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BENEDETTO XVI – LETTERA AI FILIPPESI – UDIENZA 27.6.2012

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BENEDETTO XVI – LETTERA AI FILIPPESI – UDIENZA 27.6.2012

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 27 Giugno 2012

Cari fratelli e sorelle,

La nostra preghiera è fatta, come abbiamo visto nei mercoledì passati, di silenzi e di parola, di canto e di gesti che coinvolgono l’intera persona: dalla bocca alla mente, dal cuore all’intero corpo. E’ una caratteristica che ritroviamo nella preghiera ebraica, specialmente nei Salmi. Oggi vorrei parlare di uno dei canti o inni più antichi della tradizione cristiana, che san Paolo ci presenta in quello che è, in certo modo, il suo testamento spirituale: la Lettera ai Filippesi. Si tratta, infatti, di una Lettera che l’Apostolo detta mentre è in prigione, forse a Roma. Egli sente prossima la morte perché afferma che la sua vita sarà offerta in libagione (cfr Fil 2,17).
Nonostante questa situazione di grave pericolo per la sua incolumità fisica, san Paolo, in tutto lo scritto, esprime la gioia di essere discepolo di Cristo, di potergli andare incontro, fino al punto di vedere il morire non come una perdita, ma come guadagno. Nell’ultimo capitolo della Lettera c’è un forte invito alla gioia, caratteristica fondamentale dell’essere cristiani e del nostro pregare. San Paolo scrive: «Siate sempre lieti nel Signore; ve lo ripeto: siate lieti» (Fil 4,4). Ma come si può gioire di fronte a una condanna a morte ormai imminente? Da dove o meglio da chi san Paolo trae la serenità, la forza, il coraggio di andare incontro al martirio e all’effusione del sangue?
Troviamo la risposta al centro della Lettera ai Filippesi, in quello che la tradizione cristiana denomina carmen Christo, il canto per Cristo, o più comunemente «inno cristologico»; un canto in cui tutta l’attenzione è centrata sui «sentimenti» di Cristo, cioè sul suo modo di pensare e sul suo atteggiamento concreto e vissuto. Questa preghiera inizia con un’esortazione: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Questi sentimenti vengono presentati nei versetti successivi: l’amore, la generosità, l’umiltà, l’obbedienza a Dio, il dono di sé. Si tratta non solo e non semplicemente di seguire l’esempio di Gesù, come una cosa morale, ma di coinvolgere tutta l’esistenza nel suo modo di pensare e di agire. La preghiera deve condurre ad una conoscenza e ad un’unione nell’amore sempre più profonde con il Signore, per poter pensare, agire e amare come Lui, in Lui e per Lui. Esercitare questo, imparare i sentimenti di Gesù, è la via della vita cristiana.
Ora vorrei soffermarmi brevemente su alcuni elementi di questo denso canto, che riassume tutto l’itinerario divino e umano del Figlio di Dio e ingloba tutta la storia umana: dall’essere nella condizione di Dio, all’incarnazione, alla morte di croce e all’esaltazione nella gloria del Padre è implicito anche il comportamento di Adamo, dell’uomo dall’inizio. Questo inno a Cristo parte dal suo essere «en morphe tou Theou», dice il testo greco, cioè dall’essere «nella forma di Dio», o meglio nella condizione di Dio. Gesù, vero Dio e vero uomo, non vive il suo «essere come Dio» per trionfare o per imporre la sua supremazia, non lo considera un possesso, un privilegio, un tesoro geloso. Anzi, «spogliò», svuotò se stesso assumendo, dice il testo greco, la «morphe doulos», la «forma di schiavo», la realtà umana segnata dalla sofferenza, dalla povertà, dalla morte; si è assimilato pienamente agli uomini, tranne che nel peccato, così da comportarsi come servo completamente dedito al servizio degli altri. Al riguardo, Eusebio di Cesarea – IV secolo – afferma: «Ha preso su se stesso le fatiche delle membra che soffrono. Ha fatto sue le nostre umili malattie. Ha sofferto e tribolato per causa nostra: questo in conformità con il suo grande amore per l’umanità» (La dimostrazione evangelica, 10, 1, 22). San Paolo continua delineando il quadro «storico» in cui si è realizzato questo abbassamento di Gesù: «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte» (Fil 2,8). Il Figlio di Dio è diventato veramente uomo e ha compiuto un cammino nella completa obbedienza e fedeltà alla volontà del Padre fino al sacrificio supremo della propria vita. Ancora di più, l’Apostolo specifica «fino alla morte, e a una morte di croce». Sulla croce Gesù Cristo ha raggiunto il massimo grado dell’umiliazione, perché la crocifissione era la pena riservata agli schiavi e non alle persone libere: «mors turpissima crucis», scrive Cicerone (cfr In Verrem, V, 64, 165).
Nella Croce di Cristo l’uomo viene redento e l’esperienza di Adamo è rovesciata: Adamo, creato a immagine e somiglianza di Dio, pretese di essere come Dio con le proprie forze, di mettersi al posto di Dio, e così perse la dignità originaria che gli era stata data. Gesù, invece, era «nella condizione di Dio», ma si è abbassato, si è immerso nella condizione umana, nella totale fedeltà al Padre, per redimere l’Adamo che è in noi e ridare all’uomo la dignità che aveva perduto. I Padri sottolineano che Egli si è fatto obbediente, restituendo alla natura umana, attraverso la sua umanità e obbedienza, quello che era stato perduto per la disobbedienza di Adamo.
Nella preghiera, nel rapporto con Dio, noi apriamo la mente, il cuore, la volontà all’azione dello Spirito Santo per entrare in quella stessa dinamica di vita, come afferma san Cirillo di Alessandria, la cui festa celebriamo oggi: «L’opera dello Spirito cerca di trasformarci per mezzo della grazia nella copia perfetta della sua umiliazione» (Lettera Festale 10, 4). La logica umana, invece, ricerca spesso la realizzazione di se stessi nel potere, nel dominio, nei mezzi potenti. L’uomo continua a voler costruire con le proprie forze la torre di Babele per raggiungere da se stesso l’altezza di Dio, per essere come Dio. L’Incarnazione e la Croce ci ricordano che la piena realizzazione sta nel conformare la propria volontà umana a quella del Padre, nello svuotarsi dal proprio egoismo, per riempirsi dell’amore, della carità di Dio e così diventare veramente capaci di amare gli altri. L’uomo non trova se stesso rimanendo chiuso in sé, affermando se stesso. L’uomo si ritrova solo uscendo da se stesso; solo se usciamo da noi stessi ci ritroviamo. E se Adamo voleva imitare Dio, questo di per sé non è male, ma ha sbagliato nell’idea di Dio. Dio non è uno che vuole solo grandezza. Dio è amore che si dona già nella Trinità, e poi nella creazione. E imitare Dio vuol dire uscire da se stesso, darsi nell’amore.
Nella seconda parte di questo «inno cristologico» della Lettera ai Filippesi, il soggetto cambia; non è più Cristo, ma è Dio Padre. San Paolo sottolinea che è proprio per l’obbedienza alla volontà del Padre che «Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,9). Colui che si è profondamente abbassato prendendo la condizione di schiavo, viene esaltato, innalzato sopra ogni cosa dal Padre, che gli dà il nome di «Kyrios», «Signore», la suprema dignità e signoria. Di fronte a questo nome nuovo, infatti, che è il nome stesso di Dio nell’Antico Testamento, «ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore”, a gloria di Dio Padre» (vv. 10-11). Il Gesù che viene esaltato è quello dell’Ultima Cena, che depone le vesti, si cinge di un asciugamano, si china a lavare i piedi agli Apostoli e chiede loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13,12-14). Questo è importante ricordare sempre nella nostra preghiera e nella nostra vita: «l’ascesa a Dio avviene proprio nella discesa dell’umile servizio, nella discesa dell’amore, che è l’essenza di Dio e quindi la forza veramente purificatrice, che rende l’uomo capace di percepire e di vedere Dio» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, p. 120).
L’inno della Lettera ai Filippesi ci offre qui due indicazioni importanti per la nostra preghiera. La prima è l’invocazione «Signore» rivolta a Gesù Cristo, seduto alla destra del Padre: è Lui l’unico Signore della nostra vita, in mezzo ai tanti «dominatori» che la vogliono indirizzare e guidare. Per questo, è necessario avere una scala di valori in cui il primato spetta a Dio, per affermare con san Paolo: «ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore» (Fil 3,8). L’incontro con il Risorto gli ha fatto comprendere che è Lui l’unico tesoro per il quale vale la pena spendere la propria esistenza.
La seconda indicazione è la prostrazione, il «piegarsi di ogni ginocchio» nella terra e nei cieli, che richiama un’espressione del Profeta Isaia, dove indica l’adorazione che tutte le creature devono a Dio (cfr 45,23). La genuflessione davanti al Santissimo Sacramento o il mettersi in ginocchio nella preghiera esprimono proprio l’atteggiamento di adorazione di fronte a Dio, anche con il corpo. Da qui l’importanza di compiere questo gesto non per abitudine e in fretta, ma con profonda consapevolezza. Quando ci inginocchiamo davanti al Signore noi confessiamo la nostra fede in Lui, riconosciamo che è Lui l’unico Signore della nostra vita.
Cari fratelli e sorelle, nella nostra preghiera fissiamo il nostro sguardo sul Crocifisso, sostiamo in adorazione più spesso davanti all’Eucaristia, per far entrare la nostra vita nell’amore di Dio, che si è abbassato con umiltà per elevarci fino a Lui. All’inizio della catechesi ci siamo chiesti come san Paolo potesse gioire di fronte al rischio imminente del martirio e della sua effusione del sangue. Questo è possibile soltanto perché l’Apostolo non ha mai allontanato il suo sguardo da Cristo sino a diventargli conforme nella morte, «nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,11). Come san Francesco davanti al crocifisso, diciamo anche noi: Altissimo, glorioso Dio, illumina le tenebre del mio cuore. Dammi una fede retta, speranza certa e carità perfetta, senno e discernimento per compiere la tua vera e santa volontà. Amen (cfr Preghiera davanti al Crocifisso: FF [276]).

CAPACI DI STUPORE E DI MERAVIGLIA? APPUNTI PER UNA LETTURA DI FILIPPESI 2,5-11

http://dimensionesperanza.it/aree/formazione-religiosa/bailamme/item/4062-capaci-di-stupore-e-di-meraviglia-appunti-per-una-lettura-di-filippesi-25-11-fausto-ferrari.html

CAPACI DI STUPORE E DI MERAVIGLIA? APPUNTI PER UNA LETTURA DI FILIPPESI 2,5-11

(Faustino Ferrari)

Con questo brano Paolo introduce nella lettera un Inno a Cristo. Un testo, probabilmente, precedente a Paolo e che Paolo riprende, ripensandolo.

« Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù,
il quale, pur essendo di natura divina,
non considerò come una rapina la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di schiavo
e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana,
umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome;
perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra;
e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre ».

Con questo brano Paolo introduce nella lettera un Inno a Cristo. Un testo, probabilmente, precedente a Paolo e che Paolo riprende, ripensandolo.
È un inno delle comunità cristiane primitive: abbiamo una composizione strofica del brano e ci sono espressi concetti che non sono abituali in Paolo. Paolo fa suo questo inno apportandovi alcune sue intuizioni ed inserendolo all’interno del discorso della lettera. Poco prima Paolo parla della necessità dell’umiltà (2, 1-4). Ha descritto ciò che non deve contraddistinguere il comportamento dei credenti. Ciò che non va fatto. Ora prosegue con una parola di esortazione, una parola positiva: devono essere gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù.
Si potrebbe pensare che qui Paolo rimandi semplicemente all’esempio di Cristo, al fatto che si debba avere i suoi stessi sentimenti. In realtà il discorso di Paolo è più profondo. Il discepolo, tramite il battesimo, viene immesso in un nuovo rapporto con Cristo e perciò con Dio. Con il battesimo il discepolo è nel Cristo, sotto l’influsso della signoria del Kurios. Vivere nella signoria del Kurios significa vivere una legge nuova – quella che ci è data dal Cristo. Essere in Cristo significa essere cristiani, vivere da cristiani. Non si tratta quindi di fare riferimento all’esempio di Cristo, ma vivere in pienezza della sua vita.
L’inno si compone di due parti, che descrivono in una grandiosa sintesi il cammino di Cristo, dalla sua preesistenza presso Dio, alla sua incarnazione nel mondo e quindi al nuovo ritorno alla signoria presso Dio.
C’era Uno nel mondo di Dio, anzi aveva la forma di Dio lui stesso.
Non si sta parlando di un’altra divinità, ma di Dio stesso. A differenza della filosofia del tempo, il neoplatonismo in particolare, non siamo di fronte ad una emanazione ed a una necessità. La motivazione dell’incarnazione è nella libertà. Non c’è costrizione né spinta a questa attività, ma è per libera iniziativa.

Svuotò se stesso.
Il termine usato in greco è kenos. La voce kenos (vuoto) si riferisce concretamente a cose e, per estensione, a persone. Innanzi tutto significa assenza di qualche cosa (ad es: pozzo vuoto, casa vuota). In secondo luogo indica anche una vita priva di contenuto, una vita vissuta inutilmente, eticamente negativa. Nel greco classico in origine significa vuoto, senza contenuto: è il contrario di pleres (pieno). In senso letterale è sempre riferito a cose, ma a volte anche a persone: una cisterna vuota (Ger. 37,24). Riferito a persona può riscontrarsi in frasi come “a mani vuote” (Gn 31,42). In senso traslato kenos indica mancanza di contenuto (parole vuote) o mancanza di vigore, debolezza. Per quanto riguarda le persone kenos significa vuoto, nullo, sia come giudizio sulle facoltà mentali, sia in senso etico (meschino, vano).
L’ebraico non conosce un termine equivalente al greco kenos. Nella LXX esso traduce ben 19 diverse voci ebraiche. La maggior parte dei passi la troviamo nei profeti (Is. e Ger.) o negli scritti più recenti (Salmi, Gb, Sir). Nel NT. solo Paolo usa kenos. (Si trova anche in Mc 12,3, ma con valore letterale). Paolo conferisce al termine una particolare connotazione usando in genere la formula negativa (mé eis kenòn, non invano). In lui prevale l’accezione di inutilità.

Soggetto delle affermazioni paoline sono:

- la grazia: “Vi esorto a non accogliere invano la grazia di Dio” (2Cor 6,1)
- il kerigma: “Se Cristo non è risuscitato, vana è la nostra fede” (1Cor 15,14)
- il lavoro apostolico: “Per timore che diventasse vana la nostra fatica” (1Ts 3,5)
- l’apostolo nella sua attività: “Potrò vantarmi di non aver corso invano né invano faticato” (Fil 2,16). “Esposi privatamente il vangelo, per non rischiare di correre o di aver corso invano” (Gal 2,2).

In senso positivo si tratta dunque della forza e della potenza dell’apostolato di Paolo. E’ opera di Dio e come tale agisce in potenza. Per Paolo, con i risultati della sua missione, è in gioco la potenza stessa della grazia divina: pertanto il lavoro missionario non può essere senza effetto.
Più difficile è la comprensione del testo di questo inno. Infatti l’espressione ekenosen heauton non è attestata in greco ed è fuori dalle regole grammaticali (forma riflessiva). Per alcuni studiosi si tratta della traduzione del passo di Is. 53,12 (“Ha consegnato se stesso alla morte”). Si dovrebbe perciò intendere: Egli ha svuotato la sua vita, cioè egli ha versato, svuotato se stesso. Il passo significherebbe dunque abbandonare la vita alla croce. Ma ciò pone una forzatura al testo perché al v. 7 si parla della specie umana in genere, mentre solo al v.8 dell’uomo in specifico. Altri interpretano il passo in base alle filosofie del tempo, che conoscevano l’idea dell’uomo primitivo-liberatore. Il Cristo si è cioè privato, ha volontariamente scambiato il suo modo di essere divino e preesistente con quello umano e terreno.
Questo fatto ha per noi qualcosa di semplicemente incomprensibile. Egli non credette di doversi tenere il suo essere come preda, come bottino. Ma ci viene presentato l’imprevisto, l’incomprensibile, l’indicibile: la spoliazione, la autospoliazione, lo svuotamento.
Al posto della forma di Dio subentra la “forma di schiavo”. La contrapposizione Dio-schiavo è fortissima. Non poteva essere più stridente e inquietante. Non è neppure pensabile. Paolo, con Timoteo, si presenta in apertura della lettera come schiavo di Gesù Cristo (1,1). Non usa un titolo che impone rispetto, ma si pone allo stesso livello di Timoteo, suo aiutante.
La schiavitù è per quel tempo un fenomeno sociale comune e ordinario. Fra gli stessi Filippesi, ai quali è rivolta la lettera, non pochi dovevano essere gli schiavi. Lo schiavo ha un padrone e Paolo si è asservito al Kurios. Da questo deriva che la parola schiavo contiene riflessi di gloria agli occhi di Paolo. Non si addice a tutti, ma soltanto a quei cristiani che svolgono azione missionaria. Gli altri sono “santi”: con il battesimo sono stati immessi nella vita in Cristo, sono santi in Cristo. Di fronte a Dio che assume la forma di schiavo non possiamo che prendere atto di tutto ciò che nello stupore, nella meraviglia.
Tuttavia, questa contrapposizione Dio-schiavo ci resta misteriosa poiché normalmente a Dio si oppone l’uomo. Di fatto l’inno vuole esaltare la gloria di Dio che si fa uomo. Lontano dalla tentazione docetista (semplice immagine assunta), viene presentata l’incarnazione di un vero uomo. Si incarna nella realtà: lui è uomo e in quanto uomo anche schiavo. Schiavo può essere detto dell’uomo, in riferimento alla sua bassezza e alla sua assoluta dipendenza, in totale contrasto con la gloria e con la signoria divina.
Nelle ultime due espressioni del v.7 Paolo sostituisce a schiavo la parola uomo, senza che il pensiero progredisca, ma per ribadire il mistero dell’incarnazione. Con immagine diversa, un contenuto analogo a quello espresso in questa prima parte lo possiamo ritrovare in 2Cor 8,9: “Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà”. Ed ancora, nel prologo del vangelo di Giovanni, là dove si parla della preesistenza del Verbo. “Ed il Verbo si fece carne e piantò la sua tenda in mezzo a noi” (Gv. 1,14).
Egli si rivelò obbediente.
A differenza delle nostre obbedienze, improntate all’osservanza di norme e leggi, qui l’obbedienza si esprime in un contesto di libertà. Questa libertà è più grande di qualsiasi libera obbedienza possibile all’uomo. L’obbedienza è da leggere in parallelo con il concetto di kenosi. All’autospogliazione, allo svuotamento segue l’autoumiliazione. Questa obbedienza giunge fino alla morte. La morte è il termine di un cammino. E nella morte si compie il mistero dell’incarnazione. La morte è il destino che ci unisce come uomini, al di là di ogni razza, condizione sociale, appartenenze. E l’esperienza della morte dimostra che egli è diventato veramente uno di noi. E si accenna che questa morte è la morte di croce.
La croce sta al centro del messaggio di Paolo. Riguarda la morte di Cristo come morte di salvezza. “Il linguaggio della croce è follia per quelli che si perdono, ma per noi che siamo salvi è potenza di Dio” (1Cor 1,18). E’ l’unico motivo di vanto che Paolo riconosce valido per sé (Gal 6,14). Il fatto che la salvezza è racchiusa in una croce suscita scandalo (Gal 5, 11), ma Paolo vi insiste perché nell’esperienza della croce vi è racchiusa la salvezza. E’ l’esperienza salvifica fondante.
Abbiamo poi la seconda parte dell’inno. Qui il protagonista, il soggetto, dell’azione, è Dio. L’azione di Dio è ora rivolta nei confronti dell’obbediente. “Il Signore ha morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire” (1Sam 2,6). “Tu infatti hai potere sulla vita e sulla morte, conduci giù alle porte degli inferi e fai risalire” (Sap. 16,13). “Egli castiga e usa misericordia, fa scendere negli abissi della terra, fa risalire dalla grande perdizione e nulla sfugge alla sua mano” (Tob. 13,2). E’ l’esperienza biblica del Dio che umilia ed esalta il giusto.
Questa regola dell’esaltazione – che segue al momento dell’umiliazione – è presente nell’inno, ma qui viene presentata con un’accezione unica nel suo genere. Infatti all’unicità dell’esperienza della kenosi, scelta nella libertà, corrisponde una reazione unica nel suo genere da parte di Dio. L’esaltazione è per colui che nella morte aveva spogliato se stesso.
Per Giovanni esperienza della croce ed esaltazione sono momenti che corrispondono:
“Come Mosé innalzò il serpente nel deserto, così bisogna sia innalzato il Figlio dell’Uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3,15).
“Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me. Diceva questo per indicare di qual morte doveva morire” (Gv 12, 32).
In Giovanni il riferimento dell’elevazione di Cristo sulla croce corrisponde contemporaneamente alla sua elevazione al cielo, alla sua glorificazione. I due avvenimenti croce e risurrezione sono due aspetti dello stesso mistero. L’elevazione sulla croce richiama l’elevazione alla destra del Padre, nella gloria. I due aspetti sono sincronici.
La glorificazione nell’inno viene messa in risalto attraverso il conferimento di un nome. Per il mondo biblico il nome non è qualcosa di casuale, di poco importante, ma contiene in sé l’essenza. Uno è ciò di cui porta il nome. Quindi, nel corso della vita, uno può anche cambiare nome (Abramo, Giacobbe, Simone). Per Isaia 45,23 “Ogni ginocchio si piegherà davanti a me, ogni lingua mi renderà omaggio”. Qui si indica che si è instaurato un totale cambio di potere sul cosmo. La glorificazione non riguarda soltanto il mondo degli uomini, ma anche quel mondo mitologico che per i contemporanei di Paolo è indicato col nome di Potenza. Sono quelle Potestà che hanno asservito il destino degli uomini, lasciandoli in balia del caos e dell’angoscia. Se ora piegano il loro ginocchio davanti a Cristo significa che il loro potere non è più, è stato abbattuto. E per gli uomini è giunto allora il momento di sperimentare la libertà.
Gesù Cristo è il Signore.
E’ il riconoscimento di questa nuova realtà che investe l’intero cosmo. È una professione di fede. L’enfasi è posta sul nome: Kurios, Signore. Questo è il nome conferitogli da Dio in premio della sua obbedienza. È questa la più antica professione di fede cristiana. “Se tu confessi con la tua bocca che Gesù è Signore, e credi in cuor tuo che Dio l’ha risuscitato da morte, sarai salvo” (Rom 10,9). Anche se nell’inno la confessione è espressa dalle Potestà cosmiche, non ci sono dubbi che è un modo liturgico della comunità riunita nella lode per annunciare la propria fede nella signoria di Gesù sul cosmo.
Le Potestà possono essere intese come espressione della nostra angoscia esistenziale, dell’uomo che si vede in balìa ad un destino cieco, ad una fatalità ineluttabile. La loro deposizione è simboleggiata dall’ingresso del mondo in Dio. Il mondo ora si fonda non sul caos ed il caso, ma su Gesù Cristo. E con il salmista si può allora dire: “Solo in Dio riposa il mio essere”.
Il nome “Signore” corrisponde nell’AT dei LXX al nome di Dio. E la comunità che riconosce Gesù Cristo come il Signore può rivolgersi a Dio come “Abbà, Padre” “poiché non abbiamo ricevuto uno spirito di figliolanza per cadere di nuovo nelle braccia della paura, ma abbiamo ricevuto uno spirito di figliolanza nel quale chiamiamo Dio: Abbà!” (Rm 8,15).
“Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono di Gesù Cristo”. Il riferimento, evidentemente, è alla prima parte dell’inno. Riguarda il mistero dell’incarnazione e non tanto il momento della glorificazione – opera di Dio, questa. Opera che possiamo riconoscere attraverso la professione di fede: Gesù Cristo è il Signore. I sentimenti sono relativi all’esperienza dell’abbassamento, dello svuotamento. Paolo, che si è salutato come schiavo del Signore, invita i cristiani di Filippi a farsi a loro volta schiavi di Gesù Cristo, ripercorrendo nella propria vita quel mistero che è la kenosi.
Riconoscere la signoria di Cristo, oggi come allora, sulle Potestà. La vittoria di Cristo libera l’uomo dall’angoscia del caos e del caso. Ma se Paolo afferma che tale vittoria è definitiva, il rischio che possiamo correre è quello di vivere come se queste signorie e potestà continuassero a dominare sopra di noi. Certo, il quadro mitologico è cambiato, non si tratta più, per noi, di esseri che si collocano tra Dio e l’uomo. Però ancora oggi possiamo correre il rischio di essere angosciati di fronte ad una realtà che vediamo con difficoltà percorsa dalla mano provvidente di Dio, ma con facilità intessuta di caso, di fatalità, di assurdità.
Oppure altre potestà – più concrete, ma non per questo meno asserventi: il denaro, il libero mercato, la televisione, gli oroscopi, ecc… Riconoscere che Gesù Cristo è il Signore diventa allora un atto di fede che ci permette di dare il giusto valore alle cose. Ove la signoria del Signore ci libera da tutte le schiavitù che ci troviamo a creare e a portare.
Il Dio che si svuota di sé è il Dio che si rivela. Se alcuni di noi hanno potuto incontrare Gesù di Nazareth sulle polverose strade di Palestina, se hanno potuto ascoltare la sua voce e accogliere il suo invito, ciò è stato possibile perché prima c’è stato un abbassamento. Questa non è una novità, ma la conferma di una pedagogia perseguita lungo tutta la storia della salvezza. Dio si fa incontro al secondogenito, al povero e allo straniero, all’orfano e alla vedova… Ed ora Dio si fa incontro all’uomo come uomo.
L’abbassamento, lo svuotamento, il nascondimento non è allora un atteggiamento etico-morale. Non è un pio esercizio di umiliazione. E’ la logica stessa della rivelazione e dell’incarnazione. La conformazione a Cristo passa per questa strada. Come cristiani a poco a poco apprendiamo che solo scendendo possiamo salire. Non ci sono altri cammini che possano farci evitare questo itinerario.
«Una storia vera. Durante l’occupazione nazista della Boemia, una sera furono presi dalla polizia numerosi rappresentanti delle classi intellettuali. Mentre aspettavano il processo, vivevano insieme in una grande baracca comune. Come passare il tempo in una situazione piena di incertezze? Venne un’idea: ci troviamo qui in tanti professori, perché non fare lezione? Ognuno cercherà dal punto di vista della sua materia di arricchire gli altri con qualche cosa bella. La proposta fu subito accettata. Una lezione era di letteratura francese, un’altra sulle nuove teorie nelle scienze naturali, un’altra ancora sui grandi personaggi della storia. Un idealista di sinistra commosse gli ascoltatori con il suo modo di proporre in un modo simpatico Karl Marx.
Ma poi venne il turno di un sacerdote. A lui fu rivolta una domanda precisa: «Ci dica qualcosa di nuovo e di attraente sulla persona di Gesù Cristo! » Parecchi anni dopo, nel tempo della liberazione, il sacerdote confesso:
«Era per me uno dei momenti più sconsolati della prigionia. Segretamente piangevo. Tutti sapevano presentare i loro temi in maniera attraente e ne facevano scoprire agli altri qualche aspetto nuovo. Solo io, povero, ripetevo le verità fondamentali del catechismo in un modo tale che non attirava l’attenzione. Eppure, l’oggetto della mia lezione era la Verità e la Bellezza stessa incarnata. Non fu forse, da parte mia, tragico?» (Tomás Spidlìk, Conosci Cristo? Attualità della sua persona, Lipa, Roma, 1997, p. 5)
Il cammino di cui ci parla l’inno è quello che può condurci alla Verità e alla Bellezza incarnata. Saremo ancora capaci di stupore e di meraviglia?

Faustino Ferrari

Publié dans:Lettera ai Filippesi |on 1 octobre, 2018 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – LA LETTERA AI FILIPPESI (Il testamento spirituale di Paolo)

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BENEDETTO XVI – LA LETTERA AI FILIPPESI (Il testamento spirituale di Paolo)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI

Mercoledì, 27 Giugno 2012

Cari fratelli e sorelle,

La nostra preghiera è fatta, come abbiamo visto nei mercoledì passati, di silenzi e di parola, di canto e di gesti che coinvolgono l’intera persona: dalla bocca alla mente, dal cuore all’intero corpo. E’ una caratteristica che ritroviamo nella preghiera ebraica, specialmente nei Salmi. Oggi vorrei parlare di uno dei canti o inni più antichi della tradizione cristiana, che san Paolo ci presenta in quello che è, in certo modo, il suo testamento spirituale: la Lettera ai Filippesi. Si tratta, infatti, di una Lettera che l’Apostolo detta mentre è in prigione, forse a Roma. Egli sente prossima la morte perché afferma che la sua vita sarà offerta in libagione (cfr Fil 2,17).
Nonostante questa situazione di grave pericolo per la sua incolumità fisica, san Paolo, in tutto lo scritto, esprime la gioia di essere discepolo di Cristo, di potergli andare incontro, fino al punto di vedere il morire non come una perdita, ma come guadagno. Nell’ultimo capitolo della Lettera c’è un forte invito alla gioia, caratteristica fondamentale dell’essere cristiani e del nostro pregare. San Paolo scrive: «Siate sempre lieti nel Signore; ve lo ripeto: siate lieti» (Fil 4,4). Ma come si può gioire di fronte a una condanna a morte ormai imminente? Da dove o meglio da chi san Paolo trae la serenità, la forza, il coraggio di andare incontro al martirio e all’effusione del sangue?
Troviamo la risposta al centro della Lettera ai Filippesi, in quello che la tradizione cristiana denomina carmen Christo, il canto per Cristo, o più comunemente «inno cristologico»; un canto in cui tutta l’attenzione è centrata sui «sentimenti» di Cristo, cioè sul suo modo di pensare e sul suo atteggiamento concreto e vissuto. Questa preghiera inizia con un’esortazione: «Abbiate in voi gli stessi sentimenti di Cristo Gesù» (Fil 2,5). Questi sentimenti vengono presentati nei versetti successivi: l’amore, la generosità, l’umiltà, l’obbedienza a Dio, il dono di sé. Si tratta non solo e non semplicemente di seguire l’esempio di Gesù, come una cosa morale, ma di coinvolgere tutta l’esistenza nel suo modo di pensare e di agire. La preghiera deve condurre ad una conoscenza e ad un’unione nell’amore sempre più profonde con il Signore, per poter pensare, agire e amare come Lui, in Lui e per Lui. Esercitare questo, imparare i sentimenti di Gesù, è la via della vita cristiana.
Ora vorrei soffermarmi brevemente su alcuni elementi di questo denso canto, che riassume tutto l’itinerario divino e umano del Figlio di Dio e ingloba tutta la storia umana: dall’essere nella condizione di Dio, all’incarnazione, alla morte di croce e all’esaltazione nella gloria del Padre è implicito anche il comportamento di Adamo, dell’uomo dall’inizio. Questo inno a Cristo parte dal suo essere «en morphe tou Theou», dice il testo greco, cioè dall’essere «nella forma di Dio», o meglio nella condizione di Dio. Gesù, vero Dio e vero uomo, non vive il suo «essere come Dio» per trionfare o per imporre la sua supremazia, non lo considera un possesso, un privilegio, un tesoro geloso. Anzi, «spogliò», svuotò se stesso assumendo, dice il testo greco, la «morphe doulos», la «forma di schiavo», la realtà umana segnata dalla sofferenza, dalla povertà, dalla morte; si è assimilato pienamente agli uomini, tranne che nel peccato, così da comportarsi come servo completamente dedito al servizio degli altri. Al riguardo, Eusebio di Cesarea – IV secolo – afferma: «Ha preso su se stesso le fatiche delle membra che soffrono. Ha fatto sue le nostre umili malattie. Ha sofferto e tribolato per causa nostra: questo in conformità con il suo grande amore per l’umanità» (La dimostrazione evangelica, 10, 1, 22). San Paolo continua delineando il quadro «storico» in cui si è realizzato questo abbassamento di Gesù: «umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte» (Fil 2,8). Il Figlio di Dio è diventato veramente uomo e ha compiuto un cammino nella completa obbedienza e fedeltà alla volontà del Padre fino al sacrificio supremo della propria vita. Ancora di più, l’Apostolo specifica «fino alla morte, e a una morte di croce». Sulla croce Gesù Cristo ha raggiunto il massimo grado dell’umiliazione, perché la crocifissione era la pena riservata agli schiavi e non alle persone libere: «mors turpissima crucis», scrive Cicerone (cfr In Verrem, V, 64, 165).
Nella Croce di Cristo l’uomo viene redento e l’esperienza di Adamo è rovesciata: Adamo, creato a immagine e somiglianza di Dio, pretese di essere come Dio con le proprie forze, di mettersi al posto di Dio, e così perse la dignità originaria che gli era stata data. Gesù, invece, era «nella condizione di Dio», ma si è abbassato, si è immerso nella condizione umana, nella totale fedeltà al Padre, per redimere l’Adamo che è in noi e ridare all’uomo la dignità che aveva perduto. I Padri sottolineano che Egli si è fatto obbediente, restituendo alla natura umana, attraverso la sua umanità e obbedienza, quello che era stato perduto per la disobbedienza di Adamo.
Nella preghiera, nel rapporto con Dio, noi apriamo la mente, il cuore, la volontà all’azione dello Spirito Santo per entrare in quella stessa dinamica di vita, come afferma san Cirillo di Alessandria, la cui festa celebriamo oggi: «L’opera dello Spirito cerca di trasformarci per mezzo della grazia nella copia perfetta della sua umiliazione» (Lettera Festale 10, 4). La logica umana, invece, ricerca spesso la realizzazione di se stessi nel potere, nel dominio, nei mezzi potenti. L’uomo continua a voler costruire con le proprie forze la torre di Babele per raggiungere da se stesso l’altezza di Dio, per essere come Dio. L’Incarnazione e la Croce ci ricordano che la piena realizzazione sta nel conformare la propria volontà umana a quella del Padre, nello svuotarsi dal proprio egoismo, per riempirsi dell’amore, della carità di Dio e così diventare veramente capaci di amare gli altri. L’uomo non trova se stesso rimanendo chiuso in sé, affermando se stesso. L’uomo si ritrova solo uscendo da se stesso; solo se usciamo da noi stessi ci ritroviamo. E se Adamo voleva imitare Dio, questo di per sé non è male, ma ha sbagliato nell’idea di Dio. Dio non è uno che vuole solo grandezza. Dio è amore che si dona già nella Trinità, e poi nella creazione. E imitare Dio vuol dire uscire da se stesso, darsi nell’amore.
Nella seconda parte di questo «inno cristologico» della Lettera ai Filippesi, il soggetto cambia; non è più Cristo, ma è Dio Padre. San Paolo sottolinea che è proprio per l’obbedienza alla volontà del Padre che «Dio lo esaltò e gli donò il nome che è al di sopra di ogni nome» (Fil 2,9). Colui che si è profondamente abbassato prendendo la condizione di schiavo, viene esaltato, innalzato sopra ogni cosa dal Padre, che gli dà il nome di «Kyrios», «Signore», la suprema dignità e signoria. Di fronte a questo nome nuovo, infatti, che è il nome stesso di Dio nell’Antico Testamento, «ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: “Gesù Cristo è Signore”, a gloria di Dio Padre» (vv. 10-11). Il Gesù che viene esaltato è quello dell’Ultima Cena, che depone le vesti, si cinge di un asciugamano, si china a lavare i piedi agli Apostoli e chiede loro: «Capite quello che ho fatto per voi? Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri» (Gv 13,12-14). Questo è importante ricordare sempre nella nostra preghiera e nella nostra vita: «l’ascesa a Dio avviene proprio nella discesa dell’umile servizio, nella discesa dell’amore, che è l’essenza di Dio e quindi la forza veramente purificatrice, che rende l’uomo capace di percepire e di vedere Dio» (Gesù di Nazaret, Milano 2007, p. 120).
L’inno della Lettera ai Filippesi ci offre qui due indicazioni importanti per la nostra preghiera. La prima è l’invocazione «Signore» rivolta a Gesù Cristo, seduto alla destra del Padre: è Lui l’unico Signore della nostra vita, in mezzo ai tanti «dominatori» che la vogliono indirizzare e guidare. Per questo, è necessario avere una scala di valori in cui il primato spetta a Dio, per affermare con san Paolo: «ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore» (Fil 3,8). L’incontro con il Risorto gli ha fatto comprendere che è Lui l’unico tesoro per il quale vale la pena spendere la propria esistenza.
La seconda indicazione è la prostrazione, il «piegarsi di ogni ginocchio» nella terra e nei cieli, che richiama un’espressione del Profeta Isaia, dove indica l’adorazione che tutte le creature devono a Dio (cfr 45,23). La genuflessione davanti al Santissimo Sacramento o il mettersi in ginocchio nella preghiera esprimono proprio l’atteggiamento di adorazione di fronte a Dio, anche con il corpo. Da qui l’importanza di compiere questo gesto non per abitudine e in fretta, ma con profonda consapevolezza. Quando ci inginocchiamo davanti al Signore noi confessiamo la nostra fede in Lui, riconosciamo che è Lui l’unico Signore della nostra vita.
Cari fratelli e sorelle, nella nostra preghiera fissiamo il nostro sguardo sul Crocifisso, sostiamo in adorazione più spesso davanti all’Eucaristia, per far entrare la nostra vita nell’amore di Dio, che si è abbassato con umiltà per elevarci fino a Lui. All’inizio della catechesi ci siamo chiesti come san Paolo potesse gioire di fronte al rischio imminente del martirio e della sua effusione del sangue. Questo è possibile soltanto perché l’Apostolo non ha mai allontanato il suo sguardo da Cristo sino a diventargli conforme nella morte, «nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,11). Come san Francesco davanti al crocifisso, diciamo anche noi: Altissimo, glorioso Dio, illumina le tenebre del mio cuore. Dammi una fede retta, speranza certa e carità perfetta, senno e discernimento per compiere la tua vera e santa volontà. Amen (cfr Preghiera davanti al Crocifisso: FF [276]).

 

LA CATECHESI DI BENEDETTO XVI: CRISTO SERVO DI DIO (Fil. 2,6-11)

http://www.donbosco-torino.it/ita/Kairos/Meditazioni/04-05/10a-Inno_Cristologico_Filippesi.html

LA CATECHESI DI BENEDETTO XVI: CRISTO SERVO DI DIO (Fil. 2,6-11)

In ogni celebrazione domenicale dei Vespri la liturgia ci ripropone il breve ma denso inno cristologico della Lettera ai Filippesi (cf 2,6-11). Quello che qui consideriamo è la prima sezione (cf vv. 6-8), ove si delinea la paradossale «spogliazione» del Verbo divino, che depone la sua gloria e assume la condizione umana. Questa parte viene pregata ai Primi Vespri della domenica della terza settimana.
Cristo incarnato e umiliato nella morte più infame, quella della crocifissione, è proposto come un modello vitale per il cristiano. Questi, infatti, – come si afferma nel contesto – deve avere «gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù» (v. 5), sentimenti di umiltà e di donazione, di distacco e di generosità.

Una scelta di umiltà
Egli, certo, possiede la natura divina con tutte le sue prerogative. Ma questa realtà trascendente non è interpretata e vissuta all’insegna del potere, della grandezza, del dominio. Cristo non usa il suo essere pari a Dio, la sua dignità gloriosa e la sua potenza come strumento di trionfo, segno di distanza, espressione di schiacciante supremazia (cf v. 6). Anzi, egli «spogliò», svuotò se stesso, immergendosi senza riserve nella misera e debole condizione umana. La «forma» (morphe) divina si nasconde in Cristo sotto la «forma» (morphe) umana, ossia sotto la nostra realtà segnata dalla sofferenza, dalla povertà, dal limite e dalla morte (cf v. 7).
Non si tratta quindi di un semplice rivestimento, di un’apparenza mutevole, come si riteneva accadesse alle divinità della cultura greco-romana: quella di Cristo è la realtà divina in un’esperienza autenticamente umana. Dio non appare soltanto come uomo, ma si fa uomo e diventa realmente uno di noi, diventa realmente «Dio-con-noi», che non si accontenta di guardarci con occhio benigno dal trono della sua gloria, ma si immerge personalmente nella storia umana, divenendo «carne», ossia realtà fragile, condizionata dal tempo e dallo spazio (cf Gv 1,14).

Fratello di ogni uomo
Questa condivisione radicale e vera della condizione umana, escluso il peccato (cf Eb 4,15), conduce Gesù fino a quella frontiera che è il segno della nostra finitezza e caducità, la morte. Questa non è, però, frutto di un meccanismo oscuro o di una cieca fatalità: essa nasce dalla sua libera scelta di obbedienza al disegno di salvezza del Padre (cf Fil 2,8).
L’Apostolo aggiunge che la morte a cui Gesù va incontro è quella di croce, ossia la più degradante, volendo in questo modo essere veramente fratello di ogni uomo e di ogni donna, anche di quelli costretti a una fine atroce e ignominiosa.
Ma proprio nella sua passione e morte Cristo testimonia la sua adesione libera, totale e cosciente al volere del Padre, come si legge nella Lettera agli Ebrei:

«Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza dalle cose che patì» (Eb 5,8).
Fermiamoci qui nella nostra riflessione sulla prima parte dell’inno cristologico, concentrato sull’Incarnazione e sulla passione redentrice. Avremo occasione in seguito di approfondire l’itinerario successivo, quello pasquale, che conduce dalla croce alla gloria. L’elemento fondamentale di questa prima parte dell’Inno mi sembra essere l’invito ad entrare nei sentimenti di Gesù.
Entrare nei sentimenti di Gesù vuol dire non considerare il potere, la ricchezza, il prestigio come i valori supremi della nostra vita, perché in fondo non rispondono alla più profonda sete del nostro spirito, ma aprire il nostro cuore all’Altro, portare con l’Altro il peso della nostra vita e aprirci al Padre dei Cieli con senso di obbedienza e fiducia, sapendo che proprio in quanto obbedienti al Padre saremo liberi. Entrare nei sentimenti di Gesù: questo sarebbe l’esercizio quotidiano da vivere come cristiani.

Carico delle nostre infermità
Concludiamo la nostra riflessione con un grande testimone della tradizione orientale, Teodoreto che fu Vescovo di Ciro, in Siria, nel V secolo:
«L’Incarnazione del nostro Salvatore rappresenta il più alto compimento della sollecitudine divina per gli uomini. Infatti, né il cielo né la terra né il mare né l’aria né il sole né la luna né gli astri né tutto l’universo visibile e invisibile, creato dalla sua sola parola o piuttosto portato alla luce dalla sua parola conformemente alla sua volontà, indicano la sua incommensurabile bontà quanto il fatto che il Figlio unigenito di Dio, colui che sussisteva in natura di Dio (cf Fil 2,6), riflesso della sua gloria, impronta della sua sostanza (cf Eb 1,3), che era in principio, era presso Dio ed era Dio, attraverso cui sono state fatte tutte le cose (cf Gv 1,1-3), dopo aver assunto la natura di servo, apparve in forma di uomo, per la sua figura umana fu considerato come uomo, fu visto sulla terra, con gli uomini ebbe rapporti, si caricò delle nostre infermità e prese su di sé le nostre malattie» (Discorsi sulla provvidenza divina, 10: Collana di testi patristici, LXXV, Roma 1988, pp. 250-251).
Teodoreto di Ciro prosegue la sua riflessione, mettendo in luce proprio lo stretto legame sottolineato dall’inno della Lettera ai Filippesi fra l’Incarnazione di Gesù e la Redenzione degli uomini.
«Il Creatore con saggezza e giustizia lavorò per la nostra salvezza. Poiché egli non ha voluto né servirsi soltanto della sua potenza per elargirci il dono della libertà né armare unicamente la misericordia contro colui che ha assoggettato il genere umano, affinché quegli non accusasse la misericordia d’ingiustizia, bensì ha escogitato una via carica di amore per gli uomini e al contempo adorna di giustizia.
Egli infatti, dopo aver unito a sé la natura dell’uomo ormai vinta, la conduce alla lotta e la dispone a riparare alla sconfitta, a sbaragliare colui che un tempo aveva iniquamente riportato la vittoria, a liberarsi dalla tirannide di chi l’aveva crudelmente fatta schiava e a recuperare la primitiva libertà» (ibidem, pp. 251-252).

Benedetto XVI
L’Osservatore Romano, 14-06-2005

LA CORSA DI SAN PAOLO VERSO IL PARADISO

http://digilander.libero.it/credente2/PaoloCorridore.htm

LA CORSA DI SAN PAOLO VERSO IL PARADISO

Filippesi 3,[8]Anzi, tutto (i privilegi che lo legano al suo popolo ndr.) ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo [9]e di essere trovato in lui, non con una mia giustizia derivante dalla legge, ma con quella che deriva dalla fede in Cristo, cioè con la giustizia che deriva da Dio, basata sulla fede. [10]E questo perché io possa conoscere lui, la potenza della sua risurrezione, la partecipazione alle sue sofferenze, diventandogli conforme nella morte, [11]con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti. [12]Non però che io abbia già conquistato il premio o sia ormai arrivato alla perfezione; solo mi sforzo di correre per conquistarlo, perché anch’io sono stato conquistato da Gesù Cristo. [13]Fratelli, io non ritengo ancora di esservi giunto, questo soltanto so: dimentico del passato e proteso verso il futuro, [14]corro verso la mèta per arrivare al premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù. [15]Quanti dunque siamo perfetti, dobbiamo avere questi sentimenti; se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo. [16]Intanto, dal punto a cui siamo arrivati continuiamo ad avanzare sulla stessa linea. [17]Fatevi miei imitatori, fratelli, e guardate a quelli che si comportano secondo l’esempio che avete in noi.
[18]Perché molti, ve l’ho già detto più volte e ora con le lacrime agli occhi ve lo ripeto, si comportano da nemici della croce di Cristo: [19]la perdizione però sarà la loro fine, perché essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra. [20]La nostra patria invece è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, [21]il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che ha di sottomettere a sé tutte le cose. (Vedi il contesto di Filippesi 3)
1Corinti 9,[24]Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! [25]Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. [26]Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, [27]anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato.

Le difficoltà di Paolo in 2 Corinzi 11,22-33
22Sono Ebrei? Anch’io! Sono Israeliti? Anch’io! Sono stirpe di Abramo? Anch’io! 23Sono ministri di Cristo? Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte. 24Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i quaranta colpi meno uno; 25tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. 26Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; 27disagi e fatiche, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. 28Oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese. 29Chi è debole, che anch’io non lo sia? Chi riceve scandalo, che io non ne frema?
30Se è necessario vantarsi, mi vanterò della mia debolezza. 31Dio e Padre del Signore Gesù, lui che è benedetto nei secoli, sa che non mentisco. 32A Damasco, il governatore del re Areta aveva posto delle guardie nella città dei Damasceni per catturarmi, 33ma da una finestra fui calato giù in una cesta, lungo il muro, e sfuggii dalle sue mani.

La lotta tra corpo e Spirito in Romani 8,6-9
6Ora, la carne tende alla morte, mentre lo Spirito tende alla vita e alla pace. 7Ciò a cui tende la carne è contrario a Dio, perché non si sottomette alla legge di Dio, e neanche lo potrebbe. 8Quelli che si lasciano dominare dalla carne non possono piacere a Dio. 9Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi.

Publié dans:Lettera ai Filippesi |on 22 février, 2017 |Pas de commentaires »

“GESÙ CRISTO È SIGNORE!” “OGNI LINGUA LO PROCLAMI!” (FIL 2,11)

http://www.diocesi.rimini.it/vescovo/gesu-cristo-e-signore/

“GESÙ CRISTO È SIGNORE!” “OGNI LINGUA LO PROCLAMI!” (FIL 2,11)

Omelia del Vescovo per la Messa nel giorno di Pasqua

Tutto il cristianesimo in una sola parola: si può? Sì, si può! Eccola, nella lingua greca in cui quella parola fece il giro del mondo: eghèrthe. Letteralmente significa: “è stato ridestato” (sott.: “dalla morte”), cioè “è risorto”. Non è una formula impersonale: ha un soggetto, Gesù di Nazaret. A lui si riferisce l’evento insuperabile della risurrezione, e quindi nella sostanza è lui il “cuore” pulsante del messaggio cristiano. L’evento è avvenuto presumibilmente nella notte tra l’8 e il 9 aprile dell’anno 30 dell’era cristiana. Pertanto al centro del messaggio cristiano c’è l’annuncio non di un valore asettico e distante, per quanto nobile e pregevole, ma di un avvenimento: nientedimeno che una risurrezione! Ma poiché tale avvenimento è tutto relativo alla persona di Gesù di Nazaret – persona unica, singolare, irripetibile – allora tutto il cristianesimo si concentra nell’annuncio non di una fredda formula filosofica o di una complicata categoria teologica, ma del nome stesso di Gesù. Questa è la scintilla da cui è sprizzato il grande fuoco che ha incendiato e continua ad illuminare e a riscaldare il mondo intero.1. A seguito e in virtù della sua risurrezione, il titolo più tipico e più comune che la prima comunità cristiana ha attribuito al Crocifisso-Risorto è Signore. Questo titolo esprime la chiara ed esplicita consapevolezza della diretta connessione con la nuova condizione di “risorto” del figlio di Maria, al quale “è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra” (Mt 28,18). Tale connessione è apertamente dichiarata nella formula di fede, riportata nella Lettera ai Romani, quale era proposta ai neofiti:

“Se confesserai con la tua bocca che Gesù è Signore,
e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti,
sarai salvo” (Rm 10,9).

Per capire bene che cosa significhi questo titolo di “Signore”, dobbiamo ricordare che quando Mosè davanti al roveto ardente domandò a Dio quale fosse il suo nome, Dio rispose : “Io-Sono è il mio nome”. Un nome che però i nostri fratelli maggiori, gli ebrei, ancora oggi ritengono indicibile e impronunciabile, e che sostituiscono immancabilmente con Adonai, in greco Kyrios, in italiano Signore. Nella Lettera ai Filippesi san Paolo scrive che “Cristo si è fatto obbediente fino alla morte, e a una morte di croce. Per questo Dio lo ha esaltato e gli ha dato il Nome che è al di sopra di ogni altro nome”. L’Apostolo si astiene anche lui dal pronunciare il santo Nome di Dio: lo sostituisce con il greco Kyrios, e aggiunge: “Ogni ginocchio si pieghi in cielo, sulla terra e sotto terra, e ogni lingua proclami: ‘Gesù Cristo è Signore!‘, a gloria di Dio Padre” (Fil 2,6-11). Ma ciò che san Paolo intende con il titolo di “Signore” è precisamente quel santo Nome che proclama l’Essere divino. Il Padre ha dato a Cristo – anche come uomo – lo stesso suo Nome e il suo stesso potere (cfr Mt 28,18): questa è la verità inaudita racchiusa nella proclamazione: “Gesù Cristo è Signore!”. Il Risorto è “Colui che è e che c’è“, il Vivente. Pertanto l’itinerario del “cuore” del messaggio evangelico o kerygma si può scolpire con tre frasi lapidarie: “Gesù Cristo, il Crocifisso, è morto! Gesù, il Crocifisso morto, è risorto! Gesù Cristo, il Risorto da morte, è il Signore!”. Sono tre passaggi sinteticamente formulati da Pietro, al termine del suo primo discorso missionario, tenuto il giorno di Pentecoste, a Gerusalemme, di fronte a una folla di circa tremila persone: “Quel Gesù che voi avete crocifisso, Dio lo ha costituito Signore e Cristo” (At 2,36).
Apparentemente, per noi cristiani, nulla è più familiare del titolo di “Signore” attribuito a Gesù. Quel titolo è diventato un elemento fisso, immancabilmente abbinato al nome stesso con cui invochiamo Cristo al termine di ogni preghiera liturgica. Ma un conto è dire: “il nostro Signore Gesù Cristo”, e un altro dire: “Gesù Cristo è il nostro Signore!”. Per secoli, fino a qualche decennio fa, la proclamazione stessa – “Gesù Cristo è Signore! – che chiude l’inno della Lettera ai Filippesi, era rimasta come sepolta sotto la cenere di una errata traduzione. La Volgata, infatti, traduceva: “Ogni lingua proclami che il Signore Nostro Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre”, mentre – come ora sappiamo – il senso non è che il Signore Gesù Cristo è nella gloria di Dio Padre, ma che “Gesù è il Signore”, e questo lo proclamiamo “a gloria di Dio Padre!”.
2. A questo punto non vorrei dare neanche la benché minima impressione che tutto questo intreccio di pensieri e tutti questi giri di parole siano questioni sofisticate, strettamente riservate a studiosi della Bibbia o a specialisti della liturgia. O che, peggio ancora, la cosa riguardi solo Gesù come Signore, e non interessi per nulla la storia dell’umanità e non ‘intrighi’ affatto la nostra povera esistenza. Vorrei allora accennare brevemente alla “ricaduta” storica ed esistenziale, ossia alla valenza oggettiva e soggettiva che il grido contenente la professione di fede – “Gesù è il Signore!” – riscontra nella storia e nella vita.
Con l’incredibile sorpresa della risurrezione di Cristo e per il fatto che ormai “c’è un solo Signore nei cieli e in lui non vi è preferenza di persone” (Ef 6,9), la storia umana – è la valenza oggettiva – ha imboccato il rettilineo che ha condotto all’abolizione di ogni discriminazione razziale, sociale, sessuale. Tutti i battezzati in Cristo formano un’unica famiglia, in cui – afferma radicalmente san Paolo – “non c’è (più) né Giudeo né Greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina” (Gal 3,28). Di qui è nato e si è sviluppato, lentamente ma inesorabilmente, il cambiamento di prospettiva che ha portato, dentro la civiltà cristiana, all’abolizione irreversibile della schiavitù. Rifiutare la signoria di Cristo significa inequivocabilmente ricadere sia nell’assoggettamento ad altre signorie e dispotiche tirannie, che all’asservimento ad eventuali nuovi “padroni di uomini”, o ad ideologie disumane e aberranti. Diceva bene, al riguardo, s. Ambrogio: “Quanti padroni finisce con l’avere, chi rifugge dall’unico Signore!”.
Ma la signoria – mai tirannica, ma sempre salvifica e liberante – di Gesù, il Crocifisso-Risorto, ha anche un imprescindibile valenza soggettiva. In effetti riconoscere che Gesù è il Signore significa sottomettersi alla sua signoria ed entrare liberamente nella sfera del suo dominio. E’ come dire: Gesù Cristo è il mio Signore. E’ lui, e solo e sempre lui, il senso e lo scopo della mia povera vita. Pertanto credere che Gesù è il Signore, non significa ritenere che lui sia il Signore di tutti e di nessuno. Significa piuttosto vivere per lui, non più “per me stesso”. Leggiamo nella Lettera ai Romani: “Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore” (Rm14,7-8). Oramai la contrapposizione più inconciliabile e stridente non è più tra il vivere e il morire, ma è tra il vivere “per il Signore” e il vivere “per se stessi”. “Vivere per se stessi è il nuovo nome della morte” (Cantalamessa).
Al termine del triduo pasquale, in cui l’inno cristologico di san Paolo ai Filippesi (2,6-11) ha fatto da filo conduttore delle omelie e delle catechesi sviluppate nelle liturgie del giovedì e del venerdì santo, permettetemi di proclamare per intero quell’inno, mentre a conclusione, vi invito a levarvi tutti in piedi per dare l’assenso della vostra fede e gridare forte il vostro Amen.

- Rimini, Basilica Cattedrale, 5 aprile 2015 -

+ Francesco Lambiasi

Publié dans:Lettera ai Filippesi |on 30 novembre, 2016 |Pas de commentaires »

NELL’INNO CRISTOLOGICO, SAN PAOLO MOSTRA L’AMORE DI GESÙ FINO ALL’ESTREMO – FIL 2, 5-11

https://it.zenit.org/articles/nell-inno-cristologico-san-paolo-mostra-l-amore-di-gesu-fino-all-estremo/

NELL’INNO CRISTOLOGICO, SAN PAOLO MOSTRA L’AMORE DI GESÙ FINO ALL’ESTREMO – FIL 2, 5-11

Conferenza presentata da padre Enzo Bianchi a Roma

di Carmen Elena Villa

ROMA, mercoledì, 25 marzo 2009 (ZENIT.org).- “Una delle confessioni di fede più alte e profonde di tutto il Nuovo Testamento”. Così padre Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, ha definito il noto Inno Cristologico, incluso nella Lettera di San Paolo ai Filippesi. Lo ha affermato questo lunedì nel contesto della catechesi “San Paolo parla”, che si effettua ogni mese nella Basilica di San Paolo fuori le Mura in occasione dell’Anno Paolino, questa volta dedicata alla Lettera ai Filippesi. L’esegeta ha osservato che nel testo Paolo mostra “di essere stato afferrato da Cristo, conquistato da Cristo”, che “ha fatto di lui un missionario, un apostolo per eccellenza”.

Dio fatto uomo per amore Bianchi ha centrato il suo intervento sul brano di Fil 2, 5-11, che parla del processo di “abbassamento” e del desiderio di Dio di diventare uno con noi facendosi obbediente “fino alla morte, e alla morte di croce”, perché “nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi”. La ricchezza dell’Inno Cristologico, ha osservato, consiste nel fatto che “canta in sintesi tutto l’itinerario percorso da Cristo. Riassume tutta la sua vicenda: l’incarnazione, la vita terrena, la morte in croce, l’innalzamento della gloria”. In questo testo del Nuovo Testamento è contenuto “non solo il percorso dell’umanizzazione di Dio, ma anche lo stile di questo percorso”: “la kenosis”, ovvero “lo svuotamento di se stesso e poi l’innalzamento di tutta l’umanità”. Il priore della Comunità di Bose ha indicato che “nel paganesimo si narravano miti dell’incarnazione degli dei. Il faraone in tutta la sua potenza era creduto incarnazione del dio sole”, ma “nel cristianesimo c’è l’incarnazione fino all’abbassamento di colui che da Dio diventa schiavo. La parola di Dio, il logos, nell’incarnazione ha dovuto svuotare se stessa per resistere tra di noi e con noi”. Dio “ha fatto una parentesi nella sua forma divina per poter resistere come uomo totalmente come noi”, ha aggiunto, osservando che l’Inno “non narra la storia in linea retta della successione degli eventi, ma va dall’alto al basso, e poi dal basso in alto”. Dio “non poteva mantenere una condizione divina senza condividerla, senza provare il desiderio che anche gli uomini partecipassero a questa condizione divina”. Facendosi uomo, Dio “ha accettato la morte, la condizione limitata, quella della nostra carne. Era santo tre volte, ha accettato di essere tentato dal Diavolo nella sua carne umana”. “Se è vero che il peccato segna l’uomo, è vero che Cristo ha voluto diventare uomo, non ha commesso alcun peccato ma è stato provato in tutte le tentazioni”. “Ecco dove il figlio ha voluto andare. Si è fatto uomo, è stato riconosciuto come figlio di Giuseppe e Maria, ha fatto un movimento di abbassamento fino alla morte”, ha constatato Enzo Bianchi. Il punto più basso dell’Inno è quando San Paolo si riferisce alla croce, ricordando che questa era la morte più umiliante in quell’epoca, ma che la croce “non è il risultato di una casualità o di una fatalità”, ma “l’esito di una vita vissuta nella giustizia e nell’amore, avendo amato fino all’estremo”. L’esegeta ha concluso dicendo che per questo di fronte a Gesù “tutti gli uomini piegano le ginocchia”. “E’ la nostra fede: Gesù Cristo è il signore dell’universo. Gesù Cristo è anche il mio Signore!”.

Publié dans:Lettera ai Filippesi |on 18 mai, 2016 |Pas de commentaires »
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