo lo formula, e quello in uso nelle prime comunità cristiane prepaoline. Qui davvero si può vedere l’importanza della tradizione che precede l’Apostolo e che egli, con grande rispetto e attenzione, vuole a sua volta consegnare. Il testo sulla risurrezione, contenuto nel cap. 15,1-11 della prima Lettera ai Corinzi, pone bene in risalto il nesso tra “ricevere” e “trasmettere”. San Paolo attribuisce molta importanza alla formulazione letterale della tradizione; al termine del passo in esame sottolinea: “Sia io che loro così predichiamo” (1 Cor 15,11), mettendo con ciò in luce l’unità del kerigma, dell’annuncio per tutti i credenti e per tutti coloro che annunceranno la risurrezione di Cristo. La tradizione a cui si ricollega è la fonte alla quale attingere. L’originalità della sua cristologia non va mai a discapito della fedeltà alla tradizione. Il kerigma degli Apostoli presiede sempre alla personale rielaborazione di Paolo; ogni sua argomentazione muove dalla tradizione comune, in cui s’esprime la fede condivisa da tutte le Chiese, che sono una sola Chiesa. E così san Paolo offre un modello per tutti i tempi sul come fare teologia e come predicare. Il teologo, il predicatore non crea nuove visioni del mondo e della vita, ma è al servizio della verità trasmessa, al servizio del fatto reale di Cristo, della Croce, della risurrezione. Il suo compito è aiutarci a comprendere oggi, dietro le antiche parole, la realtà del “Dio con noi”, quindi la realtà della vera vita.
E’ qui opportuno precisare: san Paolo, nell’annunciare la risurrezione, non si preoccupa di presentarne un’esposizione dottrinale organica – non vuol scrivere quasi un manuale di teologia – ma affronta il tema rispondendo a dubbi e domande concrete che gli venivano proposte dai fedeli; un discorso occasionale dunque, ma pieno di fede e di teologia vissuta. Vi si riscontra una concentrazione sull’essenziale: noi siamo stati “giustificati”, cioè resi giusti, salvati, dal Cristo morto e risorto per noi. Emerge innanzitutto il fatto della risurrezione, senza il quale la vita cristiana sarebbe semplicemente assurda. In quel mattino di Pasqua avvenne qualcosa di straordinario, di nuovo e, al tempo stesso, di molto concreto, contrassegnato da segni ben precisi, registrati da numerosi testimoni. Anche per Paolo, come per gli altri autori del Nuovo Testamento, la risurrezione è legata alla testimonianza di chi ha fatto un’esperienza diretta del Risorto. Si tratta di vedere e di sentire non solo con gli occhi o con i sensi, ma anche con una luce interiore che spinge a riconoscere ciò che i sensi esterni attestano come dato oggettivo. Paolo dà perciò – come i quattro Vangeli – fondamentale rilevanza al tema delle apparizioni, le quali sono condizione fondamentale per la fede nel Risorto che ha lasciato la tomba vuota. Questi due fatti sono importanti: la tomba è vuota e Gesù è apparso realmente. Si costituisce così quella catena della tradizione che, attraverso la testimonianza degli Apostoli e dei primi discepoli, giungerà alle generazioni successive, fino a noi. La prima conseguenza, o il primo modo di esprimere questa testimonianza, è di predicare la risurrezione di Cristo come sintesi dell’annuncio evangelico e come punto culminante di un itinerario salvifico. Tutto questo Paolo lo fa in diverse occasioni: si possono consultare le Lettere e gli Atti degli Apostoli dove si vede sempre che il punto essenziale per lui è essere testimone della risurrezione. Vorrei citare solo un testo: Paolo, arrestato a Gerusalemme, sta davanti al Sinedrio come accusato. In questa circostanza nella quale è in gioco per lui la morte o la vita, egli indica quale è il senso e il contenuto di tutta la sua predicazione: “Io sono chiamato in giudizio a motivo della speranza nella risurrezione dei morti” (At 23,6). Questo stesso ritornello Paolo ripete continuamente nelle sue Lettere (cfr 1 Ts 1,9s; 4,13-18; 5,10), nelle quali fa appello anche alla sua personale esperienza, al suo personale incontro con Cristo risorto (cfr Gal 1,15-16; 1 Cor 9,1).
Ma possiamo domandarci: qual è, per san Paolo, il senso profondo dell’evento della risurrezione di Gesù? Che cosa dice a noi a distanza di duemila anni? L’affermazione “Cristo è risorto” è attuale anche per noi? Perché la risurrezione è per lui e per noi oggi un tema così determinante? Paolo dà solennemente risposta a questa domanda all’inizio della Lettera ai Romani, ove esordisce riferendosi al “Vangelo di Dio … che riguarda il Figlio suo, nato dal seme di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santità in virtù della risurrezione dei morti” (Rm 1,3-4). Paolo sa bene e lo dice molte volte che Gesù era Figlio di Dio sempre, dal momento della sua incarnazione. La novità della risurrezione consiste nel fatto che Gesù, elevato dall’umiltà della sua esistenza terrena, viene costituito Figlio di Dio “con potenza”. Il Gesù umiliato fino alla morte di croce può dire adesso agli Undici: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra” (Mt 28, 18). E’ realizzato quanto dice il Salmo 2, 8: “Chiedi a me, ti darò in possesso le genti e in dominio i confini della terra”. Perciò con la risurrezione comincia l’annuncio del Vangelo di Cristo a tutti i popoli – comincia il Regno di Cristo, questo nuovo Regno che non conosce altro potere che quello della verità e dell’amore. La risurrezione svela quindi definitivamente qual è l’autentica identità e la straordinaria statura del Crocifisso. Una dignità incomparabile e altissima: Gesù è Dio! Per san Paolo la segreta identità di Gesù, più ancora che nell’incarnazione, si rivela nel mistero della risurrezione. Mentre il titolo di Cristo, cioè di ‘Messia’, ‘Unto’, in san Paolo tende a diventare il nome proprio di Gesù e quello di Signore specifica il suo rapporto personale con i credenti, ora il titolo di Figlio di Dio viene ad illustrare l’intimo rapporto di Gesù con Dio, un rapporto che si rivela pienamente nell’evento pasquale. Si può dire, pertanto, che Gesù è risuscitato per essere il Signore dei morti e dei vivi (cfr Rm 14,9; e 2 Cor 5,15) o, in altri termini, il nostro Salvatore (cfr Rm 4,25).
Tutto questo è gravido di importanti conseguenze per la nostra vita di fede: noi siamo chiamati a partecipare fin nell’intimo del nostro essere a tutta la vicenda della morte e della risurrezione di Cristo. Dice l’Apostolo: siamo “morti con Cristo” e crediamo che “vivremo con lui, sapendo che Cristo risorto dai morti non muore più; la morte non ha più potere su di lui” (Rm 6,8-9). Ciò si traduce in una condivisione delle sofferenze di Cristo, che prelude a quella piena configurazione con Lui mediante la risurrezione a cui miriamo nella speranza. E’ ciò che è avvenuto anche a san Paolo, la cui personale esperienza è descritta nelle Lettere con toni tanto accorati quanto realistici: “Perché io possa conoscere Lui, la potenza della sua risurrezione, la comunione alle sue sofferenze, facendomi conforme alla sua morte, nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti” (Fil 3,10-11; cfr 2 Tm 2,8-12). La teologia della Croce non è una teoria – è la realtà della vita cristiana. Vivere nella fede in Gesù Cristo, vivere la verità e l’amore implica rinunce ogni giorno, implica sofferenze. Il cristianesimo non è la via della comodità, è piuttosto una scalata esigente, illuminata però dalla luce di Cristo e dalla grande speranza che nasce da Lui. Sant’Agostino dice: Ai cristiani non è risparmiata la sofferenza, anzi a loro ne tocca un po’ di più, perché vivere la fede esprime il coraggio di affrontare la vita e la storia più in profondità. Tuttavia solo così, sperimentando la sofferenza, conosciamo la vita nella sua profondità, nella sua bellezza, nella grande speranza suscitata da Cristo crocifisso e risorto. Il credente si trova perciò collocato tra due poli: da un lato, la risurrezione che in qualche modo è già presente e operante in noi (cfr Col 3,1-4; Ef 2,6); dall’altro, l’urgenza di inserirsi in quel processo che conduce tutti e tutto verso la pienezza, descritta nella Lettera ai Romani con un’ardita immagine: come tutta la creazione geme e soffre quasi le doglie del parto, così anche noi gemiamo nell’attesa della redenzione del nostro corpo, della nostra redenzione e risurrezione (cfr Rm 8,18-23).
In sintesi, possiamo dire con Paolo che il vero credente ottiene la salvezza professando con la sua bocca che Gesù è il Signore e credendo con il suo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti (cfr Rm 10,9). Importante è innanzitutto il cuore che crede in Cristo e nella fede “tocca” il Risorto; ma non basta portare nel cuore la fede, dobbiamo confessarla e testimoniarla con la bocca, con la nostra vita, rendendo così presente la verità della croce e della risurrezione nella nostra storia In questo modo infatti il cristiano si inserisce in quel processo grazie al quale il primo Adamo, terrestre e soggetto alla corruzione e alla morte, va trasformandosi nell’ultimo Adamo, quello celeste e incorruttibile (cfr 1 Cor 15,20-22.42-49). Tale processo è stato avviato con la risurrezione di Cristo, nella quale pertanto si fonda la speranza di potere un giorno entrare anche noi con Cristo nella vera nostra patria che sta nei Cieli. Sorretti da questa speranza proseguiamo con coraggio e con gioia.

Saluti:

LA CORSA DI SAN PAOLO VERSO IL PARADISO

http://digilander.libero.it/davide.arpe/PaoloCorridore.htm

LA CORSA DI SAN PAOLO VERSO IL PARADISO

Filippesi 3,[8]Anzi, tutto (i privilegi che lo legano al suo popolo ndr.) ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo [9]e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. [10]E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, [11]con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. [12]Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. [13]Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, [14]corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù. [15]Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. [16]Intanto, dal punto a cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea. [17]Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi.
[18]Perché molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: [19]la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra. [20]La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, [21]il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose. (Vedi il contesto di Filippesi 3)

1Corinti 9,[24]Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! [25]Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. [26]Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, [27]anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato.

Le difficoltà di Paolo in 2 Corinzi 11,22-33
22Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! 23Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. 24Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; 25tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. 26Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; 27disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. 28Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. 29Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?
30Se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza. 31Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. 32A Damasco, il governatore del re Areta aveva posto delle guardie nella città dei Damasceni per catturarmi, 33ma da una finestra fui calato giù in una cesta, lungo il muro, e sfuggii dalle sue mani.

La lotta tra corpo e Spirito in Romani 8,6-9
6Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. 7Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. 8Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. 9Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi.

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LETTERA AGLI EBREI: PRESENTAZIONE GENERALE

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LETTERA AGLI EBREI: PRESENTAZIONE GENERALE

Giuseppe De Virgilio

La lettera agli Ebrei è l’esempio più antico e completo di omelia cristiana su Cristo «sommo sacerdote della nuova alleanza». Affascinante e complesso, questo scritto intende formare e sostenere i credenti nella concretezza della vita, in vista di un’autentica testimonianza di fede. Lo scritto neotestamentario che va sotto il titolo di «Lettera agli Ebrei» costituisce, per forma e contenuto, una delle più importanti testimonianze della tradizione teologica sul sacerdozio di Cristo elaborata nel cristianesimo delle origini[1]. Proponiamo un percorso introduttivo alla lettera in quattro tappe: a) Tradizione e canonicità; b) Contesto e redazione; c) Caratteristiche letterarie; d) Caratteristiche teologiche.

Tradizione e canonicità Tradizione Nell’elenco della Bibbia cattolica la lettera agli Ebrei segue la lettera a Filemone e precede quella di Giacomo. Anche se non contiene come mittente il nome di Paolo, fin dall’antichità essa è stata inserita tra le lettere paoline. La collocazione attuale è attestata per la prima volta nel codice Cleromontano (VI sec.), mentre nei precedenti codici la lettera era posta tra 2Tessalonicesi e 1Timoteo (cf. Sinaitico e Alessandrino) e nell’antichissimo papiro P46 (Chester Beatty, sec. II) si trova tra Romani e 1Corinzi. Non c’è concordanza della tradizione antica circa l’origine della lettera. La discussione riguarda il problema dell’autenticità paolina. Presso le comunità dell’Oriente, Ebrei fu ritenuta paolina nonostante le differenze rispetto al resto dell’epistolario. Queste erano spiegate in diversi modi: Clemente Alessandrino ipotizza che la lettera fosse stata inizialmente scritta da Paolo in ebraico e tradotta in greco da Luca[2]; Origene riconosce che la dottrina della lettera è degna di Paolo, mentre la forma letteraria sarebbe di un altro autore. In Occidente le perplessità circa l’autenticità paolina erano accentuate dall’impiego di Ebrei nelle controversie con gli ariani (cf. Eusebio; Tertulliano). Canonicità Verso la fine del IV sec. si perviene alla determinazione canonica anche grazie al peso autorevole della Chiesa d’Oriente. Ilario di Poitiers cita Ebrei allo stesso titolo delle lettere paoline. Girolamo lascia aperta la questione dell’autenticità paolina, confermando però la canonicità della lettera. Agostino d’Ippona conferma la canonicità invocando l’autorità delle Chiese orientali[3]. Il riconoscimento canonico è ufficialmente sancito nel Concilio di Laodicea (360) ed è attestato da Attanasio (cf. Lettera di Pasqua del 367). In Occidente l’attestazione canonica si trova nel Sinodo romano (382) e nei successivi Concili africani di Ippona (393) e Cartagine (397 e 419). Confermando tale tradizione i Concili di Firenze (1441) e di Trento (1546) inseriscono Ebrei nell’elenco ufficiale dei libri biblici, per quanto la definizione canonica tridentina non si pronunciò sulla questione dell’autenticità. Il dibattito sull’origine paolina È comprensibile come le perplessità che accompagnarono gli antichi circa l’autenticità-paternità paolina e l’identità dell’autore abbiano caratterizzano anche l’epoca moderna e contemporanea. La prima questione concerne il confronto letterario e teologico di Ebrei con l’epistolario paolino. Pur riconoscendo alcune rilevanti convergenze letterarie e tematiche con le lettere dell’Apostolo, tutti i commentatori elencano una cospicua serie di elementi che dimostrerebbero la non paolinicità dello scritto. Forniamo una sintesi essenziale delle differenze sul piano stilistico e contenutistico. Sul piano stilistico: – nell’esordio non compare come mittente il nome di Paolo; – propone uno sviluppo ponderato nel vocabolario (con la presenza di numerosi hapax legomena), misurato nel procedimento dimostrativo, raffinato nel linguaggio, così diverso dalla spontaneità e dall’impetuosità di Paolo; – adopera appellativi diversi per parlare di Gesù, introduce in modo diverso le citazioni dell’Antico Testamento (di cui rivela una notevole competenza esegetica e teologica) rispetto all’uso paolino delle Scritture[4]; – l’autore di Ebrei non rivendica mai la sua autorità apostolica, preferendo dar rilievo al suo messaggio, a differenza di Paolo che è solito mettersi in primo piano e difendere il suo apostolato (cf. Gal 1,1.12; 2Cor 11,1-2.23). In definitiva, la composizione di Ebrei dimostra un’arte raffinata, mentre l’epistolario paolino è caratterizzato dalla focosa irregolarità dell’Apostolo. Tali indizi non permettono di attribuire direttamente la paternità paolina a Ebrei. Sul piano contenutistico: – rispetto all’epistolario, in Ebrei spicca la peculiarità della dottrina cristologica del sacerdozio di Cristo, confermata dalle formule: «apostolo e sommo sacerdote» (Eb 4,14), «sommo sacerdote secondo l’ordine di Melchisedek» (6,20), «garante di un’alleanza migliore» (7,22), «pioniere e perfezionatore della fede» (12,2), «mediatore della nuova alleanza» (12,24)[5]; – la critica alla «legge» giudaica è concepita in un modo diverso rispetto all’epistolario paolino; – nello sviluppo argomentativo l’autore di Ebrei si riferisce a predicatori come appartenenti a una prima generazione cristiana (cf. 2,3; 13,7). Ipotesi circa l’autore Alla luce di questi elementi, che non confermano la paternità paolina dello scritto, si comprende l’eccedenza delle ipotesi nel corso della storia circa il possibile autore, la cui collocazione dovrebbe comunque essere compresa nella cerchia dei discepoli di Paolo (cf. la menzione di Timoteo in Eb 13,23). La tradizione annovera l’apostolo Pietro, l’evangelista Luca, Clemente Romano (cf. Fil 4,3), Barnaba, il diacono Stefano, Filippo uno dei “Sette”, Giuda fratello di Giacomo, Sila compagno di Paolo, Priscilla moglie di Aquila, Aristione discepolo del Signore (secondo Papia di Gerapoli) e, soprattutto, Apollo, raffinato giudeo di Alessandria convertitosi al cristianesimo (cf. At 18,24-28; 1Cor 3,4-9: 16,12; Tt 3,13). Secondo Karrer, l’autore deve essere appartenuto a una classe elevata del suo tempo. […] Egli pervade il cuore dell’antica retorica con elementi specificamente cristiani: proprio il Cristo disonorato sulla croce (12,2) ha il più alto onore di figlio di Dio (2,7-9; 3,3, ecc.). Questo capovolgimento fa pensare a Paolo. Ma l’arte retorica è superiore a quella di Paolo[6]. Malgrado l’ampio ventaglio di ipotesi, l’assenza di ogni testimonianza in proposito non permette finora di risolvere il dubbio circa l’autore della lettera. Contesto e redazione Contesto Un’attenta analisi di Ebrei implica la domanda circa l’ambiente socio-culturale delle sue origini e soprattutto l’identità dei suoi destinatari. Anche se il titolo «agli Ebrei» compare negli antichi manoscritti, in realtà esso non appartiene al testo della lettera. Nell’epilogo della lettera troviamo tre indicazioni: l’autore chiede di pregare perché sia restituito al più presto alla comunità (13,19); egli parla del «nostro fratello Timoteo» rilasciato (o partito), insieme al quale potrà finalmente rivedere la comunità (13,23a); si menziona un gruppo di cristiani denominati «quelli d’Italia» (13,24) che inviano saluti alla comunità. Dalla lettura del testo è possibile focalizzare diversi elementi che aiutano a precisare la situazione dei destinatari. Si tratta di cristiani che non hanno conosciuto direttamente il Signore (2,3), il che dissuade dall’attribuire loro un’origine palestinese. Venuti alla fede da tempo (5,12), essi hanno dovuto sopportare persecuzioni dolorose che sono state affrontare con eroismo e solidarietà (10,32-34). Di fronte alle nuove difficoltà (12,1-7) l’autore esorta alla costanza (10,36), a una più alta qualità della vita spirituale (5,11-12), all’assidua partecipazione alle riunioni (10,25), a fuggire la tentazione dello scoraggiamento (12,3.12) e a opporsi alle pericolose deviazioni dottrinali (13,9). Quest’ultima accentuazione assume un tono drammatico (il pericolo dell’apostasia: 6,4-6) con chiari intenti parenetici (10,26-31). Data la sorprendente familiarità con la letteratura anticotestamentaria, la lettera depone a favore di un contesto di origine giudaica, con influenze culturali molteplici, soprattutto per l’impiego della forma retorica[7]. I commentatori hanno sviluppato la ricerca approfondendo la natura della radice giudaica e le sue influenze in tre direzioni. a) Una prima direzione riguarda il grado di influenza della letteratura (ambiente) qumranica. Pur in presenza di rilevanti assonanze tematiche tra Ebrei e gli scritti di Qumran (ad esempio, il tema della nuova alleanza e l’attesa del grande sacerdote degli ultimi tempi), sono state evidenziate notevoli differenze che giustificano il radicamento di una comune tradizione biblica giudaica, ma con esiti teologici diversi. b) Una seconda direzione concerne la relazione tra Ebrei e il variegato mondo del giudaismo ellenistico. Tale collegamento è rappresentato dalla vicinanza stilistica (retorica) e tematica con il libro della Sapienza e, più in generale, con la tradizione del pensiero greco-alessandrino di Filone. Occorre riconoscere che sussistono importanti connessioni tipologiche, anche se l’idealismo platonico filoniano non si associa alla concretezza e alla visione escatologica di Ebrei. c) Una terza direzione richiama a possibilità di un’influenza gnostica (pre-gnostica?) che avrebbe potuto influenzare alcuni temi della lettera, quali la solidarietà del Figlio e dei figli (cf. 2,11), l’evocazione del riposo di Dio (cf. 4,1-11) e l’immagine del passaggio attraverso il velo (cf. 6,19-20; 10,20). Anche per questa ipotesi, l’attestazione di una corrente gnostica è da considerare anacronistica rispetto alla redazione di Ebrei e al suo ambiente cristiano. Occorre concludere che la lettera si è originata ed è stata redatta in un ambiente caratterizzato da tradizioni giudaiche, nelle quali si coglie l’incrocio con molteplici influssi culturali provenienti soprattutto dal mondo ellenistico. Redazione e datazione Si ignora il luogo di redazione, malgrado diversi manoscritti aggiungano nella postilla l’Italia, Roma o Atene. Una traccia potrebbe provenire dalla menzione del saluto da parte di «quelli d’Italia» (13,24). L’espressione può alludere a credenti d’Italia che vivono a Roma (o in Italia), ovvero a credenti originari dell’Italia che sono altrove. Nel primo caso la lettera sarebbe stata redatta a Roma e la notizia di Timoteo compagno di Paolo, prigioniero nella capitale dell’impero, troverebbe conferma in 2Tm 4,9.21. La convergenza di questi due indizi porterebbe a datare lo scritto prima del 70 d.C. È indicativo che proprio Clemente Romano sia il primo degli scrittori cristiani a conoscere e citare la lettera. Nel secondo caso potrebbe valere l’ipotesi che la lettera sia stata inviata alla comunità di Roma al fine di aiutare la componente giudeo-cristiana, forse nostalgica dell’eredità israelitica dopo la caduta di Gerusalemme, ad approfondire il valore teologico del sacerdozio di Cristo. In tal caso la datazione del testo non dovrebbe oltrepassare l’anno 95-96, data in cui Clemente Romano allude alla lettera scrivendo ai Corinzi e il cenno alle sofferenze subite dai credenti (10,32-34) farebbe riferimento alle persecuzioni di Nerone (nell’anno 64). Caratteristiche letterarie Il genere letterario A confronto con le lettere paoline, Ebrei presenta importanti differenze nell’esordio (1,1-4) e nel corpo epistolare (1,5-13,21), mentre la finale (13,22-25) ripete i canoni del genere epistolare (esortazione, notizie personali, saluti). La problematica del genere letterario è complessa perché il testo non sembra una lettera, ma un’omelia[8] o un trattato teologico-apologetico. Infatti, l’esordio, senza mittente né destinatari, appartiene al genere oratorio e il corpo epistolare rileva gli indizi letterari (stile dottrinale, mancanza di allusioni ai destinatari, forme espressive orali) di un “discorso” tematizzato sulla superiorità del sacerdozio di Cristo. Per tale ragione la maggioranza degli studiosi esclude che si tratti di una lettera, ma che sia un’omelia, un «discorso di esortazione» (logos parakléseos: 13,22; cf. At 13,15). La caratteristica del genere omiletico è di unire l’aspetto dottrinale (esposizione delle verità da credere) con quello parenetico (esortazione a vivere la fede confessata). Di fatto il testo di Ebrei corrisponde esattamente a tale profilo letterario: tra l’esordio (1,1-4) e la perorazione (13,20-21) si ha una costante alternanza dei due generi in modo sequenziale: alla dimostrazione dottrinale segue l’esortazione pastorale (cf. 2,1-4; 3,7-4,16; 5,11-6,20; 10,19-39; 12,1-13,18). La presenza della finale epistolare funge da biglietto di accompagnamento e conferma che l’omelia fu inviata a una o più comunità per la lettura e l’insegnamento. La struttura letteraria Tra le proposte strutturali spiccano due modelli principali: il modello tripartito: (a) la parola di Dio: 1,1-4,13; (b) il sacerdozio di Cristo: 4,14-10,31; (c) il cammino dei credenti: 10,32-13,17 e un secondo modello articolato in cinque parti. Secondo quest’ultimo modello proposto da A. Vanhoye[9], per la composizione della sua omelia l’autore ha adottato procedimenti di composizione che permettono di individuare la struttura letteraria del suo discorso. Avendo presente la complessa analisi di A. Vanhoye segnaliamo solo due procedimenti stilistici: l’annuncio del tema di ciascuna parte (cf. 1,4; 2,17-18; 5,9-10; 10,36-39; 12,13) e l’impiego di inclusioni (ripetizioni verbali), che segnano l’inizio e la fine di un’unità letteraria. Si ottiene così la seguente articolazione: Esordio:: L’intervento divino nella storia umana (1,1-4)  Parte: Cristologia generale (1,5-2,18) a) Intronizzazione del Figlio di Dio ed esortazione a riconoscerne l’autorità (1,5-2,4) b) Solidarietà con gli uomini acquisita attraverso la passione (2,5-18) II Parte: Cristologia sacerdotale, aspetti fondamentali (3,1-5,10) a) Gesù sommo sacerdote degno di fede perché Figlio di Dio (confronto con Mosè) (3,1-6) – Esortazione contro la mancanza di fede (3,7-4,14) b) Gesù, sommo sacerdote misericordioso (4,15-5,10) III Parte: Sacerdozio di Cristo, aspetti specifici (5,11-10,39) – Esortazione previa (5,11-6,20) a) Altro ordine sacerdotale (relazione con Melchisedek) (7,1-28) b) Altro atto sacerdotale (confronto con i sacrifici antichi) (8,1-9,28) c) Altra efficacia sacerdotale (10,1-18) – Esortazione conclusiva (10,19-39) IV Parte: Adesione a Cristo, mediante la fede perseverante (11,1-12,13) a) Esempi antichi di fede in Dio (11,1-40) b) Esortazione alla perseveranza (12,1-13) V Parte: Esortazione alla carità e santità (12,14-13,19)

Postscritto: Augurio conclusivo (13,20-21)                        Commiato (13,22-25) La lunghezza delle cinque parti va dapprima crescendo dalla prima alla più consistente terza parte, per poi decrescere passando dalla terza all’ultima. Tale articolazione rispetta la disposizione letteraria, retorica e tematica della lettera, favorendo un’armoniosa simmetria concentrica, che ha il suo centro al punto b) della terza parte. Caratteristiche teologiche La qualità della composizione letteraria di Ebrei si aggiunge alla profondità dottrinale e teologica del suo contenuto, la cui peculiarità è la presentazione di Cristo «sommo sacerdote della nuova alleanza». Fin dai primi secoli la peculiarità teologica di Ebrei è stata interpretata come una nuova sintesi della dottrina e della vita cristiana imperniata sulla mediazione sacerdotale di Cristo. Ci limitiamo a riassumere il suo messaggio segnalando tre prospettive: a) la relazione tra antica e nuova alleanza; b) la cristologia sacerdotale; c) la vita cristiana. La relazione tra antica e nuova alleanza La densità teologica si manifesta anzitutto nella qualità dell’approccio ermeneutico e nell’uso delle tecniche esegetiche per l’impiego delle Scritture. Nell’evidenziare la peculiarità della posizione (mediazione) di Cristo nella storia salvifica, l’autore mostra come l’alleanza e i riti che accompagnano il divenire dell’identità del popolo eletto trovano compimento nella nuova alleanza inaugurata con la Pasqua del Signore. Il procedimento dimostrativo che riguarda la relazione tra la prima e la nuova alleanza segue lo schema continuità-rottura-superamento. Si afferma la validità della connotazione profetica della prima alleanza, ma mediante l’opera di Cristo si riconosce anche la fine della sua istituzione. Ciò appare soprattutto nell’esposizione centrale della lettera (7,10-10,18) in cui si reinterpretano i Sal 110 e 40, l’oracolo di Ger 31 e i riti prescritti dalla Legge in Lv 16. Nel disegno divino l’antica alleanza ha svolto un ruolo importante ma preparatorio, in vista del compimento della nuova alleanza in Cristo. Allo stesso modo l’antico culto e la sua istituzione sacerdotale appaiono realtà inefficaci a confronto con il nuovo sacrificio di Gesù Cristo (9,11-26), unico mediatore dell’alleanza nuova (12,24). La cristologia sacerdotale Mediante il confronto con l’antico culto e sacerdozio levitico (Aronne), si elabora una singolare cristologia sacerdotale. Con i titoli di «sacerdote» e di «sommo sacerdote» applicati a Cristo, l’autore afferma l’identità e la funzione mediatrice del Figlio di Dio. Con l’aiuto della tradizione scritturistica s’introduce un cambiamento radicale delle nozioni di sacrificio e di sacerdozio. Partendo dalle funzioni sacerdotali e dai riti antichi, la lettera mostra come Cristo merita il titolo di sacerdote perché egli fu intimamente unito a Dio e agli uomini. Come Figlio egli è stato intronizzato alla destra del Padre (1,4-14); come uomo, egli ha raggiunto la gloria percorrendo un cammino di piena solidarietà con i peccatori (2,11-16). Pertanto Cristo è divenuto il «mediatore perfetto» e deve essere riconosciuto come il «sommo sacerdote» (2,7; 3,1; 4,14) capace di conferire la salvezza a quanti per mezzo suo si accostano a Dio (7,24-25; 9,11). L’attestazione di questa verità di fede è avvalorata dall’interpretazione del Sal 110, che presenta il Messia nella linea di Melchisedek (Gen 14,18-20), figura prefigurativa dell’eterno sacerdozio di Cristo. Tale mediazione si è compiuta in Cristo che si è offerto «una volta per sempre» come vittima sacrificale nella sua passione, morte e risurrezione, entrando con il proprio sangue nel santuario celeste (tenda non fatta da mani d’uomo) e procurando una redenzione eterna (9,11-14; 10,8-10). La vita cristiana Il dono della salvezza connotato in chiave sacerdotale ha conseguenze radicali per la vita dei credenti. L’attesa segnata da riti di separazione e di purificazione del periodo pre-messianico è terminata grazie al sacrificio sacerdotale del Cristo, la cui obbedienza filiale schiude a tutti l’ingresso nel santuario, simbolo della riconciliazione con Dio (10,19-21). Avendo come fondamento la fede (11,1) ogni credente è invitato ad accostarsi al mistero di Dio e ad assumere la propria responsabilità nella storia, illuminata dalla splendida testimonianza dei padri (11,2-40). L’accentuazione escatologica che accompagna la descrizione simbolica del processo redentivo (santuario celeste, tenda, beni futuri, ecc.) non elude il realismo del quotidiano. Emerge forte nella lettera la concretezza della vita cristiana, insieme alla preoccupazione per una comunità matura e solidale. Una vita credibile si declina mediante la comunione fraterna (10,25; 13,1), la corresponsabilità nella testimonianza (13,17) e soprattutto nella sollecitudine verso le persone bisognose (13,1-3). La logica del dono di sé che ha contrassegnato la cristologia sacerdotale e cultuale, illumina la sottostante visione etica della lettera e la sua proiezione pastorale.

LA LIBERTÀ CRISTIANA (soprattutto Paolo)

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LA LIBERTÀ CRISTIANA (soprattutto Paolo) 

tradotto liberamente da uno scritto di John MacArthur

« Fratelli, voi siete stati chiamati a libertà; soltanto non fate della libertà un’occasione per vivere secondo la carne, ma per mezzo dell’amore servite gli uni agli altri » (Gal. 5:13).

Una delle mie gioie come pastore è quella di insegnare alle persone la Parola di Dio e spiegare le sue implicazioni nelle loro vite. Tra i dubbi che la gente esprime, non figurano domande su se sia sbagliato mentire, truffare, rubare, uccidere, comemttere adulterio, o concupire. Né mi viene chiesto se i Cristiani dovrebbero leggere la Bibbia, pregare, o parlare agli altri della salvezza in Gesù Cristo. La Bibbia infatti è molto chiara su tutti questi punti. C’è, però, una serie di domande che si trova in un’area che potremmo definire « grigia ». Sono domande che riguardano la libertà cristiana dei credenti. Quali svaghi sono accettevoli? Quale tipo di musica possiamo ascoltare? Come dobbiamo vestirci, cosa mangiare o bere, come impiegare il tempo libero? La Bibbia dà una risposta a queste domande? Alcuni potrebbero dire « no, la Bibbia non ne parla; puoi fare tutto quello che ti pare, sei libero! ». Sebbene la Bibbia non elenchi specificamente ogni possibile decisione che ti troverai a fronteggiare nella vita, essa spiega i princìpi che regolano la libertà cristiana. Essi consentono di discernere ciò che è buono e camminare nella libertà secondo la volontà di Dio, e alla Sua gloria.

MI PORTERA’ BENEFICIO SPIRITUALE? « Ogni cosa è lecita, ma non ogni cosa è utile; ogni cosa è lecita, ma non ogni cosa edifica. » (1 Cor. 10:23) Una cosa « utile » è qualcosa che porta vantaggio; ed « edificare » vuol dire fortificare spiritualmente. Basandoti su questo verso, domandati: « È una cosa che migliorerà la mia vita spirituale? Mi indurrà al bene? Mi edificherà spiritualmente? » Se no, dovresti seriamente riflettere sull’utilità della cosa che vuoi fare.

MI CONDURRA’ AD UNA SCHIAVITU’? « Ogni cosa mi è lecita, ma non ogni cosa è utile. Ogni cosa mi è lecita, ma io non mi lascerò dominare da cosa alcuna. » (1 Cor. 6:12) In questo verso, l’apostolo Paolo dice: « non mi lascerò dominare da cosa alcuna ». Se dunque si tratta di qualcosa che può diventare un’abitudine, guardati dal cadere sotto il suo controllo. Se sei servo del Signore Gesù Cristo, non puoi esserlo di altri.

CONTAMINERA’ IL TEMPIO DI DIO? « Non sapete che il vostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è in voi, il quale voi avete da Dio, e che voi non appartenete a voi stessi? Infatti siete stati comprati a caro prezzo, glorificate dunque Dio nel vostro corpo e nel vostro spirito, che appartengono a Dio. » (1 Cor. 6:19-20)Non fare nulla che possa causare danno al tuo corpo, o esporlo alla vergogna – esso è l’unico mezzo che hai per glorificare Dio. Il passo di Romani 6:13 dice: « Non prestate le vostre membra al peccato come strumenti d’iniquità, ma presentate voi stessi a Dio, come dei morti fatti viventi, e le vostre membra a Dio come strumenti di giustizia ». Il modo in cui scegli di usare il tuo corpo dovrebbe sempre riflettere la tua volontà di onorare Gesù Cristo.

SARA’ CAUSA DI INCIAMPO PER QUALCUNO? « Ora un cibo non ci rende graditi a Dio; se mangiamo, non abbiamo nulla di più, e se non mangiamo, non abbiamo nulla di meno. Badate però che questa vostra libertà non divenga un intoppo per i deboli. » (1 Cor. 8:8-9) Questo è un principio dell’amore. Infatti Romani 13:10 dice: « L’amore non fa alcun male al prossimo; l’adempimento dunque della legge è l’amore ». Se sai che la tua scelta – ciò che tu consideri « nei limiti » e accettevole – può far inciampare e peccare un altro Cristiano, allora ama quel fratello o quella sorella abbastanza da non esercitare quella tua libertà. Non è un comportamento visto di buon occhio dalla nostra società egoista, ma è biblico. Continuare a indulgere in una libertà legittima causando problemi ad un altro Cristiano, è peccato. Infatti, « peccando in tal modo contro i fratelli, ferendo la loro coscienza che è debole, voi peccate contro Cristo. Perciò », prosegue Paolo con un esempio, « se un cibo scandalizza mio fratello, non mangerò mai più carne, per non scandalizzare mio fratello » (1 Cor. 8:12-13).

CONTRIBUIRA’ ALLA CAUSA DELL’EVANGELO? « Non date motivo di scandalo né ai Giudei, né ai Greci, né alla chiesa di Dio; così come anch’io compiaccio a tutti in ogni cosa, cercando non l’utile mio ma quello dei molti, perché siano salvati. » (1 Cor. 10:32-33) Che tu ne sia cosciente o meno, ciò che tu permetti o freni nel tuo comportamento influenza la tua testimonianza per Cristo – e il mondo ti osserva. È una questione di testimonianza – ciò che la tua vita riflette su Dio e sulla tua esperienza con Lui. La tua testimonianza può solo dire la verità su Dio, o dire una menzogna. Le scelte che tu compi nelle aree « grigie » devono riflettere la tua volontà di non causare offesa al nome di Dio, ma anzi portarGli lode.

VIOLERA’ LA MIA COSCIENZA? « Ma chi ha dei dubbi riguardo a ciò che mangia è condannato, perché la sua condotta non è dettata dalla fede; e tutto quello che non viene da fede è peccato. » (Rom. 14:23) Prima, Corinzi 10:25-29 contiene tre riferimenti all’astenersi da una pratica per motivi di coscienza. Infatti, se la tua coscienza è in dubbio o è turbata da ciò che stai considerando di fare, non farlo. È importante avere una coscienza pura davanti a Dio, affinché la tua comunione con Lui non sia impedita. Solo perseverando nella preghiera e studiando la Parola di Dio, potrai comportarti « come figli di luce… esaminando che cosa sia gradito al Signore » (Efes. 5:8-10).

PORTERA’ GLORIA A DIO? « Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualche altra cosa, fate tutto alla gloria di Dio. » (1 Cor. 10:31) Questo verso riassume chiaramente l’obiettivo di tutti i princìpi elencati. Il grido del nostro cuore non è di glorificare il nostro Signore e Salvatore con le nostre vite? Pensa un momento al risultato della tua decisione – Dio sarà glorificato, onorato e lodato mediante essa? Oh che possiamo dire con Gesù: « Io ti ho glorificato sulla terra » (Giov. 17:4).

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