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LA FEDE È UN «FUOCO INTELLIGENTE», CONFESSARLA TRASFORMA IL MONDO

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LA FEDE È UN «FUOCO INTELLIGENTE», CONFESSARLA TRASFORMA IL MONDO

La meditazione proposta ieri da papa Benedetto XVI ai padri sinodali

di Massimo Introvigne

CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 9 ottobre 2012 (ZENIT.org).- L’8 ottobre 2012, nel corso della prima Congregazione generale del Sinodo dei Vescovi, Benedetto XVI ha proposto ai padri sinodali una meditazione divisa in due parti. La prima ha approfondito il significato della parola «evangelium» «euangelisasthai» (cfr. Lc 4,18). La seconda ha commentato l’Inno dell’Ora Terza Nunc, Sancte, nobis Spìritus, che i padri avevano recitato.
La parola «evangelium» «euangelisasthai», ha ricordato il Papa, «ha una lunga storia. Appare in Omero [IX-VIII sec. A.C.]: è annuncio di una vittoria, e quindi annuncio di bene, di gioia, di felicità. Appare, poi, nel Secondo Isaia (cfr Is 40,9), come voce che annuncia gioia da Dio, come voce che fa capire che Dio non ha dimenticato il suo popolo, che Dio, il Quale si era apparentemente quasi ritirato dalla storia, c’è, è presente». Gesù stesso riprenderà a Nazaret questo brano di Isaia. La parola «euangelisasthai» è poi collegata a tre altre: «dikaiosyne, eirene, soteria – giustizia, pace, salvezza».
Per comprendere il significato di «evangelium» nel Nuovo Testamento, oltre ai precedenti greci e biblici, «è importante anche l’uso della parola fatto dall’Impero Romano, cominciando dall’imperatore Augusto [63 a.C.-14 d.C.]. Qui il termine “evangelium” indica una parola, un messaggio che viene dall’Imperatore». Nella mistica imperiale romana un messaggio dell’Imperatore «è rinnovamento del mondo, è salvezza»; è «un messaggio di potenza e di potere; è un messaggio di salvezza, di rinnovamento e di salute». Il Nuovo Testamento «accetta questa situazione. San Luca confronta esplicitamente l’Imperatore Augusto con il Bambino nato a Betlemme: “evangelium” – dice – sì, è una parola dell’Imperatore, del vero Imperatore del mondo».
Non si tratta di curiosità storiche relative al passato, «perché la grande sofferenza dell’uomo – in quel tempo, come oggi – è proprio questa: dietro il silenzio dell’universo, dietro le nuvole della storia c’è un Dio o non c’è? E, se c’è questo Dio, ci conosce, ha a che fare con noi? Questo Dio è buono, e la realtà del bene ha potere nel mondo o no? Questa domanda oggi è così attuale come lo era in quel tempo. Tanta gente si domanda: Dio è una ipotesi o no? E’ una realtà o no? Perché non si fa sentire?». E a questa domanda risponde un «Vangelo», un messaggio dell’Imperatore del mondo: «Dio ha rotto il suo silenzio, Dio ha parlato, Dio c’è. Questo fatto come tale è salvezza: Dio ci conosce, Dio ci ama, è entrato nella storia» tramite la sua Parola, Gesù. Dunque ora «Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso e questa è la salvezza».
Sì, Dio «ha veramente rotto il grande silenzio, si è mostrato»: ma noi ora «come possiamo far arrivare questa realtà all’uomo di oggi, affinché diventi salvezza?». A questa domanda il Pontefice ha risposto nella seconda parte della sua meditazione, dedicata all’Inno dell’Ora Terza Nunc, Sancte, nobis Spìritus. A partire dalla prima strofa: «Dignàre promptus ingeri nostro refusus, péctori», «preghiamo affinché venga lo Spirito Santo, sia in noi e con noi». Capita bene, questa prima strofa dell’inno ci dice qualcosa di decisivo e perfino ci ammonisce con severità: «noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il “fare” nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio».
Alludendo alle voci, anche illustri – come non pensare a certe dichiarazioni del cardinale appena scomparso Carlo Maria Martini (1927-2012), e alle interpretazioni del Concilio Ecumenico Vaticano II da parte degli esponenti della cosiddetta scuola di Bologna? –, che in nome della collegialità vorrebbero trasformare il Sinodo in un’assemblea costituente, il Papa ha osservato che «gli Apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione. No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché sapevano che solo Dio stesso può creare la sua Chiesa, che Dio è il primo agente: se Dio non agisce, le nostre cose sono solo le nostre e sono insufficienti». La base di tutto è che «Dio ha parlato e questo “ha parlato” è il perfetto della fede, ma è sempre anche un presente: il perfetto di Dio non è solo un passato, perché è un passato vero che porta sempre in sé il presente e il futuro». Dio non solo ha parlato, ma parla oggi: «noi possiamo solo cooperare, ma l’inizio deve venire da Dio». La Chiesa non può essere una nostra iniziativa: «l’iniziativa vera, l’attività vera viene da Dio e solo inserendoci in questa iniziativa divina, solo implorando questa iniziativa divina, possiamo anche noi divenire – con Lui e in Lui – evangelizzatori».
Come in concreto proceda questa cooperazione «teandrica» della Chiesa con Dio è descritto nella seconda strofa dell’Inno: «Os, lingua, mens, sensus, vigor, confessionem personent, flammescat igne caritas, accendat ardor proximos». «Qui – nota il Papa – abbiamo, in due righe, due sostantivi determinanti: “confessio” nelle prime righe, e “caritas” nelle seconde due righe». Inoltre, «sono aggiunti i verbi: nel primo caso “personent” e nel secondo “caritas” interpretato con la parola fuoco, ardore, accendere, fiammeggiare».
Anzitutto, dunque: «confessionem personent». Questo ci indica che «la fede ha un contenuto» che si tratta di confessare, non è solo un sentimento o un’emozione: «Dio si comunica, ma questo Io di Dio si mostra realmente nella figura di Gesù ed è interpretato nella “confessione” che ci parla della sua concezione verginale della Nascita, della Passione, della Croce, della Risurrezione». Noi non possiamo e non dobbiamo reinventare il contenuto della fede: «dobbiamo entrare in questa “confessione”, farci penetrare, così che “personent” – come dice l’Inno – in noi e tramite noi». Ci aiuta anche una notazione che il Pontefice chiama «filologica» ma nello stesso tempo «importante»: «“confessio” nel latino precristiano si direbbe non “confessio” ma “professio” (profiteri): questo è il presentare positivamente una realtà. Invece la parola “confessio” si riferisce alla situazione in un tribunale, in un processo dove uno apre la sua mente e confessa». La piccola mutazione di una parola è indizio di una realtà drammatica: «questa parola “confessione», che nel cristiano latino ha sostituito la parola “professio”, porta in sé l’elemento martirologico, l’elemento di testimoniare davanti a istanze nemiche alla fede, testimoniare anche in situazioni di passione e di pericolo di morte». Non solo questo è tanto importante oggi, in un tempo in cui tanti cristiani sono perseguitati, ma proprio l’elemento drammatico «garantisce la credibilità: la “confessio” non è qualunque cosa che si possa anche lasciar cadere; la “confessio” implica la disponibilità di dare la mia vita, di accettare la passione». Chi prende sul serio queste parole dimostra che «veramente quanto confessa è più che vita: è la vita stessa, il tesoro, la perla preziosa e infinita». La credibilità piena e totale si mostra «solo per una realtà per cui vale la pena di soffrire, che è più forte anche della morte, e dimostra che è verità che tengo in mano, che sono più sicuro, che “porto” la mia vita perché trovo la vita in questa confessione».
L’Inno ci dice subito quali sono le conseguenze o i frutti di questa «confessione»: «Os, lingua, mens, sensus, vigor». Citando Romani 10, il Pontefice commenta che noi «sappiamo che la collocazione della “confessione” è nel cuore e nella bocca: deve stare nel profondo del cuore, ma deve essere anche pubblica; deve essere annunciata la fede portata nel cuore: non è mai solo una realtà nel cuore, ma tende ad essere comunicata, ad essere confessata realmente davanti agli occhi del mondo». Certo la confessione deve penetrare nel nostro cuore, ma «dal cuore [deve] trovare anche, insieme con la grande storia della Chiesa, la parola e il coraggio della parola». L’Inno aggiunge il riferimento alla «mens»: la confessione «non è solo cosa del cuore e della bocca, ma anche dell’intelligenza; deve essere pensata e così, come pensata e intelligentemente concepita, tocca l’altro». E c’è anche la parola «sensus»: «non è una cosa puramente astratta e intellettuale, la “confessio” deve penetrare anche i sensi della nostra vita. San Bernardo di Chiaravalle [1090-1153] ci ha detto che Dio, nella sua rivelazione, nella storia di salvezza, ha dato ai nostri sensi la possibilità di vedere, di toccare, di gustare la rivelazione. Dio non è più una cosa solo spirituale: è entrato nel mondo dei sensi e i nostri sensi devono essere pieni di questo gusto, di questa bellezza». Infine, l’Inno parla di «vigor»: «è la forza vitale del nostro essere e anche il vigore giuridico di una realtà. Con tutta la nostra vitalità e forza, dobbiamo essere penetrati dalla “confessio”, che deve realmente “personare”; la melodia di Dio deve intonare il nostro essere nella sua totalità».
Se però la «confessio» è la «prima colonna» dell’evangelizzazione, la seconda è la «caritas». Anzi la confessione è essa stessa amore. «Solo così è realmente il riflesso della verità divina, che come verità è inseparabilmente anche amore». L’Inno «descrive, con parole molto forti, questo amore: è ardore, è fiamma, accende gli altri». La metafora del fuoco ricorre nella Sacra Scrittura, e ci ammonisce ancora oggi. «Il cristiano non deve essere tiepido. L’Apocalisse ci dice che questo è il più grande pericolo del cristiano: che non dica di no, ma un sì molto tiepido. Questa tiepidezza proprio discredita il cristianesimo». Al contrario, l’Inno ci indica che questo «è il modo dell’evangelizzazione: “Accéndat ardor proximos”, che la verità diventi in me carità e la carità accenda come fuoco anche l’altro».
Nella Pentecoste «lo Spirito Santo era fuoco che ha trasformato il mondo, ma fuoco in forma di lingua, cioè fuoco che è tuttavia anche ragionevole, che è spirito, che è anche comprensione; fuoco che è unito al pensiero, alla “mens”. E proprio questo fuoco intelligente, questa “sobria ebrietas”, è caratteristico per il cristianesimo». Anche i non cristiani sanno che «il fuoco è all’inizio della cultura umana; il fuoco è luce, è calore, è forza di trasformazione. La cultura umana comincia nel momento in cui l’uomo ha il potere di creare fuoco: con il fuoco può distruggere, ma con il fuoco può trasformare, rinnovare». E oggi noi dobbiamo annunciare senza tiepidezza che «il fuoco di Dio è fuoco trasformante, fuoco di passione – certamente – che distrugge anche tanto in noi, che porta a Dio, ma fuoco soprattutto che trasforma, rinnova e crea una novità dell’uomo, che diventa luce in Dio».
Il Sinodo riuscirà se saprà annunciare alla confessione della fede come «fuoco che accende gli altri»; così la fede «diventa realmente visibile e forza del presente e del futuro».

LA PRÉSENCE DES JUIFS ET DE L’HÉBREU AU SYNODE (il testo è in francese, spero che lo possiate leggere almeno in traduzione…)

il testo è in francese, spero che lo possiate leggere almeno in traduzione, il tradutore di Google va abbastanza bene, perlomeno si capisce, dal sito:

http://www.zenit.org/article-25860?l=french

LA PRÉSENCE DES JUIFS ET DE L’HÉBREU AU SYNODE

Le Message et l’intervention du P. Neuhaus

ROME, Lundi 25 octobre 2010 (ZENIT.org) – Le Message final du synode pour le Moyen-Orient consacre trois paragraphes à la « Coopération et dialogue avec nos concitoyens juifs ». Pour la première fois, les documents d’un synode sont disponibles en hébreu, sur le site de Radio Vatican. Une intervention a reflété la situation des chrétiens de langue hébraïque. Un rabbin a eu la parole et a rencontré Benoît XVI. Trois documents du synode ont condanmé l’antisémitisme et l’antijudaïsme.
La Bible et le Concile
Le premier paragraphe du message adressé aux « concitoyens juifs » concerne l’Ecriture Sainte : « La même Écriture Sainte nous unit, l’Ancien Testament, qui est la Parole de Dieu à vous et à nous. Nous croyons en tout ce que Dieu y a révélé, depuis qu’il a appelé Abraham, notre père commun dans la foi, père des juifs, des chrétiens et des musulmans. Nous croyons dans les promesses de Dieu et son alliance données à lui et à vous. Nous croyons que la Parole de Dieu est éternelle. »
Le second rappelle le tournant de la déclaration concilaire « Nostra Aetate » sur les rapports de l’Eglise avec les religions non-chrétiennes et le déveloopmeent successif des relatiosn avec le judaïsme : « Le Concile Vatican II a publié le document Nostra Aetate, concernant le dialogue avec les religions, avec le judaïsme, l’islam et les autres religions. D’autres documents ont précisé et développé par la suite les relations avec le judaïsme ».
Ce même paragraphe recommande le développement du dialogue au profit aussi de la paix : « Il y a d’autre part un dialogue continu entre l’Église et des représentants du judaïsme. Nous espérons que ce dialogue puisse nous conduire à agir auprès des responsables pour mettre fin au conflit politique qui ne cesse de nous séparer et de perturber la vie de nos pays. »
La résolution du conflit
C’est justement à la paix qu’est consacré le troisième paragraphe : « Il est temps de nous engager ensemble pour une paix sincère, juste et définitive. Tout deux sommes interpelés par la Parole de Dieu. Elle nous invite à entendre la voix de Dieu « qui parle de paix » : « J’écoute. Que dit Dieu ? Ce que Dieu dit c’est la paix pour son peuple et ses amis » (Ps 85, 9). Il n’est pas permis de recourir à des positions bibliques et théologiques pour en faire un instrument pour justifier les injustices. Au contraire le recours à la religion doit porter toute personne à voir le visage de Dieu dans l’autre, et le traiter selon les attributs de Dieu et selon ses commandements, c’est-à-dire selon la bonté de Dieu, sa justice, sa miséricorde et son amour pour nous. »
Et pour ce qui est de la résolution du conflit, le Message du synode précise, dans un chapitre adressé « à la communauté internationale », l’importance des résolutions de l’ONU: « Les citoyens des pays du Moyen-Orient interpellent la communauté internationale, en particulier l’O.N.U., pour qu’elle travaille sincèrement à une solution de paix juste et définitive dans la région, et cela par l’application des résolutions du Conseil de sécurité et la prise des mesures juridiques nécessaires pour mettre fin à l’occupation des différents territoires arabes ».
La sécurité d’Israël
Le Message ajoute ce paragraphe qui fait allusion à la sécurité d’Israël : « Le peuple palestinien pourra ainsi avoir une patrie indépendante et souveraine et y vivre dans la dignité et la stabilité. L’État d’Israël pourra jouir de la paix et de la sécurité au-dedans des frontières internationalement reconnues. La Ville Sainte de Jérusalem pourra obtenir le statut juste qui respectera son caractère particulier, sa sainteté et son patrimoine religieux, pour chacune des trois religions juive, chrétienne et musulmane. Nous espérons que la solution des deux États devienne une réalité et ne reste pas un simple rêve ».
Enfin, rappelons que parmi les pères du synode participait aussi aux travaux le vicaire patriarcal du patriarcat latin de Jérusalem pour les communautés catholiques hébréophones, le Rév. P. David Neuhaus, jésuite de nationalité israélienne. Il est intervenu dans les débats le 12 octobre.
L’hébreu, une des langues des catholiques
Il a rappelé que « l’hébreu est également la langue de l’Église catholique au Moyen-Orient » et que « des centaines de catholiques israéliens expriment tous les aspects de leur vie en hébreu, inculturant leur foi au sein d’une société qui est définie par la tradition hébraïque ».
Il a ajouté que les travailleurs immigrés changent le visage de cette communauté hébraïque : « Des milliers d’enfants, de foi catholique, appartenant à des familles de travailleurs étrangers, de réfugiés, et des arabes fréquentent des écoles de langue hébraïque et qui ont besoin de recevoir le catéchisme en hébreu ».
Le P. Neuhaus a également souligné le « profond défi » du vicariat catholique de langue hébraïque qui « est à la recherche de voies pouvant servir de pont entre l’Église, parlant surtout l’arabe, et la société israélienne hébraïque, afin de promouvoir aussi bien l’enseignement du respect pour les peuples de l’Ancienne Alliance qu’une sensibilité au cri de justice et de paix pour les Juifs et les Palestiniens. »
Travailler en communion
Il a conclu que « ensemble, les catholiques parlant l’arabe et ceux parlant l’hébreu doivent témoigner et travailler en communion pour l’Église dans la terre où elle a vu le jour. »
L’antisémitisme et l’antijudaïsme ont été condamnnés par le patriarche copte égyptien – et futur cardinal – Antonios Naguib, dans ses « Rapports » avant et après le débat.
Les « Propositions » finales ont à nouveau condamné « l’antisémitisme et l’antijudaïsme, en distinguant entre religion et politique » (Propostition 41).
Cette proposition ajoute : « Les initiatives de dialogue et de coopération avec les juifs sont à encourager, pour approfondir les valeurs humaines et religieuses, la liberté, la justice, la paix et la fraternité. La lecture de l’Ancien Testament, et l’approfondissement des traditions du judaïsme aident à mieux connaître la religion juive. »
Le paragraphe 12 du message dit encore : « Nous condamnons toute forme de racisme, l’antisémitisme, l’antichristianisme et l’islamophobie, et nous appelons les religions à assumer leurs responsabilités dans la promotion du dialogue des cultures et des civilisations dans notre région et dans le monde entier. »
Anita S. Bourdin

Publié dans:EBRAISMO, SINODI - DAI DIVERSI... |on 26 octobre, 2010 |Pas de commentaires »

Sinodo: Rosen, migliore, ma non del tutto risolto il rapporto tra cristiani ed ebrei

dal sito:

http://www.asianews.it/notizie-it/Sinodo:-Rosen,-migliore,-ma-non-del-tutto-risolto-il-rapporto-tra-cristiani-ed-ebrei-19727.html#

14/10/2010 16:09

VATICANO

Sinodo: Rosen, migliore, ma non del tutto risolto il rapporto tra cristiani ed ebrei

Nel suo intervento, il rabbino sostiene che la situazione dei cristiani, in particolare palestinesi, dovrebbe preoccupare Israele. L’impatto dei viaggi e del magistero di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI tra gli ebrei.

Città del Vaticano (AsiaNews) – E’ decisamente migliorato il rapporto tra cattolici ed ebrei, anche se restano incomprensioni dovute in primo luogo alla reciproca poca conoscenza, ed anche per i cristiani che vivono in Israele la situazione è più accettabile. E’ il quadro fatto nel suo intervento al Sinodo per il Medio Oriente dal rabbino David Rosen, consigliere del Gran rabbinato di Israele, direttore del « Department for Interreligious Affairs of the American Jewish Committee and Heilbrunn Institute for International Interreligious Understanding », invitato speciale all’assemblea che si sta svolgendo in Vaticano.
 
Nelle sue parole “la penosa situazione della Terra Santa”, l’affermazione che “il grado dei diritti civili e religiosi o delle libertà di cui godono i cristiani testimonia lo stato di salute o di malattia delle rispettive società mediorientali” e il ruolo di mediatori che i cristiani dovrebbero svolgere nell’intera regione.
 
“La difficile situazione dei Palestinesi in generale, e dei Cristiani Palestinesi in particolare – ha detto Rosen – dovrebbe preoccupare profondamente gli Ebrei sia in Israele che nella Diaspora. Per incominciare, proprio l’ebraismo ha mostrato al mondo che ogni persona umana è creata a Immagine Divina; e che di conseguenza, come insegnano i saggi del Talmud, ogni atto irrispettoso nei confronti di un’altra persona è un atto irrispettoso nei confronti del Creatore stesso. Noi abbiamo una responsabilità particolare nei confronti del prossimo che soffre. E tale responsabilità è ancora più grande quando la sofferenza scaturisce da un conflitto cui partecipiamo e in cui, paradossalmente, abbiamo precisamente il dovere morale e religioso di proteggere e difendere noi stessi. Per me personalmente, in quanto Israeliano di Gerusalemme, la penosa situazione in Terra Santa e la sofferenza di tante persone da entrambe le parti dello spartiacque politico è causa di grande dolore, anche se mi rendo perfettamente conto del fatto che essa viene usata ed abusata per fomentare tensioni che vanno ben oltre il contesto geografico del conflitto stesso”.
 
“Ringrazio Dio per il gran numero di organizzazioni che nella nostra società operano per alleviare quanta più sofferenza possibile in questo difficilissimo contesto. Sono orgoglioso di essere il fondatore di una di queste organizzazioni, “Rabbis for Human Rights” (Rabbini per i Diritti Umani), il cui direttore e i cui membri, proprio in veste di leali cittadini israeliani, continuano a lottare per difendere e promuovere la dignità umana di tutte le persone e in particolare dei più vulnerabili. Naturalmente, sono consapevole delle stragi sulle strade delle nostre città, nel passato recente, e delle persistenti minacce che, nel presente, vengono da coloro che sono apertamente impegnati nella distruzione e nello sterminio di Israele. Tuttavia, dobbiamo sforzarci di fare tutto il possibile per alleviare la durezza delle condizioni, specialmente per coloro che appartengono alle comunità cristiane di Gerusalemme e dintorni. Di fatto, negli ultimi mesi le condizioni sono notevolmente migliorate, per esempio per quel che riguarda la libera circolazione del clero; inoltre, recentemente, sembrano esserci segnali di una crescente comprensione dei bisogni delle comunità cristiane locali da parte delle autorità, malgrado le sfide poste dalla sicurezza. Noi siamo a favore di tutto ciò, nella convinzione che sia assolutamente nell’interesse di tutti. Dunque, la responsabilità ebraica di garantire la fioritura di comunità cristiane in mezzo a noi, in considerazione del fatto che la Terra Santa è la terra in cui nacque il Cristianesimo e dove si trovano i luoghi sacri, viene rafforzata dalla nostra rinnovata e crescente fraternità. Tuttavia, anche andando oltre il nostro particolare rapporto, i Cristiani presenti come minoranza in ambiente ebraico o mussulmano svolgono un ruolo molto speciale nel contesto delle nostre società. La situazione delle minoranze si riflette sempre profondamente sulle condizioni sociali e morali di una società nel suo insieme. Il benessere delle comunità cristiane in Medio Oriente non è altro che una specie di barometro delle condizioni morali dei nostri paesi. Il grado dei diritti civili e religiosi o delle libertà di cui godono i cristiani testimonia lo stato di salute o di malattia delle rispettive società mediorientali. Inoltre, come ho già detto, i Cristiani svolgono un ruolo assai importante nella promozione del dialogo e la collaborazione interreligiosi nel paese. Dunque, vorrei suggerire che proprio questa è la funzione dei Cristiani, ovvero contribuire al superamento del pregiudizio e del malinteso che affliggono la Terra Santa e che, naturalmente, sono sostenuti nel resto della regione. Sebbene non sia giusto aspettarsi che le piccole comunità cristiane locali siano in grado di sopportare da sole tale responsabilità, forse possiamo sperare che, se sostenute in questo dalla loro Chiesa universale e dall’autorità centrale, possano fungere da salutari operatori di pace nella città il cui nome significa pace e che tale significato ha mantenuto per le nostre comunità”.
 
La direzione cattolica locale ha già dato un segno di ciò istituendo in anni recenti il Consiglio degli Istituti Religiosi in Terra Santa, che riunisce il Gran Rabbinato di Israele, i tribunali della Sharia e il Ministero degli Affari Religiosi dell’Autorità Palestinese, nonché la direzione cristiana ufficiale in Terra Santa. Tale consiglio non solo facilita la comunicazione fra le diverse autorità religiose, ma è anche impegnato nella lotta ai malintesi, al fanatismo e alll’istigazione, cercando di essere un punto di forza per la riconciliazione e la pace, in modo che due nazioni e tre religioni possano convivere nella stessa terra con dignità, libertà e tranquillità assolute”. 
“L’Instrumentum Laboris di questo sinodo speciale per il Medio Oriente cita Papa Benedetto XVI nella sua intervista all’Osservatore Romano, mentre si recava in Terra Santa; dice: “è importante, da una parte avere i dialoghi bilaterali – con gli ebrei e con l’Islam – e poi anche il dialogo trilaterale” (96). Proprio quest’anno, per la prima volta il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e la Pontificia Commissione per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo ha ospitato insieme al Comitato Ebraico Internazionale per le Consultazioni Interreligiose (IJCIC) e la Fondazione Le Tre Culture, a Siviglia, in Spagna, il nostro primo dialogo trilaterale. È stata per me una gioia particolare, poiché la proposta di ciò venne avanzata quando ero presidente del IJCIC e spero vivamente che sia solo l’inizio di un dialogo trilaterale più esteso, che possa vincere il sospetto, il pregiudizio e i malintesi, in modo che possiamo mettere in luce i valori condivisi dalla famiglia di Abramo per il bene di tutta l’umanità. Mi sembra che la suddetta commissione bilaterale con il Rabbinato di Israele ed il consiglio degli Istituti Religiosi in Terra Santa costituisca in questo senso un’opportunità e una sfida ancor più grandi”.
  ”L’Instrumentum Laboris ci permette di comprendere meglio la natura dei rapporti dei Cristiani sia con gli Ebrei sia con i Mussulmani. Cita infatti le parole di Papa Benedetto XVI a Colonia, nell’agosto del 2005, quando descrisse le relazioni con l’Islam: “… una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro” (95). In Medio Oriente ciò si può toccare con mano. A seconda che il concetto di dar el Islam sia inteso soltanto in un contesto geografico/culturale o piuttosto teologico, la domanda fondamentale per il futuro delle nostre comunità è se i fratelli mussulmani saranno capaci di considerare la presenza dei cristiani e degli ebrei come parte integrante e pienamente legittimata della regione nel suo insieme. La necessità di affrontare questo problema è veramente “una necessità vitale… da cui… dipende il nostro futuro”. 
“Ciò si ricollega precisamente alla questione che è alla radice del conflitto arabo-israeliano. Coloro che rivendicano l’ “occupazione” come“causa originaria” del conflitto non sono sinceri, nel migliore dei casi. Questo conflitto è in atto da decenni, da molto prima della Guerra dei Sei Giorni del 1967, il cui esito portò Gaza e Cisgiordania sotto il controllo israeliano. L’”occupazione” è infatti una conseguenza del conflitto, la cui “causa originaria” è in realtà se il mondo arabo possa o meno tollerare un sistema di governo sovrano non arabo al suo interno. Tuttavia l’Instrumentum Laboris nel commento alla Dei Verbum descrive il dialogo della Chiesa “con i suoi fratelli maggiori” non solo necessario, ma “essenziale” (87). Proprio durante la visita alla grande sinagoga di questa città, quest’anno il Papa Benedetto XVI ha citato il Catechismo della Chiesa Cattolica (839) “E’ scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola”; aggiunge in seguito: “la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio”. Queste parole fanno eco a quelle del suo predecessore, Giovanni Paolo II, che nella sua storica visita alla stesso luogo di adorazione degli ebrei, in questa città nel 1986, dichiarò che la “religione ebraica non è estrinseca, ma in certo qual modo è intrinseca alla nostra religione. Con l’Ebraismo dunque abbiamo un rapporto che non abbiamo con nessun’altra religione”. Inoltre, nell’Esortazione apostolica del 28 giugno 2003, il pontefice descrisse “…il dialogo con l’ebraismo” come “di fondamentale importanza per l’autocoscienza cristiana”, in linea con l’appello del sinodo a “riconoscere le comuni radici che intercorrono tra il cristianesimo e il popolo ebraico, chiamato da Dio a un’alleanza che rimane irrevocabile”. Come ho detto, le realtà politiche in Medio Oriente non sempre facilitano il riconoscere, da parte dei cristiani, e ancor meno a far proprie, queste esortazioni. Tuttavia, prego che il miracolo di ciò cui Giovanni Paolo II si è riferito come “la fioritura di una nuova primavera nei reciproci rapporti” diventi sempre più evidente in Medio Oriente e nel mondo intero. A questo scopo, dedichiamoci sempre più devotamente, attraverso la preghiera e le opere, alla pace e alla dignità per tutti. Preghiamo con le parole di Papa Giovanni Paolo II presso il muro occidentale di Gerusalemme, con cui il pontefice Benedetto XVI ha concluso la presentazione nella grande sinagoga di Roma.“Manda la tua pace in Terra Santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana; muovi i cuori di quanti invocano il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione” 
“Naturalmente questa straordinaria trasformazione nel modo in cui il popolo ebraico viene considerato e presentato ha dovuto e deve ancora confrontarsi con l’influenza di secoli, se non di millenni di “insegnamento del disprezzo” nei confronti degli ebrei e dell’ebraismo, che ovviamente non può essere eliminato di punto in bianco e neppure dopo quarantacinque anni. Inevitabilmente l’impatto di questa trasformazione nei rapporti cattolico-ebraici varia considerevolmente da un contesto all’altro, a seconda dell’influenza di fattori sociologici, educativi e perfino politici”.
 
“Tuttavia esistono molti paesi in cui questi fattori sociali e demografici non esistono. Nella maggior parte dei paesi in cui il cattolicesimo rappresenta la forza sociale dominante, le comunità ebraiche sono piccole, se non del tutto assenti, e i rapporti tra la Chiesa e l’ebraismo spesso sono trascurabili. Confesso di essere rimasto sorpreso di scoprire nel clero cattolico e talvolta anche nella gerarchia di alcuni paesi non solo ignoranza nei confronti dell’ebraismo contemporaneo, ma spesso perfino della Nostra Aetate, il documento del Concilio che ne è scaturito, e di conseguenza degli importanti insegnamenti del Magistero riguardo agli ebrei e all’ebraismo”.  
“Nell’unico sistema politico mondiale del mondo in cui gli ebrei sono la maggioranza, lo Stato di Israele, questo problema è ulteriormente aggravato dal contesto politico e sociologico. In Medio Oriente, come nella maggior parte del mondo, le comunità tendono a vivere nei propri ambienti linguistici, culturali e confessionali, e Israele non fa eccezione. Inoltre gli arabi cristiani in Israele sono una minoranza dentro una minoranza – circa 120.000 su una popolazione araba di quasi un milione e mezzo che per la maggior parte è musulmana e che rappresenta forse il venti per cento di tutta la popolazione di Israele ( intorno ai sette milioni e mezzo).È vero che gli israeliani arabi cristiani rappresentano una minoranza religiosa particolarmente affermata sotto molti aspetti. I loro standard socio economici ed educativi sono ben al di sopra della media – le loro scuole registrano i voti migliori agli esami di maturità annuali – molti di loro sono politici ad alto livello e sono stati in grado di attingere ai molti benefici del sistema democratico di cui sono parte integrante. Tuttavia la vita quotidiana della stragrande maggioranza di arabi ed ebrei si svolge in seno ai loro rispettivi contesti. Di conseguenza la maggior parte degli ebrei israeliani non incontrano i cristiani contemporanei; e perfino quando si recano all’estero tendono a considerarli non-ebrei come tali, non cristiani moderni”.
 
“Di conseguenza fino a poco tempo fa la maggior parte della società israeliana non ha avuto alcun sentore dei profondi cambiamenti nei rapporti tra cattolici ed ebrei. Tuttavia questa situazione ha iniziato a cambiare significativamente nell’ultimo decennio per diversi motivi, di cui due particolarmente importanti. Il primo è rappresentato dall’impatto della visita del compianto Papa Giovanni Paolo II nell’anno 2000, a seguito dello stabilimento dei rapporti diplomatici bilaterali tra Israele e la Santa Sede di sei anni prima. Mentre quest’ultimo fatto era già stato percepito in Israele, è stato il potere delle immagini visive, il cui significato Papa Giovanni Paolo II comprendeva così bene, che ha rivelato chiaramente alla maggior parte della società israeliana la trasformazione che si era operata negli atteggiamenti e negli insegnamenti cristiani riguardo al popolo ebraico con il quale lo stesso Papa ha mantenuto e ha continuato a promuovere mutua amicizia e rispetto. Per Israele vedere il Papa al Muro del Pianto, frammento del Secondo Tempio, stare in piedi in segno di rispetto per la tradizione ebraica e porvi il testo che aveva composto per una liturgia del perdono che aveva avuto luogo due settimane prima qui, a San Pietro, in cui chiedeva il perdono divino per i peccati commessi contro gli ebrei nel corso dei secoli, è stato straordinario e commovente nel suo effetto. Gli ebrei di Israele hanno ancora molta strada da fare per superare un passato negativo, ma non c’è dubbio che da quella storica visita gli atteggiamenti sono cambiati. Essa inoltre ha portato all’importante nuovo cammino verso il dialogo, la comprensione e la collaborazione grazie alla commissione bilaterale del Gran Rabbinato di Israele e la Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’Ebraismo, istituita per iniziativa di Giovanni Paolo II e ampiamente lodata da Papa Benedetto XVI nel corso del suo pellegrinaggio in Terra Santa lo scorso anno, come pure nelle sue parole alla sinagoga di Roma all’inizio di quest’anno. Un altro fattore importante è l’influsso di altri cristiani che hanno raddoppiato l’assetto demografico del cristianesimo in Israele. Mi riferisco innanzitutto ai circa cinquantamila cristiani praticanti che facevano parte del flusso migratorio dall’ex Unione Sovietica verso Israele negli ultimi due decenni. In quanto strettamente legati allo stesso tempo con la società ebraica a motivo di vincoli familiari e culturali, si può dire che essi rappresentino la prima minoranza cristiana che si considera allo stesso tempo parte di una maggioranza ebraica da quando si è formata la comunità cristiana degli albori. Questi cristiani, come le comunità arabo cristiane, sono cittadini israeliani che godono del pieno diritto di cittadinanza e di uguaglianza di fronte alla legge. Tuttavia esiste un terzo importante popolo cristiano in Israele, la cui permanenza legale è talvolta problematica. Si tratta delle molte migliaia di cristiani praticanti su circa un quarto di milione di lavoratori immigrati – dalle Filippine, dall’Europa dell’est, dall’America Latina e dall’Africa sub-Sahariana. La maggior parte di loro sono ospiti del paese legalmente e provvisoriamente. Tuttavia circa la metà di loro sono entrati, o risiedono illegalmente e la loro posizione è precaria dal punto di vista legale. Tuttavia la sostanziale presenza cristiana in mezzo a questa popolazione alimenta una vita religiosa piena di vitalità e rappresenta una significativa terza dimensione della realtà cristiana nell’Israele di oggi. Questi fattori hanno contribuito, fra gli altri, a una crescente familiarità in Israele con il cristianesimo odierno. Inoltre, mentre esistono circa duecento organizzazioni israeliane che promuovono la comprensione e la collaborazione arabo-ebraiche in generale, esistono anche letteralmente dozzine di organismi che promuovono incontri interreligiosi, dialogo e studi, e la presenza cristiana al loro interno è esorbitante e assai significativa. Ciò naturalmente è dovuto sostanzialmente alla presenza di istituzioni cristiane e ai loro presbiteri, alunni, rappresentanti internazionali delle chiese, e così via, che contribuiscono, in modo del tutto sproporzionato rispetto al loro numero, a questi sforzi, soprattutto nel campo dell’istruzione. Inoltre il fatto che nello Stato di Israele i cristiani, come i musulmani, rappresentino una minoranza che vuol essere accettata e compresa dalla maggioranza degli ebrei, è servito da stimolo per l’impegno interreligioso (contrariamente ad altri luoghi, dove spesso accade l’inverso)”. 
“I cristiani in Israele si trovano naturalmente in una situazione molto diversa di quella delle loro comunità sorelle in Terra Santa, che fanno parte di una società palestinese che lotta per la propria indipendenza, e che vengono inevitabilmente coinvolte tutti i giorni nel conflitto Israelo-palestinese. In effetti l’ubicazione di alcune di queste comunità ai confini tra Israele e la giurisdizione palestinese fa sì che queste spesso debbano sopportare l’affronto delle misure di sicurezza che lo Stato ebraico si sente in obbligo di mantenere al fine di proteggere i propri cittadini dalla continua violenza dall’interno dei territori palestinesi. È giusto e opportuno che questi cristiani palestinesi esprimano il loro disagio e le loro speranze riguardo alla situazione. Tuttavia è rilevante e deplorevole che tali espressioni non siano sempre conformi con la lettera e lo spirito del Magistero riguardo ai rapporti con gli ebrei e l’ebraismo. Ciò sembra riflettersi in un contesto geografico più ampio, dove l’impatto del conflitto Arabo-Israeliano ha rappresentato troppo spesso un disagio per molti cristiani nei confronti della riscoperta da parte della Chiesa delle proprie radici cristiane e talvolta una preferenza per il pregiudizio storico”.

Omelia del Papa per la conclusione del Sinodo dei Vescovi sulla Parola (ha commentato anche le letture della messa di oggi)

dal sito:

http://www.zenit.org/article-15916?l=italian

Omelia del Papa per la conclusione del Sinodo dei Vescovi sulla Parola

CITTA’ DEL VATICANO, domenica, 26 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo l’omelia pronunciata da Benedetto XVI nel presiedere questa domenica nella Basilica vaticana la concelebrazione dell’Eucaristia con i Padri sinodali, in occasione della conclusione della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, che si è svolta nell’Aula del Sinodo in Vaticano, dal 5 al 26 ottobre 2008, sul tema: Verbum Domini in vita et missione Ecclesiæ (« La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa »).

* * *

Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,

cari fratelli e sorelle!

La Parola del Signore, risuonata poc’anzi nel Vangelo, ci ha ricordato che nell’amore si riassume tutta la Legge divina. L’Evangelista Matteo racconta che i farisei, dopo che Gesù ebbe risposto ai sadducei chiudendo loro la bocca, si riunirono per metterlo alla prova (cfr 22,34-35). Uno di questi, un dottore della legge, gli chiese: « Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento? » (v. 36). La domanda lascia trasparire la preoccupazione, presente nell’antica tradizione giudaica, di trovare un principio unificatore delle varie formulazioni della volontà di Dio. Era domanda non facile, considerato che nella Legge di Mosè sono contemplati ben 613 precetti e divieti. Come discernere, tra tutti questi, il più grande? Ma Gesù non ha nessuna esitazione, e risponde prontamente: « Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento » (vv. 37-38). Nella sua risposta, Gesù cita lo Shemà, la preghiera che il pio israelita recita più volte al giorno, soprattutto al mattino e alla sera (cfr Dt 6,4-9; 11,13-21; Nm 15,37-41): la proclamazione dell’amore integro e totale dovuto a Dio, come unico Signore. L’accento è posto sulla totalità di questa dedizione a Dio, elencando le tre facoltà che definiscono l’uomo nelle sue strutture psicologiche profonde: cuore, anima e mente. Il termine mente, diánoia, contiene l’elemento razionale. Dio non è soltanto oggetto dell’amore, dell’impegno, della volontà e del sentimento, ma anche dell’intelletto, che pertanto non va escluso da questo ambito. E’ anzi proprio il nostro pensiero a doversi conformare al pensiero di Dio. Poi, però, Gesù aggiunge qualcosa che, in verità, non era stato richiesto dal dottore della legge: « Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso » (v. 39). L’aspetto sorprendente della risposta di Gesù consiste nel fatto che egli stabilisce una relazione di somiglianza tra il primo e il secondo comandamento, definito anche questa volta con una formula biblica desunta dal codice levitico di santità (cfr Lv 19,18). Ed ecco quindi che nella conclusione del brano i due comandamenti vengono associati nel ruolo di principio cardine sul quale poggia l’intera Rivelazione biblica: « Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti » (v. 40).

La pagina evangelica sulla quale stiamo meditando pone in luce che essere discepoli di Cristo è mettere in pratica i suoi insegnamenti, che si riassumono nel primo e più grande comandamento della Legge divina, il comandamento dell’amore. Anche la prima Lettura, tratta dal libro dell’Esodo, insiste sul dovere dell’amore; un amore testimoniato concretamente nei rapporti tra le persone: devono essere rapporti di rispetto, di collaborazione, di aiuto generoso. Il prossimo da amare è anche il forestiero, l’orfano, la vedova e l’indigente, quei cittadini cioè che non hanno alcun « difensore ». L’autore sacro scende a dettagli particolareggiati, come nel caso dell’oggetto dato in pegno da uno di questi poveri (cfr Es 20,25-26). In tal caso è Dio stesso a farsi garante della situazione di questo prossimo.

Nella seconda Lettura possiamo vedere una concreta applicazione del sommo comandamento dell’amore in una delle prime comunità cristiane. San Paolo scrive ai Tessalonicesi, lasciando loro capire che, pur avendoli conosciuti da poco, li apprezza e li porta con affetto nel cuore. Per questo egli li addita come un « modello per tutti i credenti della Macedonia e dell’Acaia » (1 Ts 1,6-7). Non mancano certo debolezze e difficoltà in quella comunità fondata di recente, ma è l’amore che tutto supera, tutto rinnova, tutto vince: l’amore di chi, consapevole dei propri limiti, segue docilmente le parole di Cristo, divino Maestro, trasmesse attraverso un suo fedele discepolo. « Voi avete seguito il nostro esempio e quello del Signore – scrive san Paolo – avendo accolto la Parola in mezzo a grandi prove ». « Per mezzo vostro – prosegue l’Apostolo – la parola del Signore risuona non soltanto in Macedonia e in Acaia, ma la vostra fede si è diffusa dappertutto » (1 Ts 1,6.8). L’insegnamento che traiamo dall’esperienza dei Tessalonicesi, esperienza che in verità accomuna ogni autentica comunità cristiana, è che l’amore per il prossimo nasce dall’ascolto docile della Parola divina. E’ un amore che accetta anche dure prove per la verità della parola divina e proprio così il vero amore cresce e la verità risplende in tutto il suo fulgore. Quanto è importante allora ascoltare la Parola e incarnarla nell’esistenza personale e comunitaria!

In questa celebrazione eucaristica, che chiude i lavori sinodali, avvertiamo in maniera singolare il legame che esiste tra l’ascolto amorevole della Parola di Dio e il servizio disinteressato verso i fratelli. Quante volte, nei giorni scorsi, abbiamo sentito esperienze e riflessioni che evidenziano il bisogno oggi emergente di un ascolto più intimo di Dio, di una conoscenza più vera della sua parola di salvezza; di una condivisione più sincera della fede che alla mensa della parola divina si alimenta costantemente! Cari e venerati Fratelli, grazie per il contributo che ciascuno di voi ha offerto all’approfondimento del tema del Sinodo: « La Parola di Dio nella vita e nella missione della Chiesa ». Tutti vi saluto con affetto. Un saluto speciale rivolgo ai Signori Cardinali Presidenti delegati del Sinodo e al Segretario Generale, che ringrazio per la loro costante dedizione. Saluto voi, cari fratelli e sorelle, che siete venuti da ogni continente recando la vostra arricchente esperienza. Tornando a casa, trasmettete a tutti il saluto affettuoso del Vescovo di Roma. Saluto i Delegati Fraterni, gli Esperti, gli Uditori e gli Invitati speciali: i membri della Segreteria Generale del Sinodo, quanti si sono occupati dei rapporti con la stampa. Un pensiero speciale va ai Vescovi della Cina Continentale, che non hanno potuto essere rappresentati in questa assemblea sinodale. Desidero farmi qui interprete, e renderne grazie a Dio, del loro amore per Cristo, della loro comunione con la Chiesa universale e della loro fedeltà al Successore dell’Apostolo Pietro. Essi sono presenti nella nostra preghiera, insieme con tutti i fedeli che sono affidati alle loro cure pastorali. Chiediamo al «Pastore supremo del gregge» (1 Pt 5, 4) di dare ad essi gioia, forza e zelo apostolico per guidare con sapienza e con lungimiranza la comunità cattolica in Cina, a tutti noi così cara.

Noi tutti, che abbiamo preso parte ai lavori sinodali, portiamo con noi la rinnovata consapevolezza che compito prioritario della Chiesa, all’inizio di questo nuovo millennio, è innanzitutto nutrirsi della Parola di Dio, per rendere efficace l’impegno della nuova evangelizzazione, dell’annuncio nei nostri tempi. Occorre ora che questa esperienza ecclesiale sia recata in ogni comunità; è necessario che si comprenda la necessità di tradurre in gesti di amore la parola ascoltata, perché solo così diviene credibile l’annuncio del Vangelo, nonostante le umane fragilità che segnano le persone. Ciò richiede in primo luogo una conoscenza più intima di Cristo ed un ascolto sempre docile della sua parola.

In quest’Anno Paolino, facendo nostre le parole dell’Apostolo: « guai a me se non predicassi il Vangelo » (1 Cor 9,16), auspico di cuore che in ogni comunità si avverta con più salda convinzione quest’anelito di Paolo come vocazione al servizio del Vangelo per il mondo. Ricordavo all’inizio dei lavori sinodali l’appello di Gesù: « la messe è molta » (Mt 9,37), appello a cui non dobbiamo mai stancarci di rispondere malgrado le difficoltà che possiamo incontrare. Tanta gente è alla ricerca, talora persino senza rendersene conto, dell’incontro con Cristo e col suo Vangelo; tanti hanno bisogno di ritrovare in Lui il senso della loro vita. Dare chiara e condivisa testimonianza di una vita secondo la Parola di Dio, attestata da Gesù, diventa pertanto indispensabile criterio di verifica della missione della Chiesa. La letture che la liturgia offre oggi alla nostra meditazione ci ricordano che la pienezza della Legge, come di tutte le Scritture divine, è l’amore. Chi dunque crede di aver compreso le Scritture, o almeno una qualsiasi parte di esse, senza impegnarsi a costruire, mediante la loro intelligenza, il duplice amore di Dio e del prossimo, dimostra in realtà di essere ancora lontano dall’averne colto il senso profondo. Ma come mettere in pratica questo comandamento, come vivere l’amore di Dio e dei fratelli senza un contatto vivo e intenso con le Sacre Scritture? Il Concilio Vaticano II afferma essere « necessario che i fedeli abbiano largo accesso alla Sacra Scrittura » (Cost. Dei Verbum, 22), perché le persone, incontrando la verità, possano crescere nell’amore autentico. Si tratta di un requisito oggi indispensabile per l’evangelizzazione. E poiché non di rado l’incontro con la Scrittura rischia di non essere « un fatto » di Chiesa, ma esposto al soggettivismo e all’arbitrarietà, diventa indispensabile una promozione pastorale robusta e credibile della conoscenza della Sacra Scrittura, per annunciare, celebrare e vivere la Parola nella comunità cristiana, dialogando con le culture del nostro tempo, mettendosi al servizio della verità e non delle ideologie correnti e incrementando il dialogo che Dio vuole avere con tutti gli uomini (cfr ibid., 21). A questo scopo va curata in modo speciale la preparazione dei pastori, preposti poi alla necessaria azione di diffondere la pratica biblica con opportuni sussidi. Vanno incoraggiati gli sforzi in atto per suscitare il movimento biblico tra i laici, la formazione degli animatori dei gruppi, con particolare attenzione ai giovani. È da sostenere lo sforzo di far conoscere la fede attraverso la Parola di Dio anche a chi è « lontano » e specialmente a quanti sono in sincera ricerca del senso della vita. Molte altre riflessioni sarebbero da aggiungere, ma mi limito infine a sottolineare che il luogo privilegiato in cui risuona la Parola di Dio, che edifica la Chiesa, come è stato detto tante volte nel Sinodo, è senza dubbio la liturgia. In essa appare che la Bibbia è il libro di un popolo e per un popolo; un’eredità, un testamento consegnato a lettori, perché attualizzino nella loro vita la storia di salvezza testimoniata nello scritto. Vi è pertanto un rapporto di reciproca vitale appartenenza tra popolo e Libro: la Bibbia rimane un Libro vivo con il popolo, suo soggetto, che lo legge; il popolo non sussiste senza il Libro, perché in esso trova la sua ragion d’essere, la sua vocazione, la sua identità. Questa mutua appartenenza fra popolo e Sacra Scrittura è celebrata in ogni assemblea liturgica, la quale, grazie allo Spirito Santo, ascolta Cristo, poiché è Lui che parla quando nella Chiesa si legge la Scrittura e si accoglie l’alleanza che Dio rinnova con il suo popolo. Scrittura e liturgia convergono, dunque, nell’unico fine di portare il popolo al dialogo con il Signore e all’obbedienza alla volontà del Signore. La Parola uscita dalla bocca di Dio e testimoniata nelle Scritture torna a Lui in forma di risposta orante, di risposta vissuta, di risposta sgorgante dall’amore (cfr Is 55,10-11). Cari fratelli e sorelle, preghiamo perché dal rinnovato ascolto della Parola di Dio, sotto l’azione dello Spirito Santo, possa sgorgare un autentico rinnovamento nella Chiesa universale, ed in ogni comunità cristiana. Affidiamo i frutti di questa Assemblea sinodale alla materna intercessione della Vergine Maria. A Lei affido anche la II Assemblea Speciale del Sinodo per l’Africa, che si svolgerà a Roma nell’ottobre del prossimo anno. E’ mia intenzione recarmi nel marzo pro esimo in Camerun per consegnare ai rappresentanti delle Conferenze Episcopali dell’Africa l’Instrumentum laboris di tale Assemblea sinodale. Di lì proseguirò, a Dio piacendo, per l’Angola, per celebrare solennemente il 500° anniversario di evangelizzazione del Paese. Maria Santissima, che ha offerto la sua vita come « serva del Signore », perché tutto si compisse in conformità ai divini voleri (cfr Lc 1,38) e che ha esortato a fare tutto ciò che Gesù avrebbe detto (cfr Gv 2,5), ci insegni a riconoscere nella nostra vita il primato della Parola che sola ci può dare salvezza. E così sia!

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