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ETERNITÀ NELLA STORIA. EBRAISMO E CRISTIANESIMO NELLA STELLA DELLA REDENZIONE DI FRANZ ROSENZWEIG

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ETERNITÀ NELLA STORIA. EBRAISMO E CRISTIANESIMO NELLA STELLA DELLA REDENZIONE DI FRANZ ROSENZWEIG

1. Introduzione
2. La permanenza ebraica
3. L’erranza cristiana
4. La verità messianica
1. Introduzione

«Nella ripetizione quotidiana, settimanale e annuale dei cicli di preghiera cultuale, la fede rende « ora » l’istante, rende il tempo pronto ad accogliere l’eternità; e, quest’ultima, da che trova accoglienza nel tempo, diviene a sua volta come il tempo».1
In questo breve passaggio dell’introduzione alla terza parte della Stella della redenzione (La figura o l’eterno sovra-mondo), la parte in cui esplicitamente sono trattati ebraismo e cristianesimo in una prospettiva assolutamente originale, sono detti insieme l’orizzonte da cui bisogna partire per una comprensione adeguata del problema e la giustificazione del titolo che ho voluto dare a queste riflessioni sul rapporto tra ebraismo e cristianesimo, dove più evidente si fa l’aspetto autobiografico dell’intera opera.2 Tuttavia proprio il carattere «autobiografico» che riveste l’opera ci costringe a rivolgerci agli eventi che hanno segnato la maturazione esistenziale e filosofica dell’autore. D’altronde lo stesso Rosenzweig in una lettera del 19 aprile 1927 al cugino Hans Ehrenberg indica due date, il 1913 e il 1919, che possono essere considerate secondo la sua stessa espressione, l’una la «linea della vita» e l’altra la «linea della teoria» che della prima è, in qualche modo la sedimentazione sistematica.3
Nel saggio del 1925 sul Nuovo pensiero, introduzione a post a La Stella, Rosenzweig aveva già detto esplicitamente: «La presentazione di ebraismo e cristianesimo che esso (il terzo volume) offre non deve la sua origine a un interesse di scienza delle religioni, bensì… è determinata da un interesse sistematico generale e, particolarmente, dal problema di un’eternità esistente, e quindi dal compito di scongiurare il pericolo che il nuovo pensiero venga compreso nel senso, o meglio nel non senso, delle « filosofie vitalistiche » o altrimenti « irrazionalistiche »».4 L’interesse sistematico impedirà a Rosenzweig anche l’assunzione di una prospettiva di «pensiero apologetico» che alla fine del secolo XIX e agli inizi del XX era stata assunta sia dall’ebraismo che dal cristianesimo, ma su ciò si tornerà.
Per cogliere il nesso tra eternità e storia, che teoreticamente rappresenta una delle più suggestive provocazioni del filosofo ebreo-tedesco, bisogna ricordare il contesto filosofico a partire da cui esso viene pensato. Certamente non è una connessione teoricamente neutra. Infatti, eternità e storia, sono in qualche modo due realtà temporalmente e ontologicamente contrapposte e, qualora si incontrino, in questo evento, si determina l’annullamento di una a favore dell’altra. O si eternizza la storia che, in tal modo, non è più storia o si storicizza l’eternità che quindi perde il suo carattere di eternità, ma anche, allora, il carattere di mistero e di miracolo, dispiegandosi tutta nella manifestazione del divenire storico. Tempo ed eterno restano poli di una tensione irriducibilmente dialettica. L’evento dell’ingresso dell’eterno nel tempo trasforma radicalmente, ontologicamente, il tempo assegnandogli una destinazione teologica di tempo compiuto, o anche di fine del tempo. Se, al contrario, l’eterno si fa storia il suo dispiegamento si traduce in una fenomenologia dell’assoluto, che assegna alla storia il carattere della necessità, non c’è più alcuna differenza tra la storia e la teodicea, poiché le due si identificano confondendosi l’una nell’altra.5 Il pensiero moderno ha conosciuto questa dialettica e il pensiero teologico della fine del secolo XIX ne è stato profondamente impregnato. La storia è divenuta lo strumento particolare, ma non più soltanto strumento, di una metodologia che ha preteso di ricavare da essa l’assolutezza dell’essenza.
L’ottica fondamentale è notoriamente quella hegeliana presentata sia nelle sue Lezioni sulla filosofia della religione che nelle Lezioni sulla filosofia della storia. A partire da Hegel, la storia, nel suo divenire, acquista infatti, il significato di criterio di verità. L’assunzione teologica di questo criterio informerà direttamente autori come E. Troeltsch (L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni) e la Religionsgeschichtliche Schule e, successivamente, A. von Harnack (L’essenza del cristianesimo), ma, sebbene in modo diverso, anche l’opera del grande rabbino liberale di Berlino, Leo Baeck (L’essenza del giudaismo). Questi autori, ma anche il clima più generale a cui essi si ispiravano erano ben noti a Rosenzweig che accomunava la loro opera, in una spietata espressione ossimorica, Atheistische Theologie, come suona il titolo di un suo saggio del 1914, ma che in ultima istanza è una forma di apologetisches Denken,6 sia dal versante cristiano che da quello ebraico. Infatti se si guarda anche superficialmente alle tre opere citate ci si rende facilmente conto che l’ottica che le sottende è appunto questa. L’approccio al cristianesimo come all’ebraismo è nell’ottica di «fenomeni storici» che quindi dalla e nella storia ricevono il loro inveramento. In un passo significativo e illuminante Troeltsch scrive:
Il cristianesimo come fenomeno storico individuato deve essere considerato esclusivamente alla luce della sua pretesa alla verità assoluta e unica nella sua eccezionale natura: col che si dà senz’altro per pacifico l’identità dell’idea dogmatico-apologetica del cristianesimo con la oggettiva realtà del cristianesimo stesso. Tutto quello che la critica storica non può contestare in modo diretto e assoluto — … — deve essere considerato dalla teologia come possibile: il che è palesemente un principio specificamente teologico. I fatti soprannaturali di cui si parla nel racconto biblico, che restano in tal modo come possibili o per lo meno tali che non se ne può provare la non verità, devono essere riconosciuti come verità positive, se si tiene nel conto in cui deve essere tenuto il postulato implicito nell’essenza o concetto di religione, il postulato per cui la religione deve trovare una realizzazione soprannaturale assoluta.7
Troeltsch in più passaggi della sua opera riconosce il merito della nuova ottica storica a Schleiermacher, ma soprattutto a Hegel. Con questi si esce dalla visione «apologetica ortodosso-soprannaturalistica» per trovare invece un »apologetica evoluzionista’ secondo cui «la religione deve manifestare il suo contenuto e la sua essenza attraverso l’intero contesto teleologico della storia, in un processo graduale: tale progressiva manifestazione o realizzazione coincide col processo attraverso cui l’umanità viene discoprendo a se stessa le profondità della sua coscienza».8 L’assolutezza in tal modo non è altro che, hegelianamente, ciò che ingloba tutti i gradi precedenti dello sviluppo e quindi verità assoluta.
Anche il grande teologo liberale A. von Harnack si pone in linea con la nuova esigenza storica nelle sue fortunatissime lezioni sull’Essenza del cristianesimo tenute all’Università di Berlino nel semestre invernale 1899-1900 e pubblicate nello stesso anno. «Che cos’è il cristianesimo? Vogliamo tentare di rispondere a questa domanda soltanto in senso storico, cioè con i mezzi della scienza storica e con l’esperienza di vita che ci viene dalla storia».9 Venticinque anni dopo, nella prefazione al 70º migliaio, ribadiva ancora: «Determinare l’essenza del cristianesimo è compito storico, perché questa religione contiene un annuncio che si è compiuto nella storia».10 Forse già da queste poche battute si può cogliere il senso delle espressioni dure che userà Rosenstock nel suo scambio epistolare con l’amico ebreo quando definirà i due teologi «archimandriti della naturalità».11
Rosenzweig, almeno a quanto si può desumere dai suoi scritti, è perfettamente al corrente del dibattito tutto interno alla teologia cristiana e che egli però coglie in sintonia con quanto sta accadendo anche all’interno dell’ebraismo liberale dell’epoca che in questo contesto è impregnato dello spirito della Wissenschaft des Judentums. Una dura recensione critica all’opera di von Harnack venne infatti dal grande rabbino Leo Baeck che, tuttavia, sullo stesso terreno propone come risposta la sua opera L’essenza del giudaismo.12 Le lezioni di von Harnack in più punti esprimevano infatti, elementi polemici e antigiudaici, ben comprensibili peraltro nell’ottica storica inaugurata da Hegel che, com’è noto collocava l’ebraismo a un livello evolutivo inferiore rispetto alla religione assoluta rappresentata dal cristianesimo. Baeck ripropone la valenza etica universale dell’ebraismo, la sua dimensione profetica proseguita dai farisei e dai rabbini. In un passaggio significativo della sua recensione critica dell’opera di von Harnack, Baeck scriveva:
Il tempo era compiuto e il tempo compiuto richiedeva la personalità inviata da Dio. Per il paganesimo era venuto il giorno in cui poteva cominciare ad assumere in sé l’insegnamento di Israele e Dio ha fatto sorgere a questo scopo i suoi inviati. Per il fondatore del cristianesimo, il giudaismo perciò prova solo amore e reverenza. Si favoleggia spesso dell’odio del giudaismo verso il cristianesimo: odio che non è mai esistito. Una madre non odia il figlio, ma il figlio spesso ha dimenticato e rinnegato la madre… Il teologo ebreo ritiene sia opera buona, nobile quella del cristiano che scrive un’apologia, un’esaltazione della sua religione. Se solleva una protesta è solo per il fatto che l’apologia si spaccia per storia e crede di poter utilizzare come arma l’ingiustizia storiografica.13
Non possiamo fermarci troppo, in uno studio dedicato a Rosenzweig, sul contesto storico-teologico, anche se potrebbe essere interessante ricostruirlo in maniera dettagliata. D’altra parte è lo stesso Rosenzweig che discute con i suoi interlocutori, cugini o amici divenuti cristiani, di queste temetiche, come mostra l’epistolario. Nella Stella tutti questi problemi troveranno una sedimentazione sistematica assolutamente originale che poteva essere data soltanto da una persona che avesse vissute in sé entrambe le tensioni teologiche. Proviamo a questo punto una lettura trasversale dei problemi attraverso gli scritti di Rosenzweig. Dobbiamo però ancora in via preliminare notare che l’orizzonte sistematico in cui le due fedi vengono presentate è quello dell’eterno oltre mondo, dove cessa il dominio del tempo e ci si colloca nello spazio dell’erbeten, dell’impetrare. La preghiera insistente per la venuta del regno, quale spazio dell’anticipazione dell’eternità costituisce l’orizzonte di significazione dell’ebraismo e del cristianesimo. Ma ciò diventerà chiaro da ciò che seguirà.

2. La permanenza ebraica
Bleiben, permanere, come stehen, stare, sono verbi che caratterizzano intimamente la dimensione esistenziale ebraica, ma non soltanto nel senso privatistico del termine, bensì, oserei dire, nel senso ontologico e teologico. È quanto possiamo ricavare dalla famosa lettera al cugino Rudolf Ehrenberg con cui ha una particolare affinità, che ci riporta a quel 1913, che Rosenzweig coglie come data di grande valenza esistenziale per lui, e quindi dallo scambio epistolare «di guerra» del 1916, con Eugen Rosenstock che pur ricollegandosi al leipziger Nachtgespräch, del 7 luglio 1913, tuttavia trapasserà approfondito e rigorizzato nella Stella.
È fin troppo nota l’espressione che Rosenzweig rivolge al cugino-amico, quasi come conclusione di una lunga e sofferta lotta interiore: «Ich bleibe also Jude». Il Nostro fa seguire una dettagliata analisi che per il nostro tema è particolarmente preziosa, poiché verrà ripresa nel carteggio di guerra e quindi nella Stella troverà la sua più compiuta sistemazione filosofico-sociologico-teologica. L’espressione impiegata è la seguente: «… Il mio nuovo punto di vista, diversamente da quello vecchio, esige un riconoscimento — teoretico — anche dai cristiani» (mein neuer Standpunkt, anders als mein alter, die — theoretische — Anerkennung auch von dem Christen verlangt).14 La terza parte della Stella è l’elaborazione teorica finalizzata a questo riconoscimento, dove il senso della permanenza ebraica assume tutto il suo valore. A tale scopo viene fatto ricorso in maniera esegeticamente innovativa a dei passi del Nuovo Testamento e una lettura inusuale viene anche fatta dell’iconografia della Sinagoga e della Chiesa. Vale la pena soffermarsi brevemente su alcuni di questi passaggi, specie della seconda parte che porta la data 1º novembre, della lettera a Ehrenberg (vera e propria Urzelle della terza parte della Stella) in connessione con la discussione che ne verrà fatta successivamente con Rosenstock. Scrive Rosenzweig:
Il cristianesimo riconosce il Dio dell’ebraismo, ma non come Dio, lo riconosce soltanto come «il Padre di Gesù Cristo». Esso riferisce se stesso al «Signore», ma lo fa perché sa che solo lui è la via al Padre. Egli rimane come Signore presso la sua Chiesa tutti i giorni fino alla fine del mondo. Allora però egli cessa di essere Signore e sarà anch’egli sottomesso al Padre e questi sarà — allora — tutto in tutto (1 Cor 15, 28). Ciò che il Cristo e la sua Chiesa significano nel mondo è cosa su cui siamo d’accordo: nessuno viene al Padre se non attraverso di Lui (Gv 14, 6). Nessuno viene al Padre — è però diverso se uno non ha più alcun bisogno di venire al Padre, perché è già presso di Lui. E questo è il caso del popolo d’Israele (non del singolo ebreo). Il popolo d’Israele, eletto da suo Padre, guarda fisso oltre il mondo e la storia, a quell’ultimo remotissimo punto quando suo Padre, questo stesso, sarà — «tutto in tutto» — l’Uno e l’Unico. In quel punto, dove Cristo cessa di essere il Signore, Israele cessa di essere l’eletto; in quel giorno Dio perde il nome con cui soltanto Israele lo invoca; allora Dio non è più «il suo» Dio. Fino a quel giorno però è vita di Israele l’anticipare nella professione di fede e nell’azione quel giorno eterno, lo stare come un annuncio vivente di quel giorno, un popolo di sacerdoti, con la Torah, a santificare mediante la propria santità il nome di Dio.15
In questo passo sono già riconoscibili gli elementi «teologici» fondamentali su cui si fonderà la visione «ontologica» che caratterizzerà la Stella. Per avere la prospettiva completa, bisogna soltanto richiamare ancora due passi neotestamentari, Rm 11 e 1Cor 1, 23 che Rosenzweig utilizza nel suo dialogo epistolare, ma che sono anche decisivi per una nuova prospettiva circa la legittimità della permanenza ebraica. Il passo della lettera ai Romani è quello che giustifica teologicamente la permanenza ebraica come radice che porta i rami del cristianesimo, mentre nel passo della lettera ai Corinzi si fa riferimento alla stoltezza e allo scandalo che produce il messaggio evangelico. L’ebraismo è la garanzia della permanenza dello scandalo fino alla fine dei tempi. I due passi letti in connessione con gli altri sono agli occhi di Rosenzweig la giustificazione teologica di una realtà storica che, tuttavia, trascende la storia e si colloca già alla fine, oltre la storia e già nell’eternità, nell’eschaton.
Anche la Sinagoga, che l’iconografia medievale cristiana raffigura come una giovane con gli occhi bendati e portatrice di una verga infranta, segno di sconfitta, accanto a un’altra giovane con sguardo vincente e portatrice di uno scettro di dominio (la Chiesa), assume nell’ermeneutica rosenzweighiana una nuova interpretazione. Essa «deve rinunciare per parte sua a ogni lavoro nel mondo e deve utilizzare ogni sua forza per mantenersi in vita e tenersi pura dalla vita. Così essa lascia il lavoro nel mondo alla Chiesa, riconoscendo in essa la salvezza per tutti i pagani in ogni tempo».16 La benda sugli occhi della Sinagoga non è dunque una maledizione, o una condanna, bensì la condizione del raccoglimento, la garanzia e la condizione di possibilità di mantenersi oltre il mondo e oltre il tempo della storia. Lo sguardo della Sinagoga deve in tal modo essere rivolto esclusivamente all’interno a quella vita imperitura che proprio, secondo Rosenzweig, la Chiesa rischia di dimenticare nel suo percorso storico tra i pagani.
Una singolare pregnanza di significato ricevono in questo contesto le lettere tra Rosenzweig e Rosenstock del 26 e 30 ottobre e del 7 novembre del 1916, in particolare il riferimento alla cosiddetta «ostinazione» ebraica (il theologoumenon cristiano) e alla considerazione del cristianesimo «come battistrada dell’ebraismo» (il theologoumenon ebraico).17 Nella discussione epistolare tra i due amici un elemento rivelativo anche dell’esperienza personale di Rosenzweig è il riferimento all’impossibilità che si arrivi al cristianesimo dall’ebraismo, mentre è possibile per il paganesimo. Egli stesso, allorché stava per maturare la sua conversione al cristianesimo, volle farlo non als Heide, bensì als Jude, come egli stesso scriveva nella lettera citata a R. Ehrenberg. Questo aspetto fu colto con lucidità, come vedremo, da Schelling nella sua Filosofia della rivelazione. La questione acquista un rilievo peculiare se si tiene presente che l’ebraicità è sempre espressione di appartenenza al popolo eletto. E proprio il popolo è il soggetto privilegiato di riferimento nella Stella, è il popolo che esprime il suo essere presso il Padre ed è la vita religiosa e l’anticipazione che se ne fa nel vivere etico, che rappresentano la vita eterna.
Proprio sul popolo si concentra l’attenzione di Rosenzweig nella Stella. Il popolo ebraico è il popolo eterno, è il suo destino, popolo unico, è la sua essenza, popolo santo, nel ciclo del suo calendario liturgico, «nel quale soltanto ci è permesso di evocare l’eternità dentro al tempo» (S, p. 364, 350). L’anno liturgico ebraico acquista agli occhi di Rosenzweig un significato unico che giustifica la coscienza di essere già presso il Padre e lo consegna a una vita eterna che è già in un certo senso alla fine del tempo e dei tempi. Scrive infatti Rosenzweig:
Era il ciclo di un popolo. In esso un popolo era giunto alla meta e sapeva di esservi giunto. Per sé aveva superato la contraddizione tra creazione e rivelazione. Vive nella propria redenzione. Ha anticipato per sé l’eternità. Nell’andamento circolare del suo anno la forza che muove è il futuro, il movimento circolare non si genera, per così dire, per spinta, ma per trazione; il presente trascorre non perché il passato lo spinge avanti, ma perché il futuro lo trae a sé. Nella redenzione sfociano in qualche modo anche le feste della creazione e della rivelazione… Per lui, la sua temporalità, il fatto che gli anni si ripetano, vale solo come un attendere, tutt’al più come un peregrinare, ma mai come una crescita. Crescita significherebbe che per lui nel tempo il compimento rimarrebbe ancora da raggiungere e sarebbe quindi una negazione della sua eternità (S, pp. 354-365, 350-351).18
Si comprende da queste citazioni perché ho utilizzato precedentemente l’espressione di visione «ontologica» che si fonda su quella teologica. Il popolo ebraico sta, permane, il suo divenire è soltanto la sua ri-generazione, la sua ottica guarda dal futuro all’indietro e, tuttavia, non bisogna dimenticare che nell’orizzonte dell’impetrazione del regno, è in attesa della Voll-endung, per la quale può soltanto pregare che venga presto. Questa Voll-endung è in sé duplice, evento di salvezza e compimento della ritrovata unità del popolo eletto. Unità di Dio e unità del popolo.

3. L’erranza cristiana
A differenza dell’ebraismo, il cristianesimo si caratterizzerà invece, agli occhi di Rosenzweig, per la sua storicità e aggiungerei, mondanità missionaria. Il suo essere è nel suo ad-venire. La contrapposizione tra ebraismo e cristianesimo è tra bleiben e geschehen (stare e accadere). Naturalmente, impiegando il termine erranza, intendo mettere in evidenza soprattutto la struttura di dinamismo che è indicata già nella metafora paolina della lettera ai Romani dei rami che crescono dal tronco di olivo e che attraverso la loro espansione ricoprono il mondo. Ancora, l’erranza è la metafora dell’«andare tra tutte le genti» che caratterizza il cristianesimo. Dietro queste espressioni si nascondono problemi esegetici, teologici, ma anche antropologici, in particolare di antropologia religiosa o di autocomprensione. In questa prospettiva la missionarietà, nella valenza etimologica del termine, acquista una sorta di spessore ontologico che differenzia le due fedi. È proprio a partire da ciò che un altro problema che Rosenzweig ha ben presente acquista tutto il suo significato: il rapporto con il paganesimo. Del paganesimo che accoglie il messaggio ebraico grazie al cristianesimo ha parlato Leo Baeck, che abbiamo citato sopra, ma una ben più grande rilevanza teorica, filosofico-teologica, assumerà per Rosenzweig, che in più occasioni è tornato a riflettere sulla questione. Si può affermare che il paganesimo è l’assenza della rivelazione, quindi, secondo la prospettiva temporale delineata dal filosofo, il perenne passato che coincide in un certo senso con la filosofia nella prospettiva della grecità.19 Se l’ebraismo sta in un già che anticipa la pienezza dei tempi, in una eternità che nulla sa della storia del mondo, il cristianesimo lo si può pensare invece come l’intima struttura che anima la storia del mondo. La sua espansione coincide con una particolare presenza dell’eternità nella storia.
In una prospettiva certamente diversa, ma con interessanti analogie, circa un secolo prima di Rosenzweig, Schelling, nella sua Filosofia della rivelazione, aveva presentata una interpretazione del senso della diaspora ebraica e insieme del paganesimo che ha delle notevoli affinità con la lettura rosenzweighiana. Vorrei proporre la lettura della pagina schellinghiana nel contesto dell’interpretazione del filosofo ebreo-tedesco perché mi sembra veramente preziosa. D’altra parte il riferimento a Schelling, attraverso la mediazione dell’amico Hans Ehrenberg, è stato di una efficacia singolare per il filosofo ebreo-tedesco nella costruzione di una filosofia che facesse i conti con l’esistenza, anche nel contesto religioso. Scriveva Schelling20 per cercare di rendere conto del senso della diaspora ebraica:
Certamente era in certo senso più per i pagani che per i giudei*.21 Questo sentirono dunque i giudei. L’azione di Cristo sui pagani che in questo modo parteciparono alla rivelazione e alle promesse provocò il loro livore. Essi considerarono Cristo inviato solo peri i pagani, non, come nei tempi più tardi, come mistificatore, ma prima piuttosto come un’emanazione del principio del paganesimo e il Cristianesimo stesso solo come una modificazione del paganesimo**.22 Così i giudei avendo travisato e omesso il passaggio al cristianesimo, si esclusero dal grande movimento della storia. Essi dovettero cessare di essere un grande popolo, e venire dispersi e sparpagliati tra gli altri popoli. I giudei erano qualcosa solo come portatori del futuro. Non appena il fine è raggiunto il mezzo diventa vano. Come l’involucro viene disperso dal vento, se il grano vivo che esso porta in sé ne è uscito, così il popolo giudeo fu soffiato via e non ha più, da allora, nessuna storia propria, autonoma; esso è, in senso rigoroso, escluso dalla storia. Sarebbe certamente una strada molto distorta staccare gli Israeliti dalla religione dei loro padri, per dare loro una religione cosiddetta universale, il che significa assolutamente astorica e semplicemente teistica. Fino a che rimarranno nella loro religione paterna, essi hanno pur sempre un rapporto con la vera storia, con il vero processo voluto da Dio, che è insieme la vera vita, e al quale nessuno può impunemente sottrarsi. Staccati e avulsi da completamente da questa relazione, essi non troverebbero di nuovo più nessun punto di collegamento, e sarebbero, solo in un modo diverso e peggiore, ciò che sono adesso…. extorres ed exsules, senza patria ed esuli che non trovano mai requie. Ci si può difficilmente attendere una conversione dei giudei al semplice teismo o alla pura cosiddetta religione razionale. Essi sono, anche adesso — solo, in altro senso — il popolo predestinato per il regno di Dio, nel quale essi sono destinati a entrare in ultimo, affinché anche qui si affermi quella sublime ironia divina e coloro che erano i primi siano gli ultimi.
Come si può facilmente costatare nel testo rosenzweighiano risuonano molte affinità che non stupiscono se si ricorda la familiarità con l’opera di Schelling.
Torniamo ora al testo della Stella che, presentando il cristianesimo come via, ci introduce immediatamente nella nuova prospettiva di eternità a cui si accennava. «Dal nucleo infuocato della stella — scrive Rosenzweig — si sprigionano i raggi. Essi cercano la loro via attraverso la lunga notte del tempo. Deve essere una via eterna e non temporale, benché conduca attraverso il tempo. Essa non può negare il tempo, anzi deve condurre attraverso il tempo. E però il tempo non può avere potere su di essa. Ed inoltre essa non può neppure, come fa il popolo eterno che continua a generare se stesso, creare un proprio tempo, e così liberarsi dal tempo. Allora le resta un’unica soluzione: deve divenire signora del tempo» (S, p. 374, 360). E questo può accadere perché la linea del tempo va da un già a un non ancora, entrambi eterni. Scrive ancora Rosenzweig:
La cristianità si riproduce in quanto si espande. L’eternità diviene eternità della via, facendo sì, a poco a poco, che tutti i punti della via divengano punti centrali. La testimonianza a favore dell’eternità che nel popolo eterno è resa dall’atto di generare, lungo la via eterna dev’essere resa realmente come testimonianza…. Nel testimoniare la comunità dev’essere testimoniata al tempo stesso anche la via. La comunità diviene una attraverso la fede testimoniata. La fede è la fede nella via. Ciascuno che sia nella comunità sa che non c’è altra via eterna se non quella che egli percorre. Alla cristianità appartiene chi sa che la sua propria vita è sulla via che conduce dal Cristo venuto al Cristo che ritornerà (S, p. 379, 365).
L’eternità nel tempo che incontriamo nel cristianesimo è, quindi, l’in fieri del tempo tra due eventi eterni. Rosenzweig è qui il lucido interprete della prospettiva dell’homo viator che ha tanto caratterizzato il cristianesimo, ma che è anche certezza di un evento accaduto a cui tutti possono prendere parte. E proprio questa è la grande differenza con l’ebraismo. Non più consapevolezza di un’elezione generativa, ma partecipazione testimoniale a un evento che immediatamente coinvolge la singolarità personale. Entrambe le prospettive, tuttavia, sono in se stesse, nella loro eternità temporale, limitate e non esaustive. Solo dalla vita e dalla via eterne si forma la figura eterna che è anche la verità eterna, una verità escatologica o messianica. Non è inutile ricordare a questo punto della nostra breve presentazione, la profonda empatia tra Rosenzweig e Margrit Rosenstock Huessy, moglie di Eugen, con cui ci fu uno scambio epistolare quotidiano della cui sedimentazione nella Stella ancora sappiamo troppo poco.23
I limiti di una breve presentazione non permettono di soffermarsi sulle analisi suggestive e stimolanti che Rosenzweig dedica al calendario liturgico cristiano in cui si intersecano una molteplicità di elementi, la teologia e la sociologia e soprattutto l’estetica presentata con una modalità assolutamente inusuale, forse la si potrebbe definire una «estetica teologica» la cui peculiarità risalta maggiormente se la si va a confrontare con la teoria estetica presentata nei precedenti libri della Stella.
A questo punto per avere una visione completa del rapporto tra ebraismo e cristianesimo non ci resta che rivolgere la nostra attenzione all’ultima parte dell’opera che ci provoca attraverso un passaggio audace dal punto di vista teologico, ma anche storico e filosofico in cui Rosenzweig giunge infine a fornire gli elementi per quel riconoscimento teoretico di cui parlava nella sua lettera a Rudolph Ehrenberg. L’approdo è insieme una risposta alla Fenomenologia dello spirito di Hegel: la verità è il Tutto anche per Rosenzweig, ma la totalità a cui egli pensa non è più il risultato di una fagocitazione inglobante, bensì il movimento della relazione il cui la «parola-matrice» è la semplice copula-congiunzione e. Ebraismo e cristianesimo, nessuno è la verità, insieme costituiscono l’inveramento della verità come Voll-endung della redenzione. È la verità messianica.

4. La verità messianica
Nelle ardite e suggestive pagine in cui Rosenzweig tratta della stella come figura della verità eterna, ci troviamo di fronte a una ripresa dei tre elementi — Dio, mondo e uomo — nella prospettiva di una teoria della verità che li rende per così dire trasparenti a loro stessi, ne rivela l’intima struttura e insieme rimanda a quell’unico orizzonte possibile di comprensione che è il compimento della redenzione. E proprio per questo, tuttavia, restano in una dimensione che potremmo definire di «sospensione» teo-teleologica che trasforma la dottrina della verità da teoria della conoscenza a modello dell’esistenza il cui nome è in-veramento. La verità si in-vera. Al di là della teoria della conoscenza formale che cerca di stabilire sempre forme di giudizio categoriali, Rosenzweig ci pone di fronte a una teoria «escatologica» della verità che, quindi, per definizione, si colloca nel tempo, ma nell’orizzonte aperto del tempo a-venire. Proviamo a percorrere brevemente le pagine della Stella che ci permetteranno di guadagnare una nuova ottica anche sull’ebraismo e il cristianesimo letti ormai come forme dell’umano, come categorie ontologiche.
Dio, verità e spirito, questi sono i termini che Rosenzweig utilizza qui per ridire gli elementi — Dio, mondo e uomo — che ora però nell’orizzonte della redenzione e quindi dell’eternità, sono diventati manifesti e oggetti di una nuova «logica»: la teo-logica, la cosmo-logica e, infine, la psico-logica. Tutti confluiranno nella figura dell’inveramento che è l’escatologia la cui legge interna è la teleologia, ma allora, come vedremo, bisognerà uscire dalla teoria e dal libro per entrare nel quotidiano della vita. Questa, vita, è l’ultima parola della Stella che era iniziata con il suo opposto, la morte. Non possiamo qui seguire analiticamente il percorso di Rosenzweig, mi limito pertanto a qualche accenno per soffermarci di più sulla sua interpretazione dell’ebraismo e del cristianesimo.
«Dio è la verità» (S, p. 423, 407) con questa proposizione si apre l’ultimo libro della terza parte. Ma ciò significa che Dio è «il Signore del Tutto e Uno» (S, p. 428, 412), Egli troneggia sulla realtà che, proprio a partire da questa signoria è garantita nella sua verità, anche la realtà è verità. Contrariamente a tutto il percorso apofantico della tradizione occidentale, alla domanda circa la verità — che cos’è la verità? — Rosenzweig propone una risposta di carattere «fattuale» che, se da un lato richiama Descartes, dall’altro si poggia su una nuova posizione che non è possibile ricondurre tout court alla metafisica. La verità, nella sua innegabilità «è un dato di fatto vero, ma è un dato di fatto» (S, p. 431, 415) e il dato di fatto di questa innegabilità esige fede. Scrive Rosenzweig:
Così tutta la fiducia nella verità riposa su una fiducia ultima, e cioè che il terreno su cui poggia la verità con i propri piedi sia in grado di reggerla. La verità è essa stessa il presupposto ultimo della verità e non lo è in quanto verità, che si regge sui propri piedi, ma in quanto dato di fatto su cui si fa affidamento. La verità stessa è dato di fatto ancor prima del dato di fatto della sua innegabilità… La fiducia della ragione in se stessa, cui i maestri della scuola dedicano le loro cure, è del tutto legittima. Ma è legittima soltanto perché si basa su una fiducia di tutto l’uomo, di cui la ragione è solo una parte; e tale fiducia non è una fiducia in se stesso. La fattualità della verità sarebbe allora l’ultima cosa che la verità stessa ha da dirci su di sé. Questa ultima cosa è che essa esige fiducia in lei come in un dato di fatto. E con ciò essa confessa proprio questo: di non essere Dio. Non è lei Dio. Ma Dio è la verità… Se Dio è la verità, che cos’è enunciato dicendo questo, circa la sua essenza? Nulla più di questo, che egli è il fondamento originario della verità e che tutta la verità è verità soltanto perché viene da lui (S, pp. 431-432, 415-416).
Si disegna così un percorso verso la verità la cui intima tensione è verso il Tutto, ma «il Tutto dev’essere colto al di là della conoscenza e dell’esperienza vissuta, per poter essere colto direttamente. Questo cogliere avviene appunto nell’illuminazione della preghiera» (S, p. 435, 419). In questo modo ritroviamo noi stessi nella verità che in quanto verità ultima è anche la nostra verità. L’uomo però deve rinunciare all’esperienza della verità come verità intera, deve limitarsi a contemplarla in Dio. «la verità deve dunque essere convalidata/in-verata e proprio nel modo in cui di solito la si nega: cioè abbandonando a se stessa la verità «intera» e tuttavia riconoscendo come verità eterna quella parte a cui ci si attiene» (S, p. 437, 421). All’uomo, che nella vita rimane uomo, resta come proprio ambito il «così» e come propria parola l’«è vero!». È esattamente a questo punto che si inseriscono l’ebreo e il cristiano come «figure dell’umanità» e anche come il duplice modo «in cui la verità, che nella rivelazione irrompe dentro il «qui» ed «ora», poteva unirsi con l’«è vero!» detto dall’uomo» (S, p. 440, 423). A queste due figure dell’umano è consegnato il compito dell’in-veramento della verità, che è la prospettiva escatologica della via cristiana e della vita ebraica tese entrambe verso il compimento della redenzione, quell’unificazione di Dio già ricordata.
Per brevità, non accenniamo neppure alle suggestive analisi che Rosenzweig dedica alle due fedi. Concludo invece questa rapida presentazione ancora con una pagina rosenzweighiana che intende presentare il «senso dell’inveramento». Scrive il filosofo ebreo-tedesco:
Davanti a Dio dunque, entrambi, ebreo e cristiano, sono lavoratori intenti a una stessa opera. Egli non può fare a meno di nessuno dei due. Tra i due egli ha posto inimicizia in ogni tempo e tuttavia li ha legati l’uno all’altro reciprocamente nel modo più stretto. A noi egli diede vita eterna, accendendo nel nostro cuore il fuoco della stella della sua verità. I cristiani li ha posti sulla via eterna, facendoli inseguire i raggi di quella stella della sua verità in ogni tempo fino alla fine eterna. Noi la contempliamo nel nostro cuore, la fedele immagine della verità, ma in cambio ci distogliamo dalla vita nel tempo e la vita del tempo si distoglie da noi. Loro invece camminano seguendo la corrente del tempo, ma hanno la verità soltanto alle loro spalle; vengono, è vero, guidati da essa, poiché seguono i suoi raggi, ma non la vedono con i loro occhi. La verità, la verità intera, non appartiene quindi né a loro né a noi. Infatti anche noi che la portiamo, è vero, dentro di noi, se la vogliamo però vedere, dobbiamo tuffare lo sguardo innanzi tutto nel nostro intimo, e qui, noi vediamo sì la stella, ma non i raggi. E la verità intera dovrebbe comprendere non solo il fatto di vedere la sua luce, ma anche ciò che da lei viene illuminato. Loro invece sono destinati a vedere in ogni tempo ciò che è illuminato, ma non la luce. E così, entrambi abbiamo soltanto parte alla verità intera. Ma sappiamo però che è essenza della verità essere parte ed essere partecipata, e che una verità che non fosse fatta parte a nessuno non sarebbe verità; anche la verità «intera» è verità soltanto perché è parte di Dio. Così non reca pregiudizio né alla verità né a noi il fatto di avervi e averne solo parte. Visione diretta dell’intera verità viene ad esserci soltanto per colui che la contempla in Dio. Ma questo è un contemplare al di là della vita (S, pp. 462-463, 444-445).
Si aprirebbero a questo punto delle grandi questioni non più soltanto di carattere filosofico, bensì piuttosto squisitamente teologiche. Basti qui ricordare che le riflessioni di Rosenzweig nate dal desiderio di dare senso a un dramma esistenziale personale sono ancora per noi questioni vive, anche se gli ottant’anni trascorsi hanno portato a un approfondimento teologico che in qualche modo ha  dato ragione a quell’esigenza di «riconoscimento teoretico» che il pensatore ebreo esigeva dai suoi amici cristiani.

NOTE SUL SITO

Diventare un pensiero di DIO (Abraham Joshua Heschel)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_heschel.htm

Abraham Joshua Heschel  

DIVENTARE UN PENSIERO DI DIO 

Pregare è lasciarci trasportare verso Dio mentre Egli si sta avvicinando a noi, resi oggetto del suo ascolto, della sua comprensione e della sua sollecitudine.
In quelle anime per le quali la preghiera è un fiore raro, incantevole, sorprendente, essa pare raggiungere come l’opportunità positiva inscritta in una sventura, quasi un sottoprodotto inevitabile o avventizio dell’afflizione.
Ma la sofferenza non è la sorgente della preghiera. Una buona ragione non fa accadere qualcosa come una causa produce un effetto; essa si limita piuttosto a stimolare ciò che è potenzialmente presente, per spingerlo a diventare realtà.
Il pericolo o il bisogno possono spianare la strada perché cresca lo spirito di orazione, estirpando le erbacce della fiducia in noi stessi, liberando il cuore da ogni durezza e ostinazione; ma essi non possono mai dare origine alla preghiera.
L’idea della preghiera si basa sull’assunzione che per l’uomo sia possibile accostarsi a Dio, per porre ai suoi piedi speranze, dolori e desideri. Ma questa assunzione non è prendere atto di una particolare abilità della quale siamo stati provvisti. Non sentiamo di possedere il dono magico che consente di parlare all’Infinito; non siamo null’altro che testimoni dello stupore della preghiera, dello sguardo meravigliato di chi si rivolge all’Eterno.
L’entrare in contatto con Lui non è una nostra conquista.
È un dono che piomba dall’alto su di noi come una meteora, piuttosto che sfrecciare verso l’alto come un razzo.
Prima che le parole della preghiera giungano alle labbra, la mente deve credere in un Dio che vuole veramente farsi prossimo all’uomo, e al tempo stesso nella nostra capacità di liberare la strada perché Egli possa avvicinarsi. La preghiera non è un soliloquio.
La preghiera è come la luce che proviene da una lente nella quale tutti i raggi che emanano dall’anima vengono fatti convergere in un punto focale.
Vi sono dei momenti in cui risplendiamo perché ci rendiamo conto di condividere la segreta sollecitudine di Dio per la terra.
Siamo in preghiera. Veniamo trasportati verso di Lui che si sta avvicinando a noi. Tentiamo di cogliere la sua volontà e non solo il suo comando.
La preghiera è la risposta a Dio: «Eccomi. Questo è il rendiconto della mia vita. Scruta il mio cuore, le mie speranze e i miei rimpianti».
Riprendiamo il cammino nella vergogna o nella gioia. Ma la preghiera non finisce mai, perché la fede ci fa desiderare con audacia che Egli si accosti a noi e ci interpelli come un padre, non solo come un sovrano; non solo attraverso il nostro procedere nelle sue vie, ma anche con il suo irrompere nel nostro errare.
Lo scopo della preghiera è essere portati alla sua attenzione, essere ascoltati, compresi da Lui; non si tratta di conoscerlo ma di essere conosciuti.
Pregare è cogliere la vita non solo come frutto della sua potenza, ma come oggetto a cui la sua volontà rivolge la propria sollecitudine. Perché l’aspirazione più recondita dell’uomo non è quella di dominare, bensì quella di diventare oggetto della sua conoscenza.
Vivere «alla luce del suo sostegno», diventare un pensiero di Dio, questa è la vera occupazione a cui l’uomo è destinato.
Ma siamo degni di esser conosciuti, di entrare nella sua misericordia, di divenire oggetto della sua sollecitudine?
Non vi è miseria umana avvertita in modo più drammatico di quella che consiste nell’essere abbandonati da Dio. Nulla è terribile come essere respinti da lui. È un orrore vivere lasciati soli dall’Altissimo, cancellati dalla sua mente.
La paura che Dio ci abbandoni, anche solo per un istante, è uno sprone estremamente efficace nel cuore dell’uomo pio, che cerca così in continuazione di porsi sotto lo sguardo di Dio, per far sì che la sua vita resti degna di essere conosciuta da lui.
Tali uomini preferiscono essere feriti dalle sue punizioni piuttosto che essere abbandonati.
Essi lo supplicano in ogni loro preghiera, più o meno esplicitamente: «Signore, non ci abbandonare!».

Abraham Joshua Heschel

da L’uomo alla ricerca di Dio, Qiqajon, Bose 1995.

Publié dans:EBRAISMO: A.J. HESCHEL |on 22 février, 2011 |Pas de commentaires »

IDOLI NEI TEMPLI (Abraham Joshua Heschel) LO RITROVERETE COME PDF

QUESTO STUDIO È MOLTO LUNGO, LO TRASFORMO TUTTO IN PDF E LO PUBBLICO DI NUOVO!

dal sito:

http://www.google.it/#hl=it&pwst=1&sa=X&ei=4r1aTf2MBMu48gOEg9DVDw&sqi=2&ved=0CBcQvwUoAQ&q=stupore+%2B+Heschel&spell=1&fp=a4568c70ec1af03c

Abraham Joshua Heschel

IDOLI NEI TEMPLI

Che cosa c’è di religioso nell’educazione religiosa?
Soltanto i mascalzoni sono modesti. A una cosa noi ebrei non dovremmo mai essere disposti a rinunciare: i nostri livelli elevati di formazione. Nessuno di noi su questo punto potrà mai dirsi soddisfatto della propria condizione di vita intellettuale, morale o spirituale.
L’educazione religiosa contemporanea si pone in aspro contrasto con l’educazione generale. Alla formazione contemporanea nei vari campi del sapere, nonostante tutte le limitazioni, dobbiamo dare atto di realizzazioni notevoli, sia nell’insegnamento della scienza che in altri settori. A confronto, occorre dire che l’educazione religiosa non ha saputo raggiungere i suoi obiettivi. Sarebbe da irresponsabili sottacere quello che la maggior parte di noi sanno bene.
È possibile trovare la Bibbia negli hotel, ma non la si trova nelle case, o nelle menti. Pochi tra i nostri contemporanei hanno mai fatto propria la sfida dei profeti o colto la grandezza del libro della Genesi, pur avendo frequentato la scuola domenicale o essendosi entusiasmati durante i riti di confermazione . Nel campo della religione prevale l’analfabetismo, sia intellettuale che spirituale, l’ignoranza oltre che l’idolatria, l’adorazione di falsi valori. Siamo una generazione priva sia di istruzione che di sensibilità.
Perché nella maggioranza dei casi la frequentazione della scuola di religione non ha plasmato il carattere e gli atteggiamenti dei nostri figli? Quali sono le cause di questa inefficacia? Senza voler minimizzare l’influenza corruttrice del clima sociale generale, insisto nel dire che la causa di questo fallimento è la scipitezza e banalità dell’istruzione religiosa.
Sono numerose le forze che neutralizzano l’effetto dell’istruzione religiosa. Per quanto nel nostro insegnamento esaltiamo il valore dell’apprendimento, della compassione, della fede, il ragazzo però vive per la maggior parte del tempo in un’atmosfera ossessionata dall’affarismo, dalla millanteria e dal cinismo. L’ambiente non è mai stato particolarmente favorevole ai tentativi compiuti nella storia di servire la volontà di Dio. Dobbiamo imparare a sopravvivere nonostante le condizioni spirituali avverse e a causa di esse. Sarebbe un suicidio vivere secondo la massima che se il clima non favorisce i nostri principi, tanto vale rinunciarvi.
Negli altri campi di studio l’insegnamento è svolto ad alto livello, mentre l’educazione religiosa si accontenta di cliché spalmati di sentimentalismi. Il risultato è che l’educazione religiosa ricevuta durante l’infanzia e la fanciullezza svanisce non appena è esposta alla sfida e al fascino di altre potenze intellettuali nell’epoca dei trionfi scientifici.
Per molti la scuola domenicale si è risolta più in un impedimento che in un aiuto allo sforzo di acquisire una più profonda comprensione di Dio. I giovani non hanno bisogno di tranquillanti religiosi, della religione come diversivo, della religione come intrattenimento, ma di audacia spirituale, di succo intellettuale, di potenzialità di sfida.
Un’altra malattia è l’irrilevanza intellettuale della tradizione per la persona, il crollo della comunicazione
tra i problemi personali del singolo e il messaggio della nostra eredità. Quella forma di educazione che continua a trascurare i problemi intellettuali o che ignora i limiti dell’emotività è destinata a fallire.
Allo studente diciamo molte cose, ma che cosa ha a che fare il nostro insegnamento con i suoi problemi interiori, con il modo in cui si comporterà o penserà al di fuori dell’aula scolastica?
Nella nostra scuola abbiamo paura di affrontare le problematiche fondamentali. Come trattare il male? Qual è il nostro rapporto con il nemico? Che fare dell’invidia? Qual è il senso dell’onestà? Come affrontare il problema della solitudine? Che ha da dire la religione sulla guerra e la violenza? Sull’indifferenza al male?
Certamente, l’educazione religiosa è vitale e non è difficile trovare motivi convincenti per indurre a studiare. Ma la tragedia è che la nostra generazione non sa come studiare, come rapportarsi alle fonti classiche della nostra tradizione. Sicché il problema principale dell’educazione religiosa non è soltanto che cosa fare con i ragazzi che non frequentano le scuole di religione, ma che cosa fare con quelli che le frequentano. Il segreto dell’educazione religiosa è l’apprendimento, la passione e la convinzione. Insegnare significa impartire informazione oltre che indurre lo studente a condividere il proprio apprezzamento. Il problema non è semplicemente più ore, più conoscenza, ma anche più rilevanza, più comprensione.
Il racconto di come Abramo ha infranto gli idoli di suo padre è tale da imprimersi profondamente nelle menti dei nostri bambini. Molti di loro, tuttavia, non arrivano mai al capitolo 32 del libro dell’Esodo, dove si narra l’episodio del vitello d’oro. « Ama il prossimo tuo come te stesso » è – secondo Rabbi ‘Aqiva’ – l’essenza o sintesi della Torà. Invece, secondo Rabbi Jishma’el, il compendio e il progetto globale della Torà consiste nel tener lontano il nostro popolo dall’idolatria. La prospettiva di Rabbi ‘Aqiva è nota a noi tutti. Quella di Rabbi Jishmacel viene dimenticata.
Manasse – ci viene detto – ha collocato un idolo nel tempio. Ci sono idoli nelle nostre case, nelle nostre menti, nei nostri templi? La religione si trova in continua lotta con l’idolatria. E costretta a respingere come volgari e distruttivi certi valori che il nostro popolo ama e coltiva.
Un altro nostro guaio è il monopolio dell’educazione. Di fatto l’educazione spetta anzitutto ai genitori, al padre. Secondo la tradizione ebraica il maestro non è che un rappresentante del padre. È vostro dovere invece insegnare con diligenza, non sentirvi sostituti . Oggi i genitori si comportano con grande superficialità, l’invadente senso degli affari e la volgarità squillano dai megafoni, e noi pretendiamo che piccole creature ascoltino la voce dello spirito. L’istruzione religiosa, come la carità, incomincia da casa propria.

continuo domani perché è un po’ lungo

Publié dans:EBRAISMO: A.J. HESCHEL |on 16 février, 2011 |Pas de commentaires »

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