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BIBBIA E SOFFERENZA: QUANDO UNA CATTIVA TRADUZIONE ALIMENTA UNA SPIRITUALITÀ DEVIATA

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BIBBIA E SOFFERENZA: QUANDO UNA CATTIVA TRADUZIONE ALIMENTA UNA SPIRITUALITÀ DEVIATA

Luciano Manicardi, monaco di Bose

Guida alla lettura
In questo brano difficile, ma di fondamentale importanza dal punto di vista critico e filologico, Luciano Manicardi illustra alcuni esempi di come una traduzione scorretta o un’indebita estrapolazione possano stravolgere il significato di determinati passi biblici, alimentando idee e affermazioni aberranti sul significato del dolore, della malattia e della sofferenza agli occhi di Dio. In questo modo è possibile che certe frasi bibliche divengano «luogo comune, opinione non verificata ma resa autorevole dal fatto di essere sempre ripetuta», e acquisiscano così «quell’autorevolezza che dovrebbe essere invece guadagnata sul campo, dopo seria e puntuale verifica».
E’ il caso, per esempio, della celebre frase di Paolo contenuta nella seconda lettera agli abitanti di Corinto: «Quando sono malato, allora sono forte». Questa affermazione non significa che, in sé, la malattia sia sorgente o espressione di forza, e che vada dunque vista come un fatto positivo della vita (come sostiene per esempio uno sconcertante testo medievale), ma che – assunte nella fede in Cristo – la malattia, la sofferenza, e persino una preghiera di guarigione inesaudita, non hanno l’ultima parola sulla speranza dell’uomo.
Esempio ancora più significativo dei pericoli di una traduzione affrettata è un passo della lettera di Paolo ai Colossesi, per molto tempo tradotta così: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa». Questa traduzione, avverte Manicardi, è aberrante ed eretica, perché «sembra implicare l’idea che la passione di Cristo sia incompleta e insufficiente, che essa abbia bisogno delle sofferenze di Paolo (e dunque dei credenti) per essere condotta a pienezza, e dunque che le sofferenze dei credenti abbiano un valore redentivo». Il sacrificio di Gesù è invece pieno e sufficiente per la nostra salvezza (e comunque ricordiamo sempre non è la sua sofferenza che ci salva, ma il suo amore per noi nonostante la sofferenza); e la frase, secondo il testo greco, va invece tradotta così: «Io trovo la mia gioia nelle mie sofferenze per voi e completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, per il suo corpo, che è la chiesa». In altre parole: non è alla passione di Cristo che manca qualcosa; semmai è alla partecipazione dei credenti alle sofferenze di Cristo che manca – e mancherà sempre – qualcosa.
Nella seconda parte dell’articolo, Manicardi sottolinea poi che, a rigor di termini, in questo passo di Paolo non è neppure di sofferenze fisiche, emotive e morali che si parla, ma delle “tribolazioni di Cristo”: ove tribolazione è termine tecnico per indicare la fatica dell’azione apostolica e missionaria, e l’espressione “di Cristo” non è complemento di specificazione, ma significa “per causa” e “in nome” di Cristo. Ciò che manca alle tribolazioni di Cristo, dunque, non ha nulla a che vedere con il sacrificio della croce, ma è correlato all’attività evangelizzatrice.
La riflessione di Manicardi ci invita a non fermarci mai al sentito dire, e ad esercitare un controllo attento ed esigente anche sulla qualità tecnica e letteraria dei testi che ci vengono proposti. La traduzione non è mai “neutrale” rispetto all’originale, ma almeno non deve produrre una percezione distorta del messaggio originario. Per chi si applica poi allo studio di un testo complesso come la Bibbia, l’ideale è confrontare sempre versioni differenti e per i punti dubbi, se si dispone della preparazione necessaria, risalire al testo originale: impegno arduo per l’Antico Testamento (trasmesso in ebraico e aramaico, con la sola eccezione dei libri deuterocanonici), ma non proibitivo per il Nuovo, scritto in un greco molto semplificato rispetto al modello classico, fatti salvi alcuni tecnicismi specifici. Per chi abbia avuto l’opportunità, in gioventù, di studiare queste lingue meravigliose, si tratta di rinfrescare le conoscenze della grammatica e della sintassi. Per gli altri, ricordiamo come diversi monasteri organizzino, d’estate, brevi corsi di ebraico e greco biblici. Quelli del Monastero di Bose, per esempio, sono articolati in tre livelli di difficoltà, e durano ciascuno una settimana: il loro obiettivo, naturalmente, non è quello di formare esperti traduttori, ma di fornire gli strumenti essenziali per muoversi con un minimo di autonomia all’interno di testi antichissimi che, al di là delle credenze di ciascuno, hanno fornito un contributo fondamentale all’elaborazione della nostra cultura.
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E’ difficile portare uno sguardo spirituale sulla sofferenza che sia equilibrato dal punto di vista umano ed evangelico. La storia della spiritualità cristiana ci mostra affermazioni e giudizi che rappresentano esempi di deviazioni in senso doloristico che non hanno nulla a che fare con lo spirito dell’evangelo, che non sono conformi a una visione autenticamente umana della malattia e della sofferenza, e che anche dal punto di vista teologico sono discutibili o addirittura aberranti. Eppure spesso simili affermazioni, che ispiravano atteggiamenti esistenziali e nutrivano ed esprimevano al tempo stesso una “spiritualità”, erano tratte da testi biblici. Certamente questi testi erano letti in modo maldestro, estrapolati dal loro contesto, assolutizzati, non bene interpretati, ma nulla toglie che fosse ad essi che ci si riferiva, trasferendo indebitamente l’autorità della parola di Dio, contenuta nella Scrittura, dal testo biblico alle affermazioni teologiche o spirituali che da esso si facevano derivare.
E questa storia non è solo di ieri, ma continua anche oggi: certe frasi bibliche o che echeggiano testi biblici divengono luogo comune, opinione non verificata ma resa autorevole dal fatto di essere sempre ripetuta, ed acquisiscono così, a basso prezzo, quell’autorevolezza che dovrebbe essere invece guadagnata sul campo, dopo seria e puntuale verifica, a seguito di attenta riflessione e di confronto con la realtà.
Per esempio, il paradosso espresso da Paolo in 2Cor 12,10 con le parole: «Quando sono debole (o “malato”), allora sono forte» – estrapolato dal contesto in cui manifesta la maniera con cui Paolo integra nella propria fede pasquale, e nella propria personale sequela del Crocifisso, la preghiera insistente e non esaudita di essere liberato dalla misteriosa “spina nella carne” che lo affligge – è stato utilizzato per fondare affermazioni aberranti sulla malattia e sulla sofferenza.
Questo testo tardomedievale ne è eloquente espressione: «Se l’uomo sapesse come la malattia gli sarebbe oltremodo utile, non vorrebbe mai vivere senza malattia. Perché? Perché l’infermità del corpo è la salute dell’anima… Come? Grazie alla malattia del corpo, la sensualità viene spenta, la vanità distrutta, la curiosità cacciata, il mondo e la vanagloria ridotti a nulla, l’orgoglio svuotato, l’invidia allontanata, la lussuria bandita… Facendo odiare il mondo essa dispone all’amore di Dio».
Altre volte è una cattiva traduzione del testo biblico che può ingenerare affermazioni teologicamente e spiritualmente erronee. È il caso di Col 1,24, spesso tradotto: «Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa».
Questa traduzione [1] sembra implicare l’idea che la passione di Cristo sia incompleta e insufficiente, che essa abbia bisogno delle sofferenze di Paolo (e dunque dei credenti) per essere condotta a pienezza, e dunque che le sofferenze dei credenti abbiano un valore redentivo. In realtà, se ci si attiene scrupolosamente al testo greco, rispettando l’ordine sintattico della frase, la traduzione del versetto deve suonare così: «Io trovo la mia gioia nelle (mie) sofferenze per voi e completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne, per il suo corpo, che è la chiesa».
Non la passione di Cristo è insufficiente per la salvezza; non è ad essa che manchi qualcosa; non è neppure che questo qualcosa possa esservi portato da Paolo o dai credenti: ma è alla partecipazione dell’Apostolo e dei credenti alle sofferenze di Cristo che manca ancora qualcosa. Non la passione di Cristo è deficitaria, ma è “nella mia carne”, cioè alla povera persona umana dell’Apostolo che manca qualcosa alla pienezza di partecipazione alle tribolazioni di Cristo: «Ciò che ancora manca, ciò che Paolo deve condurre a termine, è il proprio itinerario, che egli chiama “tribolazioni di Cristo nella mia carne”, e che riproduce quello di Cristo, nel suo modo di vivere e di soffrire per l’annuncio del Vangelo e a causa sua e per la Chiesa» [2].
Erveo di Bourg-Dieu (1075/1080 – 1149/1150), commentando la lettera ai Colossesi, si chiede “dove” manchi ciò che manca alle sofferenze di Cristo e risponde: «Nella mia carne. Infatti nella carne di Cristo, generata dalla Vergine, non manca alcuna sofferenza, ma tutte le sofferenze trovano la loro pienezza in essa (cioè, nella carne di Cristo). Tuttavia rimane ancora una parte delle sue sofferenze nella mia carne, che io ogni giorno sopporto a favore del suo corpo universale che è la chiesa» (PL 181,1325).
La tradizione cristiana fin dall’antichità ha spiegato che il valore salvifico della passione di Cristo è pieno e ad esso non vi è nulla da aggiungere. Tommaso d’Aquino, nel suo commento alla lettera ai Colossesi, metteva in guardia dal rischio di interpretare in modo inadeguato le parole dell’Apostolo: «Queste parole, intese in modo superficiale, possono essere comprese male, cioè nel senso che la passione (“passio”) di Cristo non sia sufficiente per la redenzione e che perciò le sofferenze (“passiones”) dei santi siano state aggiunte per completarla. Ma questa affermazione è eretica, perché il sangue di Cristo è sufficiente per la redenzione, anche di molti mondi: “Egli è vittima di espiazione per i nostri peccati; e non solo per i nostri ma anche per quelli di tutto il mondo” (1Gv 2,2)».
Del resto, proprio la lettera ai Colossesi sottolinea la pienezza e completezza della persona e dell’agire di Cristo in ordine alla redenzione sicché nulla può essere aggiunto: «Piacque a Dio di fare abitare in lui (il Figlio) tutta la pienezza e per mezzo di lui riconciliare tutte le cose, avendo rappacificato con il sangue della sua croce, per mezzo di lui, le cose della terra e quelle del cielo» (Col 1,19-20). Insomma: «Colossesi insiste troppo sulla pienezza, sulla supremazia totale e attuale del Cristo glorificato, a cui non manca nulla, perché lo si possa dimenticare; Colossesi non dice nemmeno che Cristo non ha compiuto tutto ciò che doveva compiere o che non ha sofferto abbastanza perché l’Apostolo debba portare a compimento le sofferenze redentrici per la Chiesa: allora, infatti, la mediazione di Cristo non sarebbe perfetta, e la lettera non cessa di dire il contrario» [3].
Per ben comprendere il passo bisogna inoltre notare che l’espressione tradotta con “patimenti di Cristo”, andrebbe più correttamente resa con “tribolazioni di Cristo”. Il termine greco “thlipsis” non indica mai le sofferenze redentrici di Cristo, ma sempre le tribolazioni, le fatiche, le angustie escatologiche dell’Apostolo o della chiesa: persecuzioni, opposizioni, violenze, privazioni. La passione e la morte redentrice di Cristo è sempre espressa da termini come “sangue”, “morte”, “croce”, “morte in croce”, ma mai tribolazione. Queste tribolazioni caratterizzano i tempi escatologici, quelli cioè inaugurati dall’evento pasquale di Cristo, e segnano in particolare l’attività apostolica ed evangelizzatrice che viene svolta nella fede in Cristo e sotto la guida del suo Spirito.
Questa attività è il compito che Paolo ha ricevuto da Dio, compito che lo rende “diákonos”, servo della chiesa, e che consiste nel portare a compimento l’annuncio e la predicazione della parola di Dio (Col 1,25). Compiendo questo servizio, Paolo conosce sofferenze (“pathémata”: «Trovo la mia gioia nelle mie sofferenze per voi») e incontra tribolazioni (“thlípseis”: «completo ciò che manca alle tribolazioni di Cristo nella mia carne») che egli vive nella dedizione ai cristiani delle sue comunità, spendendo la vita per loro e per l’edificazione della chiesa. L’espressione “tribolazioni di Cristo” designa dunque le tribolazioni che l’Apostolo patisce a motivo di Cristo e vive in lui, nella fede cioè nel Figlio di Dio «che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20) e, al tempo stesso, indica le tribolazioni di cui, nella persona dell’Apostolo, è soggetto ancora Cristo: infatti il disegno salvifico che ancora deve compiersi nella storia (disegno che per destinatarie tutte le genti), ha in Cristo morto e risorto il protagonista centrale.
Ciò che “manca”, dunque, alle “tribolazioni” di Cristo, ha a che fare con l’attività missionaria, evangelizzatrice, con il compito di servo del vangelo e della chiesa che Paolo ha ricevuto da Dio: «Tale missione egli deve esercitare negli ultimi tempi, contrassegnati appunto dai travagli escatologici che preparano il compimento finale, e che, accolti, indubbiamente riempiono, secondo il piano di Dio, il tempo della Chiesa, e completano, nel senso che consentono a Cristo di estendere la sua salvezza ad ogni carne e fino ai confini del mondo» [4].
In questo modo il testo viene riconsegnato al suo contesto biblico e può essere compreso all’interno di corrette coordinate di teologia biblica.

Note
1) Mutata (e decisamente migliorata) nella più recente traduzione ufficiale della Bibbia italiana in: «Io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa».
2) Saint-Paul, Épitre aux Colossiens, a cura di J.-N. Aletti, Gabalda, Paris 1993, p. 155.
3) Saint Paul, Épitre aux Colossiens, op. cit., p. 135.
4) P. Jovino, Chiesa e tribolazione. Il tema della ??i??? nelle lettere di san Paolo, Edi Oftes, Palermo 1985, p. 154.

PERCHÉ GESÙ DICE «CHI HA LASCIATO I FIGLI PER IL MIO NOME AVRÀ LA VITA ETERNA?

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PERCHÉ GESÙ DICE «CHI HA LASCIATO I FIGLI PER IL MIO NOME AVRÀ LA VITA ETERNA?

Una domanda su un celebre versetto del Vangelo di Matteo sulle condizioni per seguire Gesù. Risponde don Stefano Tarocchi, preside della Facoltà teologica dell’Italia Centrale.

Percorsi: SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA
Gesù con la Maddalena
18/09/2016 di Redazione Toscana Oggi

Gesù nel Vangelo dice: «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna». Mi ha colpito il riferimento ai figli: è davvero possibile che Gesù chieda a un genitore di lasciare i figli per seguirlo? Come vanno interpretate quelle parole?
Lettera firmata

Il lettore fa riferimento alla versione di Matteo di un celebre detto evangelico che nella sua versione integrale va completato così: «Gesù allora disse ai suoi discepoli: “In verità io vi dico: difficilmente un ricco entrerà nel regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. A queste parole i discepoli rimasero molto stupiti e dicevano: “Allora, chi può essere salvato?”. Gesù li guardò e disse: “Questo è impossibile agli uomini, ma a Dio tutto è possibile”. Pietro gli rispose: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito; che cosa dunque ne avremo?”. E Gesù disse loro: “In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele. Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna”» (Mt 19,23-29).
La stessa premessa si trova nel racconto parallelo del vangelo di Marco, che fra l’altro è la fonte anche del testo di Matteo (e di quello di Luca): «Pietro allora prese a dirgli: “Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito”. Gesù gli rispose: “In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà”» (Mc 10,28-30). In Luca poi leggiamo: «Pietro allora disse: “Noi abbiamo lasciato i nostri beni e ti abbiamo seguito”. Ed egli rispose: “In verità io vi dico, non c’è nessuno che abbia lasciato casa o moglie o fratelli o genitori o figli per il regno di Dio, che non riceva molto di più nel tempo presente e la vita eterna nel tempo che verrà”» (Lc 18,28-30).
Quest’insegnamento di Gesù che appartiene alla «triplice tradizione», che è alla base della formazione dei tre Vangeli sinottici, dice in sostanza la stessa cosa. Di fronte alla certezza che solo l’Onnipotenza divina rende possibile la salvezza che è impossibile all’uomo, la sequela totale dei discepoli avrà una ricompensa capace di moltiplicare per cento quanto è stato lasciato, e in aggiunta avrà la vita eterna.
Matteo è il più conciso: parla solo di «case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi»; Marco rimane negli stessi termini, precisando però che quest’azione di sequela si compie «per causa mia e per causa del Vangelo». Luca parla addirittura di «casa o moglie o fratelli o genitori o figli», e specifica: «per il regno di Dio».
Per completare il quadro, nei primi tre Vangeli troviamo anche un’altra versione dello stesso detto di Gesù. Nei soli Matteo e Luca leggiamo: «Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me» (Mt 10,37-38); «se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami [letteralmente «non odia»] suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo. Colui che non porta la propria croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26). Questo solo per accennare ad altri insegnamenti relativi al portare la croce: non c’è spazio per affrontarli in questa occasione.
Tornando al problema posto dal lettore, si va oltre la singola questione dei figli: seguire il Cristo, con tutto quello che implica, comporta un nuovo modo di essere in cui ognuna delle relazioni più sacre, da quella filiale a quelle sponsale e genitoriale.
Gesù non comanda nessuna fuga ma semmai un amore ancora più grande di quelli umani, perfino riguardo la propria stessa vita, che pure sono parte della stessa creazione. San Benedetto nella sua Regola dirà: «Nulla anteporre all’amore di Cristo» (Regola 4,21).
Il discepolo del Vangelo sa quindi inquadrare ogni cosa in un ordine più grande: dovunque sia chiamato a vivere la sua adesione a Cristo, qualunque sia lo stato di vita del discepolo del Vangelo, il Cristo è avanti a tutto.
Non si tratta perciò di lasciare ma di trovare, «per causa del Cristo e per causa del Vangelo» (Marco), o «per il regno di Dio» (Luca). Chi è capace di lasciare «riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna» (Matteo).

Stefano Tarocchi

LO “SCANDALO” DELLE BEATITUDINI, DI ANDREA LONARDO

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LO “SCANDALO” DELLE BEATITUDINI, DI ANDREA LONARDO

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 23 /01 /2010 

«“Non il dolore, ma la gioia degli uomini ha commosso Cristo, alla gioia degli uomini volle cooperare… Chi ama gli uomini, ama anche la loro gioia” così ripeteva il mio staretz ad ogni occasione».
Con queste parole ne I fratelli Karamazov F. M. Dostoevskij riflette sulla beatitudine e Mitja, nello stesso romanzo esclama: «Giacché è Dio che dà la gioia, è questo il privilegio Suo, sublime… Signore, si sciolga il gelo dell’uomo nella preghiera… E sempre viva Dio e la Sua gioia! Io sento amore per Lui».
Il grande romanziere russo riecheggia l’annunzio di gioia proprio del vangelo, dove la consapevolezza della realtà del dolore e della sofferenza non diviene mai supina accettazione di essi, ma fiducia nella capacità divina di trasformare il lutto in danza.
Per ben 55 volte nel vangelo risuona l’annuncio “beati”, “felici”. Non solo nel discorso della montagna – così come è stato soprannominato l’annunzio di Gesù in Matteo ed il suo parallelo in Luca – ma in tanti altri passi dei vangeli.
«Beato colui che non si scandalizza di me» (Mt 11,6), «beati i vostri occhi perché vedono ed i vostri orecchi perché sentono» (Mt 13, 16), «beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato» (Mt 16, 17), «beati coloro che ascoltano la Parola di Dio e la osservano» (Lc 11, 28) «quando dai un banchetto, invita poveri, zoppi, ciechi, storpi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti» (Lc 14,13), «sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica» (Gv 13,17), «beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverò ancora svegli» (Lc 12, 37) e così via.
Non una prospettiva di mestizia, non una proposta incentrata su doveri, ma l’annuncio della via della gioia contraddistingue il vangelo del Cristo.
Ad esso il Signore contrappone la via della morte, della tristezza, con l’annunzio del «guai» che viene più volte ripetuto (Mt 11, 21; Lc 10, 13; Lc 6, 24; Mt 23; Lc 11, 52; Mc 14, 21; Lc 22, 22).
Nella lettura che J. Ratzinger – Benedetto XVI propone delle beatitudini, nel suo Gesù di Nazaret, gli annunzi di gioia del Cristo non sono un’affermazione teorica, ma «descrivono per così dire lo stato effettivo dei discepoli di Gesù: sono poveri, affamati, piangenti, odiati e perseguitati (cfr. Lc 6, 20 ss.). Sono da intendere come qualificazioni pratiche, ma anche teologiche, dei discepoli – di coloro che hanno seguito Gesù e sono diventati la sua famiglia».
In effetti, le beatitudini comprendono l’accoglienza di Gesù e della sua parola, il suo riconoscimento come Cristo e Figlio di Dio, l’appartenere alla nuova comunità che nasce dall’ascolto della sua parola, il vivere nella sobrietà e, talvolta, nell’indigenza che ne consegue, la condivisione dei beni e del vangelo con coloro che ne sono privi.
Il papa prosegue mostrando come «i paradossi presentati da Gesù nelle Beatitudini esprimono la vera situazione del credente nel mondo, quale è stata ripetutamente descritta da Paolo alla luce della sua esperienza di vita e di sofferenza da apostolo: “Siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!” (2 Cor 6,8-10). “Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi…” (2 Cor 4,8-10). Quello che nelle Beatitudini del Vangelo di Luca è parola di conforto e promessa, in Paolo è l’esperienza vissuta dall’apostolo».
In questa prospettiva possono trovare composizione le opposte letture che sono state proposte delle beatitudini, tendenti a privilegiarne il loro carattere escatologico di promessa di bene che viene rinviata al momento dell’eternità o, invece, la loro valenza immanente, come di indicazione che riguarda solo la storia ed il suo presente.
Nelle beatitudini la tensione verso l’attesa del ritorno di Cristo è decisiva, perché solo il suo giudizio permetterà la definitiva sconfitta del male ed il premio dei giusti. D’altro lato questa speranza certa non spegne, anzi conferisce significato al concreto impegno per il bene degli uomini e per l’annunzio del vangelo che ogni giorno deve nuovamente essere compiuto.
Nella lettura che J. Ratzinger – Benedetto XVI propone delle beatitudini emerge, ad un certo punto, un importantissimo spunto, quando il volume ricorda che lo stesso Francesco d’Assisi non volle che tutti coloro che lo seguivano seguissero letteralmente la sua “regola”, ma istituì il Terz’ordine francescano perché i laici, coloro che erano stati chiamati alla vita familiare ed alla vita professionale, conservassero, pur nella sobrietà, il possesso dei beni e degli affetti, senza perdere per questo lo spirito delle beatitudini.
Il grande scrittore G. K. Chesterton aveva già affrontato la questione da un altro punto di vista convergente, nel suo volumetto sul santo di Assisi, domandandosi se la costituzione dell’ordine francescano nel seno della chiesa fosse stato un evento veramente evangelico o non piuttosto un ripiego per conservare, in fondo, lo statu quo. Chesterton si interroga: «San Francesco era un uomo così grande e originale che aveva in sé qualche cosa della sostanza che forma il Fondatore di una religione. Parecchi dei suoi seguaci erano più o meno pronti, nei loro animi, a trattarlo come tale… Francesco, quel fuoco che correva attraverso le contrade d’Italia, doveva essere l’iniziatore di una conflagrazione nella quale si sarebbe consumata l’antica civiltà cristiana. Questo era l’argomento che il papa doveva chiarire: o il cristianesimo assorbiva l’opera di Francesco o questa assorbiva il cristianesimo».
A questo dilemma Chesterton risponde: fu evidente a tutti, nel corso del XIII secolo, che era Gesù ad essere unico modello e Signore, mentre Francesco era solo una modalità, anche se straordinaria, di esprimere la santità cristiana. Gli uomini non erano chiamati tutti a diventare francescani – ad esempio fu una grazia di Dio che Dante continuasse a leggere ed a studiare – perché «nella Chiesa del Signore ci sono diverse magioni. Ogni eresia è stato uno sforzo per rimpicciolire la Chiesa. Se il movimento francescano si fosse risolto in una nuova religione, questa sarebbe stata, dopo tutto, una religione meschina».
Le beatitudini riportano così allo scandalo dell’essere cristiani, alla gioia che nasce dall’avere un Padre nei cieli e dal perdere la propria vita nel servizio della fraternità degli uomini, nelle diverse vocazioni che dal Signore nascono.

 

«SIAMO MEMBRA GLI UNI DEGLI ALTRI». LA CURA E L’ATTENZIONE ALL’ALTRO

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«SIAMO MEMBRA GLI UNI DEGLI ALTRI». LA CURA E L’ATTENZIONE ALL’ALTRO

Emanuele Rimoli

Per i cristiani la cura, la premura e l’attenzione all’altro non sono una questione immediatamente etica, tantomeno filantropica. Non ci facciamo prossimi solo perché è giusto, né perché « abbiamo una certa sensibilità » – che poi, detto così, sembra una cosa esclusiva solo di alcuni cosiddetti « sensibili », come se la qualità delle relazioni (giacché questo è in gioco) fosse appannaggio solo di alcuni e non di tutti. La premura per l’altro, infatti, non s’identifica immediatamente con i sentimenti fraterni, né con l’indignazione contro l’ingiustizia, ancor meno con l’intenzione di fare il bene. Piuttosto è la naturale conseguenza “operativa” dell’assunto paolino: «Pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,5).
Per i cristiani la cura e la premura affondano le loro radici in Cristo, evidentemente, quando disse: «Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi» (Gv 15,12); traduzione di un versetto di poco precedente: «Come il Padre ha amato me, così io ho amato voi. Rimanete nel mio amore» (Gv 15,9). A dire che l’amore con cui ci amiamo reciprocamente ha la sua fonte, radice e motivo di esistenza nell’amore del Padre verso il Figlio. Amore del quale il Figlio ci ha reso partecipi – «Nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare» (Mt 11,27). Nello Spirito Santo, infatti, siamo eredi del rapporto, della vita di comunione amorosa del Padre con il Figlio. Così, infatti, la prima lettera di Giovanni: «Chi osserva i suoi comandamenti dimora in Dio ed egli in Lui. E da questo conosciamo che dimora in noi: dallo Spirito che ci ha dato» (1Gv 3,24). Questo dunque il fondamento: l’essere destinatari dell’amore che il Padre dona al Figlio e che questi ci partecipa mediante il dono dello Spirito. È lo Spirito che ci rende «un corpo solo e un’anima sola» (cf. 1Cor 12,13; Ef 4,4). Solo in questo alveo di gratuita benevolenza, che è (ri)generazione, elezione e benedizione, si può parlare di cura e, in una parola sintetica, di tenerezza,
che non è la virtù del debole, anzi, al contrario, denota fortezza d’animo e capacità di attenzione, di compassione, di vera apertura all’altro, capacità di amore[1].
Come, infatti, il Figlio riceve se stesso dal Padre di cui è l’immagine visibile (Col 1,15), così l’umanità riceve se stessa e la sua identità
alla scuola della parola di colui che lo ha creato, che gli ha predestinato la forma originaria, e quindi solo nell’affidamento, senza risentimento e diffidenza, a Dio che, consegnando il Figlio, ha inclusivamente creato e conferito senso all’uomo[2].
È il totale rovesciamento del cogito cartesiano: «riceviamo, dunque siamo», «siamo amati, dunque siamo». E, per metterlo in prospettiva d’azione, «amati, dunque amiamo». In effetti, l’uomo ha una struttura «concava», ricettiva, fatta per l’accoglienza prima ancora che per l’azione. Basti pensare ad Adamo: riceve se stesso dalla terra e dal soffio di Dio (cf. Gen 2,7), solo dopo impone i nomi ai viventi (Gen 2,19-20). Allo stesso modo anche Eva riceve da Adamo ciò che egli, a sua volta, aveva ricevuto (Gen 2,21-24).
La tenerezza dona. E che cosa dona? Se stessa. Colui che la riceve, riceve se stesso, viene donato a se stesso, è dono a se stesso [...]. Il dono che io ricevo sono io stesso, libero e potente. La tenerezza è questa nascita nella mia nascita che fa in modo che la tristezza non sia la mia immediata e totale verità [...]. Il dono che io ricevo è di essere io stesso dono e donazione, io sono donato a me stesso quale donazione per altri[3].
1. Il comandamento grande
Il Vangelo presenta questa verità in maniera potente e radicale attraverso la domanda dei farisei a Gesù su quale fosse il più grande comandamento della legge (Mt 22,34-40). La risposta di Gesù unisce il testo di Dt 6,4-5 con quello di Lv 19,18, dando luogo a una vera e propria magna charta:
Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso (Mt 22,37-39).
Da un lato Cristo lega, col filo doppio della somiglianza, il «dovere d’amore» scambievole fra gli uomini con il «dovere d’amore» totalizzante a Dio – non è forse questo il senso della dignità dell’uomo creato a immagine di Dio? Così facendo Cristo decreta l’unità delle Scritture che trovano il lui la più autentica chiave di lettura e il compimento: egli, Verbo fatto carne, a un tempo Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, «mostrò veramente l’immagine e ristabilì la somiglianza, rendendo l’uomo simile al Padre invisibile attraverso il Verbo visibile»[4].
Dall’altro lato, e ancor più profondamente, Cristo presenta la possibilità di una rivelazione sottesa all’unione dei due comandamenti simili. Se, infatti, accostiamo l’espressione di Matteo a quelle in qualche modo analoghe dell’evangelista Giovanni già citate (Gv 15,9.12), scopriamo che il comandamento dell’amore allude alla possibilità della rivelazione del volto del Padre al cuore degli uomini. Cosa peraltro confermata dallo stesso Cristo quando dice: «Se uno mi ama, osserverà la mia Parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui» (Gv 14,23). Non il comandamento genera la rivelazione, ma l’amore che fa scaturire la pratica e che a questa conduce. Quando, infatti, il cuore trattiene quella Parola che è il comandamento grande, quando cioè tutto è vissuto all’interno di un «ecosistema» presieduto dal rapporto con quella Parola, allora si compie la promessa: l’amore di Cristo sostiene la pratica della sua Parola e questo permette ai cuori di accedere al «mistero nascosto» (Ef 3,9) da sempre riservato agli uomini, cioè la comunione con Dio e lo splendore del suo amore per tutti, quando Dio sarà «tutto in tutti» e noi «saremo simili a lui» (cf. 1Cor 15,28; 1Gv 3,2).
Questo amore è la fonte e il senso di tutti i comandamenti. E di questo amore gli uomini sono eredi in Cristo. Da qui, allora, si può cogliere anche il senso operativo dei comandamenti (la cura verso Dio e il prossimo): che gli uomini possano scoprire e cogliere l’amore del Padre per loro e così vivere in comunione fa di loro. Lo scopo e contenuto dell’amore al prossimo, dunque, è l’annuncio che l’amore del Padre è per lui; perciò se l’amore a Dio indica all’umanità la propria radice, l’amore al prossimo ne rivela la tensione e l’orizzonte, poiché l’amore del Padre è per il mondo intero (cf. Gv 3,16-17).
Si tratta, dunque, di riconoscere la radice dell’amore benefico ricevuto in Cristo, che diventa la piattaforma per ospitare il prossimo, il grembo in cui accoglierlo[5]. È l’amore fedele e premuroso di Dio nei confronti di tutti e ognuno degli uomini. Quello riconosciuto e cantato dalla Madre di Dio, «ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre» (Lc 1,55). Lo stesso che il profeta Isaia paragona a quello di una madre:
Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai (Is 49,15).
Si tratta, in definitiva, di ospitare l’altro nella propria vita come una madre col figlio nel proprio grembo, perché tempo, spazio, gesti siano plasmati a partire e a favore di questa comunione vitale.
2. Un’accoglienza radicale
Due sono i movimenti dell’accoglienza in vista della premura: riconoscere e ricordare. La dinamica di fondo, come già detto, converte il cogito in «amato, dunque amo». Che si può tradurre come segue: «Dio mi ha guardato, così anch’io comincio a guardare i miei fratelli». Infatti, la prima esperienza della cura – e conditio sine qua non – è il riconoscimento che gli altri ci sono e sono liberi, per spezzare quell’egocentrismo che trova la sua più tragica sintesi nelle parole possessive della «Madre di tutti i viventi»: «Mi sono acquistato un uomo presso Dio» (Gen 4,1)[6]. È interessante che, almeno in italiano, il linguaggio sia chiaro: riconoscere è conoscere di nuovo, quindi meglio, e dunque ammettere l’evidenza; non solo, riconoscimento ha al suo cuore la riconoscenza, gratitudine per il dono ricevuto. Essere riconoscente, allora, vuol dire sapere bene di aver ricevuto un dono, una benedizione. Con questo desiderio più o meno consapevole, o addirittura con fame di «essere visti», ci presentiamo gli uni agli altri, sperando che i nostri volti siano riscattati dall’anonimato con uno sguardo e diventiamo motivo di gratitudine[7].
Si tratta di preferire che l’altro sia piuttosto che non sia. È la meraviglia che egli sia, così com’è. È credere in lui più di quanto egli non creda in se stesso […]. La suprema tenerezza crede che dall’altro, chiunque egli sia, venga già verso di me il dono che egli stesso forse non conosce – ed è su questo oscuro presupposto che essa si appoggia […]. Non si tratta di una fede cieca. Non si tratta della confusa fiducia negli altri o di un procedimento pedagogico. È conoscenza, necessariamente oscura[8].
Perciò la cura è pazienza e attesa continuamente rinnovate. La sua benevolenza è provata nello spossessamento e nella gratuità, poiché ciò che conta è l’altro, che sia accolto come è, che sia «a casa» e porti frutto. Non ha doppi fini e non pretende un contraccambio, poiché è un riflesso della tenerezza libera e gratuita di Dio. Riconoscenza e riconoscimento, infatti, si rivelano nell’artigianato del far emergere l’altro e non se stessi. «La nostra gara non era a chi fosse il primo, ma a chi permettesse all’altro di esserlo», diceva s. Gregorio Nazianzeno raccontando l’amicizia con s. Basilio Magno[9].
La tenerezza è il lavoro incessante affinché ogni figlio dell’uomo, maschio o femmina, abbia la sua misura e la sua grazia. A ciascuno secondo i suoi bisogni! A ciascuno secondo il dono che è in lui, che dispieghi allegramente tutta la sua potenza! La tenerezza è grazia: non forza niente, non si indurisce per dovere e volontà, non si impone, non invade la vita degli altri, non piagnucola, non disserta, non spiega. Essa semplicemente c’è, ferma e attiva, un bello spazio libero in cui respirare, primo nutrimento per il cuore dei viventi[10].
Ma riconoscere che gli altri ci sono non basta. Bisogna che il pensiero non lasci cadere nel vuoto ciò che gli occhi hanno accolto e, in qualche modo, riscattato. La cura, infatti, si nutre anche di memoria, di ricordo. Non tanto il ricordo nostalgico di un incontro passato, ma il costante ravvivare la presenza dei volti allo sguardo interiore[11]. Mantenere vivi i tratti del volto, lo sguardo, il tono di voce, le necessità, la sensibilità, i gusti, il profumo, i traguardi, le debolezze, i passaggi… perché chi è ricordato sia avvolto in quella tenerezza che è «non-rassegnazione, non-scandalo, non-giudizio»[12], viscere di madre e bontà ferma e premurosa di padre.
Le Scritture raccontano di Dio che mantiene vivo il ricordo degli uomini non dimenticando la sua alleanza con loro (cf. Gen 9,15). Quando Dio si ricorda di Israele è per salvargli la vita e garantirgli l’esistenza, per ristabilire e rinsaldare l’alleanza, la comunione (cf. Lv 26,42.45). Nel racconto della crocifissione, il ladrone pentito chiede di essere ricordato da Gesù il quale, esaudendo il suo desiderio, risponde: «In verità ti dico: oggi sarai con me in paradiso» (Lc 23,42-43). Essere ricordati da Dio, dunque, significa essere vivi.
«Essere ricordati» dal Signore è lo stesso che «essere in paradiso» e ciò significa essere nella memoria eterna e di conseguenza avere esistenza eterna e quindi ricordo eterno in Dio. Se non ricordiamo Dio, moriamo, ma lo stesso nostro ricordo di Dio è possibile solo perché Dio si ricorda di noi[13].
Ora, «essere in paradiso» altro non vuol dire che essere nella pienezza della comunione, quando Dio sarà «tutto in tutti» (1Cor 15,28). E colui che opera la comunione è lo Spirito santo, che ha anche il compito di ricordare ai discepoli tutto ciò che il Maestro ha detto (cf. Gv 14,26). È, questo, il senso della liturgia della chiesa: la premura dell’intero corpo che ricorda al Padre tutte le membra, nella comunione che supera tempo e spazio operata dallo Spirito:
Ricordati, o Padre, della tua chiesa diffusa su tutta la terra […]. Ricordati dei nostri fratelli che si sono addormentati nella speranza della risurrezione […]. Di noi tuti abbi misericordia: donaci di aver parte alla vita eterna[14].
La memoria, dunque, è riconoscimento e ospitalità dell’altro che tengo in vita dentro di me, così che perfino la riflessione su me stesso coinvolge e avviene attraverso l’altro, il suo volto, le sue parole, la sua storia. Al punto che «sarei meno me stesso se lo trascurassi, se umiliassi o dimenticassi i suoi bisogni»[15]; siamo, appunto, «membra gli uni degli altri» (Rm 12,5).
Possiamo esprimere questo atteggiamento così: ricordati che qualcuno ha avuto per te gesti di premura; non svendere, non tradire questi doni di giustizia; raccontali ancora e incarnali nella tua vita. Tu stesso abbi cura dei tuoi fratelli. Diventa loro alleato nel bisogno, anche se non sai dove ti porterà questa promessa di fedeltà[16].
Di questa alleanza facciamo memoria, un continuo rinnovare la consapevolezza del ricevere-e-dare che struttura la nostra verità. Sulla base di questa radicale accoglienza – che suppone un lungo, continuo e accurato lavorio di purificazione del cuore – si sviluppa l’incontro e la relazione.
3. L’immaginazione
Così intesa, la relazione genera un’esperienza di rivelazione. È data, cioè, la terribile possibilità di accedere alle profondità dell’altro e intuire e vedere, per grazia di Dio, chi si nasconde sotto la superficie. Credo sia questo il segreto dell’esperienza di Francesco di Assisi quando raccontava che la compassione verso i lebbrosi gli trasformò l’amaro in dolcezza[17].
È la dinamica analoga all’innamoramento: s’intuisce, attraverso l’amore, una bellezza non visibile a tutti. E sono quell’amore e quella bellezza a non lasciare spazio alla rassegnazione e a far attraversare con speranza la fatica, l’incomprensione, l’attesa.
Certamente la cura e la premura non sono «esplosive» come un innamoramento ma si nutrono, allo stesso modo, di una profonda immaginazione.
Inventare, questa è la legge della suprema tenerezza. Inventare, questo è il suo combattimento. Dato che la tenerezza non ha le armi di morte della crudeltà, non ha forse bisogno di essere più abile, più intelligente, creativa, inventiva, traboccante d’immaginazione, forte e sottile? Sì, le è necessario! Altrimenti la tenerezza non è altro che l’eterna buona volontà del cuore, il balsamo impotente sulle ferite atroci della disperazione[18].
A immagine dello sguardo trasfigurante di Dio che lo porta a vedere «in stranieri e pagani degli uomini e delle donne con una dignità personale piena, dei figli di Dio destinati al regno»[19], così il premuroso è capace di inventare e utilizzare ogni «trucco» pur di conquistare alla vita chi gli sta di fronte. Così, infatti, diceva Annalena Tonelli: «Inventiamo! Non aspettiamo di esser istruiti. Dobbiamo inventare. L’amore è una questione di immaginazione»[20].
Il premuroso, infatti, ama «anticipatamente», a fondo perduto, prima ancora di vedere o, addirittura, cercare i risultati della sua premura. Trasfigura ciò che vede, intende e tocca, senza cessare di percepire l’altro in tutta la sua letterale concretezza. Ma sempre confidando in un oltre, nella speranza di non limitarlo alla sua sola, mera letteralità[21]. Perciò non si arrende ad alcuna bruttezza, rifiuto o cinismo, ma lotta instancabile contro ciò che deturpa e avvilisce l’uomo. E sempre tramite mezzi reali, concreti e personalizzati, con intelligenza e umiltà. Così, infatti, insegnava Isacco di Ninive:
L’amore costringe a compartecipare; la conoscenza, invece, forza a resistere anche a questo. Insieme alla diversità di elezioni vi sono anche varie forme di amore sapiente adatte a coloro che ne sono i destinatari. Non cercare da un amante sapiente un amore insipido. Chi uccide suo figlio nutrendolo di miele, non è diverso da chi lo uccide con il coltello. Alla sapienza di Dio non sembra infatti bene nutrire il suo amato allo stesso modo, nei tempi di salute come in quelli di malattia[22].
Se con l’intelligenza probabilmente si conosce l’uomo, con l’immaginazione è invece possibile partecipare con meraviglia al cammino di crescita e maturazione dell’altro, accompagnandolo nelle sue più profonde traversate; è la meraviglia che presiede alla gioia mite dell’agricoltore, alla dedizione di un artigiano per la sua opera[23].
In questo processo una delle mediazioni fondamentali è certamente la parola, autentica e apportatrice di vita, che evoca, promuove e custodisce. Capace di rendere giustizia senza giudicare. Una «parola profetica», suggerisce Luciano Manicardi, che interviene disarmata nella storia e nelle relazioni con mitezza e profondità, dando voce a desideri e speranze, sanando la disillusione e il cinismo[24]. Una parola capace di avvolgere la miseria, la colpa e perfino l’angoscia, per dare riconoscimento e giustificazione all’esistenza e far cadere ogni condanna.
Quando una parola mi dice ciò che sono, la riconosco perché sgorga in me la gioia: mi chiama (kaleo) ed è bello (kalos) esser chiamati per nome[25].

4. Conclusione
Il percorso proposto si è sviluppato attorno a due poli strettamente interconnessi. Da un lato l’accoglienza radicale che rivela la natura «concava» dell’uomo, soprattutto nel riconoscimento e nella memoria dell’altro. Dall’altro l’immaginazione, lo sguardo gratuito e purificato che non inchioda l’altro alla sua mera evidenza letterale, ma ne promuove pazientemente l’autentica rivelazione accompagnando e custodendone i processi. Entrambi i poli trovano la loro ragion d’essere nel duplice comandamento «ama Dio, ama il prossimo», via preferenziale per accedere all’eredità dei figli: la piena comunione con il Padre e fra gli uomini.
Essendo, pertanto, in gioco il personale e personalizzato lavorio artigianale sulla qualità delle relazioni, s’impone necessariamente una conclusione aperta che chiamerei invito alla disponibilità. Ossia a quell’apertura radicale nello Spirito che è promotrice di comunione. Invito alla larghezza e spaziosità dell’umano rinnovato in Cristo, per cui l’altro si possa sentire «a casa» senza il timore di vedersi «presentare il conto» (cf. Mc 9,5). La cura e l’attenzione all’altro, infatti, sono parte di quel «ministero della riconciliazione» di cui parla san Paolo (2Cor 5,8): la fedele e paziente dedizione nel rimettere ciò che ostacola la comunione sotto lo sguardo amorevole di Dio (cf. Mc 10,21), nel rifluire abbondante dell’amore fedele e sempre nuovo della Trinità (cf. Ap 22). Un invito che sorge da una parola solennemente proclamata dal Padre: «Tu in me non morirai»[26], e affidata in Cristo a tutti i figli adottivi. È questo – commenterebbe Bellet – che contrapponiamo all’indifferenza, alla dimenticanza, all’angoscia e, in fin dei conti, alla morte (cf. 1Gv 3,11-16)[27].

NOTE SUL SITO

RAVASI E IL PRIMO COMANDAMENTO – Gianfranco Ravasi (2011)

http://www.famigliacristiana.it/articolo/ravasi-il-primo-comandamento_110311123229.aspx

RAVASI E IL PRIMO COMANDAMENTO – Gianfranco Ravasi (2011)

LA STORIA DI UN INCONTRO INATTESO

IL PATTO CHE DONA LA LIBERTÀ ALL’UOMO

“Al terzo mese dall’uscita dall’Egitto, la terra della schiavitù, gli Israeliti arrivarono al deserto del Sinai e si accamparono davanti al monte. Dio pronunciò allora queste parole», Il monte, la solitudine del deserto, un popolo in marcia, una voce: è in questa cornice che il libro dell’Esodo traccia la storia dell’incontro inatteso tra Dio e l’uomo. Una linea verticale (Dio e il monte) e una orizzontale (il popolo e il deserto) si incrociano proprio nel cuore della religione. La Bibbia usa il linguaggio colorito del mondo orientale: il Signore-Re sta stipulando un trattato diplomatico col suo principe, l’uomo; Dio si lega a un impegno, è il dono della libertà che continuerà a offrire all’umanità, come un giorno l’ha offerto ad Israele «facendolo uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù» (Es 20,2). E il popolo risponde col Decalogo, le dieci grandi risposte al Dio alleato, vicino e non più relegato in cieli lontani e nebulosi, separati dalle nostre ore e dai nostri giorni. La prima parola che Israele vuole vivere nella sua esistenza è la base e il sostegno di tutte le altre nove. Tra poco ascolteremo questa “parola” nella formulazione precisa del libro dell’Esodo. Ma se vogliamo già intuirne il valore, immaginiamo una costellazione i cui sette astri siano altrettanti verbi luminosi disseminati nelle pagine della Bibbia: amare (Deut 6,5), ascoltare (Deut 6,4), aderire (Deut 10,22), ricordare (Deut 8,8-9) per cui l’apostasia sarà un « dimenticare », servire (Gios 24), temere (Deut 6,2.13), seguire il Signore, marciando con bui (Deut 6,14). Nella liturgia antica l’ebreo ascoltava un interrogativo. Anche noi siamo invitati ad ascoltarlo e a rispondere. «Israele, che cosa ti chiede il Signore tuo Dio, se non che tu tema il Signore tuo Dio, che tu cammini per tutte le sue vie, che tu l’ami e serva il Signore tuo Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima?» (Deut 10,12).

LA “PRIMA PAROLA”
La prima, decisiva risposta dell’uomo a Dio è la fede ed è raccolta nel primo « ‘comandamento ». Di esso la Bibbia offre tre formulazioni che sono come sfaccettature diverse d’una stessa pietra preziosa (Es 20,3-5).
La formulazione teologica: «Non avrai altri dèi di fronte a me». È la solenne dichiarazione del monoteismo. «Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo!» recita ancora l’ebreo credente.
La formulazione pastorale: «Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra ». Israele è un popolo senza arti pittoriche o plastiche. Se vuoi cercare l’immagine più splendida e più somigliante a Dio sulla terra – dice la Bibbia – non devi ricorrere a una statua fredda o a un vitello d’oro, simbolo della forza e della fecondità (Es 32), devi invece guardare il volto di un uomo, del tuo fratello, perché «Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò» (Genesi 1,27).
La formulazione liturgica: «Non ti prostrerai davanti agli Ìdoli, né li servirai». “Prostrarsi” è l’atto orientale dell’adorazione. Come nel giorno glorioso dell’ingresso nella Palestina, la terra della libertà, Israele deve sempre ripetere la sua professione di fede: «Noi vogliamo servire il Signore, perché Egli è il nostro Dio!» (Gios 24,18). Ora Israele sta identificando la fisionomia del volto di Dio. La Bibbia la disegna con due tratti espressi col pittoresco linguaggio orientale (Es 20,5-6).
La “Gelosia” di Dio: «Io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso». Dio è intransigente ed esclusivo, non tollera che la sua « eredità » più preziosa, l’uomo, gli sia alienata e passi sotto altri padroni. Dice ancora la Bibbia: «Il Signore tuo Dio è fuoco divoratore, un Dio geloso» (Deut 4,24). Ma c’è anche una sfumatura di tenerezza in questa frase: Osea, un profeta dal matrimonio in crisi, la intuirà e la annunzierà. Israele è una sposa che ha abbandonato suo marito. Ma il Signore tradito continua ad attenderla presso il focolare abbandonato. Il suo dolore non offusca la speranza del ritorno: «Ecco, la attirerò a me, la condurrò nel deserto e parlerò ancora al suo cuore» (Osea 2,16). Un’altra linea della fisionomia di Dio si rivela nel suo atteggiamento nei confronti del peccato, realtà che si snoda attorno a due poli, la mia responsabilità personale e l’influsso che il mio male esercita ramificandosi nella società. Ascoltiamo la dichiarazione di Dio: «Io punisco la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione, ma dimostro il mio favore fino a mille generazioni per quelli che mi amano». Dio è “irrazionale”, non applica la rigida norma della giustizia. L’uomo è irrazionale nell’odio, Dio è irrazionale nell’amore: una punizione che si espande in quattro generazioni, un favore che si estende fino alla millesima generazione.

UN DITTICO ESEMPLARE DI OSCURITÀ E DI LUCE
A questo punto si pone un interrogativo molto semplice: questa prima « parola » antica, dispersa all’orizzonte di almeno tre millenni trascorsi sulla scena di questo pianeta, che significato ha per noi, oggi? È solo una pagina polverosa d’archivio o un messaggio adatto anche alla giornata che abbiamo appena iniziata? Cerchiamo di immaginare un dittico, cioè due tavole dipinte raccolte in unità da una cerniera. La prima ha tinte fosche, è la scena del rifiuto, del dio falso.
Il primo comandamento è un atto di accusa contro la moderna idolatria i cui feticci si chiamano potere, denaro, lavoro disumano, sesso, sfruttamento. Dio ci ricorda che questi « re-feticci » che adoriamo sono vuoto, nulla, cose che durano come la scia d’una nave nel mare o come nuvola che si dissolve al calore del sole (Sapienza 5,10-14).
Il primo comandamento è un atto d’accusa contro l’indifferenza in cui vive la società del benessere: Dio non è combattuto o cancellato, ma semplicemente dimenticato e ignorato. È il trionfo d’un ateismo comodo che rifiuta i grandi orizzonti, che fa abbandonare l’ansia della ricerca, l’inquietudine della coscienza per curvarsi solo su interessi limitati, per affidarsi solo a piccole e pallide lampade anziché lasciarsi guidare dallo sfolgorare del sole, come diceva S. Agostino.
Il primo comandamento è un atto d’accusa contro le immagini errate di Dio che noi ci costruiamo. Ridotto a un oggetto che possiamo manipolare secondo i nostri interessi, Dio è diventato, come scriveva Bonhöffer (un credente martire nei campi di concentramento nazisti) un “tappabuchi” o una Medusa che cambia secondo la nostra volontà. E invece, «io sono il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, non il Dio dei morti, ma dei vivi!» (Matt 22,32). La scena di luce è tutta riassunta nella preghiera di Mosè: «Mostrami il tuo volto, o Signore!» (Es 33,18).
Il primo comandamento è un invito alla conoscenza di Dio. Il « conoscere » nella Bibbia è il verbo dell’amore sponsale: una conoscenza, quindi, fatta di intelligenza, di volontà, di passione, di sentimento e di azione. Non basta conoscere Dio, bisogna riconoscerlo, cioè amarlo. Magari anche attraverso un lungo itinerario di ricerca: anche per Israele Dio è una luce che si svela lentamente Fino alla pienezza del Cristo, “stella del mattino” (Apocalisse 2,28).
Il primo comandamento è anche un invito alla coerenza gioiosa nella vita. Perciò il culto e la fedeltà che si danno a Dio non devono essere simili alla tassa versata con amarezza al fisco di Cesare (Matt 22,21)
Il primo comandamento è un invito a scoprire dietro l’aspetto fragile e persino odioso del prossimo il profilo di Dio. Dobbiamo amare l’uomo, “immagine di Dio” e luogo dell’incontro vivo con Dio. Infatti, il Signore stesso ha così confessato al suo popolo: «Quando Israele era giovinetto io l’ho amato, io gli insegnavo a camminare tenendolo per mano, avevo cura di lui, ero per lui come chi solleva un bimbo alla sua guancia, mi inchinavo su di lui per dargli da mangiare». (Osea 11,1.3-4).

 

LA SCRITTURA GIUSTIFICA LA VIOLENZA? – DI GIANFRANCO RAVASI (2005)

http://www.stpauls.it/vita06/0501vp/0501vp56.htm

LA SCRITTURA GIUSTIFICA LA VIOLENZA? – DI GIANFRANCO RAVASI (2005)

Vita Pastorale n. 1 gennaio 2005 -

Lo scorso 4 marzo moriva a 90 anni monsignor Enrico Galbiati, patriarca dei biblisti italiani non solo per età ma anche per autorevolezza. Una sua opera di successo fu Pagine difficili dell’Antico Testamento (1951), scritta in collaborazione con Alessandro Piazza e divenuta, a partire dalla terza edizione, Pagine difficili della Bibbia, opera tradotta in francese, spagnolo, portoghese, polacco e russo. Ebbene, anche se ci muoveremo su traiettorie diverse, vorremmo pure noi in questa rubrica – giunta ormai al termine della lettura dell’intero Salterio (che verrà in futuro raccolta in volume) – proporre alcune pagine o temi biblici che creano qualche difficoltà al lettore moderno.
Il mio ormai lungo impegno di conferenziere o di autore di scritti per una vasta platea di lettori o di conduttore di programmi televisivi mi ha costantemente messo di fronte a domande, spesso ripetute e non di rado piuttosto ardue, riguardanti non poche pagine bibliche ritenute « scandalose » o almeno problematiche. Ne raccoglierò alcune, procedendo non secondo un ordine coerente ma secondo soggetti diversi.
Comincerò col quesito in assoluto più « gettonato » e che a me è stato posto infinite volte: la violenza di cui grondano pagine e pagine dell’Antico Testamento. Effettivamente, se stiamo a una statistica elaborata dallo studioso tedesco R. Schwager, nella Bibbia ci s’imbatte in 600 passi che ci informano sul fatto che «popoli, re e singoli individui hanno attaccato altri, li hanno annientati o uccisi»; in più di 1.000 passi è l’ira di Dio a scatenarsi «punendo con la morte, con la rovina, col fuoco divorante, giudicando, vendicando e minacciando l’annientamento» e in oltre 100 passi è il Signore stesso a «ordinare espressamente di uccidere uomini».
È evidente che il principio: «C’è nella Bibbia e quindi è da credere» diventa pericoloso quando è adottato in modo meccanico e letteralistico. È questo il cosiddetto « fondamentalismo » che, partendo anche da una personale buona fede e desiderio di fedeltà assoluta, sconfina nel paradosso, per non dire nell’assurdo. Il discorso, perciò, è ancora una volta la corretta interpretazione delle Scritture tenendo presenti, da un lato, una componente letteraria (il linguaggio, il modo di esprimersi, i « generi » e così via) e, dall’altro, una componente teologica capitale.
La Bibbia (Antico e Nuovo Testamento) non è un’asettica collezione di tesi o teoremi astratti da accettare e praticare automaticamente. È una storia della salvezza. Dio si rivela entrando nella vicenda dell’umanità, grondante peccato e miserie, e lentamente, progressivamente e con pazienza conduce l’uomo verso orizzonti di verità e di amore più alti e perfetti. La Rivelazione non è una parola sospesa nei cieli e comunicabile solo con l’estasi, ma è concepita come un seme o un germe che si apre la strada sotto il terreno sordo e opaco dell’esistenza terrena. Non dobbiamo allora fermarci al singolo passo: esso può essere espressione della paziente educazione di Dio nei confronti della « durezza di cuore » o del « collo indurito » dell’uomo (ciò vale anche per le violenze dell’epoca cristiana, nonostante l’evidente collisione col Vangelo).
Senza voler mostrare la meta a cui ci conduce Cristo (definito da san Paolo « nostra pace », colui che ci invita persino a «porgere l’altra guancia»), già nell’Antico Testamento è presentato un Dio che perdona fino alla millesima generazione (Es 34,7), scommette sulle possibilità di conversione del peccatore, cambia persino parere e impedisce alla sua giustizia di irrompere sul male perpetrato (Es 32,14). In proposito citiamo due testi emblematici: «Forse che io ho piacere della morte del malvagio – dice il Signore Dio – o non piuttosto che desista dalla sua condotta e viva? [...] Io non godo della morte di chi muore» (Ez 18,23.32); «Tu, padrone della forza, giudichi con mitezza, ci governi con molta indulgenza [...]. Con tale modo di agire hai insegnato al tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini» (Sap 12,1819).
Una nota particolare merita la frase di Gesù: «Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma una spada» (Mt 10,34). Anche in questo caso la lettura letteralistica è stravolgente: Cristo attraverso l’immagine della spada si presenta come «segno di contraddizione» (Lc 2,34) ed esige una presa netta di posizione nei confronti del suo messaggio, che impone una scelta tutt’altro che indifferente e inoffensiva sulla propria esistenza e le decisioni morali e vitali. La conferma è nelle parole che ripete ai discepoli l’ultima sera della vita terrena quando li esorta così: «Chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una». Di fronte alla reazione « letteralistica » e ottusa dei discepoli che gli dicono: «Signore, ecco qui due spade!», Gesù sconsolato grida: «Basta!» (Lc 22,36.38).

Gianfranco Ravasi

Vita Pastorale n. 1 gennaio 2005 – Home Page

LA NASCITA DELLA MONARCHIA EBRAICA

http://www.donboscovasto.it/article.php?db=Notizie&id=214

LA NASCITA DELLA MONARCHIA EBRAICA

Scuola della Parola 6.2

di Don Gianni Carozza

A fare da ponte tra l’epoca dei giudici e quella dei re e` la figura maestosa di Samuele, uno dei grandi protagonisti della storia biblica. Ce lo raccontano i due libri che portano il suo nome. Nell’ originale ebraico i due libri sono uniti in uno solo; fu la versione greca dei LXX a dividerli in due rotoli forse per ragioni pratiche di lettura. La stessa versione li abbina ai due Libri dei Re e compone un’unica storia in quattro libri intitolata «Libri dei regni», come appare nella versione latina detta Volgata che titola il tutto in 4 Libri dei re. In essi si narra la storia dei re di Giuda e di Israele.
La storia di questi libri e` lunga e complicata. Lo indicano i doppioni dei racconti, le disuguaglianze di stile, lo spazio di tempo che abbraccia circa 130 anni di storia. Forse al tempo di Salomone furono raccolte le prime tradizioni orali e i racconti dei circoli profetici. Il 1° Libro delle Cronache vi fa cenno quando dice: «Le gesta del re Davide, dalle prime alle ultime, sono descritte nei libri del veggente Samuele, nel libro del profeta Natan e nel libro del veggente Gad, con tutta la storia del suo regno, della sua potenza e di quanto in quei tempi accadde a lui, a Israele e a tutti i regni del mondo» (1 Cr 29,29). A questi documenti furono aggiunte le cronache dell’archivio di corte di Gerusalemme. La redazione finale vide la luce dopo la caduta del regno del Nord (721), al tempo di Giosia (640-609), quando tutta la storia precedente fu giudicata, secondo il criterio morale del Deuteronomio, sulla fedelta` o infedelta` all’Alleanza con Dio.
Il valore storico dei libri va valutato tenendo conto da una parte dello stile laudatorio della letteratura aulica dell’oriente antico, e dall’altra tenendo presente il correttivo dell’obbiettivita` di cronaca e di giudizio morale propria degli ebrei. Questi non hanno fatto sconti ai loro sovrani, li hanno giudicati sempre con severita` senza piaggerie e servilismi. L’aderenza storica riguardante l’ambiente, le persone, le istituzioni trovano poi conferma dalle scoperte archeologiche. L’ambiente descritto e` quello dei secoli 12° e 10° (dal 1100 al 970 a. C.), quello degli inizi dell’eta` del ferro, quando i grandi imperi di Mesopotamia e d’Egitto si erano ripiegati su se stessi; l’Egitto era impegnato a fermare l’invasione dei popoli del Mare; i regni mesopotamici erano divisi e sotto la pressione dell’invasione degli Hittiti, che scendevano dalla Turchia. L’impero Assiro fu inattivo fino al sec 9°, quando inizio` a risvegliarsi con Salmanassar III (858-824). In questo letargo internazionale Israele ebbe il suo spazio di indipendenza e di liberta` che gli consenti` di prosperare.
Fu in questo clima di sicurezza internazionale che nacque l’idea della monarchia come esigenza di unita` nazionale sull’esempio delle nazioni vicine. Capo spirituale politico era allora Samuele, nato da popolani molto religiosi, Elkana e Anna, che, dopo averlo impetrato come un dono di Dio, lo offrirono quale oblato al tempio di Silo dove officiava il Sommo Sacerdote Eli. Il primo libro di Samuele inizia proprio con la sua storia: la nascita implorata da sua madre Anna con calde lacrime da Dio, l’assicurazione di Eli, la nascita e l’offerta del bambino a Dio per il servizio del tempio (1Sam 1,1-28). In quell’occasione, Anna, sua madre, compose un bellissimo canto, al quale si ispirera`, dopo mille anni »il Magnificat » di Maria (1Sam 2,1-10). Qui a Silo il ragazzo ricevette la chiamata a profeta direttamente da Dio durante la notte: «Venne il Signore, stette accanto a lui e lo chiamo` come le altre (tre) vo »lStea:muele, Samuele ». Samuele rispose subito: Parla, perche´ il tuo servo ti ascolta ». Allora il Signore disse a Samuele:  »Ecco io sto per fare in Israele una cosa che risuonera` negli orecchi di chiunque l’udra`. In quel giorno io compiro` contro Eli quanto ho pronunciato» (1Sam 3,10-12). Dopo la morte di Eli egli divenne sacerdote e giudice in Silo: «Samuele crebbe e il Signore fu con lui, ne´ lascio` andare a vuoto una sola delle sue parole. Percio` tutto Israele, da Dan fino a Bersabea, seppe che Samuele era stato costituito profeta del Signore. Il Signore continuo` ad apparire a Silo, perche´ il Signore si rivelava a Samuele a Silo con la sua parola» (1Sam 3,19-21).
Intanto imperversava la guerra tra Israele e i Filistei con alterne vicende. Gli ebrei si convinsero di aver bisogno di un re che riunisse la nazione e combattesse per essa. «Si radunarono allora tutti gli anziani d’Israele e vennero da Samuele a Rama. Gli dissero: «Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non camminano sulle tue orme. Stabilisci quindi per noi un re che sia nostro giudice, come avviene per tutti i popoli». Agli occhi di Samuele la proposta dispiacque, perche´ avevano detto: «Dacci un re che sia nostro giudice». Percio` Samuele prego` il Signore. Il Signore disse a Samuele: «Ascolta la voce del popolo, qualunque cosa ti dicano, perche´ non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me , perche´ io non regni piu` su di loro. Come hanno fatto dal giorno in cui li ho fatti salire dall’Egitto fino ad oggi, abbandonando me per seguire altri de`i, cosi` stanno facendo anche a te. Ascolta pure la loro richiesta, pero` ammoniscili chiaramente e annuncia loro il diritto del re che regnera` su di loro» (1Sam 8,4-9).
Resto` sempre in Samuele e nei circoli profetici una corrente antimonarchica per ragioni religiose: sembrava loro che il re usurpasse le prerogative regali di Dio e portasse il popolo lontano da Lui. Cio` accadde spesso nella storia d’Israele. Prima che l’istituzione monarchica divenisse ereditaria era Dio stesso a scegliere direttamente il re come suo rappresentante e strumento del suo governo. Cosi` fece con Saul e con Davide. Fu Samuele a trovare Saul, un contadino allevatore di asini, robusto e forte; lo unse re in privato e poi lo presento` cosi` alla grande adunata di tribu` a Mispa:« Samuele convoco` il popolo davanti a Dio a Mispa e disse agli Israeliti: »Dice il Signore, Dio d’Israele: Io ho fatto salire Israele dall’Egitto e l’ho liberato dalla mano degli Egiziani e dalla mano di tutti i regni che vi affliggevano. Ma voi oggi avete ripudiato il vostro Dio, il quale solo vi salva da tutti i vostri mali e da tutte le tribolazioni. E gli avete detto: “Costituisci un re sopra di noi!”. Ora mettetevi davanti a Dio distinti per tribu` e per casati». Samuele fece accostare ogni tribu` d’Israele e fu sorteggiata la tribu` di Beniamino. Fece poi accostare la tribu` di Beniamino distinta per casati e fu sorteggiato il casato di Matri` e fu sorteggiato Saul figlio di Kis. Si misero a cercarlo, ma non lo si trovo`. Era nascosto in mezzo ai bagagli. Corsero a prenderlo di la` ed egli si colloco` in mezzo al popolo: sopravanzava dalla spalla in su tutto il popolo. Samuele disse a tutto il popolo: «Vedete dunque chi il Signore ha eletto, perche´ non c’e` nessuno in tutto il popolo come lui». Tutto il popolo proruppe in un grido: «Viva il re !». Samuele espose a tutto il popolo il diritto del regno e lo scrisse in un libro, che deposito` davanti al Signore» (1Sam 10,17-25).
Questa storia di elezione, ancora primitiva, tradisce l’antichita` del racconto. Spesso per conoscere la volonta` di Dio si tiravano le sorti. Il Sommo sacerdote ebreo teneva nella borsa appesa al petto due pietre di diverso colore per il sorteggio, chiamate con nomi misteriosi: Urim e Tummim (Es 28,30). Si vede chiaramente che Samuele presenta un re a malincuore, egli e` contrario alla monarchia e ne rivela il perche´. Comunque non vuole esser piu` rigido di Dio e si adatta all’elezione di Saul. Stabilisce pero` con chiarezza in un documento scritto costituzionale per la monarchia che pose accanto all’arca come cosa sacra e inviolabile. L’incoronazione ufficiale avvenne a Galgala, il santuario inaugurato da Giosue` nella valle del Giordano (Gs 4,19-24).

Le storie di Saul e di Davide si intrecciano
Saul fu un re valoroso «combatte´ contro tutti i nemici all’intorno e dovunque si volgeva aveva successo. Compi` imprese coraggiose , batte´ gli Amaleciti e libero` Israele dalle mani degli oppressori. Figli di Saul furono Gionata, Isvi e Malchisua; le sue figlie si chiamavano Merab, la maggiore, e Mical, la piu` piccola» (1Sam 14,47-49). Egli pero` ebbe alle calcagna sempre Samuele che lo condizionava e vegliava sulla sua condotta come critico severo. Era inevitabile una rottura fra i due che non tardo` a venire. Saul restava un uomo rozzo e indipendente e non sopporto` a lungo i rimbrotti di Samuele. I due si separarono sdegnosamente: «Samuele non rivide piu` Saul fino al giorno della sua morte; ma Samuele piangeva per Saul, perche´ il Signore si era pentito di aver fatto regnare Saul su Israele» (1Sam 15,34s). Fu una rottura clamorosa che porto` Saul alla rovina.
Da quel giorno Samuele cerco` un nuovo re. Ecco il racconto dell’incontro con Davide: «Il Signore disse a Samue »leF:ino a quando piangerai su Saul, mentre io l’ho ripudiato perche´ non regni su Israele? Riempi d’olio il tuo corno e parti. Ti mando da Iesse il Betlemmita, perche´ mi sono scelto tra i suoi figli un re . Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato e venne a Betlemme; gli anziani della citta` gli vennero incontro trepidanti e gli chiesero:  »E` pacifica la tua venuta? ». Rispose:  »E` pacifica. Sono venuto per sacrificare al Signore. Santificatevi, poi venite con me al sacrificio ».
Fece santificare anche Iesse e i suoi figli e li invito` al sacrificio. Quando furono entrati, egli vide Elia`b e disse:  »Certo, davanti al Signore sta il suo consacrato! ». Il Signore replico` a Samuele »:Non guardare al suo aspetto ne´ alla sua
alta statura. Io l’ho scartato, perche´ non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore ». Iesse chiamo` Abinada`b e lo presento` a Samuele, ma questi disse: »Nemmeno costui il Signore ha scelto ». Iesse fece passare Samma` e quegli disse:  »Nemmeno costui il Signore ha scelto ». Iesse fece passare davanti a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripete´ a Iesse: »Il Signore non ha scelto nessuno di questi ». Samuele chiese a Iesse:  »Sono qui tutti i giovani? ». Rispose Iesse:  »Rimane ancora il piu` piccolo, che ora sta a pascolare il gregge ». Samuele disse a Iesse:  »Manda a prenderlo, perche´ non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui ». Lo mando` a chiamare e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e bello di aspetto. Disse il Signore: »A`lzati e ungilo: e` lui! ». Samuele prese il corno dell’olio e lo unse in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore irruppe su Davide da quel giorno in poi»(1Sam 16,1-13).
Mancava solo che il piccolo re pastore entrasse alla corte di Saul. Per questo evento abbiamo una duplice tradizione: quella del concorso per un suonatore di cetra che alleviasse con la sua musica i momenti di crisi nervosa di Saul (1Sam 16,14-21) e quella della vittoria di Davide sul gigante filisteo Golia (1Sam 17,41-18,5). Difficile dire quale sia la storia piu` vera. Sta di fatto che Davide entro` al servizio di Saul, prima come suo scudiero e poi come capo manipolo, legandosi con forte patto di amicizia con Gionata, figlio del re (1Sam 18,1-5). Saul gli da` in moglie la figlia Mical e lo lega a lui con vincoli di parentela. Ma ben presto i successi militari di Davide e la sua capacita` di presa sul popolo suscitarono la gelosia del sovrano che tento` di trafiggerlo con la lancia mentre suonava davanti a lui (1Sam 19,8-10). Davide dovette fuggire inseguito e braccato. Ben due volte si trovo` nell’occasione di uccidere Saul: una prima volta in una grotta di Engaddi (1Sam 24,1- 8) e un seconda volta nel deserto di Zif, dove Saul si era accampato (1Sam 26,5-12), ma non volle allungare la mano contro di lui per la venerazione che nutriva verso l’unto del Signore.

Il regno di Davide
Saul, con i suoi figli maggiori, mori` in guerra contro i Filistei sul monte Gelboe in Galilea e Davide ne pianse sinceramente la scomparsa con un bel canto elegiaco tra i piu` antichi della Bibbia (2Sam 1,17-27). Con questo canto si apre il secondo Libro di Samuele (il vecchio profeta era morto da tempo, 1Sam 25,1) occupato interamente dalla figura di David divenuto re prima della tribu` di Giuda e poi di tutto Israele (2Sam 5,1-5). Egli scelse come capitale del suo regno Gerusalemme che riusci` finalmente a conquistare e possedere come sua proprieta` personale (2Sam 5,6-12). Qui trasferi` l’Arca con l’intenzione di costruirvi un Tempio che non riusci` a realizzare (2Sam 6.1-19).
Davide fu fortunato in guerra, perche´ riusci` a sconfiggere definitivamente i Filistei e a conquistare l’intero territorio palestinese, ma fu sfortunato in famiglia, dove ebbe dispiaceri e lutti. Al centro di questa storia dolorosa l’autore del libro pone il grande peccato di Davide: l’adulterio con Bersabea e l’omicidio del marito di lei, Uria (2Sam 11). Da qui iniziarono le disgrazie familiari del re viste come punizioni del suo peccato. Fu il profeta Natan, che aveva denunciato con coraggio l’odioso crimine, ad annunciargli a nome di Dio: «La spada non si allontanera` mai dalla tua casa, poiche´ tu mi hai disprezzato. Ecco io sto per suscitare contro di te il male dalla tua stessa famiglia. Poiche´ tu l’hai fatto in segreto, io faro` questo davanti a tutto Israele e alla luce del sole» (2Sam 12,10-12). Il racconto dei guai familiari si estende nel libro per ben 8 capitoli: Il figlio avuto da Bersabea mori` appena nato, il figlio Assalonne uccise il fratello Ammon e si ribello` al padre, violo` il suo harem e mori` appeso con i capelli a un albero, alla fine una ribellione funesto` gli ultimi giorni del re (2Sam 13-20). Nei libri di Samuele, Davide e` presentato come re umanissimo con la sua magnanimita`, con le sue passioni, con le sue debolezze, con i suoi slanci mistici e con i suoi terribili peccati. Lo scrittore non tradisce nessuna idealizzazione, nessun intento adulatorio, e` ammirevole la sua obiettivita` storica e la sua liberta` di giudizio.
David seppe riconoscere umilmente i suoi peccati e ne chiese piu` volte perdono a Dio: «Ho peccato contro il Signore!» (2Sam 12,13) e forse per la circostanza fiori` sulle sue labbra lo splendido salmo «Miserere» che troviamo nel salterio (Sl 51) insieme ad altri componimenti poetici attribuiti al re. Alla luce di quel pentimento, Dio gli aveva assicurato il suo perdono e gli aveva formulato, per mezzo del profeta Natan, una promessa che comandera` tutto il seguito della storia biblica. Quella promessa faceva seguito al proposito di Davide di costruire un Tempio a Dio nella citta` di Gerusalemme. Lo stesso David in punto di morte aveva rivelato perche´ quel suo proposito era andato a vuoto.
Queste parole riproducono l’eco del patto stabilito tra Dio e Davide sul futuro della sua famiglia e formulato cosi` da Natan: «Cosi` dice il Signore degli eserciti: “Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perche´ tu fossi capo del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato, ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e rendero` il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. Fissero` un luogo per Israele, mio popolo, e ve lo piantero` perche´ vi abiti e non tremi piu` e i malfattori non lo opprimano come in passato e come dal giorno in cui avevo stabilito dei giudici sul mio popolo Israele. Ti daro` riposo da tutti i tuoi nemici. Il Signore ti annuncia che fara` a te una casa. Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io suscitero` un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere , e rendero` stabile il suo regno. Egli edifichera` una casa al mio nome e io rendero` stabile il trono del suo regno per sempre. Io saro` per lui padre ed egli sara` per me figlio . Se fara` il male, lo colpiro` con verga d’uomo e con percosse di figli d’uomo, ma non ritirero` da lui il mio amore, come l’ho ritirato da Saul, che ho rimosso di fronte a te. La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a te, il tuo trono sara` reso stabile per sempre”(2Sam 7,8-16). A Davide non resto` che ringraziare ardentemente il Signore (2Sam 7,18-29). La promessa-patto e` ricordata in piu` salmi nel Salterio (Sl 78,70-72; 89.4s.21-38; 132,1-18). Ma soprattutto sara` aggiornata volta per volta dai profeti lungo i secoli come Amos 9,11, Isaia 7-11, Michea 5,1-4, Ezechiele 34,23, Geremia 30,9, che vi hanno letto la figura di Gesu` Cristo figlio di Davide.

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