Archive pour décembre, 2012

Pochaev Icon of the Mother of God

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Publié dans:immagini sacre |on 31 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

OMELIA PER LA SOLENNITÀ DI MARIA SS. MADRE DI DIO: DIO MANDO’ SUO FIGLIO, NATO DA DONNA… -

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/03-annoC/annoC/12-13/02-Natale-2012/Omelie/03-Maria-Madre-di-Dio-C-2013-BF.html

DIO MANDO’ SUO FIGLIO, NATO DA DONNA…

Il sentimento prevalente di questa giornata è quasi certamente quello del tempo. Un nuovo anno inizia. Anche Gesù è venuto quando il tempo era « pieno », ci spiega San Paolo:

Fratelli, quando venne la pienezza del tempo,
Dio mandò il suo Figlio,
nato da donna,
nato sotto la legge,
per riscattare coloro che erano sotto la legge,
perché ricevessimo l’adozione a figli.

La pienezza del tempo è un’espressione magnifica. Significa il momento giusto, il tempo fissato da Dio, il « grande giorno ».
Se vogliamo incontrare Gesù, anche il nostro deve essere un tempo « pieno ». Non è facile però riempirlo.
Un romanzo termina con questa frase: « Non so neppure che cos’è la bontà. Sto con voi perché mi fa piacere. La vostra presenza mi rende ora lieto ora triste, qualche volta mi fa soffrire molto. Ma sempre mi tiene vivo, mi fa godere di più della gioia, rende più acuti i miei occhi e più sensibili le mie orecchie; la mia mente è più desta; e se mai occorresse, avrei più coraggio. Senza di voi, forse non soffrirei, ma vivrei di meno. E la vita è tutto quello che abbiamo ».
La vita è tutto quello che abbiamo!
L’anno è appena cominciato e già comincia a correre. Che fine fa il tempo che viviamo? Ma soprattutto a che serve? Il passato diventa così facilmente solo un’ombra o peggio un rimpianto.
Sulle lapidi del cimitero, tra la data di nascita e quella di morte c’è di solito un trattino di pochi centimetri. Quel trattino è la vita? Una vita ricca di amore, lavoro, preoccupazioni, gioie in pochi centimetri?
Le frasi più tristi dell’esistenza sono: « Avrebbe potuto andare diversamente », « Ah, se soltanto… », « Ah! se mia moglie non mi avesse lasciato! », « Ah! se non fossimo stati costretti a traslocare! ». Chi le pronuncia vive essenzialmente il proprio ambiente come un luogo ostile, che non gli consente di agire, di realizzare i propri ideali, le proprie scelte, di essere se stesso. Vive uno stato di frustrazione e di sofferenza perché l’ »Ah!, se … » dà l’idea che l’essere umano non possa scegliere né decidere alcunché. « Sono obbligato a… « , « Non ho altra scelta… ».
Dopo una conferenza, una signora testimoniò il contrario:
Mi hai chiesto se, potendo rinascere, avrei vissuto la vita in maniera diversa. Lì per lì ho risposto di no, poi ci ho pensato un po’ su.
Potendo rivivere la mia vita, avrei parlato meno e ascoltato di più.
Non avrei rinunciato ad invitare a cena gli amici soltanto perché il mio tappeto aveva qualche macchia e la fodera del divano era stinta.
Avrei mangiato briciolosi panini nel salotto buono e mi sarei preoccupata molto meno dello sporco prodotto dal caminetto acceso.
Avrei trovato il tempo di ascoltare il nonno, quando rievocava gli anni della sua giovinezza.
Non avrei mai preteso, in un giorno d’estate, che i finestrini della macchina fossero alzati perché avevo appena fatto la messa in piega.
Non avrei lasciato che la candela a forma di rosa si sciogliesse, dimenticata, nello sgabuzzino. L’avrei consumata io, a forza di accenderla.
Mi sarei stesa sul prato con i bambini senza badare alle macchie d’erba sui vestiti.
Avrei pianto e riso di meno guardando la televisione e di più osservando la vita.
Avrei condiviso maggiormente le responsabilità di mio marito.
Mi sarei messa a letto, quando stavo male, invece di andare febbricitante al lavoro quasi che, mancando io dall’ufficio, il mondo si sarebbe fermato.
Invece di non veder l’ora che finissero i nove mesi della gravidanza, ne avrei amato ogni attimo, consapevole del fatto che la cosa stupenda che mi viveva dentro era la mia unica occasione di collaborare con Dio alla realizzazione di un miracolo.
A mio figlio che mi baciava con trasporto non avrei detto: « Su, su, basta. Va’ a lavarti che la cena è pronta ».
Avrei detto più spesso: « Ti voglio bene » e meno spesso:  » Mi dispiace »… ma soprattutto, potendo ricominciare tutto daccapo, mi impadronirei di ogni minuto… lo guarderei fino a vederlo veramente… lo vivrei… e non lo restituirei mai più.

Le persone che vogliono riempire il tempo sono pronte a cogliere i segni dei cambiamenti e ad anticiparli in modo da non trovarsi spiazzate. Si collocano al comando della cabina di pilotaggio della vita, tengono conto delle caratteristiche dell’apparecchio, del bollettino meteorologico, della propria esperienza di pilota, degli obiettivi e anche della necessità, qualche volta, di modificare il piano di volo.
Questo tempo che ci è dato è l’unica occasione che abbiamo quaggiù. Non ce ne sarà data un’altra. Eppure lasciamo che tutto scorra tra gesti d’impazienza e tanta noia. Che cosa ci tiene così spesso in uno stato di torpore? Abitudini, attaccamenti, la vischiosità e il grigio del tutto uguale. Ci accorgiamo che la vita se ne andata e non abbiamo vissuto.
Grandi cose ci sfiorano, ci passano nell’anima come acqua sulle pietre.
Vivere in pienezza, significa avere il gusto di vivere, assaporarne la miracolosa bellezza. Vivere, non lasciarsi vivere.
Il vero guaio del nostro tempo è la velocità eccessiva che ha preso la vita. Così finiamo per vivere crocifissi tra due ladroni, come Gesù, il passato da una parte e il futuro dall’altra. Il presente è divorato dal nulla. Ma non si può vivere per niente. Non si può vivere di vuoto.
Non basta semplicemente vivere. Occorre precisare per che cosa si vive. Non basta guardare il calendario, 1′orologio. Bisogna dare un significato ai giorni, alle ore, ai minuti.
Non basta, come ha fatto osservare acutamente qualcuno, aggiungere anni alla vita. È necessario aggiungere vita agli anni. La vita corre veloce. Non si può sbrigare la vita come una faccenda di ordinaria amministrazione. È magnifico vivere. A patto sia veramente vita. Non una rappresentazione, un’apparenza, un funzionamento. Non si tratta di far passare il tempo. Si tratta di far passare il tempo nella vita.
All’inizio del nuovo anno, molta gente è curiosa di sapere in anticipo ciò che succederà nella propria vita e nel mondo. Si consultano, in proposito, i maghi più o meno famosi. Persino i giornali più contegnosi ospitano e azzardano previsioni per il futuro.
Probabilmente tutti prenderemo in mano un calendario. Dovremmo guardare i singoli foglietti o le pagine con un senso di venerazione. Renderci conto che a ognuno di quei foglietti sono appese diverse speranze.
Le speranze di Dio, prima di tutto. Ogni giornata che arriva e Dio che ci fa segno… Ogni nuova giornata è « segno » della speranza di Dio nei nostri confronti.
Ogni foglietto, ogni spazio bianco accanto al giorno, contiene, non un numero, ma una notizia:  » Ti informo che c’è un Dio che spera, che oggi attende qualcosa di buono da te… « 
Ma i fogli del calendario vanno letti anche come « segno » delle attese degli uomini. La nostra vocazione cristiana, non dobbiamo dimenticarlo, non è un fatto individuale, ma è « dono per la felicità di tutti ». Quindi tutti gli uomini hanno diritto di aspettarsi qualcosa da noi.
Il miglior augurio che possiamo formulare è che nel prossimo anno siamo in grado di comunicare a tutti una « buona notizia », come i pastori di Betlemme:

In quel tempo, i pastori andarono senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro.
Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano.

La buona notizia è questa: qualcuno sta cercando di prendere sul serio il Vangelo, qualcuno ha deciso di riempire il suo tempo con il messaggio di Gesù di Nazaret.
Un giorno, non molto tempo fa, un contadino si presentò alla porta di un convento e bussò energicamente. Quando il frate portinaio aprì la pesante porta di quercia, il contadino gli mostrò, sorridendo, un magnifico grappolo d’uva.
« Frate portinaio », disse il contadino, « sai a chi voglio regalare questo grappolo d’uva che è il più bello della mia vigna? ».
« Forse all’abate o a qualche padre del convento ».
« No. A te! ».
« A me? ». Il frate portinaio arrossì tutto per la gioia. « Lo vuoi dare proprio a me? ».
« Certo, perché mi hai sempre trattato con amicizia e mi hai aiutato quando te lo chiedevo. Voglio che questo grappolo d’uva ti dia un po’ di gioia ». La gioia semplice e schietta che vedeva sul volto del frate portinaio illuminava anche lui.
Il frate portinaio mise il grappolo d’uva bene in vista e lo rimirò per tutta la mattina. Era veramente un grappolo stupendo. Ad un certo punto gli venne un’idea: « Perché non porto questo grappolo all’abate per dare un po’ di gioia anche a lui? ».
Prese il grappolo e lo portò all’abate.
L’abate ne fu sinceramente felice. Ma si ricordò che c’era nel convento un vecchio frate ammalato e pensò: « Porterò a lui il grappolo, così si solleverà un poco ». Così il grappolo d’uva emigrò di nuovo. Ma non rimase a lungo nella cella del frate ammalato. Costui pensò infatti che il grappolo avrebbe fatto la gioia del frate cuoco, che passava le giornate a sudare sui fornelli, e glielo mandò. Ma il frate cuoco lo diede al frate sacrestano (per dare un po’ di gioia anche a lui), questi lo portò al frate più giovane del convento, che lo portò ad un altro, che pensò bene di darlo ad un altro. Finché, di frate in frate, il grappolo d’uva tornò dal frate portinaio (per portargli un po’ di gioia). Così fu chiuso il cerchio. Un cerchio di gioia.
Non possiamo aspettare che inizi qualche altro. Tocca a ciascuno di noi, oggi, cominciare un cerchio di gioia. Spesso basta una scintilla piccola piccola per far esplodere una carica enorme. Basta una scintilla di bontà e il mondo comincerà a cambiare.

BRUNO FERRERO sdb

“Rome, Catacomb of St. Callixtus. Orans, beginning of IV century”:

 “Rome, Catacomb of St. Callixtus. Orans, beginning of IV century”: dans immagini sacre image015

http://www.the-goldenrule.name/Dionysus_Catacombs.htm

Publié dans:immagini sacre |on 30 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

Te Deum Laudamus

http://www.cristoregna.it/libriinteri/fondamentiordinesociale/tedeum.htm

Te Deum Laudamus

La chiesa primitiva non fu sprovvista di proprie abili guide, ma è un errore attribuire un ruolo troppo grande ai padri della chiesa. Malgrado il loro eroico ruolo, anche i migliori tra loro non furono liberi da errori teologici dovuti ai persistenti effetti delle filosofie pagane. Similmente le varie eresie portarono un manifesto paganesimo nella autentica vita della chiesa ed abbondarono le pratiche e le credenze pagane. E’ di sicuro evidente che la chiesa primitiva fosse un quadro confuso ed “una moltitudine mista”, ma rimane il fatto che c’era anche un solido nocciolo di ortodossia. Il crescente collasso dell’umanesimo faceva dell’alternativa, la Cristianità ortodossa, a maggior ragione, non una mera alternativa, ma l’unica speranza dell’uomo. In confronto ai vaghi miti del paganesimo e dell’eresia e delle ricercate incertezze dell’umanesimo, le forti e certe realtà della fede biblica, furono una gioiosa alternativa anche di fronte alle persecuzioni. Il Te Deum Laudamus fu un inno della chiesa che era un’esuberante espressione della natura trionfante della fede ortodossa. Il Te Deum Laudamus riflette in modo veramente autentico la fede credente. E’ la canzone di trionfo della chiesa in fronte all’eresia e la miscredenza; essa riecheggia le battaglie contro lo Gnosticismo, l’Arianesimo e le altre eresie e celebra la vittoria dell’ortodossia e la gioiosa fede nel Dio trino.
Le origini del Te Deum stanno nell’inno greco Gloria Patri e in vari inni di lode. Le Costituzioni Apostoliche (357 d.C.?) contengono elementi del Te Deum.[1] Il Te Deum risale al Codice Alexandrinus della Bibbia dal momento che una parte di cinque versi è stata incorporata dal quel testo.[2] La presente forma dell’inno risale probabilmente al quarto secolo dopo Cristo.
Il testo del Te Deum, da come appare nel Book of Common Prayer, è il seguente:
Noi ti lodiamo, o Dio; noi ti riconosciamo come il Signore.
Tutta la terra ti glorifica: il Padre eterno.
Tutti gli angeli ti innalzano ad alta voce: i Cieli e tutte le Potenze in essi;
I Cherubini ed i Serafini: di continuo ti innalzano.
Santo, Santo, Santo: Signore Dio del Sabato:
Cielo e terra sono pieni della Maestà: della Tua gloria.
La gloriosa compagnia degli Apostoli: Ti glorifica.
La buona fratellanza dei Profeti: Ti glorifica.
Il nobile esercito dei Martiri: Ti glorifica.
La santa chiesa in tutto il mondo: ti riconosce;
Il Padre: di una infinità Maestà;
Tuo adorabile e vero: unico Figlio;
E anche lo Spirito Santo: il Consolatore.
Tu sei il Re di Gloria: O Cristo.
Tu se l’eterno Figlio: del Padre.
Quando prendesti su di te l’onere di liberare l’uomo: umiliasti te stesso per esser nato da un Vergine.
Quando sconfiggesti la durezza della morte: Tu apristi il Regno dei Cieli a tutti e credenti.
Ti sedesti alla destra di Dio: nella Gloria del Padre.
Noi crediamo che tu dovrai venire: per essere nostro giudice.
Noi perciò ti preghiamo, aiuta i tuoi servitori: i quali tu hai redento col tuo prezioso sangue.
Li annoverasti fra i tuoi santi: in gloria eterna.
O Signore, salva il tuo popolo: e benedici la tua eredità.
Governali: e portali per sempre con te.
Giorno per giorno: noi ti magnifichiamo;
E noi veneriamo il tuo Nome: per sempre, mondo senza fine.
Degnati, O Signore: di serbarci quest’oggi senza peccato.
O Signore abbi pietà di noi: abbi pietà di noi.
O Signore, che la tua pietà sia su noi: come la nostra speranza è in te.
O Signore, in Te io ho confidato: che io non sia mai confuso.

Proctor, nel suo studio sul libro delle preghiere, citò un eccellente sunto dell’ inno:
Comber osserva che questo antico inno contiene: primo, un atto di lode offerto a Dio da noi, e da tutte le creature, come in terra così in cielo: secondo, una confessione di fede che dichiara: 1) una generale accettazione, 2) i particolari dell’inno che riguardano ogni persona della Trinità e più ampiamente il Figlio, la sua Divinità, la sua Umanità e in particolare la Sua incarnazione, la Sua morte, la Sua presente gloria e il suo ritorno per il giudizio; terzo, una supplica fondata  su di esso: 1) per tutto il suo popolo, che possa essere preservato qui e salvato nell’aldilà; 2) per noi stessi, che lo adoriamo ogni giorno, che possiamo essere preservati dai peccati futuri ed essere perdonati per quelli passati perché confidiamo in Lui.[3]
Questo è un eccellente sunto ed evidenzia le caratteristiche dell’inno. Il Te Deum suona con fiera gioia e l’esuberante fiducia della fede ortodossa della chiesa primitiva. Vengono messe in evidenza parecchie importanti caratteristiche: primo, è la fede ortodossa quella che il Te Deum declama con chiarezza. La popolarità dell’inno era un’indicazione del radicamento popolare della fede ortodossa: fu la fede di un grande numero di umili credenti e di semplici pastori. Le vaghe incertezze dell’Arianesimo e delle altre eresie potevano riuscire attraente agli ostinati, ribelli e umanistici frequentatori della chiesa, ma per gli umili credenti parlare di Dio come la monade e di Cristo come una emanazione era un’assurdità insignificante quando confrontato alle forti, chiare realtà celebrate dal Te Deum.
Secondo, sebbene i cristiani fossero una minoranza dentro e fuori l’impero, essi cantarono il Te Deum nella fiduciosa allegrezza che il vero credente si trova sempre nella grande maggioranza nell’universo di Dio: “ Tutta la terra ti glorifica… i Cieli, e tutte le Potenze in essi; … il Cielo e la terra sono pieni della Maestà della tua gloria.” Nel Te Deum riecheggia la fede del Salmo 19:1 : “ I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento annunzia l’opera delle sue mani.” Coloro che credono che l’opposizione, per quanto ben trincerata a numericamente e politicamente forte, è una mera nuvola nell’universo di Dio, non saranno facilmente scoraggiati o sviati nel loro stabile movimento verso il potere e il dominio.  Il nemico possiede solo un dio silenzioso; il partito ortodosso ha il Dio che si rivela. Il nemico ha il potere di Cesare dietro di sé; i credenti ortodossi hanno il potere del Dio trino dietro di loro. Il Signore di Cesare era il loro Dio e Salvatore e questo Dio, essendo morto per loro, tanto più avrebbe fatto per loro e se ne sarebbe preso cura. Essi poterono quindi cantare con gioia: “Tu sei il Re di Gloria, O Cristo”.
Terzo, con questa fede certa i credenti ortodossi, potevano recitare la sorprendente preghiera: “che io non sia mai confuso”, l’apice del Te Deum. Per i pagani gli dei e la storia hanno sempre confuso gli uomini. Triste era il destino dell’uomo e i processi dell’universo disorientavano, confondevano, umiliavano gli uomini con delusioni, sconfitte, rovina e morte. Gli umanisti sono soliti descrivere l’antichità pagana come l’età dell’oro, un’epoca di gioia, auto realizzazione umana e dignità; la raffigurazione è mitologica. L’uomo pagano credeva basilarmente ad una prospettiva pessimistica. Fu una filosofia del “non puoi vincere”. Il fato ha destinato l’uomo ad una fine tenebrosa ed irreparabilmente oscura ed i giorni dell’uomo erano rannuvolati dalla fondamentale ostilità della vita nei confronti dell’uomo. Era non meno vero dell’esistenza dei barbari che per loro la vita fosse fondamentalmente frustrante. Vida Cudder citò un significativo passaggio di Bede come illustrativo del differente mondo della Cristianità:
“Non ci si meraviglia” dice Bede di S. Cuthbert, “ che ogni vera creatura debba obbedire alle sue richieste come obbedì così fedelmente l’Autore di tutte le creature. Ma noi abbiamo perso per la maggior parte il dominio sulla creazione che ci è stata resa soggetta, perché ci siamo rifiutati di obbedire al Signore e Creatore di tutte le cose”  La creazione che ci è stata resa soggetta! Quanto stranamente è arrivata agli orecchi pagani questa quasi incidentale frase ! [4]
Essere un Cristiano significa, come vide il partito ortodosso, ricostituzione nel dominio di Adamo e signoria sulla terra. Una tal fede promuove una splendida fiducia di fronte a qualsiasi cosa. Secondo il Bede, i consiglieri di Re Edvino nel 627 spinsero per l’adozione del cristianesimo per il pragmatico motivo che “contiene qualcosa di più certo” che il loro paganesimo e perciò “ sembra giusto degno di essere seguito”.[5] Un elemento non irrilevante nell’interesse verso la Cristianità ortodossa fu in fatto che offriva un “ qualcosa di più certo” e questo qualcosa era un vangelo, buone nuove e la parola di vittoria. La vita aveva modo di confondere gli uomini, grandi e piccoli ed una fede che potesse essere fiduciosa nella sua preghiera contro la confusione era chiaramente una fede autorevole. Il Te Deum rifletteva la Scrittura qui come altrove. Il salmo 22:5 recita:”Gridarono a te, e furono salvati; confidarono in te, e non furono delusi.” In un altro Salmo Davide pregò: “Non siano confusi per causa mia quelli che sperano in te, o Signore, Eterno degli eserciti, non siano svergognati per causa mia quelli che ti cercano, o Dio d’Israele”. In numerosi Salmi si chiede la sconfitta degli infedeli. (Sal. 35:4; 40:14; 70:2; 71:13, 14; 83:17; 97:7;). La certezza dei credenti ortodossi nel pregare “che io non sia confuso” era inoltre fondata nella dichiarazione di Paolo: ”ma Dio ha scelto le cose pazze del modo per svergognare i sapienti; Dio ha scelto le cose deboli del mondo per svergognare le forti.”(1 Cor. 1:27). La fiducia del Te Deum è di conseguenza radicalmente fondata: Dio non solo risparmia coloro che a scelto dalla confusione, ma Egli si propone di usarli per confondere la potenze di questo mondo!
Quarto, il potente motore della confusione degli infedeli è “il Re di Gloria”, la Seconda Persona della Trinità. Gesù Cristo. Egli è il Grande Giudice, il salvatore dell’uomo e l’aiuto presente. Egli è quello che si è incarnato, colui che ha sperimentato tutto ciò che gli uomini sperimentano, inclusa “l’asprezza della morte”.
Il Te Deum perciò è anche l’espressione trionfante del credalismo cristiano. La Thalia di Arius fu cantata dagli scaricatori di porto ed altri ed ebbe una breve popolarità, ma solo come presa in giro dei credenti ortodossi. Aldilà del suo uso canzonatorio e di critica, esso non ebbe senso, certamente non come inno di fede. Il Te Deum tuttavia è un inno di fede, di sicura e trionfante fede nel Dio trino che governa tutta la storia. Le controversie sul credo non furono meri dibattiti teologici il cui scopo era ristretto agli intellettuali della chiesa. La diffusione e la grande popolarità del Te Deum illustra la vitalità della teologia dei credi nella vita quotidiana e in quella della chiesa primitiva. Questa fu alimentata dalle controversie sul credo e rese anche possibile l’intellettualismo che circondò i  padri ortodossi. La chiesa che produsse e sorresse i padri fu una chiesa provata dalle battaglie che cantava di vittoria certa in e attraverso Cristo il Re: Te Deum Laudamus.
——————————-

[1] Apostolic Constitution, VII; xxvi, specialmente VII, xlvii; VIII, v; VIII, xii; VIII, xxxvii; in Ante-Nicene Christian Library. vol. XVI, 188, 205, 214 e ss., 230, 248.
[2] Shaff, History of the Christian Church, III, 592n-593n.
[3] Francis Proctor, A History of the Book of Common Prayer (London: Macmillan, 1875), 225. Il riferimento a Comber è tratto da Companion to the Temple, I, 96; Short Discourses upon the Common Prayer, 53.
[4] Vida D. Scudder, “Introduction”, to the Venerable Bede, The Ecclesisticl History of the English Nation (London: Dent [Everyman], 1910), xix.
[5] Bede, Ecclesiastical History, ch. XIII, 91.

Publié dans:LITURGIA, LITURGIA - INNI |on 30 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

DAVID MUSICIAN AND PSALMS

DAVID MUSICIAN AND PSALMS   dans immagini sacre 15%20DAVID%20MUSICIAN%20AND%20PSALMS

http://www.artbible.net/1T/Psa0000_Eventsportraits/pages/15%20DAVID%20MUSICIAN%20AND%20PSALMS.htm

Publié dans:immagini sacre |on 29 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

la lezione della misericordia : «È l’altruismo che ci porta a conoscere Dio» (Rav Piattelli)

http://www.nostreradici.it/lectio_misericordiae.htm

(Rav Piattelli è stato mio professore…un bel ricordo!)

Il Rabbino: dal «Padre delle genti»

la lezione della misericordia

«È l’altruismo che ci porta a conoscere Dio»

Abramo Alberto Piattelli*

Rabbino Della Comunità Ebraica Di Roma

Uno dei punti di riferimento più importanti nel dialogo interreligioso tra Chiesa cattolica e Comunità ebraica è costituito dalla centralità nelle due fedi della figura del patriarca Abramo. Senza dubbio ciò è dovuto in primo luogo al fatto che nella Scrittura Abramo viene considerato come padre di una moltitudine di gente, colui cioè che sentì su di sé e sulla propria discendenza il significato di un certo messaggio e la missione di condurre con amore e benevolenza tutte le genti verso la protezione delle ali della divina Provvidenza. Questa propensione al significato universale della figura di Abramo, è messa in evidenza da un’ulteriore considerazione. Secondo il testo biblico, Abramo ebbe tre mogli: Sara, Hagar e Kenturà, da ognuna delle quali ebbe figli. Gli esegeti del Midrash mettono in evidenza l’origine diversa di ciascuna delle mogli: Sara sarebbe discendente di Sem, Hagar, l’egiziana, di Cam, mentre Kenturà di Jafet, da cui discenderebbe la stirpe indoeuropea. Dato che secondo la Bibbia, i figli di Noè costituirebbero i capostipiti del genere umano, Abramo sarebbe, dal punto di vista genealogico, capostipite di una discendenza universale.
Ma per gli ebrei Abramo costituisce innanzi tutto il patriarca del popolo ebraico, colui che lascia la propria patria per poter portare avanti in maniera autonoma e senza influenze spurie l’intuizione di un Dio unico, trascendente e provvidenziale, creatore di ogni realtà. In risposta a questa obbedienza Dio gli promise che da lui sarebbe discesa una nuova nazione, la quale avrebbe recato una qualità spirituale al mondo del tutto speciale. La promessa di Dio ad Abramo appartiene all’intera umanità. Nella Scrittura interviene, però, un patto tra Dio e Abramo, che serve a definire la relazione particolare esistente tra Dio e la sua discendenza. Dio dovrà essere considerato come divinità specifica del popolo ebraico, mentre la discendenza dovrà tenere fede al patto particolare stipulato con Dio. In questa occasione, momento cruciale del futuro popolo d’Israele, la terra d’Israele viene promessa ai discendenti del Patriarca.
Nella figura di Abramo, così come viene presentata nel libro della Genesi, si fondono insieme due valenze: il carattere universale da una parte e quello nazionale dall’altra. Nella teologia ebraica la stretta correlazione tra queste due valenze è la prospettiva fondamentale della storia dell’umanità. Caratteristica della figura di Abramo, è quella di essere, a differenza di Isacco e di Giacobbe, il simbolo della virtù del hesed, dell’amore e dell’altruismo verso il proprio prossimo.
Dall’esame delle storie bibliche riguardanti Abramo, i Maestri ebrei con perspicacia midrashica hanno trovato diversi esempi di hesed da parte di Abramo, che viene intesa addirittura come forma di imitatio Dei. Per esempio la Scrittura racconta che la divinità apparve ad Abramo presso i querceti di Mamrè senza spiegare il motivo di tale apparizione. Rabbi Ammà bar Hanina insegna che Dio apparve ad Abramo allo scopo di fare visita al malato. Da poco, infatti, Abramo si era sottoposto alla circoncisione. Ad un certo punto però, continua la Scrittura, Abramo interruppe la comunione con la divinità per andare incontro a tre viandanti sconosciuti che provenivano dal deserto. Proprio come Dio eseguì un atto di amore nel visitare «il malato» Abramo, così questi interruppe la comunione con Dio e corse, nonostante la sua convalescenza, incontro ai viandanti, per offrire a loro ospitalità. Abramo preferì offrire agli esseri umani un atto di amore piuttosto che riceverne uno da parte di Dio.
La lezione che emerge da questa esegesi midrashica è chiara: la imitatio Dei deve avere l’assoluta precedenza, addirittura sul godimento della rivelazione divina. Insomma l’etica viene prima del misticismo e – come afferma il Talmud – il sentimento di ospitalità ha la precedenza sull’accoglimento della Presenza divina. La vera religiosità trova espressione in atti di benevolenza e di altruismo che costituiscono l’espressione più alta della conoscenza di Dio da parte dell’uomo.
Non soltanto Abramo ha compiuto atti di hesed, ma ha impegnato i suoi discendenti a compiere tali atti, come afferma la Scrittura: «Io lo prediligo affinché raccomandi ai suoi figli ed alla sua progenie a venire, di osservare la via del Signore operando carità e giustizia». Abramo è presentato nella scrittura come il prototipo dell’uomo di fede, tanto che il testo afferma: «Ebbe fede nell’Eterno e questo gli fu ascritto come merito». Tale sentimento trova la sua applicazione più alta nel momento del sacrificio di Isacco, e in tanti altri episodi in cui prevale la sottomissione e la fiducia nel volere dell’Eterno. Ma come va intesa questa fede? «Nell’ebraismo la fede non è altro che la vivente coscienza dell’Eterno, il senso della vicinanza di Dio, della sua rivelazione e della sua potenza creatrice che si manifesta in tutte le cose. È la capacità dell’anima di percepire il permanente nel transitorio, il Segreto del Creato. La parola biblica che indica fede designa l’intima saldezza e l’interiore pace, la forza e la costanza dell’anima umana» (Baeck).
Ma l’Ebraismo non ammette che la fede da sola sia garanzia di salvezza; ad essa vanno accompagnate le opere, le azioni concrete che Dio indica nella sua Legge morale. L’azione deve essere conseguenza della fede, così come affermano i Maestri ebrei «la cosa essenziale non è la teoria, bensì l’azione».

William Holman Hunt. The Finding of the Savior in the Temple. 1854-1860

 William Holman Hunt. The Finding of the Savior in the Temple. 1854-1860 dans immagini sacre 19%20WILLIAM%20HOLMAN%20HUNT.%20THE%20FINDING%20OF%20THE%20SA

http://www.artbible.net/3JC/-Luk-02,41_Jesus_Dialogue_Temple/slides/19%20WILLIAM%20HOLMAN%20HUNT.%20THE%20FINDING%20OF%20THE%20SA.html

Publié dans:immagini sacre |on 28 décembre, 2012 |Pas de commentaires »
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