Archive pour octobre, 2012

All Saints

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http://crosscrafter.com/blog/2012/06/10/synaxis-of-all-saints-1269/

Publié dans:immagini sacre |on 31 octobre, 2012 |Pas de commentaires »

Preghiera per la festa di Ognissanti – Language: Italian – originale Tedesco

http://www.recmusic.org/lieder/get_text.html?TextId=45911

Preghiera per la festa di Ognissanti

Language: Italian – originale Tedesco

Tutte le anime riposino in pace,
chi è passato fra i tormenti e nell’ansia,
chi ha finito un sogno sereno,
chi sazio di vita, chi appena nato
questo mondo ha abbandonato:
Tutte le anime riposino in pace!

Chi quaggiù ha cercato un amico,
spesso pianto, mai deriso,
quando la sua leale stretta di mano
non era compresa da nessuno:
Tutti coloro che se ne sono andati,
Tutte le anime riposino in pace.

Le anime di fanciulle piene di amore,
le cui lacrime non si possono contare,
che, abbandonate da un amante infedele,
hanno rifiutato un mondo cieco,
Tutti coloro che se ne sono andati,
Tutte le anime riposino in pace.

Ed il giovane, dal quale in segreto,
di primo mattino si reca la sposa
-  poiché il suo amore giace nella tomba -
per portar via il lume ormai spento:
Tutti coloro che se ne sono andati,
Tutte le anime riposino in pace.

Tutte le anime che, di spirito puro,
per la verità subirono martirio,
e hanno lottato per la santità
senza cercare celebrità:
Tutti coloro che se ne sono andati,
Tutte le anime riposino in pace!

E quelli che mai sorrisero al sole,
e sotto la luna vegliavano su letti di spine,
per vedere un giorno nella pura luce del cielo
il volto di Dio faccia a faccia:
Tutti coloro che se ne sono andati,
Tutte le anime riposino in pace!

E quanti spesso in giardini di rose
Hanno attinto ai calici del piacere,
Ma che, trovatisi in momenti peggiori,
hanno assaggiato la loro amarezza:
Tutti coloro che se ne sono andati,
Tutte le anime riposino in pace!

E anche coloro che non conobbero pace
Ma che hanno diffuso forza e coraggio
Sul campo di battaglia pieno di cadaveri
Nel mondo già mezzo immerso nel sonno:
Tutti coloro che se ne sono andati,
Tutte le anime riposino in pace!

Tutte le anime riposino in pace,
chi è passato fra i tormenti e nell’ansia,
chi ha finito un sogno sereno,
chi sazio di vita, chi appena nato
questo mondo ha abbandonato:
Tutte le anime riposino in pace!

Publié dans:LA PREGHIERA ( AUTORI VARI) |on 31 octobre, 2012 |Pas de commentaires »

Festa di Tutti i Santi: Dai “Discorsi” di san Bernardo, abate

http://liturgia.silvestrini.org/santo/330.html

FESTA DI TUTTI I SANTI

DAGLI SCRITTI…

Dai “Discorsi” di san Bernardo, abate

A che serve dunque la nostra lode ai santi, a che il nostro tributo di gloria, a che questa stessa nostra solennità? Perché ad essi gli onori di questa stessa terra quando, secondo la promessa del Figlio, il Padre celeste li onora? A che dunque i nostri encomi per essi? I santi non hanno bisogno dei nostri onori e nulla viene a loro dal nostro culto. E’ chiaro che, quando ne veneriamo la memoria, facciamo i nostri interessi, non i loro. Per parte mia devo confessare che, quando penso ai santi, mi sento ardere da grandi desideri. Il primo desiderio, che la memoria dei santi o suscita o stimola maggiormente in noi, é quello di godere della loro tanto dolce compagnia e di meritare di essere concittadini e familiari degli spiriti beati, di trovarci insieme all’assemblea dei patriarchi, alle schiere dei profeti, al senato degli apostoli, agli eserciti numerosi dei martiri, alla comunità dei confessori, ai cori delle vergini, di essere insomma riuniti e felici nella comunione di tutti i santi.
Ci attende la primitiva comunità dei cristiani, e noi ce ne disinteresseremo? I santi desiderano di averci con loro e noi e ce ne mostreremo indifferenti? I giusti ci aspettano, e noi non ce ne prenderemo cura? No, fratelli, destiamoci dalla nostra deplorevole apatia. Risorgiamo con Cristo, ricerchiamo le cose di lassù, quelle gustiamo. Sentiamo il desiderio di coloro che ci desiderano, affrettiamoci verso coloro che ci aspettano, anticipano con i voti dell’anima la condizione di coloro che ci attendono. Non soltanto dobbiamo desiderare la compagnia dei santi, ma anche di possederne la felicità. Mentre dunque bramiamo di stare insieme a loro, stimoliamo nel nostro cuore l’aspirazione più intensa a condividerne la gloria. Questa bramosia non é certo disdicevole, perché una tale fame di gloria é tutt’altro che pericolosa. Vi é un secondo desiderio che viene suscitato in noi dalla commemorazione dei santi, ed é quello che Cristo, nostra vita, si mostri anche a noi come a loro, e noi pure facciamo con lui la nostra apparizione nella gloria. Frattanto il nostro capo si presenta a noi non come é ora in cielo, ma nella forma che ha voluto assumere per noi qui in terra. Lo vediamo quindi non coronato di gloria, ma circondato dalle spine dei nostri peccati. Si vergogni perciò ogni membro di far sfoggio di ricercatezza sotto un capo coronato di spine. Comprenda che le sue eleganze non gli fanno onore, ma lo espongono al ridicolo. Giungerà il momento della venuta di Cristo, quando non si annunzierà più la sua morte. Allora sapremo che anche noi siamo morti e che la nostra vita é nascosta con lui in Dio. Allora Cristo apparirà come capo glorioso e con lui brilleranno le membra glorificate. Allora trasformerà il nostri corpo umiliato, rendendolo simile alla gloria del capo, che é lui stesso.
Nutriamo dunque liberamente la brama della gloria. Ne abbiamo ogni diritto. Ma perché la speranza di una felicità così incomparabile abbia a diventare realtà, ci é necessario il soccorso dei santi. Sollecitiamolo premurosamente. Così, per loro intercessione, arriveremo là dove da soli non potremmo mai pensare di giungere. (Disc. 2; Opera omnia, ed. Cisterc. 5 [1968] 364-368)

Godete e rallegratevi, perché grande è la vostro ricompensa nei cieli.
La beatitudine, consiste nel raggiungimento di ciò che colma e fa felice definitivamente il cuore dell’uomo. È la felicita che hanno conseguito i santi, che oggi celebriamo riuniti in un’unica festa. È una schiera che nessuno può numerare e che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello, hanno cioè sperimentato in vita e in morte l’infinita misericordia di divina e vivono, anche per le loro virtù, nella beatitudine eterna. Una beatitudine a cui ogni fedele aspira nella speranza che lo stesso Cristo ci infonde. Il Cristo annuncia una felicità che non è nell’ordine dei valori terreni, ma è in vista del Regno, proclamato da lui, e, pur cominciando già su questa terra per coloro che accolgono Cristo e le sue esigenze, sarà definitiva solo nell’eternità. La Chiesa, formata da tutti i santi, ci invita oggi a guardare al futuro e al premio che Dio ha riservato a coloro che lo seguono nel difficile cammino della perfezione evangelica. Tutti vorremmo che, dopo la nostra morte, questo giorno fosse anche la nostra festa. Gesù ci invita a godere e rallegrarci già durante il percorso in vista dell’approdo finale. La santità quindi non è la meta di pochi privilegiati, ma l’aspirazione continua e costante di ogni credente, nella ferma convinzione che questa è innanzi tutto un progetto divino che nessuno esclude e che ci è stata confermata a prezzo del sacrificio di Cristo, che ha dato la vita per la nostra salvezza, quindi per la nostra santità. Non conseguire la meta allora significherebbe rendersi responsabile di quel grande peccato, che nessuno speriamo commetta, di vanificare l’opera redentiva del salvatore. Sant’Agostino, mosso da santa invidia soleva ripetersi: “Se tanti e tante perché non io?”

Omelia per la festa di Tutti i Santi: I Santi, nostri concittadini

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=23797

I Santi, nostri concittadini

don Alberto Brignoli 

Tutti i Santi (01/11/2011)

Vangelo: Mt 5,1-12  

La ricorrenza che ogni anno ci fa incontrare con le figure e le vite dei Santi nella loro totalità è, per noi credenti, anche motivo di interrogativi, oltre che di preghiera e di riflessione.
I Santi sono senza ombra di dubbio figure da invocare, come intermediari di Grazie presso Dio, e quest’oggi in modo particolare; ma non possiamo rinunciare a farci delle domande su queste figure di eroi nella fede che ci appaiono sempre come molto potenti e capaci di ottenerci da Dio ciò di cui più abbiamo bisogno.
E la domanda che ci poniamo oggi è fondamentalmente una: perché questi sono « Santi »? Perché li chiamiamo così e li veneriamo come tali? In definitiva, che cosa significa essere Santi? Sono convinto che ogni anno, in questa circostanza, cerchiamo di avvicinarci alle figure dei Santi delineandone atteggiamenti e comportamenti che ce li facciano sentire più vicini, più prossimi a noi di quando li vediamo rappresentati da un dipinto, da una statua, oppure di quando li troviamo rinchiusi in un piccolo reliquario o tra le pagine di un libro agiografico.
Vorrei anch’io, quest’oggi, cercare di capire qualcosa di più delle loro vite, per cogliere quanto loro possano essere stati simili a noi. E vorrei farlo « in negativo », ossia non cercando di capire cosa significhi essere santi, cosa che poi ci potrebbe frustrare, nel nostro tentativo di imitazione, ma di comprendere cosa « non » significa essere santi; perché purificare le nostre idee da un immaginario idealista che sempre costruiamo intorno alle loro figure, a mio avviso contribuisce a farceli sentire più simili a noi di quanto possiamo pensare.
E ne abbiamo maggiormente la percezione quando viene elevato alla gloria degli altari qualcuno che abbiamo avuto modo di conoscere di persona. Ho avuto la fortuna, molti anni fa, di stringere la mano, come chissà quante altre persone, a Giovanni Paolo II e a Madre Teresa di Calcutta: ma mentre lo facevo non avevo assolutamente l’impressione di avere davanti a me due corpi di santi, ma certamente di due grandi personalità, eppure semplici persone come noi.
Cosa non significa, quindi essere santi? Innanzitutto, non significa essere perfetti: né di carattere, né tantomeno nel comportamento. Perché i Santi, perfetti non lo erano e non avevano neppure la percezione di esserlo.
Non significa essere pacifici e mansueti, altrimenti gente come l’attaccabrighe Girolamo o il poco affabile Padre Pio non rientrerebbe nella schiera dei santi.
Non significa essere seri e compassati, altrimenti Filippo Neri sarebbe tutt’altro che un santo.
Non significa nemmeno essere calmi e pazienti: ne sa qualcosa un cuore irrequieto come quello di Agostino d’Ippona.
Ma la perfezione dei santi non è neppure assoluta fedeltà a Cristo: chiedetelo al principe degli apostoli, Pietro, che promette all’amato Maestro di seguirlo sulla croce e poi lo rinnega.
Non parliamo della coerenza di vita, perché Paolo di Tarso non ebbe sin dall’inizio un grande amore verso il messaggio di Cristo.
E cosa dire dei comportamenti morali irreprensibili, se Maria di Magdala si è dovuta far guarire da « sette demoni », come dice il Vangelo?
E della rigidità di Ignazio di Loyola e dell’intolleranza dei Figli di Zebedeo?
Essere santi non significa nemmeno stare tutto il giorno in preghiera o rinchiudersi in un convento, oppure ricercare a tutti i costi la povertà e l’abnegazione rinunciando ad una vita di onori, altrimenti non avremmo re, principi e regine tra di loro…
Di certo, a tutto questo è facile obiettare dicendo che non dobbiamo guardare alla loro vita anteriore, ma a quella che ne consegue dalla scoperta e dall’incontro con Cristo. Mentre io sono assolutamente convinto del contrario, ovvero che la loro santità è tale perché non rinnega la loro vita passata, il loro carattere, il loro temperamento, i loro limiti comportamentali, le loro debolezze.
Certamente hanno avuto anche qualcosa di eroico, che rappresenta ciò per cui li ricordiamo e li veneriamo. Ma stiamo attenti a collocarli su dei piedistalli per non toglierli mai più da lì, perché faremmo loro un grande torto.
Ciò che fa di loro dei santi e quindi dei modelli è fondamentalmente la Misericordia: quella sperimentata, innanzitutto, per tutte le volte che si sono lasciati incontrare dal perdono di Dio che dava loro la possibilità di rialzarsi e di ricominciare da capo; e poi, di conseguenza, quella offerta ai fratelli come risposta alla grazia e all’amore ricevuto da Dio.
Allora i santi diventano nostri concittadini e nostri compagni di vita: quando ci mostrano la grandezza della normalità, l’eroicità dell’ordinario, la straordinarietà delle cose semplici.
Quanti santi vivono al nostro fianco la vita di ogni giorno senza che nessuno mai li eleverà alla gloria degli altari!
Quanto santi possiamo e dobbiamo essere pure noi, nonostante, anzi, a partire dalla consapevolezza delle nostre debolezze: perché è nella nostra debolezza che si manifesta la potenza di Dio, l’unico Santo tra Tutti i Santi.

Publié dans:FESTE, OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 31 octobre, 2012 |Pas de commentaires »

Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità! (1Cor 13,13)

Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità! (1Cor 13,13) dans immagini sacre Teologali

http://www.articoli-religiosi.net/le-tre-virtu-teologali-fede-speranza-e-carita.html

Publié dans:immagini sacre |on 30 octobre, 2012 |Pas de commentaires »

sulla santità, udienza di Papa Benedetto 13 aprile 2011

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20110413_it.html                   

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro             

Mercoledì, 13 aprile 2011                               

La santità

Cari fratelli e sorelle,

nelle Udienze generali di questi ultimi due anni ci hanno accompagnato le figure di tanti Santi e Sante: abbiamo imparato a conoscerli più da vicino e a capire che tutta la storia della Chiesa è segnata da questi uomini e donne che con la loro fede, con la loro carità, con la loro vita sono stati dei fari per tante generazioni, e lo sono anche per noi. I Santi manifestano in diversi modi la presenza potente e trasformante del Risorto; hanno lasciato che Cristo afferrasse così pienamente la loro vita da poter affermare con san Paolo “non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20). Seguire il loro esempio, ricorrere alla loro intercessione, entrare in comunione con loro, “ci unisce a Cristo, dal quale, come dalla Fonte e dal Capo, promana tutta la grazia e tutta la vita dello stesso del Popolo di Dio” (Conc. Ec. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium 50). Al termine di questo ciclo di catechesi, vorrei allora offrire qualche pensiero su che cosa sia la santità.
Che cosa vuol dire essere santi? Chi è chiamato ad essere santo? Spesso si è portati ancora a pensare che la santità sia una meta riservata a pochi eletti. San Paolo, invece, parla del grande disegno di Dio e afferma: “In lui – Cristo – (Dio) ci ha scelti prima della creazione del mondo per essere santi e immacolati di fronte a lui nella carità” (Ef 1,4). E parla di noi tutti. Al centro del disegno divino c’è Cristo, nel quale Dio mostra il suo Volto: il Mistero nascosto nei secoli si è rivelato in pienezza nel Verbo fatto carne. E Paolo poi dice: “E’ piaciuto infatti a Dio che abiti in Lui tutta la pienezza” (Col 1,19). In Cristo il Dio vivente si è fatto vicino, visibile, ascoltabile, toccabile affinché ognuno possa attingere dalla sua pienezza di grazia e di verità (cfr Gv 1,14-16). Perciò, tutta l’esistenza cristiana conosce un’unica suprema legge, quella che san Paolo esprime in una formula che ricorre in tutti i suoi scritti: in Cristo Gesù. La santità, la pienezza della vita cristiana non consiste nel compiere imprese straordinarie, ma nell’unirsi a Cristo, nel vivere i suoi misteri, nel fare nostri i suoi atteggiamenti, i suoi pensieri, i suoi comportamenti. La misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua. E’ l’essere conformi a Gesù, come afferma san Paolo: “Quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo” (Rm 8,29). E sant’Agostino esclama: “Viva sarà la mia vita tutta piena di Te” (Confessioni, 10,28). Il Concilio Vaticano II, nella Costituzione sulla Chiesa, parla con chiarezza della chiamata universale alla santità, affermando che nessuno ne è escluso: “Nei vari generi di vita e nelle varie professioni un’unica santità è praticata da tutti coloro che sono mossi dallo Spirito di Dio e … seguono Cristo povero, umile e carico della croce, per meritare di essere partecipi della sua gloria” (n. 41).
Ma rimane la questione: come possiamo percorrere la strada della santità, rispondere a questa chiamata? Posso farlo con le mie forze? La risposta è chiara: una vita santa non è frutto principalmente del nostro sforzo, delle nostre azioni, perché è Dio, il tre volte Santo (cfr Is 6,3), che ci rende santi, è l’azione dello Spirito Santo che ci anima dal di dentro, è la vita stessa di Cristo Risorto che ci è comunicata e che ci trasforma. Per dirlo ancora una volta con il Concilio Vaticano II: “I seguaci di Cristo, chiamati da Dio non secondo le loro opere, ma secondo il disegno della sua grazia e giustificati in Gesù Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi. Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere nella loro vita e perfezionare la santità che hanno ricevuta” (ibid., 40). La santità ha dunque la sua radice ultima nella grazia battesimale, nell’essere innestati nel Mistero pasquale di Cristo, con cui ci viene comunicato il suo Spirito, la sua vita di Risorto. San Paolo sottolinea in modo molto forte la trasformazione che opera nell’uomo la grazia battesimale e arriva a coniare una terminologia nuova, forgiata con la preposizione “con”: con-morti, con-sepolti, con-risucitati, con-vivificati con Cristo; il nostro destino è legato indissolubilmente al suo. “Per mezzo del battesimo – scrive – siamo stati sepolti insieme con lui nella morte affinché, come Cristo fu risuscitato dai morti… così anche noi possiamo camminare in una vita nuova” (Rm 6,4). Ma Dio rispetta sempre la nostra libertà e chiede che accettiamo questo dono e viviamo le esigenze che esso comporta, chiede che ci lasciamo trasformare dall’azione dello Spirito Santo, conformando la nostra volontà alla volontà di Dio.
Come può avvenire che il nostro modo di pensare e le nostre azioni diventino il pensare e l’agire con Cristo e di Cristo? Qual è l’anima della santità? Di nuovo il Concilio Vaticano II precisa; ci dice che la santità cristiana non è altro che la carità pienamente vissuta. “«Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16). Ora, Dio ha largamente diffuso il suo amore nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo, che ci fu dato (cfr Rm 5,5); perciò il dono primo e più necessario è la carità, con la quale amiamo Dio sopra ogni cosa e il prossimo per amore di Lui. Ma perché la carità, come un buon seme, cresca nell’anima e vi fruttifichi, ogni fedele deve ascoltare volentieri la parola di Dio e, con l’aiuto della grazia, compiere con le opere la sua volontà, partecipare frequentemente ai sacramenti, soprattutto all’Eucaristia e alla santa liturgia; applicarsi costantemente alla preghiera, all’abnegazione di se stesso, al servizio attivo dei fratelli e all’esercizio di ogni virtù. La carità infatti, vincolo della perfezione e compimento della legge (cfr Col 3,14; Rm 13,10), dirige tutti i mezzi di santificazione, dà loro forma e li conduce al loro fine. Forse anche questo linguaggio del Concilio Vaticano II per noi è ancora un po’ troppo solenne, forse dobbiamo dire le cose in modo ancora più semplice. Che cosa è essenziale? Essenziale è non lasciare mai una domenica senza un incontro con il Cristo Risorto nell’Eucaristia; questo non è un peso aggiunto, ma è luce per tutta la settimana. Non cominciare e non finire mai un giorno senza almeno un breve contatto con Dio. E, nella strada della nostra vita, seguire gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato nel Decalogo letto con Cristo, che è semplicemente l’esplicitazione di che cosa sia carità in determinate situazioni.  Mi sembra che questa sia la vera semplicità e grandezza della vita di santità: l’incontro col Risorto la domenica; il contatto con Dio all’inizio e alla fine del giorno; seguire, nelle decisioni, gli “indicatori stradali” che Dio ci ha comunicato, che sono solo forme di carità. Perciò il vero discepolo di Cristo si caratterizza per la carità verso Dio e verso il prossimo” (Lumen gentium, 42). Questa è la vera semplicità, grandezza e profondità della vita cristiana, dell’essere santi.
 Ecco perché sant’Agostino, commentando il capitolo quarto della Prima Lettera di san Giovanni, può affermare una cosa coraggiosa: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”. E continua: “Sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; vi sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene” (7,8: PL  35). Chi è guidato dall’amore, chi vive la carità pienamente è guidato da Dio, perché Dio è amore. Così vale questa parola grande: “Dilige et fac quod vis”, “Ama e fa’ ciò che vuoi”.
Forse potremmo chiederci: possiamo noi, con i nostri limiti, con la nostra debolezza, tendere così in alto? La Chiesa, durante l’Anno Liturgico, ci invita a fare memoria di una schiera di Santi, di coloro, cioè, che hanno vissuto pienamente la carità, hanno saputo amare e seguire Cristo nella loro vita quotidiana. Essi ci dicono che è possibile per tutti percorrere questa strada. In ogni epoca della storia della Chiesa, ad ogni latitudine della geografia del mondo, i Santi appartengono a tutte le età e ad ogni stato di vita, sono volti concreti di ogni popolo, lingua e nazione. E sono tipi molto diversi. In realtà devo dire che anche per la mia fede personale molti santi, non tutti, sono vere stelle nel firmamento della storia. E vorrei aggiungere che per me non solo alcuni grandi santi che amo e che conosco bene sono “indicatori di strada”, ma proprio anche i santi semplici, cioè le persone buone che vedo nella mia vita, che non saranno mai canonizzate. Sono persone normali, per così dire, senza eroismo visibile, ma nella loro bontà di ogni giorno vedo la verità della fede. Questa bontà, che hanno maturato nella fede della Chiesa, è per me la più sicura apologia del cristianesimo e il segno di dove sia la verità.
Nella comunione dei Santi, canonizzati e non canonizzati, che la Chiesa vive grazie a Cristo in tutti i suoi membri, noi godiamo della loro presenza e della loro compagnia e coltiviamo la ferma speranza di poter imitare il loro cammino e condividere un giorno la stessa vita beata, la vita eterna.
Cari amici, come è grande e bella, e anche semplice, la vocazione cristiana vista in questa luce! Tutti siamo chiamati alla santità: è la misura stessa della vita cristiana. Ancora una volta san Paolo lo esprime con grande intensità, quando scrive: “A ciascuno di noi è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo… Egli ha dato ad alcuni di essere apostoli, ad altri di essere profeti, ad altri ancora di essere evangelisti, ad altri di essere pastori e maestri, per preparare i fratelli a compiere il ministero, allo scopo di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, fino all’uomo perfetto, fino a raggiungere la misura della pienezza di Cristo” (Ef 4,7.11-13). Vorrei invitare tutti ad aprirsi all’azione dello Spirito Santo, che trasforma la nostra vita, per essere anche noi come tessere del grande mosaico di santità che Dio va creando nella storia, perché il volto di Cristo splenda nella pienezza del suo fulgore. Non abbiamo paura di tendere verso l’alto, verso le altezze di Dio; non abbiamo paura che Dio ci chieda troppo, ma lasciamoci guidare in ogni azione quotidiana dalla sua Parola, anche se ci sentiamo poveri, inadeguati, peccatori: sarà Lui a trasformarci secondo il suo amore. Grazie.

Publié dans:PAPA BENEDETTO: SANTI |on 30 octobre, 2012 |Pas de commentaires »

« LINGUE COME DI FUOCO… » (PRIMA PARTE) – cardinale Albert Vanhoye

http://www.zenit.org/article-33577?l=italian

« LINGUE COME DI FUOCO… » (PRIMA PARTE)

Relazione del cardinale Albert Vanhoye, S.J., al recente Convegno sullo Spirito Santo

(domani la seconda parte)

ROMA, martedì, 30 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Presentiamo la prima parte della relazione tenuta giovedì 25 ottobre scorso dal cardinale Albert Vanhoye, S.J., al Convegno sullo Spirito Santo, svoltosi presso la Pontificia Università Gregoriana a Roma.
***
Cari amici
Mi è stato gentilmente richiesto di trattare un tema formulato in questo modo: «Lingue come di fuoco si posarono su di loro» (At 1,3). “Roveto ardente”, amore che arde e non si consuma. Lo Spirito Santo e la vita nuova in Cristo.»
Come potete vedere, questo tema parte da un punto molto preciso, un frammento di una frase degli Atti degli Apostoli, presa dal racconto della Pentecoste, poi il tema si allarga con un accenno al racconto del “Roveto ardente”, che si trova nel Libro dell’Esodo, all’inizio del terzo capitolo. Viene allora introdotto nel tema l’amore, di cui il racconto dell’Esodo non parla. Infine, il tema viene allargato immensamente al rapporto tra lo Spirito e la vita nuova in Cristo. Mi pare che questa presentazione del tema manifesti splendidamente la libertà dello Spirito, il quale soffia dove vuole,” come disse Gesù a Nicodemo (Gv 3,8). Non mi sarà facile spiegare in pochi minuti tutta questa abbondante materia.
Come sapete, nel racconto della Pentecoste, la presenza e l’azione dello Spirito Santo si manifestano all’inizio in due modi, uno per le orecchie e l’altro per gli occhi. Per le orecchie c’è stato “un fragore, come di un vento che si abbatteva impetuoso e riempì tutta la casa dove stavano”. Che lo Spirito si manifesti come un vento è molto naturale, perché il primo senso della parola greca usata per designarlo è “soffio”. Lo Spirito soffia. Questo esprime bene il dinamismo dello Spirito, che mette tutto in moto, non ci lascia tranquilli! La parola italiana “spirito” è meno espressiva, non esprime un dinamismo.
Per gli occhi lo Spirito manifestò la sua presenza e la sua azione in modo diverso, cioè con un’apparizione. San Luca scrive: “e apparvero loro, dividendosi, lingue come di fuoco e se ne posò una su ciascuno di loro e furono tutti riempiti di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro di esprimersi.” (At 2,3-4).
L’espressione “lingue come di fuoco” si trova soltanto qui nella Bibbia. Senza la parola “come” e al singolare, “lingua di fuoco” si legge una volta nell’A.T. in un passo di Isaia, che contiene una minaccia contro i peccatori, dicendo: “Perciò, come una lingua di fuoco divora la stoppia e una fiamma consuma la paglia, così le loro radici diventeranno un marciume…” (Is 5,24). È chiaro che questo testo non illumina per niente l’espressione di At 2,3, nella quale la parola “come” ha un’importanza capitale, perché indica che “fuoco” non definisce bene una realtà che non è del nostro mondo. Queste lingue non erano realmente “di fuoco”. Erano “come di fuoco”. Rappresentavano un fuoco spirituale.
Questa apparizione è molto diversa da quella del roveto ardente, la quale è un’apparizione di persona. Il testo dell’Esodo dice, infatti, parlando di Mosè: “L’Angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco dal mezzo di un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva per il fuoco, ma quel roveto non si consumava” (Es 3,2). Più avanti il testo dice che “Dio gridò a lui”, cioè a Mosè, “dal roveto” (Es 3,4), e si presentò come “il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe” (Es 3,6).
L’apparizione del giorno della Pentecoste non è stata, invece, un’apparizione di persona, ma un’apparizione di “lingue”, che manifestò l’intervento dello Spirito, il quale non parlava, ma riempì le persone e le fece parlare. La prima cosa che dice san Luca di queste lingue, anche prima di nominarle, è che si dividevano; Luca, infatti, scrive: “e apparvero loro, dividendosi, lingue come di fuoco” (At 2,3). La traduzione della CEI non rispetta l’ordine del testo greco, ma mette: “Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, …”. L’ordine del testo, però, è significativo; fa capire che non sono state le lingue singole che si dividevano, ma le lingue singole sono state il risultato della divisione. Questa divisione non manca d’importanza; manifesta, infatti, che lo Spirito Santo non agì in modo globale, ma in modo diversificato. Non produsse uniformità, ma unità nella diversità. Lo spiega bene san Paolo nella sua Prima Lettera ai Corinzi scrivendo: “A uno, infatti, per  mezzo dello Spirito, viene dato un linguaggio di sapienza, a un altro, invece, dallo stesso Spirito, un linguaggio di conoscenza; a uno, nello stesso Spirito, un atteggiamento di fede; a un altro, nell’unico Spirito, doni di guarigioni”; san Paolo continua l’elenco dei carismi, poi conclude: “tutte queste cose le opera l’unico e medesimo Spirito, distribuendole a ciascuno come vuole” (1 Cor 12,8-11).
Il racconto di Luca insiste poi sull’aspetto di lingua, perché dice che l’effetto prodotto dallo Spirito Santo fu che “cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro di esprimersi” (At 2,4). Che cosa sono queste “altre lingue”? Il seguito del racconto suggerisce che si tratta delle lingue di altri popoli; perché nella folla cosmopolitica radunata a causa del fragore che si era sentito, la gente diceva: “ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa” (At 2,8), “li sentiamo parlare, nelle nostre lingue, delle grandi opere di Dio” (At 2,11).
Però se cerchiamo di rappresentarci l’evento, ci rendiamo conto che questa interpretazione suppone una cacofonia tremenda, cioè che nello stesso momento ciascun apostolo si esprimeva ad alta voce in una lingua diversa dagli altri. Perciò, già nell’antichità, si è pensato che il miracolo non fosse stato nel parlare degli apostoli ma nel sentire degli uditori, cioè lo Spirito Santo dava agli uditori l’impressione di sentire un discorso ciascuno nella propria lingua. Nel secolo scorso, Padre Lyonnet ha precisato l’interpretazione, dicendo che gli apostoli ebbero allora il carisma di glossolalia e gli uditori il carisma di interpretazione. Nella Prima ai Corinzi, san Paolo parla di questi due carismi, il “parlare in lingue” e “l’interpretare questo parlare in lingue”. Il “parlare in lingue” consiste nel lodare Dio con una serie di parole piene di entusiasmo, ma che non formano un discorso comprensibile. Sapete meglio di me che questo carisma era scomparso nella Chiesa, ma è apparso di nuovo a partire dall’inizio del secolo scorso in gruppi di protestanti pentecostali e si è diffuso nella Chiesa cattolica dopo il Concilio, il quale secondo il desiderio del Papa Giovanni XXIII doveva suscitare una nuova Pentecoste.
[La seconda parte verrà pubblicata mercoledì 31 ottobre]

Publié dans:c.CARDINALI, temi - lo Spirito Santo |on 30 octobre, 2012 |Pas de commentaires »
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