GERUSALEMME CASA DI PREGHIERA PER TUTTI I POPOLI
dal sito:
http://www.christusrex.org/www1/ofm/sbf/dialogue/GerusalemmeCasa.html
GERUSALEMME CASA DI PREGHIERA PER TUTTI I POPOLI
Alviero Niccacci
1. Purificazione del Tempio e Isaia 56
L’espressione “Gerusalemme casa di preghiera per tutti i popoli” ci è familiare a motivo dei Vangeli. Infatti i Vangeli sinottici la mettono in bocca a Gesù quando fece l’ingresso in Gerusalemme in mezzo a una folla che l’accompagnava in processione davanti e dietro e proclamava: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!». L’esaltazione messianica della folla si vede bene in Marco, che aggiunge: «Benedetto il regno che viene, del nostro padre David!» (Mc 11,10).
Queste acclamazioni rivelano la convinzione della gente che Gesù sia il Re Messia. In questo ambiente euforico si inseriscono alcuni gesti simbolici di Gesù. Diremmo che Gesù sfrutta l’occasione per compiere gesti forti, che esprimano la novità che egli porta. Secondo il racconto di Marco, egli entra nel Tempio, guarda ogni cosa attorno, ma poi data l’ora tarda torna a Betania per la notte. I fatti che seguono intrecciano simbolicamente una pianta di fico e il Tempio. Gesù pronuncia una parola di condanna su un fico che non ha frutti, poi entra nel Tempio e scaccia venditori e trafficanti. Al mattino seguente constatano che il fico è seccato dalle radici, di nuovo Gesù entra nel Tempio e le autorità religiose – sommi sacerdoti, scribi e anziani – gli domandano con quale autorità faccia queste cose ed egli smaschera la loro mancanza di fede (Mc 11,27-33). È chiaro che per l’evangelista quello che Gesù sta per fare a Gerusalemme simboleggia la sterilità del Tempio, cioè del giudaismo che per colpa delle sue autorità religiose non ha riconosciuto il momento della visita annunciata dai profeti.
La frase che costituisce il tema della nostra riflessione è legata all’episodio noto come la purificazione del Tempio. Gesù giustifica la cacciata dei venditori e trafficanti citando la Scrittura: «Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti? Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri» (Mc 11,17). La citazione mette insieme passi diversi della Scrittura, come spesso avviene. In questo caso la prima parte «La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le genti» è presa dal profeta Isaia (56,7), mentre la seconda parte richiama un passo del profeta Geremia in cui Dio dice agli Israeliti che venivano da tutte le parti a prostrarsi davanti al Signore nel Tempio di Gerusalemme: «È forse una spelonca di ladri ai vostri occhi questo tempio che prende il nome da me?» (Ger 7,11). Commettete ogni genere di peccato, accusa il profeta, eppure confidate nella protezione di Dio, dicendo: «Tempio del Signore, tempio del Signore, tempio del Signore è questo!” (7,4), convinti di poter stare tranquilli! Come Dio nell’AT, così Gesù ora smaschera la separazione della vita dal culto, della condotta dalle pratiche religiose. Sia Dio che Gesù riaffermano con forza la santità e le esigenze pratiche della fede autentica. E, aggiunge Gesù, la fede autentica esige ora un rinnovamento profondo: è volontà di Dio accogliere il suo Cristo che è venuto a rinnovare il Regno e il culto. Se questo non avviene, il Tempio diventerà sterile, Dio stesso lo farà distruggere.
Notiamo però che la frase che a noi interessa in questo momento, «casa di preghiera per tutti i popoli», si trova solo in Marco, mentre Matteo e Luca hanno soltanto: «casa di preghiera». È chiaro che in quel preciso momento era importante la funzione autentica del Tempio come «casa di preghiera», il Tempio che era diventato «spelonca di ladri» e avrebbe perduto la sua funzione, anzi sarebbe stato distrutto per il fatto che i capi religiosi rifiutavano il Cristo. Ricordiamo che nel vangelo di Giovanni Gesù afferma in modo diretto: «Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere… Ma egli parlava del tempio del suo corpo» (Gv 2,19.21). Questa frase non significa di per sé soppressione né sostituzione ma piuttosto rinnovamento, trasformazione dopo la distruzione. Ma lasciamo da parte, per ora, questo aspetto importante che riguarda il rapporto tra le realtà “prime” dell’AT e le realtà “nuove” del NT.
Il testo citato da Gesù, Is 56,7, se lo guardiamo nel suo contesto si rivela straordinariamente illuminante. Lo troviamo inserito in una serie di oracoli di salvezza che precedono e accompagnano il cosiddetto quarto carme del Servo del Signore (Is 52-13-53,12). Il profeta annuncia che due tipi di persone, due gruppi marginali, esclusi dalla comunità degli Israeliti in base alla Legge mosaica, verranno ammessi nella futura comunità che il Signore promette di restaurare. I due gruppi sono gli stranieri e gli eunuchi, nell’ordine: stranieri – eunuchi, eunuchi – stranieri. E qui le parole di Dio per bocca del profeta sono di un’apertura straordinaria, soprattutto per la mentalità di allora:
«Non dica lo straniero che ha aderito al Signore: “Certo mi escluderà il Signore dal suo popolo!”.
Non dica l’eunuco: “Ecco, io sono un albero secco!”. Poiché così dice il Signore:
“Agli eunuchi che osserveranno i miei sabati [cioè le mie feste durante l’anno], preferiscono le cose di mio gradimento e restano fermi nella mia alleanza, io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un posto e un nome meglio di figli e figlie; darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato.
Gli stranieri, che hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore e per essere suoi servi, quanti si guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza, li condurrò sul mio santo monte e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera. I loro olocausti e i loro sacrifici saliranno graditi sul mio altare perché il mio tempio (‘la mia casa’) si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli» (Is 56,3-7).
L’apertura di questo testo si capisce meglio se si considerano anche i due versetti iniziali del c. 56 e quello finale. All’inizio Dio invita a osservare la rettitudine e a fare la giustizia poiché la sua salvezza è prossima a manifestarsi. Poi pronuncia una beatitudine: «Beato l’uomo che così agisce, e il figlio dell’uomo che a questo si attiene, che osserva il sabato senza profanarlo, che preserva la sua mano da ogni male» (Is 56,2). Dopo questo vengono interpellati i due gruppi marginali, gli stranieri e gli eunuchi, come abbiamo visto. Cosa c’è di straordinario in questo? Anzitutto che si dica “uomo / figlio dell’uomo”, e non giudeo, o figlio di Israele, o simile; e poi che ai due gruppi marginali vengano richieste le stesse cose, né più né meno che a un israelita e ad ogni uomo, e cioè compiere i doveri verso Dio, osservando le sue feste, e compiere i doveri verso il prossimo, guardandosi da ogni ingiustizia. Nient’altro.
Il professore dell’università ebraica di Gerusalemme che partecipò al nostro simposio (February 17-18, 1997), Mosheh Greenberg, molto conosciuto, commentando questo passo di Isaia, ne fece notare la sorprendente apertura. In particolare il fatto che agli stranieri non viene chiesto di aderire al popolo ebraico, come invece si legge ad es. in Ester 9,27, ma basta che essi «hanno aderito al Signore per servirlo e per amare il nome del Signore e per essere suoi servi». Possiamo aggiungere che questa apertura della salvezza ad ogni uomo si riflette anche nella promessa di Dio alla fine dell’oracolo: «Io ancora radunerò i suoi prigionieri, oltre quelli già radunati» (Is 56,8). Forse l’ultima frase andrebbe tradotta meglio: «Ancora radunerò (altri) ad esso [cioè ad Israele] oltre quelli già radunati», il che lascia intendere che oltre a Israele saranno radunati altri che non appartengono al popolo eletto. E questo non può non ricordarci il detto di Gesù in Gv 10,16: «E ho altre pecore che non sono di quest’ovile [cioè di Israele]; anche queste devo condurre; ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge e un solo pastore».
Di fronte all’apertura universale del passo di Isaia notata dal Prof. Greenberg, richiama l’attenzione, per contrasto, l’interpretazione totalmente restrittiva che il passo riceve nella letteratura rabbinica. Nel nostro simposio questo aspetto fu illustrato da un altro Professore dell’università ebraica di Gerusalemme, Avigdor Shinan, il quale mostrò che Is 56,7 viene citato una ventina di volte nel Talmud, sia in quello Babilonese che in quello Palestinese, e nei vari Midrashim (o interpretazioni omiletiche della Scrittura), e in ogni caso l’espressione “Gerusalemme casa di preghiera per tutti i popoli” viene riferita esclusivamente al popolo ebraico. Il Prof. Shinan spiegò questa interpretazione restrittiva nel quadro della polemica tra giudei e cristiani che nei primi secoli della nostra era condizionò le posizioni teologiche dei Rabbini e anche dei Padri della Chiesa. Semplicemente i Rabbini non volevano condividere la santità di Gerusalemme con la nuova religione.
È interessante notare come lungo i secoli la polemica orientò l’interpretazione. Da un contributo del prof. Bruno Chiesa dell’università di Torino, anch’esso pubblicato negli atti del nostro simposio, risulta che, a differenza dei rabbini più antichi, alcuni esegeti giudaici del X sec., sia rabbaniti (ortodossi) che caraiti (una specie di protestanti di area cristiana), propugnarono una lettura assolutamente universalistica di Is 56,7. Ad es. il rabbanita Saadia Gaon, un famoso esegeta, scrive:
«Con le parole La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli Egli intende che essa fu costruita per questo scopo: perché chiunque venga ad essa dal mezzo di tutte le nazioni, Dio ascolti la sua voce, come disse Salomone [e cita parte della bella preghiera di Salomone in occasione dell’inaugurazione del Tempio, 1 Re 8,41-43]: Ugualmente uno straniero, che non è del tuo popolo Israele, qualora venga da un paese lontano per amore del tuo nome… tu ascoltalo dal cielo, dal luogo della tua dimora, e soddisfa tutte le richieste dello straniero, perché tutti i popoli della terra conoscano il tuo nome, ti temano come Israele tuo popolo…».
Il Prof. Chiesa spiegò questo cambiamento con la polemica religiosa con l’islam. In campo ebraico si avvertì il bisogno di sviluppare un’apologetica del giudaismo che fosse capace di contrastare l’islam che si presentava come una rivelazione universale, mentre il giudaismo, religione di minoranza, rischiava di apparire come rivelazione parziale.
Accenno soltanto che i sec. X-XIII furono un’epoca d’oro del dialogo interreligioso tra musulmani, giudei e cristiani. Soprattutto a Bagdad e Damasco, i califfi promossero dialoghi tra rappresentanti delle fedi monoteistiche. Ne è derivata una straordinaria letteratura in lingua araba a cui contribuirono giudei, cristiani e musulmani, una letteratura che potrebbe costituire un modello e una fonte di ispirazione importante per la difficile situazione attuale. Non possiamo dimenticare inoltre che gli studiosi arabi costituirono un ponte tra la cultura classica e l’occidente. Gli esperti dicono che anche la disputa scolastica fu modellata su quella dei filosofi arabi. Al nostro simposio una conferenza del Prof. Wadi Abullif del Centro Francescano di Studi Orientali Cristiani del Muski (Cairo) e poi una comunicazione orale del Vescovo di Nazaret, Mons. Giacinto Bulos Marcuzzo, presente al simposio, richiamarono l’attenzione in particolare sulla letteratura arabo-cristiana, originata a Gerusalemme e nei monasteri dei dintorni, letteratura che costituisce un patrimonio ricchissimo, tuttora in corso di studio, importante per la coscienza e per l’identità dei cristiani attuali del Medio Oriente.
2. Lo spazio sacro a Gerusalemme: la Montagna e il Golgota
In un testo musulmano dell’VIII sec. leggiamo:
«Il posto più santo (al-quds) sulla terra è la Siria; il posto più santo nella Siria è la Palestina; il posto più santo nella Palestina è Gerusalemme (Bayt al-maqdis); il posto più santo in Gerusalemme è la Montagna; il posto più santo in Gerusalemme è il luogo di culto (al-masjid), e il luogo più santo nel luogo di culto è la Cupola».
È curioso notare che questa filastrocca, chiamiamola così, riproduce, adattandolo all’islam, un modello giudaico che si legge nel Midrash Tanhuma (Qedoshim, c. 10):
«La terra di Israele è situata nel centro del mondo, Gerusalemme nel centro della terra di Israele, il Santuario (bet ha-miqdash) nel centro di Gerusalemme, il Santo dei Santi (ha-hekal) nel centro del Santuario, e la pietra di fondazione su cui il mondo fu fondato è situato di fronte al Santo dei Santi».
Analogamente per i cristiani il Golgota è il centro della terra perché, secondo il Sal 73/74,12, “Dio… ha operato la salvezza nel centro della terra”. E una tradizione riportata da Pietro Diacono nel Liber de locis sanctis presenta una filastrocca analoga a quella giudaica e islamica adattandola alla Basilica del S. Sepolcro:
«Il Sepolcro del Signore… è fabbricato nel centro del Tempio; il Tempio poi nel centro della Città verso settentrione, non lontano dalla Porta di David. Dietro la Risurrezione (= la rotonda dell’Anastasi) c’è l’orto in cui Santa Maria parlò con il Signore. Fuori della Chiesa, nella parte posteriore, è segnato il centro del mondo, del quale David dice: “Hai operato la salvezza nel centro della terra”. Un altro profeta dice: “Questa è Gerusalemme, l’ho posta nel centro delle genti”.
Queste espressioni evidenziano una tendenza delle tre religioni monoteistiche a adottare l’una dall’altra concezioni simili riguardo ai propri luoghi santi: il Monte del Tempio per i giudei, la Cupola della Roccia, o Moschea di Omar, per i musulmani, e il Monte Calvario e il S. Sepolcro per i cristiani. Tutti questi luoghi santi sono situati in Gerusalemme, la Città dell’unico Dio, creatore e sovrano della terra, la Città Santa delle tre religioni.
Sappiamo dagli Atti degli Apostoli che la primitiva comunità giudeo-cristiana pregò nel tempio insieme agli altri giudei (At 2,46). Anche dopo la distruzione del Tempio e della parte della Città dentro le mura, questa comunità continuò a vivere intorno al luogo dell’Ultima Cena e della discesa dello Spirito Santo. Il Cenacolo diventò la sede della Chiesa Madre sotto la guida di vescovi di origine giudaica fino al regno di Costantino. Un altro luogo di preghiera dei giudeo-cristiani dopo la distruzione del Tempio fu il Getsemani, che fu considerato anch’esso nuova «Casa di preghiera per tutti i popoli». Venne poi l’imperatore Adriano che nel 117 distrusse ciò che rimaneva della città e la ricostruì in stile ellenistico (col nome di Aelia Capitolina), cacciò i giudei e dissacrò i luoghi santi cristiani (pose il culto di Venere sul Calvario e una statua di Giove sul S. Sepolcro). Fallito un tentativo di ricostruire il Tempio giudaico al tempo di Giuliano l’Apostata (ca. 363), il Monte del Tempio restò una discarica fino all’avvento dei musulmani. Costantino stabilì un cristianesimo di tipo gentile, cioè non giudaico, si impossessò dei luoghi santi e nel 335 costruì il magnifico complesso del Sepolcro di Gesù con la rotonda dell’Anastasi, un cortile ad aria aperta che terminava con la Basilica del Martyrion che dava sul cardo, la strada principale della Città, mentre il Calvario fu lasciato all’aria aperta.
Come scrive Eusebio nella Vita di Costantino (III, 33), il magnifico complesso costantiniano intendeva ricostruire «la nuova Gerusalemme in antagonismo all’antica e famosa Città che, dopo la sanguinosa uccisione del nostro Signore, fu spazzata via fino al punto di distruzione totale… la nuova Gerusalemme preannunciata dai profeti». In altre parole la Basilica doveva rimpiazzare il Tempio giudaico, ne ereditò le prerogative e fu considerata perciò il centro del mondo. Gerusalemme così continuò ad essere la Città Santa, meta di pellegrinaggi.
D’altra parte l’area dell’antico Tempio, salvo forse un tentativo dell’imperatore Eraclio intorno al 628/630, fu lasciata in stato di abbandono in ricordo delle parole di condanna del Signore, fino a quando, nel 638, il Patriarca Sofronio la indicò a Omar Ibn al-Khattab come luogo adatto per il culto e vi fu costruita la famosa Moschea della Roccia. Nel periodo omayyade (661-750, califfi residenti in Siria, Damasco) Gerusalemme diventò Città Santa dell’islam per vari motivi, sia politici che religiosi, in particolare per la tradizione del viaggio notturno del Profeta (isra‘) e della sua Ascensione al cielo (mi‘raj) da quel luogo. Si stabilì la credenza che sulla Roccia Sacra (sakhra) avvenne la creazione dell’umanità, là fu costruito il Tempio di Salomone e quello sarà il luogo del giudizio finale.
Alcuni studiosi hanno ipotizzato una somiglianza strutturale tra il complesso delle Moschee e quello costantiniano del S. Sepolcro, in particolare l’allineamento assiale della Moschea della Roccia con quella di al-Aqsa, che riproduce l’allineamento dell’Anastasi con la basilica del Martyrion (parliamo del complesso costantiniano, prima della ristrutturazione dei Crociati). È significativo il fatto che le iscrizioni della Moschea della Roccia, o di Omar, parlino di Gesù mentre non nominano l’Ascensione di Maometto (il che dovrebbe significare che il legame con Maometto fu introdotto posteriormente). L’iscrizione su Gesù, parafrasando una Sura del Corano (19,33), dice: «O Dio! Benedetto il tuo messaggero e tuo servo Gesù, figlio di Maria! Benedetto sia nel giorno della sua nascita, nel giorno della sua morte e nel giorno in cui sarà risuscitato dai morti!». L’iscrizione riflette la credenza musulmana che Gesù non morì sulla croce e perciò non risuscitò dai morti; questo avverrà alla fine dei tempi. È probabile comunque che la Cupola della Roccia si opponga intenzionalmente alla Cupola della Anastasi, al punto che ne riproduce la struttura rotonda. Per alcuni studiosi la Cupola della Roccia doveva anche prendere il posto dell’antico Tempio giudaico. Ancora una volta si nota la tendenza di contrapposizione e di sostituzione degli edifici sacri delle tre religioni, sempre nello stesso luogo della Città Santa.
Infine i Crociati, dopo un violento periodo di conquista, cristianizzarono completamente la spianata del Tempio e delle Moschee: trasformarono la Moschea di Omar nel Templum Domini, il vero tempio del Signore accanto al S. Sepolcro, e la Moschea al-Aqsa nel Templum Salomonis, sede del Re latino e più tardi dei Templari. Si creò anche una ideologia teologico-politica che collegava i Crociati nientemeno che ai Maccabei e agli eroi dell’antico Israele.
3. Linee di dialogo interreligioso
Premesse incoraggianti da cui potrebbe svilupparsi il dialogo interreligioso esistono nella tradizione delle tre religioni. Ad es. una voce autorevole del giudaismo come Maimonide (1135-1204) in un passo della sua opera Mishneh Torah riconosce una funzione positiva sia al cristianesimo che all’islam:
«Oltrepassa la mente umana il poter indagare i disegni del Creatore, poiché le nostre vie non sono le sue vie, né i suoi pensieri i nostri pensieri. Tutte queste cose riguardanti Gesù di Nazaret e l’Ismaelita (= Maometto) che venne dopo di lui servirono solo ad aprire la strada al Re Messia, a preparare tutto il mondo al culto di Dio all’unisono, come sta scritto: “Poiché allora io darò ai popoli una lingua pura, perché essi possano invocare il Nome del Signore per servirlo di comune accordo” (Sof 3,9). Così la speranza messianica, la Torah e i comandamenti sono diventati argomenti noti, argomenti di conversazione (tra gli abitanti) delle isole lontane e di molti popoli incirconcisi di cuore e di carne».
D’altra parte si legge nel Corano che le Scritture sia degli ebrei che dei cristiani sono forme differenti dello stesso Libro Celeste, chiamato “la Madre del Libro”. Ad es. nella Sura 5 Dio dice a Maometto:
«In verità Noi abbiamo rivelato la Torah, che contiene retta guida e luce, con la quale giudicavano i Profeti, tutti sottomessi a Dio, fra i giudei… E facemmo venire dopo di loro Gesù, figlio di Maria, a conferma della Torah rivelata prima di lui, e gli demmo il Vangelo pieno di retta guida e di luce, che conferma la Torah rivelata prima di esso, retta guida e ammonimento ai timorati di Dio… E a te abbiamo rivelato il Libro secondo Verità, a conferma delle Scritture rivelate prima, e a loro protezione. — A ognuno di voi abbiamo assegnato una regola e una via, mentre, se Iddio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una Comunità Unica, ma ciò non ha fatto per provarvi in quello che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, poiché a Dio tutti tornerete, e allora Egli vi informerà di quelle cose per le quali ora siete in discordia» (5,44.46.48).
Queste sono parole di grande saggezza e apertura, anche se il seguito della Sura 5 è molto dura verso giudei e cristiani che si oppongono ai musulmani; in verità, più verso i giudei che verso i cristiani, perché – dice Dio – «fra di loro (= i cristiani) vi sono preti e monaci ed essi non sono superbi, ma anzi, quando ascoltano quello che è stato rivelato al Messaggero di Dio (= Maometto), li vedi versare lacrime copiose dagli occhi…» (5,82-83).
Nel qualificare la successione delle rivelazioni – la Torah, cioè l’AT, il Vangelo e il Corano – troviamo un linguaggio di compimento che non è lontano da quello che Gesù stesso usò, ad es., in Mt 5,17: «Non sono venuto per abolire la Legge e i Profeti; non sono venuto per abolire ma per portare a compimento». Già nell’AT si leggono dei termini che indicano questo rapporto ‘realtà antica – realtà nuova’, con l’idea che la seconda non annulla né sostituisce la prima, poiché entrambe sono opera di Dio, ma la porta a compimento. Compimento nel senso che la ‘realtà nuova’ realizza pienamente il disegno di Dio, un disegno che si manifesta e anche si attua a tappe fino, appunto, al compimento.
Gli aggettivi che troviamo nell’AT per qualificare le opere di Dio nella storia sacra sono “primo – nuovo” («nuove cose / nuovo cielo e terra / nuova alleanza / nuovo spirito e cuore») o anche “antico – nuovo”. Notiamo che “antico”, come “primo”, non è un termine dispregiativo; per cui non sarei disposto ad adottare la terminologia che talvolta si legge o si sente “Primo Testamento” invece di “Antico Testamento”, come se quest’ultima designazione fosse denigratoria! Inoltre, per evitare controversie spiacevoli e per non farsi condizionare in un senso o nell’altro, dovremmo sempre tener presente che stiamo parlando delle opere di Dio, che Dio stesso attraverso gli scrittori sacri ha designato in quel modo; non parliamo di opere di uomini, e perciò la cosa non dovrebbe originare alcuna rivalità tra le comunità di fede in quanto tali, ebrei o cristiani.
Dobbiamo fare lo sforzo di comprendere il piano di Dio nella nostra storia in base ai segni che egli ci manda. Ci rendiamo conto, ad esempio, che il piano di Dio si realizza per gradi, dato che le realtà “prime” sopravvivono accanto alle realtà “nuove”. Concretamente, Israele sussiste accanto alla Chiesa; ha la sua rivelazione, i suoi ordinamenti religiosi, le sue guide, i suoi fedeli, a cui promette la salvezza. Ora le promesse di Dio sono irrevocabili, e il fatto che esse siano giunte allo stadio finale non comporta che lo stadio precedente sia annullato; anzi, lo stadio finale non si capirebbe senza quello precedente. In questa visione del piano di Dio nella storia e del suo sviluppo secondo il volere dello stesso Dio, trova posto il giudaismo con i suoi valori e il suo sistema religioso. Fatte le debite proporzioni, qualcosa di analogo possiamo dire dell’islam, dei suoi valori e del suo sistema religioso.
Ciò non significa però che il sistema religioso giudaico possa essere considerato una via parallela alla salvezza: salvezza attraverso Mosè per i giudei, attraverso Gesù per i cristiani. No. Analogamente per il sistema religioso islamico. Mi sembra preferibile una via media. Certo a nessuna religione si può chiedere di rinunciare alle proprie convinzioni, ma ogni religione dovrebbe tener conto delle convinzioni delle altre. E soprattutto, le tre religioni monoteistiche dovrebbero tener conto del piano di Dio, un piano che sorpassa la comprensione di tutti noi e si sviluppa a suo modo, in diverse tappe e in modi diversi. Alla fine, le tre religioni dovrebbero rimanere aperte alle vie del Signore e al suo volere sovrano. È assolutamente necessario evitare di fare del confronto delle religioni un confronto di popoli, gruppi, culture, meno ancora di sistemi politici. I tempi che stiamo vivendo pongono questa necessità in modo drammatico.
4. Qualche idea conclusiva
La presenza di fedeli musulmani ed ebrei intorno alla stessa area sacra della Montagna e di fedeli cristiani nella vicina area sacra del Golgota, come pure l’afflusso dei pellegrini delle tre religioni a Gerusalemme possono già apparire agli occhi della fede come una realizzazione, sia pure parziale, della profezia del raduno di molti popoli sul Monte Sion per apprendere le vie del Signore e camminare sui suoi sentieri proclamata dal profeta Isaia e dal profeta Michea (Is 2,2-4; Mic 4,2-4). Questo movimento di popoli si constata fisicamente, ad es., il venerdì, quando i francescani guidano i fedeli locali e i pellegrini lungo la Via Dolorosa per la preghiera della Via Crucis. Lungo la strada pianeggiante che dalla Porta di Damasco va verso l’ingresso alle Moschee e giunge al Muro del Pianto, si incrociano gruppi di ebrei che vanno verso il Muro del Pianto e musulmani che escono dalla preghiera nelle Moschee.
Il problema è come intendere il rapporto tra unità e diversità, tra fede nell’unico Dio e le tre religioni. Il Corano delinea questo problema più di una volta collocandolo nel quadro del piano di Dio, dato che è Dio stesso che ne parla a Maometto (cf. ad es. Sura 2,213; 3,19-20; 5,48; 98,5). Dio afferma che all’inizio l’umanità era una e una la religione; le differenze sono venute per volontà di Dio stesso che ha variato le sue prescrizioni in modo da adattarsi alle diverse nazioni e alle diverse epoche. Dio ha voluto le differenze per mettere i popoli alla prova, per saggiare la loro capacità di accettare il suo volere ogni volta che si rivelava a loro.
Un punto importante di convergenza delle tre religioni è la figura di Abramo: per il giudaismo, naturalmente, Abramo è il padre del popolo e della fede; il Corano invita i credenti a seguire la “religione di Abramo” (Sura 2,130.135; 3,95; 16,123); ad Abramo, padre di tutte le genti nella fede, si rifà anche il cristianesimo come alla figura che apre ai non ebrei la possibilità di diventare parte del popolo di Dio e eredi delle promesse (cf. specialmente Rom 4 e Gal 3).
Nel concludere il nostro simposio a Gerusalemme sottolineai l’importanza di tre parole nel dialogo delle tre religioni: fedeltà, dialogo, condivisione, tre parole che credo sono importanti a Gerusalemme oggi in modo speciale. Fedeltà verso Dio e la sua guida nella storia. Dialogo intorno alle Scritture e alle rispettive tradizioni sacre con mente aperta e senza diffidenze. Come abbiamo ricordato, i secoli passati ci hanno trasmesso notevoli esempi di discussione pacifica tra ebrei, cristiani e musulmani su aspetti della rivelazione comune e su temi teologici della tradizione. Questi esempi possono essere una fonte di ispirazione anche oggi. Dobbiamo imparare di più l’uno dall’altro e soprattutto dobbiamo imparare da Dio lasciando che la Scrittura sia nostro giudice. In questo contesto la condivisione è l’unica soluzione. Se le tre religioni hanno tanto in comune e hanno un posto e una funzione nel piano di Dio per l’umanità, allora la condivisione è obbligatoria. Di nuovo, guardando ai secoli passati troviamo esempi di condivisione dei luoghi di culto, come nella Basilica della Natività a Betlemme nei sec. X-XIV e in altri santuari cristiani. Con l’aiuto di Dio, questo atteggiamento può avvicinare le tre religioni a mutua comprensione che sola può rendere possibile una soluzione.
Questa proposta può apparire irenica e semplicistica. Ma è molto esigente. Richiede ai credenti di andare oltre la propria visione della realtà, verso il Regno di Dio che in fondo non è legato a nessuna religione. Richiede di guardare alla conclusione della storia umana e di valutare le divergenze presenti in quella luce.
Condivisione e comunicazione aperta potrebbe realizzare un Medio Oriente ideale e prospero secondo il sogno di Isaia 19:
“[23] In quel giorno ci sarà una strada dall’Egitto verso l’Assiria; l’Assiro andrà in Egitto e l’Egiziano in Assiria; gli Egiziani serviranno il Signore insieme con gli Assiri. [24] In quel giorno Israele sarà il terzo con l’Egitto e l’Assiria, una benedizione in mezzo alla terra. [25] Li benedirà il Signore degli eserciti: “Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità”.