BIBBIA E SOFFERENZA: QUANDO UNA CATTIVA TRADUZIONE ALIMENTA UNA SPIRITUALITÀ DEVIATA
BIBBIA E SOFFERENZA: QUANDO UNA CATTIVA TRADUZIONE ALIMENTA UNA SPIRITUALITÀ DEVIATA
Luciano Manicardi, monaco di Bose
Guida alla lettura
In questo brano difficile, ma di fondamentale importanza dal punto di vista critico e filologico, Luciano Manicardi illustra alcuni esempi di come una traduzione scorretta o un’indebita estrapolazione possano stravolgere il significato di determinati passi biblici, alimentando idee e affermazioni aberranti sul significato del dolore, della malattia e della sofferenza agli occhi di Dio. In questo modo è possibile che certe frasi bibliche divengano «luogo comune, opinione non verificata ma resa autorevole dal fatto di essere sempre ripetuta», e acquisiscano così «quell’autorevolezza che dovrebbe essere invece guadagnata sul campo, dopo seria e puntuale verifica».
E’ il caso, per esempio, della celebre frase di Paolo contenuta nella seconda lettera agli abitanti di Corinto: «Quando sono malato, allora sono forte». Questa affermazione non significa che, in sé, la malattia sia sorgente o espressione di forza, e che vada dunque vista come un fatto positivo della vita (come sostiene per esempio uno sconcertante testo medievale), ma che – assunte nella fede in Cristo – la malattia, la sofferenza, e persino una preghiera di guarigione inesaudita, non hanno l’ultima parola sulla speranza dell’uomo.
Esempio ancora più significativo dei pericoli di una traduzione affrettata è un passo della lettera di Paolo ai Colossesi, per molto tempo tradotta così: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa». Questa traduzione, avverte Manicardi, è aberrante ed eretica, perché «sembra implicare l’idea che la passione di Cristo sia incompleta e insufficiente, che essa abbia bisogno delle sofferenze di Paolo (e dunque dei credenti) per essere condotta a pienezza, e dunque che le sofferenze dei credenti abbiano un valore redentivo». Il sacrificio di Gesù è invece pieno e sufficiente per la nostra salvezza (e comunque ricordiamo sempre non è la sua sofferenza che ci salva, ma il suo amore per noi nonostante la sofferenza); e la frase, secondo il testo greco, va invece tradotta così: «Io trovo la mia gioia nelle mie sofferenze per voi e completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, per il suo corpo, che è la chiesa». In altre parole: non è alla passione di Cristo che manca qualcosa; semmai è alla partecipazione dei credenti alle sofferenze di Cristo che manca – e mancherà sempre – qualcosa.
Nella seconda parte dell’articolo, Manicardi sottolinea poi che, a rigor di termini, in questo passo di Paolo non è neppure di sofferenze fisiche, emotive e morali che si parla, ma delle “tribolazioni di Cristo”: ove tribolazione è termine tecnico per indicare la fatica dell’azione apostolica e missionaria, e l’espressione “di Cristo” non è complemento di specificazione, ma significa “per causa” e “in nome” di Cristo. Ciò che manca alle tribolazioni di Cristo, dunque, non ha nulla a che vedere con il sacrificio della croce, ma è correlato all’attività evangelizzatrice.
La riflessione di Manicardi ci invita a non fermarci mai al sentito dire, e ad esercitare un controllo attento ed esigente anche sulla qualità tecnica e letteraria dei testi che ci vengono proposti. La traduzione non è mai “neutrale” rispetto all’originale, ma almeno non deve produrre una percezione distorta del messaggio originario. Per chi si applica poi allo studio di un testo complesso come la Bibbia, l’ideale è confrontare sempre versioni differenti e per i punti dubbi, se si dispone della preparazione necessaria, risalire al testo originale: impegno arduo per l’Antico Testamento (trasmesso in ebraico e aramaico, con la sola eccezione dei libri deuterocanonici), ma non proibitivo per il Nuovo, scritto in un greco molto semplificato rispetto al modello classico, fatti salvi alcuni tecnicismi specifici. Per chi abbia avuto l’opportunità, in gioventù, di studiare queste lingue meravigliose, si tratta di rinfrescare le conoscenze della grammatica e della sintassi. Per gli altri, ricordiamo come diversi monasteri organizzino, d’estate, brevi corsi di ebraico e greco biblici. Quelli del Monastero di Bose, per esempio, sono articolati in tre livelli di difficoltà, e durano ciascuno una settimana: il loro obiettivo, naturalmente, non è quello di formare esperti traduttori, ma di fornire gli strumenti essenziali per muoversi con un minimo di autonomia all’interno di testi antichissimi che, al di là delle credenze di ciascuno, hanno fornito un contributo fondamentale all’elaborazione della nostra cultura.
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E’ difficile portare uno sguardo spirituale sulla sofferenza che sia equilibrato dal punto di vista umano ed evangelico. La storia della spiritualità cristiana ci mostra affermazioni e giudizi che rappresentano esempi di deviazioni in senso doloristico che non hanno nulla a che fare con lo spirito dell’evangelo, che non sono conformi a una visione autenticamente umana della malattia e della sofferenza, e che anche dal punto di vista teologico sono discutibili o addirittura aberranti. Eppure spesso simili affermazioni, che ispiravano atteggiamenti esistenziali e nutrivano ed esprimevano al tempo stesso una “spiritualità”, erano tratte da testi biblici. Certamente questi testi erano letti in modo maldestro, estrapolati dal loro contesto, assolutizzati, non bene interpretati, ma nulla toglie che fosse ad essi che ci si riferiva, trasferendo indebitamente l’autorità della parola di Dio, contenuta nella Scrittura, dal testo biblico alle affermazioni teologiche o spirituali che da esso si facevano derivare.
E questa storia non è solo di ieri, ma continua anche oggi: certe frasi bibliche o che echeggiano testi biblici divengono luogo comune, opinione non verificata ma resa autorevole dal fatto di essere sempre ripetuta, ed acquisiscono così, a basso prezzo, quell’autorevolezza che dovrebbe essere invece guadagnata sul campo, dopo seria e puntuale verifica, a seguito di attenta riflessione e di confronto con la realtà.
Per esempio, il paradosso espresso da Paolo in 2Cor 12,10 con le parole: «Quando sono debole (o “malato”), allora sono forte» – estrapolato dal contesto in cui manifesta la maniera con cui Paolo integra nella propria fede pasquale, e nella propria personale sequela del Crocifisso, la preghiera insistente e non esaudita di essere liberato dalla misteriosa “spina nella carne” che lo affligge – è stato utilizzato per fondare affermazioni aberranti sulla malattia e sulla sofferenza.
Questo testo tardomedievale ne è eloquente espressione: «Se l’uomo sapesse come la malattia gli sarebbe oltremodo utile, non vorrebbe mai vivere senza malattia. Perché? Perché l’infermità del corpo è la salute dell’anima… Come? Grazie alla malattia del corpo, la sensualità viene spenta, la vanità distrutta, la curiosità cacciata, il mondo e la vanagloria ridotti a nulla, l’orgoglio svuotato, l’invidia allontanata, la lussuria bandita… Facendo odiare il mondo essa dispone all’amore di Dio».
Altre volte è una cattiva traduzione del testo biblico che può ingenerare affermazioni teologicamente e spiritualmente erronee. È il caso di Col 1,24, spesso tradotto: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa».
Questa traduzione [1] sembra implicare l’idea che la passione di Cristo sia incompleta e insufficiente, che essa abbia bisogno delle sofferenze di Paolo (e dunque dei credenti) per essere condotta a pienezza, e dunque che le sofferenze dei credenti abbiano un valore redentivo. In realtà, se ci si attiene scrupolosamente al testo greco, rispettando l’ordine sintattico della frase, la traduzione del versetto deve suonare così: «Io trovo la mia gioia nelle (mie) sofferenze per voi e completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, per il suo corpo, che è la chiesa».
Non la passione di Cristo è insufficiente per la salvezza; non è ad essa che manchi qualcosa; non è neppure che questo qualcosa possa esservi portato da Paolo o dai credenti: ma è alla partecipazione dell’Apostolo e dei credenti alle sofferenze di Cristo che manca ancora qualcosa. Non la passione di Cristo è deficitaria, ma è “nella mia carne”, cioè alla povera persona umana dell’Apostolo che manca qualcosa alla pienezza di partecipazione alle tribolazioni di Cristo: «Ciò che ancora manca, ciò che Paolo deve condurre a termine, è il proprio itinerario, che egli chiama “tribolazioni di Cristo nella mia carne”, e che riproduce quello di Cristo, nel suo modo di vivere e di soffrire per l’annuncio del Vangelo e a causa sua e per la Chiesa» [2].
Erveo di Bourg-Dieu (1075/1080 – 1149/1150), commentando la lettera ai Colossesi, si chiede “dove” manchi ciò che manca alle sofferenze di Cristo e risponde: «Nella mia carne. Infatti nella carne di Cristo, generata dalla Vergine, non manca alcuna sofferenza, ma tutte le sofferenze trovano la loro pienezza in essa (cioè, nella carne di Cristo). Tuttavia rimane ancora una parte delle sue sofferenze nella mia carne, che io ogni giorno sopporto a favore del suo corpo universale che è la chiesa» (PL 181,1325).
La tradizione cristiana fin dall’antichità ha spiegato che il valore salvifico della passione di Cristo è pieno e ad esso non vi è nulla da aggiungere. Tommaso d’Aquino, nel suo commento alla lettera ai Colossesi, metteva in guardia dal rischio di interpretare in modo inadeguato le parole dell’Apostolo: «Queste parole, intese in modo superficiale, possono essere comprese male, cioè nel senso che la passione (“passio”) di Cristo non sia sufficiente per la redenzione e che perciò le sofferenze (“passiones”) dei santi siano state aggiunte per completarla. Ma questa affermazione è eretica, perché il sangue di Cristo è sufficiente per la redenzione, anche di molti mondi: “Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; e non solo per i nostri ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Gv 2,2)».
Del resto, proprio la lettera ai Colossesi sottolinea la pienezza e completezza della persona e dell’agire di Cristo in ordine alla redenzione sicché nulla può essere aggiunto: «Piacque a Dio di fare abitare in lui (il Figlio) tutta la pienezza e per mezzo di lui riconciliare tutte le cose, avendo rappacificato con il sangue della sua croce, per mezzo di lui, le cose della terra e quelle del cielo» (Col 1,19-20). Insomma: «Colossesi insiste troppo sulla pienezza, sulla supremazia totale e attuale del Cristo glorificato, a cui non manca nulla, perché lo si possa dimenticare; Colossesi non dice nemmeno che Cristo non ha compiuto tutto ciò che doveva compiere o che non ha sofferto abbastanza perché l’Apostolo debba portare a compimento le sofferenze redentrici per la Chiesa: allora, infatti, la mediazione di Cristo non sarebbe perfetta, e la lettera non cessa di dire il contrario» [3].
Per ben comprendere il passo bisogna inoltre notare che l’espressione tradotta con “patimenti di Cristo”, andrebbe più correttamente resa con “tribolazioni di Cristo”. Il termine greco “thlipsis” non indica mai le sofferenze redentrici di Cristo, ma sempre le tribolazioni, le fatiche, le angustie escatologiche dell’Apostolo o della chiesa: persecuzioni, opposizioni, violenze, privazioni. La passione e la morte redentrice di Cristo è sempre espressa da termini come “sangue”, “morte”, “croce”, “morte in croce”, ma mai tribolazione. Queste tribolazioni caratterizzano i tempi escatologici, quelli cioè inaugurati dall’evento pasquale di Cristo, e segnano in particolare l’attività apostolica ed evangelizzatrice che viene svolta nella fede in Cristo e sotto la guida del suo Spirito.
Questa attività è il compito che Paolo ha ricevuto da Dio, compito che lo rende “diákonos”, servo della chiesa, e che consiste nel portare a compimento l’annuncio e la predicazione della parola di Dio (Col 1,25). Compiendo questo servizio, Paolo conosce sofferenze (“pathémata”: «Trovo la mia gioia nelle mie sofferenze per voi») e incontra tribolazioni (“thlípseis”: «completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne») che egli vive nella dedizione ai cristiani delle sue comunità, spendendo la vita per loro e per l’edificazione della chiesa. L’espressione “tribolazioni di Cristo” designa dunque le tribolazioni che l’Apostolo patisce a motivo di Cristo e vive in lui, nella fede cioè nel Figlio di Dio «che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20) e, al tempo stesso, indica le tribolazioni di cui, nella persona dell’Apostolo, è soggetto ancora Cristo: infatti il disegno salvifico che ancora deve compiersi nella storia (disegno che per destinatarie tutte le genti), ha in Cristo morto e risorto il protagonista centrale.
Ciò che “manca”, dunque, alle “tribolazioni” di Cristo, ha a che fare con l’attività missionaria, evangelizzatrice, con il compito di servo del vangelo e della chiesa che Paolo ha ricevuto da Dio: «Tale missione egli deve esercitare negli ultimi tempi, contrassegnati appunto dai travagli escatologici che preparano il compimento finale, e che, accolti, indubbiamente riempiono, secondo il piano di Dio, il tempo della Chiesa, e completano, nel senso che consentono a Cristo di estendere la sua salvezza ad ogni carne e fino ai confini del mondo» [4].
In questo modo il testo viene riconsegnato al suo contesto biblico e può essere compreso all’interno di corrette coordinate di teologia biblica.
Note
1) Mutata (e decisamente migliorata) nella più recente traduzione ufficiale della Bibbia italiana in: «Io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa».
2) Saint-Paul, Épitre aux Colossiens, a cura di J.-N. Aletti, Gabalda, Paris 1993, p. 155.
3) Saint Paul, Épitre aux Colossiens, op. cit., p. 135.
4) P. Jovino, Chiesa e tribolazione. Il tema della ??i??? nelle lettere di san Paolo, Edi Oftes, Palermo 1985, p. 154.