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CORINTO E LE LETTERE AI CORINZI (MEDITAZIONE SULLA FATICA DELL’ UNITÀ CRISTIANA, NELLO SCAVO DELLA CITTÀ ANTICA)

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CORINTO E LE LETTERE AI CORINZI (MEDITAZIONE SULLA FATICA DELL’ UNITÀ CRISTIANA, NELLO SCAVO DELLA CITTÀ ANTICA)

di d.Andrea Lonardo

La comunità di Corinto è una delle comunità paoline che conosciamo meglio, per l’ampiezza dei testi che si sono conservati. Paolo, dicono gli Atti deg li Apostoli, abitò a Corinto un anno e mezzo, la prima volta che vi giunse, poi si fermò qui una seconda volta. Ha scritto ai Corinzi non solo le due lettere che possediamo, ma, probabilmente, almeno altre due. Gli studiosi dicono che la 1 lettera ai Cori n zi è una lettera unitaria. Invece nella seconda lettera ne riconoscono due, poiché ipotizzano che la seconda parte della lettera sia la lettera “ dalle molte lacrime” che Paolo dice di aver inviato precedentemente a quella che è la nostra 2 Cor. Infatti nel la seconda parte di 2 Cor, nei capitoli da 10 a 13, vediamo Paolo che si offende, si agita, si commuove, che è profondamente adirato con i Corinzi. Se è vera questa ipotesi, allora la prima parte della seconda lettera ai Corinzi – dal capitolo 1 al capito l o 9 – sarebbe in realtà la terza lettera scritta da Paolo a questa città e la nostra 2 Cor sarebbe un insieme di queste due lettere. L’ ultima parte, più antica, evidenzierebbe questa profonda frizione con Paolo, la prima parte, più recente, ci mostrerebbe Paolo ormai tornato in buoni rapporti con la comunità locale. Vorrei farvi notare prima di tutto questo – e questo già basterebbe per oggi. Ogni volta che affrontiamo Paolo tocchiamo il valore della vita ecclesiale, il valore della vita della Chiesa. S.Pa olo non ci racconta, nelle sue lettere, l’ inizio della fede, perché le lettere sono scritte quando già le comunità esistono. Le lettere affrontano quello che avviene dopo, quello che avviene durante lo svilupparsi della vita. Le lettere non sono scritte p e r “ mettere la prima pietra” , ma perché , dopo averla messa, è importante come si continua a costruire. Pensate alle nostre famiglie per esempio, alla loro evoluzione, ai rapporti con i figli, con i nipoti; tutto questo dice una continuità . Chi vuole brucia r e in un attimo le cose, o pensa che avendo fatto una cosa all’ inizio con il proprio figlio, giusta o sbagliata che sia, è a posto per sempre, ha già risolto tutto, in realtà non riesce più ad amare. Perché in realtà se ha sbagliato può cambiare, se ha fat t o bene deve continuare sulla giusta via. Questa continuità di rapporto, già di per sé , dice – noi lo cogliamo nelle varie lettere ai Corinzi – una continuità di rapporti. C’ è un passato, ma la vita va avanti. Vi faccio vedere tre passaggi di questo. Nella 1 Corinzi in cui Paolo comincia ad alzare un po’ il tono perché li vuole rimproverare . 1 Corinzi 4,18 – 21: Come se io non dovessi più venire da voi, alcuni hanno preso a gonfiarsi d’ orgoglio. Ma verrò presto, se piacerà al Signore, e mi renderò conto al lora non già delle parole di quelli, gonfi di orgoglio, ma di ciò che veramente sanno fare, perché il regno di Dio non consiste in parole ma in potenza. Che volete? Debbo venire a voi non il bastone, o con amore e con spirito di dolcezza? Paolo dice “Cosa volete, vengo a bastonarvi?” E’ una domanda reale, seria. O vengo perché state capendo, vi state convertendo? E’ una comunità che va avanti e Paolo come Apostolo la vuole veder crescere – non gli basta l’inizio – e, per questo, si domanda: “Cosa debbo fare con voi? Il bastone o la tenerezza?” Il rapporto si modifica – e diviene più severo, nell’amore – nella 2 Corinzi 10, che è appunto la lettera “dalle molte lacrime” – io condivido questa posizione; da 10 fino a 13 non è la stessa lettera, ma è un’altra lettera che sta tra 1 Cor e 2 Cor. Leggiamo allora in 2 Corinzi 10, 1 – 11: Ora io stesso, Paolo, vi esorto per la dolcezza e la mansuetudine di Cristo, io davanti a voi così meschino, ma di lontano così animoso con voi… Questa era l’accusa che gli facevano, è una lettera viva! Evidentemente i Corinzi avevano mandato a dire che Paolo, quando stava con loro, era dolce, ma quando si allontanava era uno che picchiava duro e diceva: “Qui bisogna cambiare, convertirsi, così non va”. Allora Paolo riprende queste critiche a lui rivolte e spiega: Vi supplico di far in modo che non avvenga che io debba mostrare, quando sarò tra voi, quell’energia che ritengo di dover adoperare contro alcuni che pensano che noi camminiamo secondo la carne. In realtà, noi viviamo nella carne ma non militiamo secondo la carne. Infatti le armi della nostra battaglia non sono carnali, ma hanno da Dio la potenza di abbattere le fortezze, distruggendo i ragionamenti e ogni baluardo che si leva contro la conoscenza di Dio, e rendendo ogni intelligenza soggetta all’obbedienza al Cristo. Perciò siamo pronti a punire qualsiasi disobbedienza, non appena la vostra obbedienza sarà perfetta. Guardate le cose bene in faccia: se qualcuno ha in se stesso la persuasione di appartenere a Cristo, si ricordi che se lui è di Cristo lo siamo anche noi. In realtà, anche se mi vantassi di più a causa della nostra autorità, che il Signore ci ha dato per vostra edificazione e non per vostra rovina, non avrò proprio da vergognarmene. Non sembri che io vi voglia spaventare con le lettere! Perché “Le lettere – si dice – sono dure e forti, ma la sua presenza fisica è debole e la parola dimessa”. Questo tale rifletta però che quali noi siamo a parole per lettera, assenti, tali saremo anche con i fatti, di presenza. Questa è la lettera in cui sale ancora di più di livello. Paolo dice “Attenzione, se continua così io vengo veramente e dalle parole forti passeremo alla mia presenza forte che chiederà conto ad ogni persona”. Poi, invece, nell’ultima lettera che noi abbiamo – che probabilmente è la 2 Corinzi 1-9 – poiché evidentemente c’è stata una conversione, c’è stato un salire di livello della comunità, allora Paolo, in 2 Corinzi 7, 8 – 13, così si esprime: Se anche vi ho rattristati con la mia lettera, non me ne dispiace. E se me ne è dispiaciuto – vedo infatti che quella lettera, anche se per breve tempo soltanto, vi ha rattristati – ora ne godo; non per la vostra tristezza, ma perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi. Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra; perché la tristezza vi ha portato a pentirvi. Infatti vi siete rattristati secondo Dio e così non avete ricevuto alcun danno da parte nostra; perché la tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte. Ecco, infatti, quanta sollecitudine ha prodotto in voi proprio questo rattristarvi secondo Dio; anzi quante scuse, quanta indignazione, quale timore, quale desiderio, quale affetto, quale punizione! Vi siete dimostrati innocenti sotto ogni riguardo in questa faccenda. Così se anche vi ho scritto, non fu tanto a motivo dell’offensore o a motivo dell’offeso, ma perché apparisse chiara la vostra sollecitudine per noi davanti a Dio. Ecco quello che ci ha consolati. Questa è una lettera in cui Paolo ha superato questo momento di rimrpovero alla comunità di Corinto e dice: “Che qualcuno sia stato triste per la mia parola, va benissimo, purché la tristezza sia servita a portare un pentimento, di cui non ci si pente” – cioè il pentirsi è l’unica cosa di cui non ci si pente, il chiedere perdono a Dio. Ci sono due tipi di tristezza, c’è la tristezza del peccato, quando uno si accorge che ha sbagliato, che produce la conversione. C’è la tristezza invece secondo il mondo, l’essere tristi, che produce solo morte. Notate sempre il discernimento degli spiriti, la capacità di capire che tipo di tristezza la parola dell’Apostolo ha generato. Allora riassumiamo. C’è innanzi tutto questa prima cosa che credo sia utile per noi come Chiesa, per ogni relazione familiare, per i figli, i nipoti. Sapere cioè che la relazione non si esaurisce in un istante, ma, anzi, ha bisogno di tempi lunghi, di tutta una vita, e se ci sono momenti in cui si dicono dei “no”, questi momenti non sono la fine. Ci sono dei momenti in cui è bene aprire delle porte, poi altri in cui è bene richiuderle, poi si riaprirle – un rapporto non è mai lo stesso. La cosa importante è essere presenti in questa storia, metterci il Signore dentro e avere questa capacità di pentirsi che genera continuamente la possibilità di riavvicinarsi. Una seconda cosa importantissima è data dalle affermazioni intorno al fatto di costruire, di mettere una pietra, un fondamento che è Cristo e che non può essere diverso, ma insieme alla necessità di doverci poi costruire bene sopra. Vediamo 1 Cor 3, 5 e seguenti: Ma che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? Ministri attraverso i quali siete venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. Io ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere. Ora né chi pianta, né chi irriga è qualche cosa, ma ciascuno riceverà la sua mercede secondo il proprio lavoro. Siamo infatti collaboratori di Dio, e voi siete il campo di Dio, l’edificio di Dio. Secondo la grazia di Dio che mi è stata data, come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi costruisce sopra. Ma ciascuno stia attento come costruisce. Infatti nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo. E se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l’opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell’opera di ciascuno. Se l’opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l’opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco. Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Se uno distrugge il tempio di Dio, Dio distruggerà lui. Perché santo è il tempio di Dio, che siete voi.  In questa comunità si litigava: perché? Paolo l’aveva fondata. Allora Paolo era quello che aveva messo il primo fondamento. Poi era arrivato un altro, Apollo, che aveva cominciato a dire alcune cose. Allora nella comunità alcuni si schieravano con Paolo e dicevano di “essere di Paolo”, altri si schieravano con Apollo e dicevano di “essere di Apollo” e altri dicevano: “Noi siamo di Cristo e non siamo né dell’uno né dell’altro”. S.Paolo spiega che così la Chiesa non crescerà mai. Nella Chiesa bisogna che ci sia un fondamento e bisogna però che poi si continui a costruire bene. Un figlio bisogna farlo nascere. Però, una volta che è nato, bisogna poi educarlo ed è importante chi gli ha dato fisicamente la vita ma è anche importante chi gli sta poi vicino perché cresca. Paolo spiega allora: “Il fondamento deve essere messo bene, non può essere messo male. Se uno mette un fondamento diverso da Cristo è un disastro. Però poi una volta messo il fondamento bisogna continuare a costruire bene. La comunità, la Chiesa, ha bisogno di una crescita nel bene e non bisogna distruggere il tempio di Dio che siete voi”. Notate che luce! E’ una cosa semplice ed insieme profondissima. Pensate – ripeto – a qualsiasi rapporto che dura nel tempo. S.Paolo allora fa riflettere su questo e poi si arrabbia sia con chi si richiama all’uno o all’altro, sia addirittura con chi si richiama solo a Cristo senza fare i conti con le persone concrete che Dio mette fra i piedi, come il padre, la madre, il nonno. Io non posso essere educato solo da Dio senza mia madre, mio padre, mio nonno, i miei fratelli e così via. La cosa importante è accogliere ogni persona come un ministro di Dio e Cristo come la pietra fondante che è all’origine di tutto. La Chiesa non può non avere come fondamento Cristo. Chi mette un altro fondamento sbaglia. Non si costruisce la Chiesa sulla psicologia, sul gioco, sulle pizze o sulla cultura. Ci si incontra perché conquistati da Cristo. Ma, posto quel fondamento, si accolgono tutte le persone che il Signore stesso manda alla sua Chiesa. Non esiste un cristianesimo senza Chiesa. E qui veniamo appunto al tema grande che affrontano queste lettere, all’orizzonte più grande. Leggiamo l’inizio del cap. 3, dove Paolo, daccapo, riflette su questa crescita che ci deve essere. C’è una cosa iniziale e poi pian piano bisogna andare avanti. Io, fratelli, sinora non ho potuto parlare a voi come a uomini spirituali, ma come ad esseri carnali, come a neonati in Cristo. Vi ho dato da bere latte, non un nutrimento solido, perché non ne eravate capaci. E neanche ora lo siete; perché siete ancora carnali: dal momento che c’è tra voi invidia e discordia, non siete forse carnali e non vi comportate in maniera tutta umana? Quando uno dice: “Io sono di Paolo”, e un altro: “Io sono di Apollo”, non vi dimostrate semplicemente uomini? Paolo dice che c’è, proprio come avviene ad un bambino – all’inizio ad un bambino non si può dare da studiare la Divina Commedia o tutta la scienza, ad un bambino si dà il latte – se il bambino cresce bene si comincia a poter dare da mangiare la carne, la verdura. Lui dice che nel cammino spirituale è la stessa cosa. Qual è il dramma? Paolo afferma che il dramma è che questa comunità è neonata, è appena nata – sebbene non lo sia anagraficamente – perché c’è un aspetto importante che non va. Notate, fra l’altro, cos’è lo “spirituale” per Paolo. La gelosia, l’invidia, la discordia, fanno sì che le persone siano dei bambini. Vogliono essere trattati come bambini e lui non riesce a dare loro un cibo diverso perché sono così presi da beghe interne, da cose di poco conto che sono tipiche dell’infante, che non riescono, invece, a digerire un cibo buono, che li renda evangelizzatori, li renda uomini di carità, ecc. In particolare questa cosa viene fuori proprio parlando della Chiesa. Lo vediamo ora leggendo 1 Corinzi 1, 10 – 16. Abbiamo visto che la lettera ai Corinzi affronta tanti problemi, abbiamo visto il problema delle vergini, delle vedove, poi c’è il problema dell’incesto, dei tribunali. Paolo affronta una serie di problemi che gli vengono posti, ma il primo problema è quello dell’unità della Chiesa. Vi esorto pertanto, fratelli, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo, ad essere tutti unanimi nel parlare, perché non vi siano divisioni tra voi, ma siate in perfetta unione di pensiero e d’intenti. Mi è stato segnalato infatti a vostro riguardo, fratelli, dalla gente di Cloe, che vi sono discordie tra voi. Mi riferisco al fatto che ciascuno di voi dice: “Io sono di Paolo”, “Io invece sono di Apollo”, “E io di Cefa”, “E io di Cristo!” Cristo è stato forse diviso? Forse Paolo è stato crocifisso per voi, o è nel nome di Paolo che siete stati battezzati? Ringrazio Dio di non aver battezzato nessuno di voi, se non Crispo e Gaio, perché nessuno possa dire che siete stati battezzati nel mio nome. Ho battezzato, è vero, anche la famiglia di Stefana, ma degli altri non so se abbia battezzato alcuno. Paolo qui addirittura aggiunge il nome di Cefa, poiché alcuni si richiamano a Pietro l’apostolo – notate, di passaggio, come veramente siano ancora vivi tutti gli apostoli e come questa storicità dia forza alla nostra fede. Pensate anche ai problemi odierni dei movimenti, dei vari gruppi nella Chiesa, cose buonissime, ma terribili se diventa preponderante essere di qualcuno rispetto all’essere di Cristo. A Paolo non va neanche bene che ci sia solo Cristo. Ognuno deve riconoscere chi ha fondato, chi ha continuato, ma deve riconoscere prima di tutto che Cristo è l’unità di tutti e deve vivere in questa comunione. La stessa cosa avviene anche quando parla dell’eucarestia, un altro brano molto bello e insieme duro, in 1 Cor 11, 17 – 34. E’ l’ultimo che leggiamo: E mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo. E’ necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi. Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l’altro è ubriaco. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo! Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga. Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. E’ per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non esser condannati insieme con questo mondo. Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna. Quanto alle altre cose, le sistemerò alla mia venuta. Come sapete, anticamente, la messa veniva celebrata insieme ad una vera cena. Avveniva come abbiamo fatto per spiegare la Pasqua ebraica. Si cenava tutti insieme e si celebrava la messa. Cosa avveniva? Di fatto le persone andavano per partecipare tutti insieme all’eucarestia, però ognuno aveva la sua cena, cucinava per i suoi amici, per il suo giro di persone. Nessuno aspettava gli altri, nessuno condivideva con gli altri. Non c’era questa attenzione. Allora c’era chi era ubriaco, chi completamente satollo di cibo e c’era chi non mangiava niente. Cosa avveniva, che c’era il corpo di Cristo nell’eucarestia, ma non c’era il corpo di Cristo nella Chiesa. Allora Paolo dice: “Esaminatevi, perché chi riconosce il corpo di Cristo, ma non riconosce il fratello, sta mangiando la propria condanna”. Volete fare le vostre cose? Fatele a casa, ma che questa cosa non avvenga dove c’è la Chiesa di Cristo. Questo aiuta tantissimo a capire proprio il senso profondo che Paolo ha della Chiesa. Tutte le persone che vivono di Cristo, che ricevono il suo Battesimo, sono la Chiesa – questo ha delle conseguenze anche nei rapporti con gli ortodossi, ma non possiamo parlare di questo ora. La Chiesa è diversa dagli amici. La Chiesa non è fatta dagli amici. Non è vero che oltre l’amicizia non ci sia nulla. Non è vero che gli amici sono gli amici e gli altri non sono nulla, non li saluto neanche. La fratellanza, l’essere fratelli, non vuol dire essere amici. Gesù non ha ordinato che noi dobbiamo tutti essere amici tra di noi, tutti amici a S. Melania, tutti amici a Roma, tutti amici nel mondo. Sarebbe assurdo! Ma c’è il livello della fratellanza. Questa sì, il Signore l’ha ordinata. Ecco il posto dell’ attenzione, della comunicazione, della condivisione con coloro di cui a volte non conosco neanche il nome, che è il livello della Chiesa, dove io riconosco che ognuno è corpo di Cristo con me. C’è l’eucarestia che è Cristo presente nel pane e nel vino e c’è Cristo che è presente nella Chiesa. Vi ricordate quel brano che ci ha letto il nostro Vescovo, d.Rino Fisichella? E’ un brano di di Sant’Agostino, che dice: Fate questo in memoria di me”: è con queste parole di S.Agostino che possiamo comprendere il senso della memoria eucaristica: « Se vuoi comprendere il corpo di Cristo, ascolta l’apostolo che dice ai fedeli: Voi però siete il corpo di Cristo, le sue membra (1 Cor 12, 27). Se voi, dunque, siete il corpo di Cristo e le sue membra, sulla mensa del Signore viene posto il vostro sacro mistero: il vostro sacro mistero voi ricevete. A ciò che voi siete, voi rispondete “Amen” e, rispondendo, lo sottoscrivete. Odi infatti: « Il corpo di Cristo » e rispondi: « Amen ». Sii veramente corpo di Cristo, perché l’Amen (che pronunci) sia vero! E’ fondata da Cristo la comunione cristiana. Non nasce dalle mie simpatie e non muore con le mie difficoltà ad andare d’accordo. E’ radicata nell’essere tutti noi membra del suo corpo. Ecco, Paolo nella comunità di Corinto, ha insistito molto su questo. Mi viene in mente un’espressione di d.Francesco – molto vera – che ha fatto molto discutere in parrocchia. Ha detto ai giovani che vedeva in loro una mediocrità spirituale. Qualcuno se l’è presa come fosse un’offesa personale, dicendo. “Come può conoscerci tutti per dare questo giudizio?” E lui ha risposto: “Dico questo perché non siamo stati capaci di celebrare nemmeno un vespro insieme, in un anno di cammino, ma ognuno faceva le sue cose, senza essere disponibile ad un cammino comune” Questa è mediocrità spirituale ecclesiale. “Lo dico, perché vi voglio bene” – dice don Francesco – “non lo dico perché non vi sopporto o perché vi odio, ma perché è mio compito dire che non è possibile che dei cristiani non trovino la disponibilità una volta, in Quaresima, a celebrare un vespro o un ritiro insieme, su invito del loro vice-parroco”. E’ segno di un livello basso, di un livello da neonati, se tutto viene anteposto a vivere certi momenti. La comunità è anche segno per l’evangelizzazione. Se ognuno è cristiano da solo ma non vive il segno della fratellanza, è più difficile per il non credente, per una persona lontana, trovare questo slancio, questo entusiasmo. Ecco che qui a Corinto abbiamo riflettuto molto su questo grande tema, che è il tema della Chiesa. La fede Dio la da personalmente ad ognuno, è nostra, non possiamo mai demandarla ad un altro, ma essa nasce dall’annuncio della Chiesa – la Chiesa è la nostra madre – e ci fa nascere anche come persone che vivono la Chiesa, che sono la Chiesa, che si riconoscono vicendevolmente come corpo di Cristo e che sanno in alcuni momenti rinunciare a delle particolarità per vivere il segno profondo dell’essere insieme il corpo di Cristo, in quel momento storico, in quella tappa. Si potrebbero dire tante altre cose – le lettere ai Corinti sono lunghissime – ma volevo sottolineare soprattutto questi due aspetti, la Chiesa e questa fiducia nel lungo periodo, che ognuno di noi deve avere come educatore. Ci sono dei momenti in cui uno dice ad un nipote un “no” e l’altro, sul momento, è triste, ma dopo due anni se l’è dimenticato, non è più un problema. L’importante è che si cresca, che si cammini. Bisogna avere sia il coraggio di dire dei “no”, sia il coraggio di consolare, di dire dei “sì”, l’uno e l’altro in momenti diversi. Paolo con questa città ha avuto un rapporto molto lungo negli anni, con dei momenti alti, dei momenti bassi. Da qui il Vangelo ha continuato la sua corsa nel mondo intero.

 

BATTEZZARE NEL TEVERE, CELEBRARE NELLE CASE (anche Paolo) di Andrea Lonardo

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BATTEZZARE NEL TEVERE, CELEBRARE NELLE CASE (anche Paolo)

di Andrea Lonardo

Il Centro culturale Gli scritti (21/3/2009)

I primi battesimi in Roma debbono essere avvenuti certamente nel Tevere, prima che si giungesse all’edificazione di battisteri stabili, sempre comunque con acqua corrente, nel periodo costantiniano.
Tertulliano, nel De baptismo, a cavallo fra il II ed il III secolo, ne accenna di passaggio, come un dato di fatto ovvio, solo per sottolineare che non bisogna badare alla diversità delle acque, come se ne esistessero di migliori o peggiori, poiché tutte ricevono la stessa forza sacramentale di rendere figli di Dio, per opera dello Spirito di Cristo:
«Non sussiste alcuna differenza fra chi viene lavato in mare o in uno stagno, in un fiume o in una fonte, in un lago o in una vasca, né c’è alcuna differenza fra coloro che Giovanni battezzò nel Giordano e Pietro nel Tevere, a meno che l’eunuco che Filippo battezzò con l’acqua trovata per caso lungo la strada abbia ottenuto in misura maggiore o minore la salvezza!»
Molti dei cristiani che accolsero Paolo a Roma devono aver ricevuto così il battesimo nel fiume a cui Roma deve la sua esistenza. I primi evangelizzatori dell’urbe, dei quali non si è conservato il nome, più volte scesero alle acque del Tevere insieme ai nuovi credenti che domandavano di ricevere il battesimo e più volte risuonò sulle rive del fiume di Roma la triplice domanda sulla fede in Dio Padre e nel Figlio e nello Spirito, forma primitiva del Credo cristiano che si svilupperà poi nel Simbolo degli apostoli e nel Credo niceno-costantinopolitano.
Dalla Lettera ai Romani appare con chiarezza che la composizione della prima comunità cristiana doveva essere mista, comprendendo nel suo seno cristiani che provenivano sia dal giudaismo, sia dal paganesimo.
Dalle attestazioni epigrafiche è ormai noto che la comunità ebraica era divisa in Roma, nel II-III secolo d.C., in sinagoghe ed è presumibile che molti di questi gruppi esistessero già in età neroniana. Se ne conservano, nelle epigrafi funerarie, 11 nomi: la sinagoga detta degli Ebrei (probabilmente la più antica, che doveva essere stata creata forse già al tempo dei Maccabei, nel II secolo a.C.), quella dei Vernaculi, quella detta degli Augustenses (probabilmente voluta dalla benevolenza dell’imperatore Augusto), quella detta degli Agrippini (voluta similmente da Marco Vipsanio Agrippa), quella dei Volumnenses (voluta forse da Volumnio, legato in Siria ed amico di Erode il grande), quella dei Campenses (dal Campo Marzio dove doveva avere il suo punto di riferimento), dei Suburenses (dalla Suburra, subito dietro i Fori imperiali, dove era certamente la sua localizzazione), quella dei Calcarenses (di più difficile localizzazione, forse verso l’antica Porta Collina), quella detta di Elaia (probabilmente a motivo della città greca da cui provenivano i suoi componenti), quella dei Tripolini e quella chiamata in greco tõn Sechenõn (termine di non univoca interpretazione).
Le prime presenze ebraiche in Roma in ordine cronologico debbono essere situate nella zona di Trastevere, il primo quartiere nel quale vennero ad abitare gli ebrei di Roma, giunti al seguito dell’ambasciata dei Maccabei e poi, in gran numero, come schiavi, quando Pompeo conquistò la Giudea nel 63 a.C. La catacomba di Monteverde conserva molte epigrafi ebraiche proprio perché era il luogo di sepoltura dei primi ebrei romani residenti a Trastevere.
Le iscrizioni rivelano la presenza di un gran numero di liberti che accedevano pian piano alla libertà; non si ha notizia, per il I secolo, di una vita culturale ancora particolarmente attiva nella comunità ebraica romana (l’unica personalità ebraica di rilievo intellettuale nella Roma del I secolo d.C., oltre a quelle neotestamentarie, è la figura di Flavio Giuseppe, che fu ospitato nella residenza di Vespasiano antecedente alla sua salita al seggio imperiale, luogo nel quale lo storico scrisse anche le sue opere, avendo pieno accesso agli archivi dello stato romano).
Gli studi ipotizzano che a Roma vivessero all’epoca circa 15.000 ebrei – un numero simile alla consistenza attuale della comunità ebraica romana – sebbene tale cifra sia ampiamente opinabile, in quanto fondata su deduzioni e non su dati certi.
Quando Paolo venne ad abitare in Roma in attesa del processo, nella forma di una custodia militare, invitò subito i “primi” tra i giudei (At 28,17), le autorità delle diverse sinagoghe, ad incontrarlo. Non è certa la localizzazione di questo evento. La tradizione vuole che Paolo abbia vissuto i “due anni interi” (At 28,30) della sua permanenza in libertà vigilata nell’urbe precisamente nel luogo dove sorge ora la Chiesa di San Paolo alla Regola, vicino Ponte Sisto e via Giulia. La Chiesa è stata restaurata proprio in vista dell’anno paolino e gli scavi sottostanti permettono di toccare con mano il livello dell’insula romana sulla quale fu edificata la chiesa.
Oltre alla basilica di S. Prisca, il terzo luogo romano che rivendica una abitazione paolina è la Chiesa di S. Maria in via Lata (via Lata era l’antico nome dell’attuale via del Corso). La cripta di questa Chiesa permette di venire a contatto con il sottostante livello romano di età neroniana ed invita a venerare i luoghi nei quali, secondo la tradizione, avrebbero dimorato Pietro e Paolo, ma anche gli evangelisti Luca e Giovanni.
Gli Atti e le lettere testimoniano che era proprio nelle case private che avveniva l’incontro delle comunità cristiane e la celebrazione dell’eucarestia. Personalità più abbienti della comunità dovevano possedere delle abitazioni spaziose e mettevano a disposizione i locali più ampi, probabilmente il triclinium, delle loro case per gli incontri.
È certo, dai testi neotestamentari, che le riunioni fin dal I secolo erano già settimanali, scandendo il tempo a partire dal giorno della resurrezione del Signore; esse comprendevano la preghiera, la lettura delle Scritture (cioè dell’Antico Testamento, al quale cominciavano ad aggiungersi gli scritti neotestamentari ancora indipendenti l’uno dall’altro), la predicazione di qualcuno degli apostoli o di personalità legate alla tradizione apostolica ed, infine, la fractio panis.
Lo stesso Paolo è descritto due volte, negli Atti, presiedere la celebrazione dell’eucarestia, una prima volta proprio in una casa privata a Tròade (in At 20,11, dopo il miracolo della resurrezione del giovinetto che era morto cadendo per essersi addormentato a motivo della lunghezza della riunione che si era protratta fino a mezzanotte!) ed una seconda sulla nave che si dirigeva verso Malta, poco prima del naufragio (At 27,35).
Quando Paolo ricorda ai Corinzi l’eucarestia che ha loro trasmesso dopo averla ricevuta a sua volta non ha in mente solo la consegna delle espressioni pronunciate da Gesù nell’ultima cena con il loro significato, ma, ben più significativamente, la tradizione stessa dell’evento liturgico che egli doveva aver presieduto nella comunità di Corinto e che aveva chiesto fosse perpetuato dai corinzi.
Senza poterne così individuare con esattezza i luoghi, la città di Roma, con il suo fiume e con le sue insulae romane sottostanti le successive chiese, ricorda a tutti i molti luoghi nei quali Paolo e le prime comunità cristiane celebravano l’iniziazione cristiana di coloro che «il Signore aggiungeva a coloro che erano salvati» (At 2,48).

 

NEL VATICANO DEI COPTI

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EC1201

NEL VATICANO DEI COPTI

di Giuseppe Caffulli | gennaio-febbraio 2012

Nel quartiere di Abbasya, cuore popolare del Cairo, la vita scorre nel consueto caos quotidiano: file interminabili di auto, carretti trainati da somarelli, scooter, autobus e biciclette. Un impasto inestricabile di modernità e passato che contraddistingue lo scorrere del tempo qui come in molte altre parti dell’immensa capitale egiziana.
Abbasya non è però un quartiere come gli altri, almeno per la minoranza cristiana del Paese. È infatti la sede del papa copto Shenuda III, che siede sulla cattedra di san Marco, l’evangelista che convertì l’Egitto agli albori del cristianesimo. Secondo la tradizione, Marco venne martirizzato ad Alessandria nel 63 d.C. L’Egitto divenne ben presto una nazione cristiana e Alessandria divenne uno dei principali centri di riflessione teologica. Nel deserto egiziano nacquero i primi modelli di vita monastica. Schiere di santi monaci nutrirono con la loro ascesi e spiritualità la vita delle Chiese locali prima, e la Chiesa universale poi. Ancora oggi, nonostante la diaspora sia una tragica realtà anche per l’Egitto, la comunità copta conta circa 8 milioni di fedeli (anche se alcune fonti parlano addirittura di 15 milioni).
Per cogliere il clima che si respira al Cairo, in occasione del Natale, nulla di meglio che fare una capatina ad Abbasya, in quello che si può considerare a tutti gli effetti il «Vaticano dei copti». La ricorrenza è particolarmente sentita in questa terra ora a maggioranza musulmana, perché proprio in Egitto Gesù trascorse parte della sua infanzia. Per richiamare i legami anche storici con il cristianesimo, l’ex-presidente Hosni Mubarak, nel 2002, proclamò il Natale festa nazionale.
Seguendo la Chiesa copta il calendario giuliano, il Natale viene festeggiato il 7 gennaio, che per i fedeli corrisponde al ventinovesimo giorno del mese di kyahk, quando termina un periodo di digiuno lungo 40 giorni.
Nella moderna cattedrale di San Marco (inaugurata dal patriarca Cirillo VI nel 1968) che si eleva sopra la cripta che custodisce le reliquie dell’Evangelista, non è raro imbattersi in concerti di canti natalizi e di musica copta. Anche se le spinte consumistiche iniziano a farsi sentire anche all’interno della società egiziana (nonostante la pesante crisi economica che da molti mesi attanaglia il Paese), il Natale resta tuttavia eminentemente una festa religiosa, vissuta con intensità e fervore all’interno delle famiglie e delle varie comunità cristiane.
L’appuntamento con la Messa della vigilia presso la cattedrale di San Marco è sempre uno dei momenti privilegiati per i cristiani della capitale. Il papa Shenuda celebra insieme a molti vescovi del Santo Sinodo la Messa di mezzanotte alla quale partecipano solitamente personaggi eminenti della comunità copta e rappresentanti del governo. Al termine della celebrazione natalizia presso la cattedrale e nelle tante chiese sparse nel Paese, le famiglie si ritrovano insieme a condividere i doni e a consumare il pasto di Natale, chiamato fatta, un piatto a base di pane, riso, aglio e carne bollita. Il mattino seguente, poi, si è soliti fare visita ad amici e parenti, recando in dono il kaik, un particolare tipo di dolce natalizio.
Nel grande quadrilatero che comprende la cattedrale, la sede del papa, e la cripta con le reliquie di san Marco, la preparazione al Natale coinvolge in special modo i giovani seminaristi che studiano presso il seminario principale della Chiesa copta. Per i copti del Cairo il seminario è un’istituzione preziosa: circa la metà dei sacerdoti in servizio oggi è stata formata nelle sue aule. Ma anche molti laici hanno avuto modo di seguire i corsi di teologia e di sacra Scrittura che vengono proposti durante tutto l’anno. Nelle varie celebrazioni che si susseguono da Natale fino all’Epifania (che si celebra il 19 gennaio) la liturgia è solenne e molto curata, e si rifà alle tre liturgie di san Basilio, san Gregorio e san Cirillo. Per comunicarsi durante la celebrazione del Natale, come per ogni altra Eucaristia, il fedele copto deve osservare il digiuno durante le 9 ore precedenti.
Tra le più recenti istituzioni volute da papa Shenuda III all’interno della sede patriarcale, non possiamo dimenticare il Centro di studi superiori. Oggi l’edificio è stato completamente rinnovato e ospita al suo interno un museo permanente dedicato ad antichi codici copti miniati e una moderna biblioteca specializzata in coptologia e Oriente cristiano. Studenti da tutto il Paese frequentano il centro, che si propone come il cuore culturale dei copti d’Egitto.
La situazione del Paese, con la crescita del fondamentalismo islamico, non smette di preoccupare la Chiesa copta. Le festività natalizie degli ultimi anni sono state segnate purtroppo dal sangue in più occasioni. E il cammino dell’Egitto dopo la caduta di Hosni Mubarak ha chiesto ai copti un pesante tributo. Per questa ragione in quest’ultimo Natale, dalle comunità cristiane dell’Egitto si è levata una preghiera particolare anche alla Madre di Dio, affinché guidi e governi con il suo sguardo le sorti di un Paese ricco di storia, risorse e spiritualità, ma che vive un delicato momento di trasformazione.

Archeologia Biblica … UR DEI CALDEI

http://www.cstitalia.net/urdeicaldei.htm

Archeologia Biblica …    

UR DEI CALDEI

di ROBERTA BIAGIOTTI MENCARELLI

         Nell’articolo precedente abbiamo trattato della Torre di Babele, l’antica Etemenanki di Babilonia; ma c’è un’altra ziqqurat che affonda la sua storia nella notte dei tempi, la torre di una città misteriosa e remota quanto Babele: Ur dei Caldei, la città di Abrahamo.          Tutti i credenti sanno da dove proveniva il grande patriarca biblico; le cose si complicano quando però proviamo ad indagare su chi fossero questi Caldei e dove fosse situata Ur. Io per prima sono rimasta esterefatta dall’abissale incongruenza fra l’uomo di Dio che conosciamo dalla Genesi, e la città che l’ha formato: Ur – la città del dio-luna! Non un villaggio qualsiasi, ma una grandissima città, una metropoli del mondo antico, uscita dalle nebbie della leggenda solo nel 1922, grazie agli scavi di un grande archeologo, l’inglese Leonard Woolley.          Abrahamo – figlio di Tera, della discendenza di Sem – abitò ad Ur nella prima parte della sua vita. Genesi 11:28 ci dice che il fratello Haran nacque e morì ad Ur. Ma forse è più esatto dire che Abrahamo abitò nei dintorni di Ur, visto che in nessun punto della Bibbia si parla di lui come di un cittadino, ma bensì di un proprietario di greggi, uno sceicco. Il suo contesto sociale era però sicuramente pagano; in Giosuè 24:2 leggiamo che il padre di Abrahamo serviva altri dèi al di là del fiume Eufrate, cioè in Mesopotamia. Nessuno può umanamente spiegare come, da un padre adoratore di idoli, sia nato il patriarca monoteista per eccellenza. Solo Dio può aver fatto una tale opera, agendo nella vita di quell’uomo in un modo tanto anacronistico per quell’epoca – Dio che spinse, misteriosamente, la famiglia di Abrahamo a lasciare Ur, alla morte di uno dei fratelli. Si allontanarono dalla città di oltre 1000 Km verso nord, e ritornarono a Charan, città natale di Tera; e fu a Charan, alle porte di Canaan, che Abrahamo sentì la chiamata del Signore a lasciare definitivamente la Mesopotamia per quella che sarebbe divenuta la Terra Promessa (Genesi 12:1).          Il primo passo, dunque, era stato lasciare Ur, la città pagana consacrata al dio lunare, la divinità maggiore fra quelle adorate dal padre di Abrahamo. Siamo intorno al 1800 a.C., ma la città di Ur era già fiorente 2000 anni ed oltre prima di Abrahamo; le sue case patrizie, i suoi templi erano imponenti e lussuosi e gli abitanti Sumeri, vivevano in una realtà altamente evoluta, molti secoli prima del grande diluvio. Ancora oggi nessuno sa con certezza da dove siano venuti i Sumeri, le ‘teste nere » – come li definisce l’antica letteratura cuneiforme. Certo è che non erano semiti e che, incredibilmente, giunsero in Mesopotamia (forse dagli altipiani dell’Iran) con un bagaglio culturale che comprendeva la scrittura e conoscenze architettoniche grandemente evolute come l’arco, la colonna, la cupola, ossia tutto ciò che sarebbe stato usato, dopo di loro, per costruire altre grandi civiltà.          L’antica Ur sorgeva nella bassa Mesopotamia, sulla riva occidentale dell’Eufrate, proprio nel punto in cui questo fiume, unendosi al delta del Tigri, sfociava nel Golfo Persico; oggi, il mare è invece molto distante dai resti della città. A partire dal 2600 a.C., tre furono le grandi dinastie di Ur tipicamente sumere. Fra la seconda e la terza dinastia, si innestarono invasioni di popoli semiti (della discendenza di Sem – figlio di Noè, per intenderci) come gli Accadi, che spostarono la capitale da Ur ad Akkad, il cui sito archeologico non è ancora stato scoperto, ma che dovrebbe trovarsi più a nord, non lontano dall’antica Babilonia. L’impero accadico era però già al tracollo nel 2200 a.C., indebolito dalle scorrerie dei montanari Gutei, sconfitti poi a loro volta dai Sumeri di Uruk, città vicina ad Ur, che dettero il via alla III dinastia di Ur, la più importante, quella che vide sul trono un sovrano speciale Ur-Nammu, intorno al 2100 a.C., cioè tre secoli prima di Abrahamo. Ad Ur-Nammu si deve infatti la ricostruzione della parte monumentale di Ur, dalle mura ai templi maggiori dell’area sacra – il Temenos – attorno alla famosa ziqqurat da sempre paragonata alla torre di Babele.          La ziqqurat di Ur, conosciuta dagli archeologici con il nome di Tell-al-Muqayyar (monte dei gradini) ha avuto una storia travagliata, ma sicuramente una vita più lunga di quella dell’altra torre, visto che della ziqqurat di Babele ci rimangono solo le fondamenta riportate alla luce da Koldwey, mentre la ziqqurat di Ur è incredibilmente ancora in piedi! Certo, non è intatta. La sua storia comincia prima di quella delle grandi piramidi d’Egitto: 25 metri di altezza, 4 cubi sovrapposti rivestiti di rosso e d’azzurro e, sul gradino più alto, il più piccolo, il tetto dorato di un santuario, dove i sacerdoti e sacerdotesse svolgevano i loro riti in onore del dio lunare Nanna. Ciò che restava di tutto quello splendore è stato visto per millenni solo dai beduini del deserto, fino all’anno 1854, quando la carovana guidata dal console britannico J.E. Taylor, incaricato del British Museum di Londra, giunse sul tell deciso ad esplorarne l’interno, in cerca di statue antiche o di qualche tesoro nascosto. Ma non trovò altro che un ammasso compatto di mattoni rossi; e allora Taylor prese una delle decisioni più scellerate della storia dell’archeologia: demolire il gradino superiore della torre. Dopo settimane di distruzione, l’unico bottino consisté però in cilindri di terracotta coperti di iscrizioni in cuneiforme. Per altri decenni il Tell-al-Muqayyar ricadde nell’oblio del mondo occidentale, fino al 1923, con l’intervento, finalmente, di un vero archeologo: sir Charles Leonard Woolley. Quella torre diventerà il centro della sua vita assieme alle tante altre piccole collinette, i « tell » appunto, intorno alla ziqqurat. Lì sotto giacevano infatti i resti della zona sacra che circondava la torre: cinque templi, di cui i più grandi erano dedicati a Nanna e alla sua sposa – la dea Ningal. All’interno di ogni tempio, Woolley trova i resti di antiche vasche, fontane, e tavole di mattoni con profondi segni di coltello: li venivano squartati gli animali offerti alle divinità. Nelle cucine dei templi, i resti dei focolari che servivano a preparare le vivande dei banchetti sacrificali. Scrive Woolley nella sua relazione: ‘Dopo 38 secoli si può riaccendere il fuoco e rimettere in funzione la più antica cucina del mondo » (Da « La Bibbia aveva ragione » di W. Keller, ed. A.Garzanti, 1956, p. 18). Tre anni dopo, nel demolire una serie di piccoli telI a sud della torre a gradini, ecco la scoperta più grandiosa: l’intera città, la biblica Ur dei Caldei. Lunghe file di muri e facciate, alte fino a tre metri, inframmezzate da vie e piazze; grandi case molto più simili a ville, lussuose, a due piani, con anche 13 o 14 stanze. Una città enorme e molto più ricca della Babilonia di Nabucodonosor. E questo ben 1500 anni prima!          Una grande città che viveva intorno al commercio e al centro di culto, l’area sacra su cui ruotava la vita di centinaia di persone, di cui le sacerdotesse erano l’elemento di spicco. I loro riti consistevano soprattutto nella cura delle statue che personificavano le due divinità maggiori: Nanna e Ningal. Ad esse venivano quotidianamente offerti cibi e bevande e ci si prendeva cura delle loro statue adornandole di gioielli e vesti preziose. Secondo le più antiche tradizioni mesopotamiche, ogni anno si ripeteva il « matrimonio sacro » fra le due divinità, le cui statue lasciavano il tempo per essere trasportate nel luogo della cerimonia. A quel punto, alle statue si sostituivano il re e la grande sacerdotessa per consumare, in loro vece, il matrimonio. Tutto ciò fa pensare che, almeno in età antichissima, i re di Ur venissero considerati divini o almeno dei semi-dei. Ed è a questo fatto che si allaccia la macabra realtà che Woolley portò alla luce: quella che per millenni era rimasta sepolta nelle tombe reali di Ur.          All’interno della cinta muraria che racchiudeva il Temenos, Woolley scoprì antichissime tombe risalenti a circa 2600 anni prima di Cristo, durante la I dinastia di Ur, e di cui non era rimasta traccia nella letteratura sumerica giunta fino a noi. In quell’antichissimo cimitero, 16 tombe appartenevano a re e regine della città, e in esse si scoprì la realtà di quello che era stato un vero e proprio massacro rituale. Accanto al corpo dei personaggi reali, decine e decine di altri corpi. Le camere funerarie, di una o più stanze, venivano scavate profondamente nel terreno e vi si accedeva per mezzo di rampe a scivolo; li venivano deposti i corpi, circondati dagli oggetti preziosi usati in vita. Alcuni dei servitori più intimi venivano poi uccisi e i loro corpi deposti ai lati della bara. La porta della stanza veniva murata. A quel punto, scendevano nella fossa tutti coloro che dovevano accompagnare il defunto nell’al di là: ancelle, danzatrici, schiavi, soldati della guardia e persino i carri dei buoi, naturalmente insieme agli aurighi che li guidavano. Tutti si disponevano in file ordinate, prendevano una coppa, la riempivano da un grande vaso di bronzo collocato al centro della fossa, bevevano quello che doveva essere stato un potente narcotico, si sdraiavano ordinatamente e si addormentavano. Dall’alto, le lamentatrici gettavano la terra sui corpi; su quel macabro pavimento si svolgeva poi un banchetto funebre, e altre vittime venivano sacrificate. Così per due o tre strati, fino a che il livello della fossa non raggiungeva la superficie. Come ho detto, non ci è giunta testimonianza scritta delle motivazioni che spingevano ad un massacro del genere. Sembra però implicita la credenza che quei re fossero ritenuti di natura semi-divina; il narcotico bevuto volontariamente soltanto la cieca fiducia che quelle persone avevano, nell’accompagnare il padrone nell’altro mondo, di assicurarsi la continuazione del proprio onorevole servizio.          Ma le tombe reali di Ur nascondevano anche la verità su qualcosa di molto più prezioso per la storia dell’umanità cristiana. Nell’estate del 1929 Woolley decise di scavare al di sotto delle tombe, per cercare le tracce della vita di Ur prima del 2600 a.C. Ed ecco che sotto le tombe più antiche, dopo metri e metri di terreno sempre uguale ricco di frammenti di anfore e vasellame vario, appare improvvisamente un terreno diverso: argilla, come quella che può essersi formata solo dai sedimenti delle acque. Sabbia alluvionale lasciata da una remotissima e vastissima alluvione, molto più grande di quelle che poteva avere provocato l’Eufrate nel corso dei secoli. Tre metri di sedimenti argillosi, sotto i quali, nuovamente, il terreno torna normale, ma ricco di altri resti di abitanti umani. Questa volta, infatti, le ceramiche sono diverse: non più fatte di tornio, ma a mano, molto più primitive, dunque, datate 4000 anni prima di Cristo! Woolley aveva scoperto le tracce del Diluvio biblico, proprio sotto la città di Ur, dove sicuramente, in base ad ulteriori ricerche fatte in zone più a nord della Mesopotamia, il Diluvio aveva avuto l’intensità più catastrofica, nel punto, cioè, dove il delta dei due fiumi si apriva sul Golfo Persico; e ricordiamo che il mare un tempo era proprio alle porte di Ur, ai piedi della torre a gradini che vi si specchiava.          Ma torniamo ai tempi più recenti della città. Con la fine della III dinastia, si spense anche l’influenza di Ur e dei Sumeri nel mondo mesopotamico. Gli Elamiti (di origine semita) provenienti dalla Persia, dettero il colpo finale, assediando e saccheggiando la città; le statue dei suoi dèi furono portate a Susa. Così come avrebbe fatto il profeta Geremia quando compose le sue Lamentazioni sulla caduta di Gerusalemme per mano babilonese, così, molto tempo prima, fecero i superstiti abitanti di Ur, che composero la « Lamentazione per la distruzione di Ur » e la « Lamentazione per la distruzione di Sumer e di Ur ». Eccone un esempio: « O Nanna, fa che uomini fedeli – afferrandoti i piedi – portino a te le loro lacrime nel tempio silenzioso … Così, con il popolo delle teste nere allontanato da te – fa sì che tuttavia essi possano portarti obbedienza – con la città in rovina, – fa che essi possano implorarti piangendo, oh Nanna! Restaura la città, – falla ancora sorgere alla vista davanti a te – e non farla tramontare come tramontano le stelle luminose, – ma falla camminare alla tua vista! (da Ur. La città del dio-luna di Frances Pinnok, ed. Laterza 1995,p.232).          Dopo alterne vicende, Ur fu poi conquistata da Hammurabi di Babilonia verso il 1790 a.C., e poi dai Cassiti, i cui sovrani ricostruirono gli edifici dell’area sacra e ridettero un po’ di vita al clero di Nanna, ponendo ancora una volta, secondo la più antica tradizione, una figlia di re a capo delle sacerdotesse Ma poi arrivarono prima gli Assiri e poi ancora i Babilonesi di Nabucodonosor I, che dedicò un ex-voto d’oro in uno dei templi di Ur, e soprattutto il grande Nabucodonosor Il, il conquistatore di Gerusalemme, a cui si attribuisce l’ultimo imponente muro di recinzione dell’area sacra di Ur. Un rilievo particolare va però dato all’ultimo re babilonese – Nabonide (556 a.C.) – passato alla storia come il re archeologo. Era originario di Charan, ossia della città da cui proveniva la famiglia di Abrahamo. Sua madre sembra essere stata una sacerdotessa di Nanna nel grande santuario di Charan. Forse per questo decise di affiancare la triade divina babilonese di Marduk, Nabu e Nerbal la triade astrale formata da Shamash-il sole, Inanna’Ishtar-Venere e proprio Nanna la luna. Da lì le sue attenzioni per Ur, la città di Nanna, e per la sua ziqqurat, che fece ricostruire sul nucleo di quella rovinata di Ur-Nammu.          Ogni innovazione religiosa, si sa, scatena sempre le ire del clero tradizionalista; basta ricordare ciò che accadde al faraone Akhenaton d’Egitto – alias Amenophis IV – quando decise di cancellare tutte le divinità a favore di una sola: Aton-il Disco solare. Allo stesso modo, il clero babilonese finì per terrorizzare Nabonide con vaticini negativi, tanto che il re decise di tornare a Babilonia, portando però con sé le statue degli dèi di Ur, per proteggerle, forse. Ma ancora una volta la storia cambiò e sorse l’impero persiano di Ciro il Grande (539 a.C.), il sincretista protettore di tutti i culti che rimandò tutti gli dèi nei santuari delle loro città (per gli Ebrei, si trattò solo degli arredi sacri del tempio, naturalmente!). E così anche Nanna tornò a Ur. Ma già dal 535 a.C. si cominciarono a perdere le tracce della città i cui luoghi di culto furono probabilmente abbandonati poco a poco. Le rive dell’Eufrate si allontanarono inesorabilmente e la sabbia del deserto finì per seppellire ogni cosa.

« Siccome non vedeste nessuna figura il giorno che il Signore vi parlò in Oreb dal fuoco, badate bene a voi stessi, affinché non vi corrompiate e non vi facciate qualche scultura, la rappresentazione di qualche idolo, la figura di un uomo o di una donna, la figura di uno degli animali della terra…; e anche affinché, alzando gli occhi al cielo e vedendo il sole, la luna, le stelle, tutto l’esercito celeste, tu non ti senta attratto a prostituirti davanti a quelle cose e a offrire loro un culto, perché quelle sono le cose che il Signore, il tuo Dio, ha lasciato per tutti i popoli che sono sotto tutti i cieli ». Deuteronomio 4:15-19

LO CROCIFISSERO FUORI DALLE MURA DELLA CITTÀ – LA BASILICA DEL SANTO SEPOLCRO

http://www.gesustorico.it/htm/archeologia/golgota.asp

LO CROCIFISSERO FUORI DALLE MURA DELLA CITTÀ

La gigantesca basilica del Santo Sepolcro visitabile oggi a Gerusalemme comprenderebbe, secondo la più antica tradizione, sia il luogo della crocifissione di Cristo, il cosiddetto Golgota, sia il luogo del giardino dove era scavata la tomba della sepoltura di Gesù. Infatti, da quel che si può dedurre dai vangeli il luogo della crocifissione era nei pressi di un giardino (“nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo” Gv. 19,41) e in questo giardino doveva esserci della roccia dove Giuseppe di Arimatea si era fatto scavare una tomba (Mt. 27,60: e lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia)
L’altura sulla quale fu crocifisso Gesù doveva somigliare ad un cranio in quanto i vangeli ci informano che quel luogo era detto Golgota che in ebraico vuol dire “cranio”.
Nel 1883 arrivò a Gerusalemme il famoso generale inglese Charles George Gordon, il quale individuò un luogo a Nord delle mura della Città, a circa 200m dalla porta di Damasco, che aveva l’aspetto di un teschio e pensò che doveva essere questo il luogo di cui parlano i Vangeli.
Nei pressi di questa altura a forma di teschio vi è una tomba scavata nella roccia (chiamata oggi Tomba del Giardino) e quindi Gordon identificò appunto questo luogo con la tomba di Cristo. Ma in realtà studi archeologici hanno dimostrato che questa tomba non è dell’epoca di Cristo (I sec.) ma risale a diversi secoli prima (VIII o VII sec. a.C. ), in contrasto quindi a ciò che dice il vangelo, cioè che il sepolcro era nuovo.
Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto. (Gv. 19,41)
Il luogo è oggi frequentato soprattutto da protestanti, ma la Tomba del Giardino, non supportata da prove archeologiche, non può essere la tomba dove fu sepolto Gesù di Nazareth, e la stessa Chiesa anglicana lo ha da tempo riconosciuto.

La Tomba del Giardino
Resta da vedere, allora, se il vero sito storico della sepoltura di Cristo possa essere quello dove oggi sorge il Santo Sepolcro, e soprattutto se è vero, come dicono i vangeli, che questo luogo si trovava fuori dalle mura della città (cfr. Gv. 19,41 e Eb. 13,12), in quanto oggi si trova in pieno centro cittadino dentro le mura della Città Vecchia e quindi apparentemente in contraddizione con i Vangeli.

Basilica del Santo Sepolcro a Gerusalemme
Era usanza nella tradizione ebraica seppellire i morti fuori dalle mura cittadine; ma, a dir la verità, a Gerusalemme si era fatta eccezione per 2 tombe citate da Giuseppe Flavio in Guerra Giudaica che si trovavano dentro le mura perimetrali, e cioè quella del re Davide (I, 62) e quella del sommo sacerdote asmoneo Giovanni Ircano (V, 259.356). Ma in particolar modo era prescritto dalla Legge che le condanne a morte venissero eseguite fuori dalle mura. (cfr. Lv 24,14.23; Nm 15,35; Dt. 17,5, etc.), come anche possiamo vedere a proposito della lapidazione di Stefano: “lo trascinarono fuori della città e si misero a lapidarlo” (At 7,58) Ma come mai, allora, il Golgota, luogo dell’esecuzione di Gesù e dei 2 ladroni, si trova dentro la città vecchia?
È facile intuirlo: al tempo di Gesù quella zona del Golgota si trovava fuori dalle mura della città; solo che fino ad alcuni decenni fa mancavano le prove.
Stiamo parlando della scoperta dovuta all’archeologa inglese Kathleen KENYON che nel 1963 condusse degli scavi nella zona del Muristan, a sud della Basilica del S. Sepolcro. La Kenyon appurò che in quella zona non vi erano resti di abitazioni che si potevano far risalire al I sec. d.C. e inoltre all’epoca di Cristo quella era una zona adibita a cava che però era stata abbandonata per la scarsa qualità della pietra (al tempo di Cristo erano usati altri siti come cave). L’archeologa inglese provò quindi che questa collinetta del Golgota (probabilmente con la cima arrotondata che faceva pensare ad un cranio) era fuori dalle mura di Gerusalemme, e in particolare fuori da quelle che Giuseppe Flavio chiama le “seconde mura”, quindi provando che è vero ciò che dice il NT a proposito del Golgota è: “egli patì fuori dalle mura della città” (Eb. 13,12).
E inoltre, proprio perché era una cava andata in disuso, fu adibita a zona di sepolcri e discarica. Ricordiamo che i condannati alla crocifissione, una volta morti venivano lasciati in pasto ai cani e agli uccelli, oppure gettati in zone di discariche.
Nella zona della cava abbandonata era stata scavata nella roccia la tomba di Giuseppe d’Arimatea e che poi fu il sepolcro di Gesù: lo depose nella sua tomba nuova, che si era fatta scavare nella roccia (Mt 27,60). Anche oggi, poco distante dall’Edicola del S. Sepolcro è possibile visitare una tomba risalente all’epoca di Gesù.
Ma la scoperta della Kenyon prova anche un altro dettaglio messo in luce dal vangelo di Giovanni.
Gli scavi archeologici hanno provato che dal momento che la pietra di quella zona non era buona, la cava fu riempita di terra e quindi si formò un giardino attorno alla collinetta del Golgota: Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora deposto.(Gv. 19,41). Altro riferimento al giardino è dato nel capitolo successivo: “Essa, pensando che fosse il custode del giardino…” (Gv. 20,15).
Se allora quella zona attorno al Golgota era diventato un giardino doveva anche esserci una cisterna d’acqua. E infatti, se si scende nella cosiddetta Cappella dell’Invenzione della Croce ( luogo dove furono rinvenuti i resti della croce di Cristo nel IV sec. dall’imperatrice Elena), “si vedono bene i tagli nella roccia dell’antica cava di pietra. Le pareti sono intonacate con materiale idraulico, il che fa pensare ad un uso del luogo come cisterna” (Eugenio Alliata in: Gerusalemme, Studium Biblicum Franciscanum, 2001).

sul sito:

Resti della cava nel luogo del Golgota

(Foto tratte da: Custodia di Terra Santa)

I VIAGGI DI SAN PAOLO IN GRECIA ASPETTI ARCHEOLOGICI

http://www.fratesole.com/wp-content/uploads/I-VIAGGI-DI-SAN-PAOLO-IN-GRECIA-di-Maria-Cristina-Ricci.pdf

(non ho trovato note)

I VIAGGI DI SAN PAOLO IN GRECIA ASPETTI ARCHEOLOGICI

di Maria Cristina Ricci

tratto dal sito www.instoria.it

La cronologia relativa a San Paolo è stata oggetto di svariati studi, ed ancora oggi gli esegeti non sono del tutto concordi; nel testo è stata seguita la datazione proposta da R. Fabris, che colloca il secondo viaggio missionario di San Paolo negli anni 50-52 d.C.; A. Penna propone una cronologia compresa tra gli anni 50-53 d.C., mentre M. Adinolfi tra il 49 ed il 52 d.C. Il viaggio si svolse per terra e per mare.
Tra le strade percorse da Paolo va ricordata la via Egnazia. Costruita con chiari intenti militari, da Apollonia-Dyrrachion attraversava i Balcani, toccando in Macedonia Eraclea, Edessa, Pella, quindi i centri interessati dal viaggio di san Paolo, da Tessalonica a Neapoli. Superata la Tracia, la strada giungeva fino all’Ellesponto e a Bisanzio. La sua cronologia è ancora motivo di discussione: F.W. Walbank ritiene possibile che la strada sia stata costruita qualche anno dopo la riduzione a provincia della Macedonia (146 a.C.). Al contrario G. Molisani tende ad alzare la cronologia agli anni immediatamente successivi al 168 a.C., quando i Romani sconfissero Perseo, in base a due iscrizioni che riportano il nome di Cn. Egnatius: la prima, scoperta a Corinto sul basamento di una statua, secondo Molisani è precedente al 146 a.C. (anno in cui Corinto fu distrutta), la seconda, trovata a Lucus Feroniae, è di età repubblicana (lo studioso pur con qualche incertezza suggerisce di sciogliere l’abbreviazione PR PR di quest’ultima iscrizione con praetor proconsole; anche se gli ex pretori potevano governare province di media importanza, va però detto che questo scioglimento è piuttosto insolito). F.W. Walbank tuttavia non accetta una datazione così alta e ritiene più plausibile che il Cn. Egnatius della strada omonima sia stato, nel 145 a.C., il diretto successore di Metellus Macedonicus, primo governatore della provincia macedone. Inoltre non è escluso che la persona citata nell’epigrafe di Corinto abbia vissuto in questa città anche dopo il 168, periodo in cui avrebbe comunque potuto offrire i propri servizi a L. Antonius Damonicus, i cui figli fecero costruire la statua dedicatoria.Anche sull’interpretazione di PR PR data da G. Molisani lo studioso ha sollevato alcuni dubbi, notando che il miliario scoperto a Gallico, in cui compare il nome di Cn. Egnatius, presenta l’abbreviazione PRO COS (proconsul), che, in base a quanto riportato, andrebbe sciolta come praetor proconsule, dando luogo ad una evidente forzatura.Per Aik. Romiopoulou Cn. Egnatius appartenne alla tribù Stellatina, rivestendo la carica di proconsole tra gli anni 146 e 120 a.C.; St. Samartzidou, che ha esaminato un altro miliario trovato ad Amygdaleon, con un’iscrizione bilingue in cui compare il nome di Cn. Egnatius, si limita a presentare le varie ipotesi avanzate dai suoi predecessori.Il viaggio di Paolo per Atene invece si svolge per mare, probabilmente partendo da Pidna o da Dium; è probabile che la rotta abbia costeggiato la Tessaglia passando successivamente per il mare Euboicum attraverso lo stretto dell’Euripo e doppiando il Capo Sunio. Molte fonti attestano il passaggio delle navi attraverso lo stretto dell’Euripo, nonostante fosse largo solo 60 m. e le sue correnti, in base alla testimonianza di Strabone, Seneca, Plinio e Pomponio Mela, cambiassero frequentemente corso di giorno e di notte; anche il Casson sostiene che San Paolo lo abbia attraversato. Di diverso avviso è il Fabris, che considerando la pericolosità di questo tratto di mare, ha ipotizzato che l’Apostolo sia passato al largo dell’Eubea. Da Atene a Corinto, mancando elementi interni al testo che indichino un viaggio per nave, forse Paolo seguì un tratto della via Sacra e la via Scironiana; da questa strada, attraversato il Diolkos, si poteva raggiungere Corinto da nord, passando per il porto del Lechaion, oppure da sud, superando Isthmia e Kenkreai.Il viaggio in Asia Minore si era concluso con l’imbarco da Troade in Frigia alla volta della Macedonia, dove San Paolo ed il suo seguito approdano dopo aver oltrepassato Samotracia. Neapoli (At. 16,11) Il porto che li accoglie è quello di Neapoli, punto di scalo della più importante Filippi, ad esso collegata dalla Via Egnazia; questo centro portuale, tappa di passaggio per Paolo, non ha lasciato grandi tracce della sua passata esistenza (At. 16,11; sul suo sito è sorta l’odierna Kavala, la cui presenza non ha permesso di condurre in quest’area opportune indagini archeologiche).Al contrario, lungo il tratto di strada di circa 12 miglia che unisce l’antica Neapoli a Filippi, nella località di Vassilaki vicina al villaggio di Amygdaleonas, sono stati riportati alla luce i resti di una fonte e di alcuni pozzi, identificabili con la statio Fons co; segnalata nella Tabula Peutingeriana tra Filippi e Neapoli col disegno stilizzato di un tempio; per i Levi indicava la presenza di alloggi per i viandanti, mentre per Bosio un importante centro culturale che avesse anche la funzione di mansio.
La via Egnazia da Neapoli si dirigeva verso ovest, lungo un percorso che fu successivamente ripreso in età medievale dalla strada lastricata del monastero di San Silas; attraversato lo stretto passaggio tra le pendici del monte Symbolon la strada girava intorno ad una collina fortificata, ai cui piedi sono stati trovati i resti della fonte, superava l’odierna Amygdaleon per proseguire nella piana di Filippi con orientamento SudEst-NordOvest. Filippi (At. 16,12-40) All’altezza della località Megalo Lithari, dove fu eretto il monumento al legionario Gaio Vibio Quarto e dove la presenza di una fonte aveva inizialmente portato a credere che qui si trovasse Fons CO, la strada piegava bruscamente ad angolo retto e si dirigeva ad ovest, nella città di Filippi, che sorgeva al centro di una zona molto fertile, ricca di fiumi e ruscelli; oggi la sua posizione è messa in evidenza da un’ansa piuttosto accentuata della strada Kavala-Dramas, a circa 12 km a nord di Kavala. Dalla grande Porta di Neapoli, difesa da due torri avanzate, la Via Egnazia, passando lungo il lato settentrionale del foro, attraversava la città della quale era l’asse urbano principale. Qui San Paolo inizia a diffondere il nuovo Credo, rivolgendosi soprattutto alla comunità ebraica del posto che, per celebrare i propri riti (il luogo di preghiera probabilmente era un recinto a cielo aperto), si riuniva il sabato fuori da Filippi oltre la porta occidentale, nei pressi di un fiume (At.16,13). Probabilmente i Giudei non volevano celebrare i loro riti in un ambiente in cui prevalevano i culti pagani; inoltre non è da escludere che questa comunità fosse talmente piccola da non potersi permettere di costruire una sinagoga. Durante il suo regno Claudio aveva emanato una legge secondo cui gli ebrei, a causa dei recenti tumulti che avevano causato, non potevano risiedere a Roma; è possibile che qualche colonia abbia seguito l’esempio della capitale. La frase “Venuto il sabato, andammo fuor di porta, presso al fiume, dove pareva che fosse il luogo della preghiera” si riferisce con ogni probabilità ad una porta, identificata da alcuni con una volta monumentale, ancora esistente ai tempi di Collart, che sorgeva presso le sponde del fiume Angites. L’arco, dalle linee semplici e a fornice singolo, era stato costruito sulla linea del pomerium; la zona compresa tra questo e la cinta muraria era considerata sacra. Tuttavia, se lo si confronta con monumenti simili (ad es. ad Aosta e a Gerasa) si nota che in genere la loro distanza dalle mura non supera i 400 m, mentre in questo caso raggiunge i 2 km.; di conseguenza Frothingham ha considerato il monumento di Filippi un arco territoriale che
marcava la zona rurale della città, non quella urbana.Secondo altri studiosi invece questo monumento commemorava la battaglia di Filippi che in effetti si era svolta nelle vicinanze, mentre Koukouli-Khrysantaki identifica più semplicemente l’arco con la porta occidentale della città, e riconosce nel fiume citato uno dei tanti ruscelli che scorrono nel territorio di Filippi; tuttavia ogni ipotesi presentata non ha avuto finora conferma, quindi la questione è ancora aperta. Invece sulla presenza di ebrei a Filippi è stata scoperta di recente, presso il cimitero ovest, una stele molto interessante, che conferma l’esistenza di questa comunità. Si tratta di una lastra in marmo locale, la cui larghezza diminuisce verso la base, lavorata rozzamente, priva di cornice, con sommità curva. Le numerose scheggiature presenti lungo i bordi, specialmente quelle sul lato sinistro e sulla sommità, non impediscono la lettura dell’epigrafe greca che al primo rigo è preceduta da una foglia d’edera. Le dimensioni sono: altezza 90 cm, larghezza alla sommità 70 cm, larghezza alla base 58 cm; lo spessore varia dai 10 ai 15 cm; le dimensioni delle lettere hanno un’altezza tra i 3 ed i 5,5 cm. Catalogazione: trovata nel cimitero occidentale di Filippi, è oggi conservata nel museo della città.
NIKOSTRATO
AUR.OCUCOLIOS
EAUTO KATASKEU
BASA TO CAMWSO
RON TOUTW. OS AN DE
ETERWN NEKUN KATAQE
SE DWSIPROSTEIMOU THSU
NAGWGH Q MR
“Nikostratos Aurelios Oxycholios stesso ha costruito questa tomba. Se qualcuno vi deporrà il cadavere di altri pagherà una multa alla sinagoga”.Dallo studio dei nomi di vari ebrei stabilitisi in Grecia è emerso che era piuttosto comune usare la lingua e l’onomastica greca (Nikostratos Oxycholios) oltre al gentilicium romano (Aurelios); tuttavia ciò non dimostra che questa minoranza si fosse integrata con la gente del posto.
In particolare l’analisi del nome ricordato nella stele permette la datazione della tomba, poiché il gentilicium indica una data non antecedente al 212 d.C., anno dellaConstitutio Antoniniana, e il cognomen greco Oxycholios compare solo a partire dal III sec. d.C. Di conseguenza la tomba è d’epoca posteriore al viaggio di San Paolo, ma costituisce una testimonianza tangibile dell’esistenza a Filippi di una comunità ebraica nel III sec. La predicazione in questa città si rivelò fruttuosa e portò alla conversione di Lidia, una commerciante di porpora, e della sua famiglia (At. 16,14). La guarigione di una schiava posseduta, che aveva la facoltà di predire il futuro, fu per i padroni motivo di profondo risentimento nei confronti di San Paolo, a tal punto che lo condussero nella pubblica piazza affinché fosse giudicato dai capi della città. L’agorà cui si fa riferimento nel testo greco (At.16,18) oggi presenta solo resti di fase antonina; le indagini di scavo hanno mostrato che alcuni edifici pubblici, tutti orientati a NordEst-SudOvest, sono stati rifondati, con le stesse funzioni ma con un’architettura più imponente, sullo stesso sito
occupato dalle strutture preesistenti.Il lato occidentale della piazza aveva carattere prevalentemente amministrativo, quello orientale era dedicato al culto dell’imperatore e della sua famiglia, mentre lungo il lato meridionale erano disposte delle botteghe. Il lato settentrionale infine era chiuso da una fila di monumenti che fiancheggiavano la tribuna degli oratori, o bema, formato da una struttura indipendente (infatti non era il prolungamento del pronao di un tempio, né dipendeva da una scalinata anteriore) addossata alle mura del Foro e alla strada, in modo da dominare così tutta l’area della piazza. Secondo alcuni Paolo fu giudicato proprio di fronte al bema, sebbene altri propongano di cercare il luogo del processo tra gli edifici del lato occidentale dell’agorà, dove, nell’angolo NordOvest, è stata localizzata la curia, sede degli strategoi o archontes, cui era affidato il compito di giudicare i reati di tradimento e di impietas (asebeia, capo di accusa contro Paolo secondo la voce del popolo). Anche questa struttura fu ricostruita nel II secolo d.C. nello stesso sito occupato durante la fase giulio-claudia. Nell’area centrale del foro si ergevano numerosi monumenti e statue dedicati a cittadini di rilievo(vedi ad esempio l’iscrizione per M. Lollius di I sec. a.C.), ad antichi re traci (vedi l’iscrizione per Roemitalces, che si schierò con Roma per reprimere varie ribellioni sviluppatesi in Tracia nel corso del primo trentennio del I sec. d.C.) e ad imperatori tra cui spiccano un ritratto di marmo in onore del giovane Ottaviano o di Gaio Cesare, risalente ai primi venti anni del I sec. d.C., ed un altro di Lucio Cesare, dello stesso periodo. Con le loro accuse i padroni della schiava riuscirono a far rinchiudere in prigione Paolo e Sila (At.16,23), finché un terremoto di notevole intensità, verificatosi nella notte, non convinse i capi a liberare i due prigionieri, che nel frattempo avevano reso noto il loro stato di cittadini romani (At.16,26). Per lungo tempo è stata identificata con la prigione una struttura romana, probabilmente una cisterna, inglobata nel cortile rettangolare che precedeva l’atrio della Basilica A (V sec.); la presunta prigione diventò luogo di culto cristiano dal periodo in cui vennero distrutte la Basilica A e l’Ottagono (fine VI – inizi VII sec.), come attestano gli affreschi lì ritrovati. Recentemente M. Torelli ha ipotizzato che in origine il cortile appartenesse a un tempio romano orientato come l’ala occidentale del Foro, con cui comunicava tramite la scalinata collegata con l’arco d’ingresso e visibile davanti alla cisterna. Ch. Koukouli Chrysantaki sostiene che la cisterna fosse annessa ad un edificio romano inglobato nel complesso della Basilica A, insieme ad un altro edificio esistente ai tempi di Paolo, un piccolo tempio formato da un pronaos ed una cella e costruito in marmo (probabilmente questo edificio templare risale al IV sec. a.C., ed era connesso con il culto di Filippo II, come fa supporre un’iscrizione riutilizzata in un muro della basilica). Ripreso il viaggio, Paolo e Sila si diressero verso la città di Tessalonica; il percorso della Via Egnazia a questo punto attraversava il ponte scoperto nei pressi del villaggio di Mavrolefki e la piana di Filippi fino alla mutatio ad Duodecimum, citata solo nell’Itinerarium Hierosolymitanum, 604,2, ed individuata tra la stazione ferroviaria di Fotalivi e il raccordo con la strada Eleutheropolis – Drama.A questo punto, arrivata alle pendici settentrionali del monte Pangeo, la strada formava un arco e raggiungeva la mutatio Domerus (il cui nome è la forma corrotta della parola doberus (“castello” in macedone). Il sito di questa tappa potrebbe trovarsi presso il moderno villaggio di Straviki (Draviskos). Anfipoli (At. 17,1) Da qui la strada, dirigendosi a sud, conduceva direttamente ad Anfiboli sorta su una collina (154 m s.l.m.) sulla riva destra della grande ansa che il fiume Strymon forma poco prima di sfociare nel Golfo di Orfani. Questo centro è citato in At. 17,1, come semplice punto di passaggio: il tratto meridionale delle mura cittadine presenta un’interessante porta rinforzata con una torre rettangolare all’interno ed una simile all’esterno, separate da un cortile: in età augustea la porta fu restaurata, secondo quanto riportato dalle iscrizioni di due basamenti di statue poste ai suoi lati. Forse questa porta costituiva l’uscita dalla città della via Egnazia, che entrava ad Anfipoli da nord, probabilmente in corrispondenza con il ponte ligneo tramite cui nel 424 a.C. Brasida riuscì a penetrare nella periferia della città e a conquistarla. Prima di giungere alla città di Tessalonica la Via Egnazia passava per le tappe Pennanae Perpidis , forse identificabile con l’Argilo citata da Erodoto, oggi individuata presso Asprovalta; da qui la
strada costeggiava il golfo fino alla moderna Kato Stavròs per poi penetrare nell’entroterra e arrivare aPeripidis (nelle strette vicinanze di Rendìna), situata sulle coste orientali del lago Volvi (l’antico Bolbe), e ritenuta il luogo dove fu sepolto Euripide (la parola Peripidis è una forma corrotta per Euripidis). Apollonia (At. 17,1) Sulle coste meridionali del lago sorgeva Apollonia, altro punto di passaggio nel viaggio missionario di San Paolo (At.17,1); la situazione di questa città è unica tra tutte quelle ricordate, perché non è ancora stata individuata con certezza la sua posizione, sebbene si siano susseguite numerose ricerche nel corso degli anni, dalla fine del secolo XIX ad oggi; in base agli studi più recenti il sito potrebbe essere localizzato nella zona compresa tra i fiumi Megalo Reuma e Cholomontas Reuma (gli antichi Amnites ed Olinthiakos), lungo la strada Apollonia – Marathousa, dove sono stati trovati sia frammenti ceramici risalenti all’età classica ed ellenistica, sia i resti di una cinta muraria. Tessalonica (At. 17,1-9) La Via Egnazia, proseguendo il suo percorso, raggiungeva Herakleustibus sorta a metà strada tra i laghi Volvi e Koronia, dove oggi sorge il villaggio di Stivos. Oltrepassati questi siti arrivava a Melissurgin (Aghios Vassilikos), presso le coste sud-occidentali del Lago Koronia; quindi la strada si dirigeva a nord fino a Duodecimum oDuodea, che probabilmente si trovava nella zona compresa tra i villaggi di Laina e Kisla.Con una larga curva la strada girava verso sud entrando nella città di Tessalonica, l’ultima delle tappe citate negli Atti raggiungibili tramite la via consolare romana.La via Egnazia collegava la Porta Cassandreotica (Porta Calamaria) ad est con la Porta d’Oro (oggi Porta Vardar) ad ovest, probabilmente lungo il tracciato di una strada urbana di età ellenistica. Nella città esisteva una fiorente comunità ebraica, cui facevano riferimento tutti i Giudei di questa zona della Macedonia. San Paolo si diresse subito tra loro e per tre sabati predicò nella sinagoga (At. 17,2).Il successo riscosso soprattutto tra i greci e tra le nobildonne del posto causò una violenta ribellione tra i Giudei, che decisero di portare di fronte ai capi della città Sila e Paolo; non avendoli trovati a casa di Giasone, che li aveva ospitati, portarono lui ed altri cristiani davanti al popolo (At. 17,5). Della sinagoga e della casa di Giasone, come di numerosi edifici citati da altre fonti, non sono state rinvenute tracce, mentre alcuni saggi di scavo nell’agorà tardo romana condotti al di sotto del lastricato pavimentale hanno riportato alla luce una statua di Atlante tardo ellenistica e frammenti ceramici di età poco precedente, che documentano l’esistenza della fase ellenistica dell’agorà. Non mancano testimonianze risalenti ad età repubblicana: ad Ovest dell’agorà si apre uno spazio libero in cui probabilmente in età romana fu edificato un luogo di culto imperiale, come attestato da una statua di Augusto venuta alla luce nel 1939; inoltre in una casa di Via dell’Olimpo è stata scoperta un’iscrizione del 60 a.C. In base a quanto riportato da Cicerone, che visse per un certo periodo a Tessalonica, c’era un Quaestorium di cui non si sa nulla, come sono sconosciuti il palazzo e la piazza con un tesoro seppellito al centro di cui parla Diodoro Siculo; secondo Vickers si potrebbe ipotizzare che il palazzo fosse quello di Filippo V, il quale trascorse gli ultimi anni della sua vita a Tessalonica. La notte dello stesso giorno in cui Giasone ed i cristiani che con lui erano stati portati a giudizio  vennero liberati, Paolo e Sila furono costretti a riprendere il loro viaggio verso Berea. Berea (At. 17,10-14) La prima parte del viaggio per questa città si svolgeva ancora lungo la via Egnazia, che superava le tappe ad Decimum e Gephyra , stazione al ponte sul fiume Axios, fino all’altezza dell’odierna Nea Khalkhidon da dove partiva un’antica strada che si dirigeva a SudOvest verso Berea ed Atene, stazione che si potrebbe localizzare nelle prossimità del villaggio di Yefira, che si affaccia sulla riva occidentale destra del fiume, oppure sulla sponda sinistra, nel punto in cui passa la ferrovia da Belgrado. La presenza di una fiorente città moderna, Veria, sorta su quella antica, ha reso praticamente impossibile la scoperta di strutture. Abbiamo invece numerose epigrafi. A Berea le parole di San Paolo ricevono un’ottima accoglienza tra alcune nobildonne del posto e tra i Giudei che frequentavano la sinagoga; l’eco di questo successo giunge fino a Tessalonica, dove coloro che avevano già una volta ostacolato l’opera missionaria di Paolo decidono di intervenire contro di lui anche in questa città (At.17,10). Nuovamente in pericolo, Paolo viene portato verso la costa, come riportato in At. 17,14), sul Golfo Termaico, dopo aver superato Acerdos, forse detta anche Ascordus, da un fiume ricordato da Livio che successivamente ha cambiato nome in Palatisa 5; e Aloros o Arulos, sito non ha ancora una localizzazione certa: Plinio ricorda che la città si trovava tra Pidna e il fiume Haliakmon, mentre Strabone la colloca a 70 stadi da Methone, in Bottiaea e non in Pieria; o a Dion (localizzata nei pressi di Malathria) o, ancora più a sud, a Sabatium , il cui sito è stato localizzato a Nord dell’odierna Platomona. Pritchett registra altre due tappe tra Pidna e Dion, Anamo, localizzata presso Korinos, a 9-10 km da Pidna, eHatera, che probabilmente corrisponde all’odierna Katerine. Atene (At. 17,15-34) Probabilmente per arrivare ad Atene Paolo preferì imbarcarsi, in quanto un viaggio via terra attraverso la Tessaglia, oltre ad essere estremamente lungo, era anche piuttosto pericoloso per la presenza di predoni. Preso il mare da Pidna, dopo aver costeggiato la Tessaglia, la rotta doppiava il capo Sepìas, si inoltrava nel mare Euboicum, toccava Calcide e, attraversato lo stretto dell’Euripo, puntava verso il capo Sunio per risalire poi lungo la costa occidentale dell’Attica fino ad Atene. Secondo R. Fabris Paolo sbarcò nel porto del Falero, più piccolo del Pireo, dove attraccavano le grandi navi da guerra, ma più vicino alla capitale: il porto del Falero per le sue dimensioni era  preferibile per l’attracco di piccole imbarcazioni destinate al traffico locale; al contrario il Pireo ospitava spesso grandi navi mercantili e da guerra. La testimonianza di Strabone ricorda che il Falero era il primo demo sulla costa ad est del Pireo, e Pausania lo colloca a venti stadi da Atene; queste indicazioni hanno favorito l’identificazione del sito della città con l’area del promontorio in cui sorge la Chiesa di Haghios Georgios, mentre ‘ampia rada della spiaggia di Phaleron tra il promontorio e Mounychia ad Ovest probabilmente era il porto.
Seguendo la strada che collegava il Falero ad Atene, si arriva alla porta sud, detta anche Halàde, sbucando proprio di fronte alla Stoà di Eumene, al Teatro di Dioniso e all’Odeon di Pericle, alle cui spalle sorge l’Acropoli. In At 17,16 viene evidenziato come Paolo si irritasse nel vedere quanti idoli fossero sparsi per la città (At. 17,16), in cui sorgeva un numero notevole di templi. Passando lungo la via delle Panatenee, che tagliava trasversalmente l’agorà, era possibile ammirare le stoai che ne occupano il lato settentrionale e parte di quello occidentale, dove si dispongono anche il tempio di Apollo Patroos, il Metroon e la Tholos; il lato orientale della piazza è costituito dalla grandiosa stoà di Attalo, ed anche il lato meridionale consiste in un portico, la stoà di mezzo, che separa l’agorà principale dall’agorà sud. Di fronte alla stoà di Attalo si trova il bema, da dove San Paolo potrebbe aver parlato alla gente che affollava la piazza. Nell’area interna, invece, dominano a sud il monumentale Odeon di Agrippa, intorno al quale si dispongono l’altare degli Eroi Eponimi, quello di Zeus Agoraios, costruito originariamente sulla Pnice, ed il tempio di Ares, che fu trasportato qui dal demo di Acharnai durante il regno di Augusto. Inoltre, sul Kolonos Agoraios, la collina ad ovest dell’agorà, svetta il tempio di Efesto, altro notevole simbolo del culto pagano ad Atene. In un simile ambiente, aperto alle novità, le parole di Paolo furono inizialmente accolte con interesse da alcuni filosofi, epicurei e stoici, i quali lo portarono sull’Areopago (At.17,18), o colle di Ares, che era la sede del più antico tribunale di Atene e del primo Parlamento aristocratico; dalla seconda metà del V sec. in poi qui si esercitò solo il potere giuridico e si svolsero i processi per i casi di omicidio. Secondo la testimonianza di Pausania sull’Areopago c’era un altare dedicato ad Atena Area, formato da due pietre (la Pietra dell’Implacabilità e la Pietra della Violenza), sulle quali salivano da un lato l’accusatore, dall’altro l’imputato; sempre in questa zona sorgeva anche il Santuario delle Erinni, in cui erano conservate – oltre alla tomba di Edipo, posta all’interno del recinto – le statue di queste divinità insieme con quelle di Plutone, Ermes e Gea; in genere qui gli imputati prosciolti ringraziavano gli dei facendo sacrifici in loro onore. Oggi non restano tracce di questo altare, e nemmeno di quello visto da San Paolo dedicato al Dio Ignoto (At. 17,23). Il messaggio cristiano tuttavia non fu compreso dagli Ateniesi, i quali trovavano assurdo il concetto di resurrezione; negli Atti viene ricordato il nome di un solo convertito, Dionigi l’Areopagita, e la mancanza nell’epistolario paolino di riferimenti ad Atene fa pensare che qui non si formò una comunità cristiana come era successo nelle precedenti città (At. 17,32). Corinto (At. 18,1-26) In seguito a questi eventi Paolo lasciò Atene, proseguendo il suo viaggio verso Corinto (At. 18,1); sebbene gli Atti tacciano riguardo alla strada (o alla rotta) percorsa, in genere viene accettata l’ipotesi di un percorso via terra, lungo la famosa Via Sacra fino ad Eleusi e poi per la Via Scironiana. La Via Sacra, fiancheggiata lungo tutto il suo percorso da numerosi monumenti funebri e altari, da Atene passava per la località Sciro, quindi per il demo dei Laciadi; tra i vari monumenti che si incontravano lungo la strada, alcuni sono stati individuati nel luogo in cui ora sorgono delle chiese bizantine, come nel caso del sacro recinto di Zeus Meilichios, i cui resti sono stati riutilizzati per la chiesa di Haghios Sabas, o del tempio di Kyamites, oggi Haghios Gheorghios. Prima di entrare nel territorio di Eleusi era necessario superare i Riti, due laghetti di acqua marina che costituivano uno dei punti di confine tra il territorio ateniese e quello eleusino: il più piccolo dei due era legato al culto di Demetra, mentre l’altro a quello di Kore. Dopo aver oltrepassato la zona detta Reggia di Crocone, dal nome del primo signore di Eleusi, il percorso raggiungeva un ponte, di cui restano tracce di età adrianea, tramite cui si superava il Kephisos (Sarantapotamos); quindi si arrivava ad Eleusi.Dalla tappa successiva, Megera, si proseguiva per un breve tratto lungo ca. 4 km prima di imboccare la Via Scironiana, una strada lunga 9 km a strapiombo sul mare, nota per la sua pericolosità fin dai tempi più antichi; successivamente, attraversata la piana litoranea di Kinetta, si giungeva a Krommyon (Haghii Theodori), che sorgeva in un punto strategico lungo il lato nord del Golfo Saronico, e a Schoinous. Superato il Diolkos presso l’estremità meridionale, le tappe successive in direzione sud erano il Santuario di Poseidon, Isthmia, e Kenchreai, da dove il percorso arrivava nel cuore della città attraversando la stoà sud dell’agorà; se invece Paolo proseguì il viaggio fino al Lechaion, probabilmente entrò a Corinto da nord, lungo la strada del Lechaion, che portava anch’essa nell’agorà, tagliandone il lato settentrionale.Il Diolkos era la principale via di comunicazione tra il golfo Saronico e quello di Corinto, che permetteva un facile trasporto delle navi via terra; costruito nel VI sec. a.C. durante la tirannide di Periandro questo passaggio era formato da blocchi di pietra calcarea (oggi è possibile vedere i profondi solchi lasciati dal passaggio delle navi che di solito erano sistemate su piattaforme per il trasporto); la larghezza della strada poteva raggiungere i m 6 da un minimo di m 3.40. Delle sue estremità quella occidentale consisteva in un molo pavimentato, mentre l’altra fu risistemata nel corso del IV sec. a.C.; l’utilizzo del Diolkos è attestato fino al IX sec. d.C. Al suo arrivo Paolo viene accolto da una coppia di giudei, Priscilla e Aquila, che erano stati costretti ad abbandonare l’Italia a causa dell’editto di Claudio (At. 18,2); in quegli anni infatti si era manifestato un irrigidimento dell’impero nei confronti del mondo giudaico, tanto da indurre l’imperatore stesso ad ordinare che tutti i giudei residenti a Roma lasciassero la città. Questa notizia è riportata anche da Svetonio il quale però riferisce che l’ordine di espulsione era limitato ai soli seguaci di Cristo. San Paolo a Corinto seguitò a diffondere la Parola di Dio ogni sabato nella sinagoga, mentre durante la settimana lavorava come fabbricante di tende presso i suoi ospiti; egli aveva rivolto la sua predicazione anche alle famiglie pagane, e nonostante la reazione ostile di alcuni giudei nei suoi confronti, in molti, corinzi ed ebrei – tra cui va annoverato il capo della sinagoga Crispo – abbracciarono la nuova fede. L’animosità dei giudei rimasti fedeli al culto ebraico era rimasta viva, a tal punto che, ad un anno e mezzo dal suo arrivo, Paolo fu trascinato nell’agorà davanti al tribunale di Gallione, allora proconsole dell’Acaia, con l’accusa di diffondere un culto diverso da quello giudaico (At. 18,11). In quel periodo Corinto era una delle più importanti e ricche città della Grecia, e l’agorà aveva beneficiato di questa situazione: divisa in due da una fila di edifici con orientamento SudOvestNordEst, la piazza era occupata nella parte inferiore da numerosi templi che si disponevano lungo il suo lato occidentale, da una stoà e dalla grande via per il porto del Lechaion sul lato settentrionale. Ai lati di questa strada si affacciavano altri imponenti edifici, come la basilica settentrionale, un lungo e stretto edificio – all’interno un colonnato delimitava un grande ambiente – che veniva utilizzato come tribunale. L’agorà superiore era caratterizzata dalla monumentale stoà, che ne occupa tutto il lato meridionale; alle spalle di questo portico si alternavano botteghe ed edifici utilizzati per varie funzioni; tra di essi uno fu eliminato per permettere l’ingresso nell’agorà alla via per Kenchreai. In asse con questa strada, inserito tra le strutture che dividono la piazza, si trova il bÁma –
riguardo il quale Kent riporta un’iscrizione che faceva parte di uno degli ortostati della  decorazione, di cui attesta l’appartenenza ad un periodo compreso tra il 25 ed il 50 d.C.
costituito da una piattaforma fiancheggiata da due camere poste al livello dell’agorà inferiore e comunicanti con essa tramite due scalinate; l’ingresso principale si apriva sul lato meridionale, forse tra due colonne sistemate su basi quadrate, ed era completato da un parapetto la cui funzione era di offrire uno sfondo ornamentale a chi proveniva dall’agorà inferiore.

SCOPERTE ARCHEOLOGICHE E TRADIZIONI SULLA DORMIZIONE E ASSUNZIONE DI MARIA – PADRE MANNS

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SCOPERTE ARCHEOLOGICHE E TRADIZIONI SULLA DORMIZIONE E ASSUNZIONE DI MARIA

INSERITO DA LATHEOTOKOS DOMENICA 3 LUGLIO 2011

 DI FRÉDÉRIC MANNS, OFM, IN AA. VV., L’ASSUNZIONE DI MARIA MADRE DI DIO. SIGNIFICATO STORICO-SALVIFICO A 50 ANNI DALLA DEFINIZIONE DOGMATICA, PAMI, CITTÀ DEL VATICANO 2001, PP. 169-182.

Le scienze storiche progrediscono grazie all’archeologia e allo studio delle fonti letterarie. Problemi che erano stati confinati negli archivi possono essere ripresi quando scoperte archeologiche portano alla luce elementi nuovi o quando lo studio delle fonti produce risultati originali. Questo principio generale vale per la storia della fede nell’Assunzione di Maria. I recenti scavi archeologici della chiesa detta del Kathisma1 invitano i cercatori a riprendere in mano il dossier della storia della Dormizione di Maria. Sulla strada da Gerusalemme a Betlemme, a 350 metri a nord del convento greco di Mar Elias, gli archeologi ebrei hanno scoperto nel 1992 i resti del santuario dedicato alla Madonna, chiamato il Kathisma, il riposo di Maria. Nel 1997 e nel 1999 gli scavi hanno permesso di scoprire tutta la zona archeologica intorno alla chiesa. La tomba di Rachele2 che mori partorendo non è lontana. Negli scavi fu scoperta una chiesa ottagonale con pavimenti musivi. Ci sono tre ottagoni concentrici con cappelle laterali. Nel centro della chiesa un pezzo di roccia è rimasto visibile. Probabilmente veniva presentato ai pellegrini come la roccia dove la Vergine si sedette per riposare prima di entrare a Betlemme. È difficile non fare il confronto con la moschea detta di Omar, che ha nel suo centro la roccia del Moriah secondo la tradizione ebraica. Altri paralleli sono quello della chiesa della Vergine sul Monte Garizim scavata da Magen3 e quello della Chiesa di Cafarnao4. Anch’esse hanno la forma ottagonale. Basta ricordare che per i Padri della Chiesa l’ottavo giorno era il simbolo del giorno escatologico e del riposo definitivo5.
Tra i mosaici scoperti nella chiesa del Kathisma c’è ne uno che merita attenzione. Rappresenta una palma che porta frutti giganti6. Perché questa palma? Forse ricorda l’episodio narrato nel Vangelo dello Pseudo-Matteo7. Durante la l’uva in Egitto, mentre la sacra famiglia soffriva dalla fame, Gesù diede ordine alla palma di piegarsi per dare da mangiare a Maria. E’ possibile che questa palma ricordi anche la palma che l’angelo portò a Maria tre giorni prima di lasciare il corpo, come ricorda l’apocrifo della Dormizione. Altre interpretazioni della palma sono possibili. In Giordania, nella chiesa della Vergine a Madaba8, una palma viene rappresentata sul pavimento musivo. Come sul mosaico del Kathisma sembra che l’elemento principale siano i frutti della palma. Che la palma possa rappresentare una persona, in questo caso la Vergine, si può dedurre dal Salmo 91 (92) 13 che paragona il giusto a una palma e da un apocrifo ebraico scoperto a Qumran, il Genesi Apocrifo 19,14. Nell’apocrifo Abramo prima di scendere in Egitto con sua moglie Sara ebbe un sogno. Vide due alberi: un cedro e una palma. Vide poi della gente che voleva tagliare il cedro per lasciare solo la palma. La palma si mise a gridare: Lasciate il cedro. E il cedro fu salvato per l’intervento della palma. Il cedro è il simbolo di Abramo e la palma è il simbolo di Sara che gli Egiziani volevano prendere. Il parallelismo Sara-Maria è antico. Risale al Vangelo di Luca. Nel racconto dell’annunciazione l’autore riporta la frase: « Nulla è impossibile a Dio », che ricorda il libro di Genesi (18,14).

Le fonti letterarie
Nel Protovangelo di Giacomo un apocrifo di origine giudeo-cristiana9, si legge al capitolo 17:
«Giuseppe sellò il suo asino e vi fece sedere Maria. Suo figlio tirava le briglie e Samuele seguiva. Alla distanza di tre miglia, Giuseppe si voltò e la vide triste. Disse tra sé: « Probabilmente ciò che è in lei la fa soffrire ». Si voltò di nuovo e la vide sorridente. Allora le disse: « Maria che succede? Ti vedo triste poi sorridente». Maria rispose a Giuseppe: « Con i miei occhi vedo due popoli, l’uno piange mentre l’altro si rallegra ». Arrivati a metà strada Maria disse a Giuseppe: « Giuseppe fammi scendere dall’asino: quello che è in me mi preme per venire alla luce ». La fece scendere e disse: « Dove ti devo condurre per mettere al riparo il tuo pudore? Il posto è deserto ». Qui c è una grotta. La fece entrare».
Maria annuncia in modo profetico l’accoglienza del Vangelo da parte dei pagani e il rifiuto da parte degli Ebrei come aveva predetto l’Evangelo di Luca 2,34. Maria viene presentata come nuova Rebecca. In Gen 25,22 la madre d’Israele riconosceva di avere nel seno due nazioni, una sarebbe stata più forte dell’altra, mentre la nazione più grande avrebbe servito quella più piccola. Due indicazioni topografiche sono importanti nell’Apocrifo: si parla di tre miglia e « a mezza strada ». Queste due indicazioni sono sinonimi per indicare la distanza tra Gerusalemme e Betlemme10.
Nel sesto secolo il pellegrino Teodosio11 ricorda questa tradizione:
«Est locus tcrtio miliario de Hierusalem civitate. Dum Maria Mater Domini iret in Bethlehem, descendit de asina et sedit super petram et benedixit eam».
Esisteva nel III secolo una tradizione sulla nascita di Cristo in una grotta al terzo miglio da Gerusalemme, probabilmente in mano ai giudeo-cristiani, perché ne parla solo una fonte giudeo-cristiana. La tradizione bizantina non ha considerato le indicazioni del Protovangelo per localizzare la grotta della Natività. Ma ha collocato in quel posto una festa mariana conosciuta nei calendari liturgici più antichi: il lezionario armeno12 (V secolo) e il lezionario georgiano13 (VIII secolo). Nel lezionario armeno la festa di Maria la Theotokos14 viene menzionata il 15 agosto al « secondo o terzo miglio di Betlemme ». Le letture liturgiche erano Is 7,10-16: la Vergine che partorisce; Ga 3,29-4,7: non siete schiavi, ma figli; Luca 2,1-7, il testo sul censimento di Augusto e il parto di Maria. Il salmo di meditazione era il salmo 131: alzati verso il luogo del tuo riposo e il salmo 109: siedi alla mia destra15. È chiaro che le allusioni dei testi al riposo ricordano il riposo di Maria. Non è escluso del tutto che il primo riposo di Maria evocasse anche il suo riposo definitivo16. Una semplice chiesa poi permetteva ai cristiani di fare memoria di Maria17. Sembra che la chiesa del Kathisma sia stata edificata dopo la redazione del lezionario armeno. Le prediche di Esichio18 e di Crisippo di Gerusalemme19 pronunciate per la festa parlano solo della maternità di Maria senza nessuna allusione al suo riposo.
Fino alla meta del V secolo a Gerusalemme veniva ricordata una sola festa mariana: la memoria di Maria al terzo miglio di Betlemme secondo il lezionario armeno che riproduce il lezionario di Gerusalemme20″: « Il 15 agosto, di Maria, la Theotokos », scrive il lezionario armeno. Non si trattava della festa della Dormizione, né della festa della dedicazione della chiesa. Si faceva memoria del riposo di Maria, la Theotokos. In quel periodo esisteva una piccola chiesa. Sappiamo che solo verso il 455 Hikelia, una pia cristiana fece costruire una chiesa. Il lezionario armeno, anteriore alla costruzione della chiesa del Kathisma, non fa nessuna allusione alla festa della Dormizione di Maria.
Il lezionario georgiano afferma che il 15 agosto l’assemblea liturgica si tiene al Getsemani, per far memoria dell’Assunzione di Maria. La festa del terzo miglio di Betlemme al Kathisma era anticipata al 13 agosto21. Il tre dicembre veniva celebrata la dedicazione della chiesa del Kathisma22:
«Mense decembri III. In via Bethlehem, a tribus milibus, in Cathismate, dedicatio».
Per il 15 agosto appare questa notizia:
«In Mauricii regis aedificatio, ill Gesamania, commemotatio sanctae Deiparae»23.
Secondo il lezionario georgiano, che riflette la prassi liturgica tra il 450 e il 750, i fedeli facevano la memoria di Maria in una chiesa del Getsemani restaurata da Maurizio. Questo imperatore regnò dal 582 fino al 602. Il breviarius de Hierosolyma 7 fa menzione della basilica di santa Maria e del suo sepolcro24. Nella Vita di S. Teodosio il cenobiarco 5, scritta da Teodoro di Petra25, si trova un accenno alla costruzione e al nome della chiesa del Kathisma:
«Hikelia, sposa del governatore, era diventata diaconessa di Cristo. Fece edificare la Chiesa costruita in quel luogo – il vecchio Kathisma (to polaion Kathisma) – in onore dell’immacolata Madre di Dio e sempre vergine ai tempi del beato arcivescovo Giovenale»26.
Quindi la chiesa del Kathisma fu edificata tra il 422 e il 458. E’ possibile però precisare meglio la data grazie ad una informazione di Cirillo di Scythopolis. Cirillo di Scythopolis nella sua Vita di Teodosio27 afferma che il giovane Teodosio arrivò a Gerusalemme durante il regno di Marciano (450-457) e aggiunge:
«la beata Hikelia costruiva la chiesa del Kathisma della Madre di Dio. Lo accolse tra i monaci che dipendevano da Lei»28.
Giovenale vescovo di Gerusalemme negli anni 422-458, è famoso per le numerose chiese che fece edificare. La chiesa del Getsemani fu edificata nel V secolo e in essa fu fatta una memoria di Maria intorno alla sua tomba venerata da tempo. Questa chiesa era il bastione dell’opposizione al concilio di Calcedonia e anche al vescovo Giovenale dopo il 451 come si vede nel Panegirico di Macario di Tkow fatto dallo Pseudo Dioscoro di Alessandria30. Questa opposizione spiegherebbe la costruzione della chiesa del Kathisma di Hikelia. Il partito dei fedeli a Calcedonia celebrava in quel posto la memoria di Maria, mentre gli oppositori del concilio occupavano il Getsemani. Questa situazione durò fino alla costruzione di santa Maria la Novella: titolo dato alla chiesa in opposizione a Santa Maria l’antica al Getsemani. Nel VI secolo l’imperatore Maurizio che impose la festa dell’Assunzione, viene presentato come fondatore della chiesa del Getsemani quando i monofisiti ne furono espulsi.
Perché la Dormizione di Maria fu celebrata il 15 agosto? Probabilmente perché era la data di fondazione del Kathisma. Nel medio Evo alcuni hanno visto i pavimenti musivi della chiesa. Nicolò da Poggibonsi dice che da lì la stella apparve ai magi dopo la loro partenza da Gerusalemme per Betlemme31.

La tomba di Maria al Getsemani
Si conosce abbastanza bene la storia del santuario della Tomba di Maria. I primi cristiani veneravano il posto rispettandone i luoghi. Se si può credere agli apocrifi, il corpo di Maria sarebbe stato deposto in un complesso funebre di tre stanze. Più tardi la tomba fu trasformata in santuario probabilmente dai gentilo-cristiani. Si costruì una chiesa a forma di croce, tagliando le tombe vicine, nascondendo le altre che non presentavano interesse. In questo luogo vi fu il centro degli oppositori al concilio di Calcedonia. Un secolo dopo, sotto l’imperatore Maurizio (582-602), dopo l’espulsione degli oppositori, fu costruita una chiesa superiore di forma rotonda ad imitazione dell’Anastasi e della chiesa dell’Ascensione. La chiesa superiore dell’imperatore Maurizio fu distrutta ed i crociati ne eressero un’altra simile, che fu distrutta da Saladino appena riuscì a riconquistare Gerusalemme. Rimase allora la chiesa primitiva con una grande scalinata aggiunta dai Crociati. Nella parete esterna a nord della camera sepolcrale, si vede il rivestimento crociato fatto per mettere i marmi. In basso sono due colonnine che abbellivano le quattro pareti e a sinistra un pezzo di roccia scoperta in seguito ai nuovi lavori. Il bassorilievo sopra la porta è di fattura crociata, ma non è inerente al mistero e nella decorazione crociata esso era coperto da marmi e da mosaici. L’inondazione del 1972 ha permesso di verificare che la tomba tradizionale di Maria era del primo secolo32. Una volta caduti gli intonaci è stato possibile vedere completamente la roccia. Essa si eleva da m. 1,60 a m. 1,80 e presenta due aperture. una a nord e l’altra ad ovest. Sono le porte attuali per le quali passano i devoti per entrare. La tomba di Maria ha tutte le caratteristiche di una tomba del primo secolo, benché i crociati abbiano abbellito il banco roccioso, che presenta quattro resti di decorazioni succedutesi le une alle altre tra il IV e il XII secolo. I frammenti in lingua siriaca pubblicati dal Wright33 parlano di un complesso funebre di tre stanze. Dopo l’inondazione del 1972 il Bagatti ha potuto costatare che di fatto c’erano tre stanze. Scoprì una stanza tagliata nella roccia a sinistra della tomba venerata. La terza stanza fu tagliata per isolare meglio la terza che è la tomba venerata.

Le fonti letterarie sulla Dormizione
Il Bollandista Van Esbroeck34 ha pubblicato uno studio approfondito sulle fonti letterarie della Dormizione. Ha classificato i manoscritti conosciuti in diverse famiglie di testi: alcuni manoscritti fanno menzione della palma che Maria riceve tre giorni prima di lasciare il corpo, altri invece dell’annuncio fatto a Gerusalemme parlano di Betlemme. Questi ultimi sono caratterizzati dalle incensazioni e hanno una nota liturgica molto chiara. I 67 manoscritti conosciuti si dividono in due grandi famiglie di testi: la prima localizza a Gerusalemme la partenza di Maria utilizzando il simbolo della palma, mentre la seconda preferisce Betlemme e ha un aspetto più liturgico. Questa seconda famiglia di testi potrebbe essere legata alle celebrazioni liturgiche che venivano fatte al Kathisma sulla strada di Betlemme. Van Esbroeck pubblicò nel 1973 gli apocrifi georgiani della Dormizione35 e nel 1974 un altro testo sulla Dormizione attribuito a san Basilio36. Padre Arras, un francescano belga, pubblicava nello stesso anno un’edizione critica dei manoscritti etiopici37 nel CSCO 343, in modo particolare il Liber Requiei. Arras ha notato che il Liber Requiei è vicino ai frammenti in lingua siriaca pubblicati dal Wright e ai frammenti in lingua georgiana. Un’altra caratteristica del Liber Requiei è l’aver integrato moltissime aggadot giudaiche che hanno avuto una esistenza indipendente. Si sapeva già che la Chiesa etiopica è molto vicina al giudaismo, sia per le tradizione letterarie sia per il modo di vivere. Recentemente il professore Mimouni38 ha dedicato la sua tesi di ricerca ai manoscritti della Dormizione di Maria. La tesi è pubblicata da Beauchesne nella collana « Théologie historique ». Introduce distinzioni curiose nell’antropologia giudaica antica. Mentre il Mimouni faceva le sue ricerche all’Ecole Biblique, io presentai la mia tesi alla commissione biblica sul testo greco della biblioteca vaticana chiamato Romanus o Vaticanus 198239, che era stato pubblicato dal Wenger40. Il merito di Wenger era quello di stabilire la priorità del Romanus in confronto con i testi liturgici. Molte volte nelle note del testo, pubblicato con alcune omissioni, il Wenger sottolineava il carattere oscuro di molte espressioni del documento. Il Padre Bagatti aveva già avuto l’intuizione che il Romanus poteva essere di origine giudeo-cristiana41. Questa idea servì di base alla mia ricerca.
La famiglia dei testi che sfruttano il simbolo della palma riprende uno schema identico: Maria riceve l’ordine da un angelo di recarsi al Monte degli Ulivi. L’angelo gli consegna una palma e gli annuncia la morte prossima. Tornata a casa Maria si prepara alla morte. Viene all’improvviso Giovanni l’apostolo. Maria lo rimprovera perché il Signore gli aveva affidato sua madre. Giovanni si difende citando l’ordine del Signore di partire in missione. Maria affida la palma a Giovanni. Arrivano poi, portati su nuvole, gli altri Apostoli che si meravigliano di trovarsi insieme. Ciascuno fa la narrazione del suo apostolato. Pietro invita tutti a pregare per conoscere il motivo del loro incontro. Sviluppa il tema della lucerna accesa ed esorta tutti a perseverare nella fede. La preghiera continua tutta la notte. All’alba viene Cristo accompagnato dagli angeli. Bacia sua madre e prende la sua anima che rimette nelle mani di Michele arcangelo. Gli apostoli ricevono l’ordine di portare il corpo di Maria in una nuova sepoltura nella valle del Cedron. Mentre si recano verso la valle del Cedron cantando il salmo: Israele uscì dall’Egitto. Il sommo sacerdote, incuriosito viene a sapere che gli Apostoli portano Maria nella sua ultima dimora. Vuol rovesciare il feretro sul quale giace la Vergine. I Giudei sono colpiti da cecità e Jephonia, il sommo sacerdote, confessa la sua colpa. Quelli che credono sono guariti. Segue un dialogo tra Pietro e Paolo, giacché anche Paolo è venuto presso Maria. Dopo tre giorni gli angeli scendono e portano in cielo il corpo della Vergine, che viene riunito all’anima. Il genere letterario dell’apocrifo è chiaramente quello del Testamento. Tale genere era molto sfruttato nel primo secolo. I Testamenti dei 12 Patriarchi sono esempi tipici di tale genere. Una caratteristica dell’apocrifo è il ricorso ai simboli. Il simbolo della palma apre l’apocrifo, poi il simbolo delle nuvole ricorda il dono delle nuvole di gloria date a Succot nel deserto, mentre il simbolo della lampada sfruttato da Pietro sottolinea il tema della luce. Infine il simbolo del profumo al momento della morte di Maria dà un tono particolare al testo. Tutti questi simboli possono essere associati alla festa giudaica delle capanne: la palma, le nuvole di gloria, il profumo che ricorda l’etrog, il frutto dell’albero bello e, infine, la luce che ricorda l’illuminazione del cortile della donne durante la festa di Succot. Per Za 14,16 sarà sul monte degli Ulivi che i sopravissuti delle nazioni, che hanno fatto la guerra a Gerusalemme, si raduneranno per celebrare la festa delle capanne. Alla fine gli Apostoli, quando portano il corpo di Maria nella valle del Cedron cantano l’hallel, il salmo che veniva cantato per le grande feste ebraiche. La mishna Suc 4,8 dice che l’hallel fa parte della festa delle capanne. Per di più nell’apocrifo la casa di Maria viene chiamata skênoma. La festa delle capanne durava sette giorni. Questo schema viene rispettato nell’apocrifo. Tre giorni prima della morte Maria riceve l’annuncio della morte. Gli apostoli rimangono tre giorni presso il corpo di Maria, presso la tomba e il Signore viene il quarto giorno. In totale sono sette giorni. Si sa che la festa delle capanne era presentata come festa della risurrezione. Filone di Alessandria afferma che la festa è speranza di immortalità. Rivela la luce cosmica e la migrazione dal mondo presente al mondo immateriale (Spec Leg 212). La letteratura rabbinica vede nel simbolo della tenda la prefigurazione del giorno escatologico (Suc 45b) e il simbolo della dimora dei giusti nell’aldilà (PRK Sup 2,3). Paolo in 2Co 5,1 chiama tenda la nostra dimora terrestre, che sarà distrutta, mentre la dimora eterna sta nei cieli. I Padri della Chiesa hanno sviluppato il simbolismo della festa delle tende. Origene dice che la festa ricorda che la vita attuale è un luogo di passaggio (Om. Num 23,11). Nella sua Omelia su Esodo 9,4 dice che la palma è il simbolo della vittoria dello spirito sulla carne, il salice è simbolo di castità e l’albero con molte foglie è simbolo della vita eterna. Metodio di Olimpo sfrutta questo simbolismo. La festa delle capanne è la festa della risurrezione. Quello che serve per costruire la tenda sono le opere di giustizia (Banq 243). L’etrog è il frutto dell’albero della vita che cresceva nel Paradiso e si trova adesso nella Chiesa. La palma è il simbolo dell’ascesi che purifica l’anima. I rami con foglie sono simbolo della carità che porta frutti. Il salice è simbolo della castità (Banq 245-251).
La festa delle capanne esprime il riposo del settimo millennio. La vita è un passaggio verso la vita eterna. Chi pratica le virtù potrà celebrare la festa e risorgere durante il settimo millennio (Banq 254). Se la patristica prenicena fornisce paralleli all’interpretazione dei simboli presenti nel Transitus Mariae, questo significa che l’apocrifo della Dormizione può essere datato al secondo o terzo secolo. Se questo simbolismo è accettato, il senso dell’apocrifo sarebbe questo: Maria celebra la sua ultima festa delle capanne sul Monte degli Ulivi. Il simbolismo giudaico di tale festa illustrava bene il senso della sua morte e la sua fede nella risurrezione. In altre parole significa che la fede nell’Assunzione di Maria risale ai giudeo-cristiani di Gerusalemme. I giudeo cristiani erano ben preparati ad accettare l’assunzione di Maria, perché dal giudaismo avevano ereditato la fede che Myriam, la sorella di Mosè, non aveva conosciuto la corruzione della tomba. Maria non è altro che la nuova Myriam. Ha ricevuto gli stessi privilegi. Se lo sfondo dell’apocrifo è il mondo giudeo-cristiano, si capiscono bene la cristologia con Cristo angelo, l’ecclesiologia primitiva, la mariologia che vede in Maria la colomba e la madre dei dodici rami42. Il giudeo-cristianesimo che si esprime nell’apocrifo è di un tipo speciale: accetta Paolo tra i discepoli. Paolo non è il nemico come in altri testi giudeo-cristiani. Solo i Nazareni accettavano Paolo come discepolo di Cristo. Essi sono conosciuti dal Panarion di Epifanio.
In conclusione: è necessario oggi approfondire il discorso sugli apocrifi giudeo-cristiani. Essi appartengono alla letteratura aggadica del mondo giudaico del quale riprendono le categorie, i simboli e i modi di espressione. Per questo vanno letti come la aggadà giudaica. Quando la Chiesa si è inculturata nel mondo greco la aggadà giudeo-cristiana fu esclusa dal canone. Visto che questo cambiamento è avvenuto nel 135 si può dire che molte tradizioni dell’apocrifo sono anteriori al 135. La comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme del secondo secolo, dunque, aveva già espresso con categorie giudaiche la fede nell’Assunzione di Maria, nuova Myriam. La giovane di Nazaret veniva presentata come il compimento di tutte le figure bibliche femminili.

NOTE
1 Amnon Ramon, Around the Holy City. Between Jerusalem, Bethlehem and Jericho, Jerusalem 2000.
2 Rachele significa « ancella ». Tale titolo viene dato a Maria da Melitone di Sardi verso il 160 nel suo trattato Peri Pascha.
3 F. Manns-E. Alliata (a cura di), Christian Archaeology. Monuments and Documents, Jerusalem 1993, 131.
4 F. Manns-E. Alliata (a cura di), Christian Archaeology, 91.
5 J. Daniélou, Bible et Liturgie, Paris 1958, 355.
6 Nella liturgia siriana per la Dormizione di Maria viene sfruttato il simbolo dell’uva: « La grappe Marie a porté une grappe pleine de merveilles… La Visone Marie est sortie de cette vigne de David qui avait été plantée dans la terre des vivants et avait été bénie. La vigne Marie se tenait parmi les autres ceps de la vigne et l’unique grappe qu’elle portait était plein de merveilles », cité par M. Deprez, L’adoration des mages de Ste Marie Majeure et le concile d’Ephèse, Vaucreson 2000, 41, Excursus 25.
7 Questa è l’ipotesi de Amnon Ramon, p. 18.
8 M. Piccirillo, Chiese e mosaici di Madaba, Jerusalem 1989, 43-46.
9 E Cothenet, `’Protévangile de Jacques ». SDB 8, Paris 1970, 1374-1384
10 E curioso costatare sull’arco elesino della Basilica di santa Maria Maggiore a Roma le due città di Gerusalemme e di Betlemme. Il massacro degli innocenti viene rappresentato a sinistra e Rachele – vestita di nero- siede accanto a Maria vestita in giallo sul terzo panello di sinistra.
11 Geyer (ed), De situ terrae sanctae, 28, CCL 175,124.
12 Le Codex arménien Jérusalem 121. I. Introdution aux origines de la liturgie hiérosolymitaine. II. Edition comparée du texte et de deux autres manuscrits, PO 35/1; 36/2, Turnhout 1969 et 1971.
13 A. Garitte, Le calendrier palestino-géorgien du Sinaiticus 34, Bruxelles 1958.
14 Cirillo di Alessandria per l’apertura del concilio di Efeso associa tredici volte il tema della luce (stella) a quella della maternità divina.
15 B. Capelle, « Le fête de la Vierge à Jérusalem au cinquièrne siècle », MUS 56 (1943) 1-33. A. Heisenber, « Zur Feier von Weihnachten und Himmelfahrt im alten Jerusalem », BZ 24 (1923-24) 329-335. A. Jugie « La première fête mariale en Orient et en Occident », Les Echos d’Orient 25 (1927) 129-152. B. Botte, « Le lectionnaire arménien et la fête de la Théotokos à Jérusalem au cinquièm siècle », SEJG 8 (1949) 111-122.
16 M. Deprez, L’adoration des mages, 42: ‘Le `Natale’ de la Vierge Marie – c`est-à-dire le jour où défunte elle est née à la vie étennelle – répondait ainsi directement au `Noel` uù elle donna le jour au Christ Jesus ». Quando il Papa Sergio I istituirà la festa del 15 agosto a Roma la chiamerà Natale.
17 Capelle, « La fête de la Vierge », p. 21 parla di un Khan, luogo di riposo.
18 Dictionnaire de Spiritualité 7, 399-408. K. Jiissen, « Die mariologie des Hesychius von Jerusalem », in Theologie in Geschichte ubd Gegenwart. M. Schmaus zum 60 Geburstag, München 1957, 651-670. M. Aubineau, Les Homélies festales d’Hésy-chius de Jérusalem, I., Bruxelles 1978, 170. L’omelia 5 fu pronunciata prima della costruzione della chiesa probabilmente dopo il concilio di Efeso.
19 Homélies mariales byzantines, PO 19, 336-343. R. Caro, La homiletica mariana griega, Maria Library Studies 3, Dayton 1971, 211-226.
20 B. Fischer, « ‘Das älteste armenische Lectionar als Zeuge für den gottesdienstlichen Scrhiftgebrauch im Jerusalem des beginnenden 5. Jahrhunderts », Concilium 11 (1975)93-96.
21 Capelle, « La fête de la Vierge », 32 spiega così il cambiamento del 15 agosto al 13 agosto: « Lorsque -vers 500?- on transféra au sanctuaire marial de Gethsémani la fête du 15 août, peut-être aura-t-on voulu garder au Kathisma, où elle s`était justement tenue, quelque chose de son ancien privilège, en y établissant à une date toute proche -13 aout – une synaxe qui perpétuerait le souvenir des solennités d’antan~? »
22 Capelle, « La fête de la Vierge », 32.
23 Lectionaire géorgien, n. 1148, CSCO 204, 30.
24 « Ibi est basilica sanctae Mariae et ibi est sepulcrum ejus », CCL 175,122.
25 A. Festugière, Les moines d’Orient, Paris 1963, 86-160.
26 A. Festugière, Les moines d’Orient 3/3, 57-58. E. Honigmann, « Juvenal of Jerusalem », DOP 5 (1950) 209-279.
27 A. Festugière, Les moines d’Orient 3/3, 57.
28 A. Festugière, Les moines d’Orient 3/3, 57-58.
29 A L. Perrone, La Chiesa di Palestina e le controversie cristologiche, Brescia 1980.
30 D. W. Johnson, A Panegyric on Macarius Bishop of Tkow, CSCO 415-416, Louvain 1 980.
31 Fra Nicolò da Poggibonsi, Libro d’Oltremare (1346-1350), Jerusalem 1945. Durante la Dedicazione della Basilica di santa Maria Maggiore, il Papa Sisto III fece memoria dei martiri che chiamò Testes uberi, testimoni del parto di Maria. Ai martiri sono connessi i magi.
32 B. Bagatti, M. Pieirillo, A Prodromo, New Discoveries at the Tomb of the Virgin Mary in Getsemane, Jerusalem 1975.
33 W. Wright, Obsequiae. Contribution to the apocryphal Literature of the New Testament, collected and edited frome syriac manuscripts in the British Museum with an english translation and note, London 1865, 55-65.
34 M. Van Esbroeck, « Les textes littéraires sur l’Assomption avant le dixième siècle », in Les Actes Apocriphes, Genève 1981, 266.
35 Analecta Bollandiana 93 (1973) 69-73.
36 Analecta Bollandiana 94 (1974) 128-163.
37 De transitu Mariae. Apocrypha Aethiopice, CSCO 343, I. Louvain 1973; CSCO 352, II. Louvain 1974.
38 S. Mimouni, Dormition et assomption de Marie. Histoire des traditions anciennes, Paris 1995.
39 F. Manns, Le récit de la Dormition de Marie (Vat. Crec 1982). Contribution à l’étude des origines de l’exégèse chrétienne, Jerusalem 1989.
40 A. Wenger, L’Assomption de la T.S. Vierge dans la tradition byzantine du Vle au Xe siècle, Paris 1955.
41 B. Bagatti, « Le due redazioni del ‘Transitus Mariae »‘, Marianum 32 (1970) 179-287. Lo stesso autore ha studiato l’iconografia della Koimesis nel suo articolo: ‘Ricerche sull’iconografia della Koimesis o Domitio Mariae », LA 25 (1975) 225-253.
42 A F. Manns. Le judéo-christianisme, mémoire ou prophétie? Paris 2000, 249.

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