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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PAOLO VI PER LA CELEBRAZIONE DELLA X GIORNATA DELLA PACE – 1° GENNAIO 1977: SE VUOI LA PACE, DIFENDI LA VITA

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/paul_vi/messages/peace/documents/hf_p-vi_mes_19761208_x-world-day-for-peace_it.html

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE PAOLO VI PER LA CELEBRAZIONE DELLA
X GIORNATA DELLA PACE –
1° GENNAIO 1977 

SE VUOI LA PACE, DIFENDI LA VITA

Uomini grandi e responsabili!
Uomini innumerevoli e sconosciuti!
Uomini Amici!

Eccoci ancora una volta, la decima volta, a voi! con voi! All’alba del nuovo anno 1977, noi siamo alla vostra porta e bussiamo (cfr. Apoc. 3, 20). Apriteci, per favore. Noi siamo il solito Pellegrino, che percorre le vie del mondo, senza stancarsi mai, e senza smarrire la strada. Siamo inviati per portarvi il solito annuncio; siamo profeti della Pace! Sì, Pace, Pace, noi andiamo gridando, come messaggeri d’un’idea fissa, d’un’idea antica, ma sempre nuova per la necessità ricorrente che la reclama, come una scoperta, come un dovere, come una beatitudine! L’idea della Pace sembra acquisita, come espressione equivalente e perfettiva della civiltà. Non vi è civiltà senza la Pace. Ma in realtà la Pace non è mai né completa, né sicura. Avete osservato come le stesse acquisizioni del progresso possono essere cause di conflitti; e quali conflitti! Non giudicate superfluo, e perciò noioso, il nostro annuale massaggio in favore della Pace.
Sul quadrante della psicologia dell’umanità la Pace ha segnato dopo l’ultima guerra mondiale un’ora di fortuna. Sulle immense rovine, ben diverse, sì, nei vari Paesi, ma universali, sola vittoriosa si è vista dominare la Pace, finalmente. E subito le opere, le istituzioni, che sono proprie della Pace, sono fiorite, come una vegetazione primaverile; e molte di esse resistono e vigoreggiano ancora; sono le conquiste del mondo nuovo; e il mondo fa bene ad esserne fiero e a conservarne l’efficienza e lo sviluppo; sono le opere e le istituzioni che segnano un gradino ascensionale nel progresso dell’umanità. Ascoltiamo un istante, a questo punto, una voce autorevole, paterna e profetica; quella del nostro venerato Predecessore, Papa Giovanni XXIII:
« La convivenza umana, venerabili Fratelli e diletti figli, deve essere considerata anzitutto come un fatto spirituale: quale comunicazione di conoscenze nella luce del vero; esercizio di diritti e adempimento di doveri; impulso e richiamo al bene morale; e come nobile comune godimento del bello in tutte le sue legittime espressioni; permanente disposizione ad effondere gli uni negli altri il meglio di se stessi; anelito ad una mutua e sempre più ricca assimilazione di valori spirituali: valori nei quali trovano la loro perenne vivificazione e il loro orientamento di fondo le espressioni culturali, il mondo economico, le istituzioni sociali, i movimenti e regimi politici, gli ordinamenti giuridici e tutti gli altri elementi esteriori, in cui si articola e si esprime la convivenza nel suo evolversi incessante» Enciclica Pacem in terris, 11 Aprile 1963; in Acta Apostolicae Sedis, LV, 1963, pag. 266).
Ma questa fase terapeutica della Pace cede il passo a nuove contestazioni, sia come a residui di reviviscenti contese, solo provvisoriamente composte; sia come a fenomeni storici nuovi, nascenti dalle strutture sociali in continua evoluzione. La Pace ritorna ad essere in sofferenza, nei sentimenti degli uomini dapprima, poi in contestazioni parziali e locali, e poi in spaventosi programmi di armamenti, che calcolano a freddo il potenziale di terrificanti distruzioni, superiori alla stessa nostra capacità di tradurle in misure concrete. Tentativi lodevolissimi per scongiurare simili conflagrazioni sorgono qua e là; e noi auguriamo che essi possano avere ragione sui pericoli incommensurabili, a cui tali tentativi stanno cercando preventivo rimedio.
Uomini Fratelli! questo non basta. Il concetto della Pace, come ideale direttivo dell’effettiva attività dell’umano consorzio, sembra soccombere ad un fatale sopravvento dell’incapacità del mondo a governarsi nella Pace e con la Pace. La Pace non è un fatto autogeno, se pur ad esso tendono gli impulsi profondi della natura umana; la Pace è l’ordine; e all’ordine aspira ogni cosa, ogni fatto, come ad un destino precostituito, come ad una ragion d’essere preconcepita, ma che si realizza in concomitanza ed in collaborazione con molteplici fattori. Per questo la Pace è un vertice che suppone una interiore e complessa struttura di sostegno; essa è come un corpo flessibile che deve essere corroborato da uno scheletro robusto. Essa è una costruzione che deve la sua stabilità e la sua eccellenza allo sforzo portante di cause e di condizioni., che spesso le mancano, ed anche quando sono operanti non sempre resistono alla funzione loro assegnata, affinché la piramide della Pace sia stabile nella sua base ed alta nella sua sommità.
Ma di fronte a questa analisi della Pace, che ne conferma l’eccellenza e la necessità, e nello stesso tempo ne rileva là instabilità e la fragilità, noi riaffermiamo la nostra convinzione: la Pace è doverosa, la Pace è possibile. È questo il nostro ricorrente messaggio, che fa proprio l’ideale della civiltà, fa eco all’aspirazione dei Popoli, conforta la speranza degli uomini umili e deboli e nobilita con la giustizia la sicurezza dei forti. È il messaggio dell’ottimismo, è il presagio dell’avvenire. Non è un sogno la Pace, non è un’utopia, non è un’illusione. E nemmeno essa è una fatica di Sisifo: no, essa può essere prolungata e corroborata; essa può segnare le più belle pagine della storia, non solo con i fasti della potenza e della gloria, ma ancora più con quelli anche migliori dell’umana virtù, della bontà popolare, della prosperità collettiva della vera civiltà: la civiltà dell’amore.
È davvero possibile? Sì, lo è; lo deve essere. Ma siamo sinceri: la Pace, ripetiamo, è doverosa, è possibile, ma non senza il concorso di molte e non facili condizioni. Il discorso sulle condizioni della Pace, noi ce ne rendiamo conto, è molto difficile e molto lungo. Noi non oseremo qui affrontarlo. Noi lo lasciamo agli esperti. Ma non vogliamo tacerne un aspetto, che è senza dubbio primordiale. Ci basta ora richiamarlo e raccomandarlo alla riflessione degli uomini buoni e intelligenti. Ed è questo: il rapporto della Pace con la concezione che il mondo ha della Vita umana.
Pace e Vita: sono beni supremi nell’ordine civile; e sono beni correlativi.
Vogliamo la Pace? difendiamo la Vita!
Può questo binomio « Pace e Vita » apparire quasi una tautologia, uno slogan retorico; ma tale non è. Esso rappresenta una conquista lungamente contesa lungo il cammino dell’umano progresso; un cammino non ancora giunto al suo finale traguardo. Quante volte nella drammatica storia dell’umanità il binomio « Pace e Vita » racchiude uno scontro feroce dei due termini, non un abbraccio fraterno. La Pace è cercata e conquistata con la morte, e non con la Vita; e la Vita si afferma non con la Pace, ma con la lotta, come un triste fato necessario alla propria difesa.
La parentela fra la Pace e la Vita sembra scaturire dalla natura delle cose; ma non sempre, non ancora, dalla logica del pensiero e della condotta degli uomini. E questa, se vogliamo comprendere la dinamica del progresso umano, è il paradosso, è la novità che noi, per quest’anno di grazia 1977, e poi per sempre, dobbiamo affermare. E non è facile, non è semplice riuscirvi, perché troppe obiezioni, formidabili obiezioni, custodite nell’arsenale immenso delle pseudo-convinzioni, dei pregiudizi empirici ed utilitari, delle cosiddette ragioni di Stato, o dei costumi storici e tradizionali, vi oppongono, ancora oggi, ostacoli, che sembrano insuperabili. Con questa tragica conclusione: se Pace e Vita possono illogicamente, ma praticamente dissociarsi, si delinea sull’orizzonte del futuro una catastrofe che, ai nostri giorni, potrebbe essere senza misura e senza rimedio sia per la Pace, che per la Vita. Hiroshima è documento terribilmente eloquente e paradigma spaventosamente profetico a questo riguardo. La Pace, se per deprecabile ipotesi, fosse concepita avulsa dal connaturato rispetto con la Vita, potrebbe imporsi come un triste trionfo della morte; vengono alla mente le parole di Cornelio Tacito: « … ubi solitudinem faciunt, pacem appellant » (Vita di Agricola, 30). E reciprocamente: si può esaltare con egoistica e quasi idolatrica preferenza la Vita privilegiata di alcuni a prezzo dell’altrui oppressione, o soppressione: è Pace cotesta?
Per ritrovare la chiave della verità in questo conflitto, che da teorico e morale si fa tragicamente reale, e che profana e insanguina, ancora oggi, tante pagine dell’umana convivenza, bisogna senz’altro riconoscere il primato alla Vita, come valore e come condizione della Pace. Ecco la formula: « se vuoi la Pace, difendi la Vita ». La Vita è il vertice della Pace. Se la logica del nostro operare parte dalla sacralità della Vita, la guerra, come mezzo normale e abituale per l’affermazione del diritto e quindi della Pace, è virtualmente squalificata. La Pace altro non è che il sopravvento incontestabile del diritto e alla fine la felice celebrazione della Vita.
Qui l’esemplificazione è senza fine, come senza fine è la casistica delle avventure, o per meglio dire delle sventure, in cui la Vita è posta in gioco nel confronto con la Pace. Noi facciamo nostra la classifica che, a tale proposito, è stata presentata secondo « tre imperativi essenziali ». Occorre, sostengono questi imperativi, che per avere la Pace autentica e felice si debba: difendere la Vita, risanare la Vita, promuovere la Vita.
La politica dei grandi armamenti è subito chiamata in causa. L’antica sentenza, che ha fatto e fa scuola nella politica: si vis pacem, para bellum non è ammissibile senza radicali riserve (cfr. Lc. 14, 31). Noi con la schietta audacia dei nostri principii, denunciamo così il falso e pericoloso programma della « corsa agli armamenti », della gara segreta alla superiorità bellica fra i popoli. Anche se, per una superstite felice saggezza, o se per un tacito, ma già tremendo « braccio di ferro» nell’equilibrio delle avverse forze micidiali, la guerra (e quale guerra sarebbe!) non scoppia, come non compiangere l’incalcolabile dispendio di mezzi economici e di umane energie per conservare ad ogni singolo Stato la sua corazza di armi sempre più costose, sempre più efficienti, a danno dei bilanci scolastici, culturali, agricoli, sanitari, civili: Pace e Vita sopportano pesi enormi e incalcolabili per mantenere una Pace fondata sulla perpetua minaccia alla Vita, come pure per difendere la Vita mediante una costante minaccia alla Pace. Si dirà: è ineluttabile. Può essere in una concezione ancora tanto imperfetta della civiltà. Ma riconosciamo almeno che questa sfida costituzionale, che la gara agli armamenti stabilisce fra la Vita e la Pace, è una formula in se stessa fallace, e che va corretta, superata. Lode dunque allo sforzo già iniziato per ridurre e alla fine per eliminare questa assurda guerra fredda risultante dal progressivo aumento del rispettivo potenziale bellico delle Nazioni, quasi queste dovessero essere senza scampo nemiche fra loro, e quasi fossero incapaci di accorgersi che tale concezione dei rapporti internazionali si dovrebbe un giorno risolvere nella rovina della Pace quanto d’innumerevoli vite umane.
Ma non è solo la guerra che uccide la Pace. Ogni delitto contro la Vita è un attentato contro la Pace, specialmente se esso intacca il costume del Popolo, come spesso diventa oggi con orrenda e talora legale facilità la soppressione della Vita nascente, con l’aborto. Si usano invocare a favore dell’aborto motivazioni come le seguenti: l’aborto mira a frenare l’aumento molesto della popolazione, a eliminare esseri condannati alla malformazione, al disonore sociale, alla miseria proletaria; eccetera; sembra piuttosto giovare che nuocere alla Pace. Ma così non è. La soppressione d’una Vita nascitura, o già venuta alla luce viola innanzitutto il principio morale sacrosanto, a cui sempre la concezione dell’umana esistenza deve riferirsi: la Vita umana è sacra fin dal primo momento del suo concepimento e fino all’ultimo istante della sua sopravvivenza naturale nel tempo. È sacra: che vuol dire? vuol dire che essa è sottratta a qualsiasi. arbitrario potere soppressivo; è intangibile, è degna d’ogni rispetto, d’ogni cura, d’ogni doveroso sacrificio. Per chi crede in Dio è spontaneo ed istintivo, è doveroso per legge religiosa trascendente; ed anche per chi non ha questa fortuna di ammettere la mano di Dio protettrice e vindice d’ogni essere umano, è e dev’essere in virtù dell’umana dignità intuitivo questo stesso senso del sacro, cioè dell’intangibile, dell’inviolabile proprio d’un’esistenza umana vivente. Lo sanno, lo sentono quelli che hanno avuto la sventura, la implacabile colpa, il sempre rinascente rimorso d’aver volontariamente soppresso una Vita; la voce del sangue innocente grida nel cuore della persona omicida con straziante insistenza: la Pace interiore non è possibile per via di sofismi egoistici! E se lo è, un attentato alla Pace, cioè al sistema protettivo generale dell’ordine, dell’umana e sicura convivenza, alla Pace, in una parola, è stato perpetrato: Vita singola e Pace generale sono sempre collegati da un’inscindibile parentela. Se vogliamo che l’ordine sociale progrediente si regga sopra i principii intangibili, non offendiamolo nel cuore del suo essenziale sistema: il rispetto alla vita umana. Anche sotto questo aspetto Pace e Vita sono solidali alla base dell’ordine e della civiltà.
Il discorso può prolungarsi passando in rassegna le cento forme con cui oggi l’offesa alla vita sembra diventare costume, là dove la delinquenza individuale si organizza per diventare collettiva, per assicurarsi l’omertà e la complicità d’interi ceti di cittadini, per fare della vendetta privata un vile dovere collettivo, del terrorismo un fenomeno di legittima affermazione politica o sociale, della tortura poliziesca un metodo efficace della forza pubblica non più rivolta a ristabilire l’ordine, ma ad imporre una ignobile repressione. Impossibile che la Pace fiorisca dove l’incolumità della vita è in tal modo compromessa. Dove la violenza infierisce la vera Pace finisce. Mentre dove i diritti dell’uomo sono realmente professati e pubblicamente riconosciuti e difesi, la Pace diventa l’atmosfera lieta ed operosa della convivenza sociale.
Documenti del nostro civile progresso sono i testi degli impegni internazionali per la tutela dei Diritti degli Uomini, per la Difesa del fanciullo, per la salvaguardia delle libertà fondamentali dell’uomo. Sono l’epopea della Pace, in quanto sono scudo alla Vita. Sono completi ? sono osservati? Noi tutti avvertiamo che la civiltà si esprime in tali dichiarazioni, e che trova in esse l’avallo della propria realtà, piena e gloriosa, se esse sono trasfuse nelle coscienze e nei costumi; realtà irrisa e violata, se esse rimangono lettera morta.
Uomini, Uomini della maturità del secolo ventesimo, voi avete segnato le Carte gloriose della vostra raggiunta pienezza umana, se tali carte sono vere; avete sigillato per la storia la vostra condanna morale, se esse sono documenti di velleità retoriche o di ipocrisia giuridica. Il metro è là: nella equazione fra la vera Pace e la dignità della Vita.
Accogliete la nostra supplicante implorazione: che tale equazione si compia e che su di essa un nuovo fastigio si eriga nell’orizzonte della nostra civiltà della Vita e della Pace, la civiltà, noi ancora diciamo, dell’amore.
Tutto è detto?
No; resta una insoluta questione: come realizzare tale programma di civiltà? come affratellare veramente la Vita e la Pace?
Rispondiamo in termini che possono essere inaccessibili a quanti hanno chiuso l’orizzonte della Realtà alla sola visuale naturale. Occorre fare ricorso a quel mondo religioso, che noi chiamiamo «soprannaturale». Occorre la fede per scoprire quel sistema di efficienze operanti nel complesso dell’umana vicenda, dove l’opera trascendente di Dio s’innesta e l’abilità ad effetti superiori, umanamente parlando impossibili. Occorre la religione, quella viva e vera, per renderli possibili. Occorre l’aiuto del « Dio della pace » (Phil. 4, 9).
Beati noi se questo conosciamo e crediamo; e se secondo questa fede sappiamo scoprire e mettere in azione il rapporto fra la Vita e la Pace.
Perché vi è un’eccezione capitale al ragionamento su esposto, che antepone la Vita alla Pace, e fa dipendere la Pace dalla inviolabilità della Vita; è l’eccezione che si verifica nei casi in cui entra in gioco un bene superiore alla Vita stessa. Si tratta d’un Bene di soverchiante valore a quello della Vita medesima, come la verità, la giustizia, la libertà civile, l’amore del prossimo, la Fede … Allora interviene la parola di Cristo: « Chi ama la propria Vita (più di questi Beni superiori), la perde» (cfr. Io. 12, 25). Questo vi indica che come la Pace dev’essere concepita in ordine alla Vita, e come dall’ordinato benessere assicurato alla Vita deve la Pace risultare essa stessa l’armonia che rende ordinata e felice, interiormente, socialmente l’umana esistenza, così questa umana esistenza, la Vita, cioè, non può, né deve sottrarsi alle finalità superiori che le conferiscono la sua primaria ragion d’essere: perché si vive? che cosa dà alla Vita, oltre la ordinata tranquillità della Pace, la sua dignità, la sua spirituale pienezza, la sua morale grandezza, e diciamo pure, la sua religiosa finalità? Sarà forse perduta la Pace, la vera Pace, se sarà data cittadinanza nell’area della nostra Vita all’Amore, nella sua più alta espressione, che è il sacrificio? E se il sacrificio davvero entra in un disegno di Redenzione e di titolo meritorio per una esistenza trascendente la forma e la misura temporale, non ricupererà esso a livello superiore ed eterno la Pace, la sua vera, centuplicata Pace della Vita eterna? (cfr. Mt. 19, 29). Chi è alunno della scuola di Cristo può comprendere questo linguaggio trascendente (cfr. Mt. 19, 11). E perché noi non potremmo essere questi alunni? Egli, Cristo, «è la nostra Pace» (cfr. Eph. 2, 11).

Noi lo auguriamo a tutti quanti giunge questo nostro benedicente messaggio di Pace e di Vita!

Dal Vaticano, 8 dicembre 1976.

PAULUS PP. VI

Per una teologia della pace

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=36

Per una teologia della pace

sintesi della relazione di Armido Rizzi

Verbania Pallanza, 10-11 gennaio 1987

Oggi siamo sempre più consapevoli della necessità e dell’urgenza di una cultura della pace, non perché la violenza si sia manifestata solo oggi ma perché la violenza ha raggiunto un eccesso tale da non poter più essere giustificata. La violenza sia della natura (catastrofi, inondazioni, carestie) sia quella prodotta dagli uomini ha sempre accompagnato la storia dell’umanità, ma sempre lo spirito umano è riuscito a darle almeno un senso parziale, in qualche modo a giustificarla. Oggi si sono verificati due avvenimenti in cui la violenza ha raggiunto una tale dimensione da non poter più essere giustificabile, anche parzialmente.
Da una parte Hiroshima ci ha reso coscienti della possibilità della distruzione dell’intera umanità (il troppo quantitativo); dall’altra Auschwitz ci ha mostrato la violenza fine a se stessa, la violenza senza giustificazioni (il troppo qualitativo), la volontà pura di negazione dell’altro.
La novità essenziale: la distruzione non scaturisce dal puro gioco di forze o dall’istinto belluino, ma dalla volontà umana. È la soggettività violenta.
il cuore violento e le radici della violenza umana
Il racconto biblico di Adamo, del giardino di Eden e della colpa originaria narra che l’uomo è nel mondo buono di Dio di cui può disporre (albero della vita) a condizione di accettare l’ordine di valori (albero della conoscenza del bene e del male), che Dio ha già inscritto nel mondo stesso. In questo testo viene narrato non il peccato accaduto una volta, ma l’essenza stessa del peccato. Nel testo ci sono due formule (la scienza del bene e del male e l’essere come Dio) che hanno reso possibili due letture.
Nella prima lettura l’uomo viene tentato a mangiare il frutto dell’albero proibito, cioè a porre un atto in cui afferma sé come creatore di un nuovo ordine di valori: bene e male non sono già posti nelle cose e in me stesso, ma sono quelli che io produco disegnando e realizzando i miei progetti. L’uomo rifiuta di accettare che ci sia un orizzonte di bene e male con cui confrontarsi e da cui lasciarsi misurare, ma diventa egli stesso misura di tutto, creatore di valori. L’uomo può ad esempio disattendere all’imperativo del « non uccidere » e uccidere per affermare i propri progetti.
Questa prima lettura dell’essenza del peccato originale, pur valida, è insoddisfacente, perché non presenta una vera appropriazione della scienza del bene e del male, ma solo una rimozione, un disattendere.
Una seconda lettura esprime l’essenza del peccato originale nell’essere come Dio, proprio nell’appropriazione del principio del bene e del male. L’istanza di bene e di male non solo viene disattesa, ma viene assorbita dentro la volontà di potenza dell’uomo, dentro tutto ciò che l’uomo può desiderare e progettare. Il principio etico non viene cancellato o disatteso, ma diventa un momento, una componente della propria volontà di potenza. L’uomo non dice: non devo, ma posso; ma dice: posso ed è giusto che faccia così.
Non solo faccio così (prima lettura), ma è giusto che faccia così, perché ne ho il diritto. Non solo il potere fare una cosa ma il diritto di poterla fare. È il soggetto di diritto.
Il mio volere e potere viene a identificarsi con ciò che è giusto, è davvero l’appropriarsi della conoscenza del bene e del male, è il « sarete come Dio ».
L’esperienza fondamentale del Dio della bibbia è quella del Dio giusto, la cui parola in quanto tale è bene, è giustizia, è verità. L’essenza del peccato è appropriarsi di questo Dio, è ingabbiarlo dentro di me, per cui sono io che decido quando è giusto e quando è ingiusto.
Per lo più la violenza umana è sorretta, legittimata, giustificata dalla consapevolezza che è bene, giusto comportarsi in un certo modo. È il significato della favola del lupo e dell’agnello. Il lupo-uomo deve trovare una giustificazione per fare violenza e mangiare l’agnello. Non si limita a rendere lecito il suo atto, lo rende obbligatorio, un dovere a cui non può sottrarsi, un’offesa da lavare, un onore da riscattare.
Lo sguardo del Dio giusto lo posso disattendere, senza cancellarlo. Il peccato originale è invece il far proprio lo sguardo di Dio. Lo sguardo che mi dice di non uccidere, di non ferire, di non intorbidare l’acqua, lo faccio diventare mio e lo rivolgo all’altro accusandolo di avere intorbidato l’acqua. Qui si costituisce la violenza propriamente umana, la violenza etica: il principio etico di trascendenza su di me diventa principio etico della mia trascendenza sugli altri, per cui di fronte agli altri e alle cose io sono soggetto di diritto. Gli altri diventano strumenti disponibili per i miei progetti, o, se non accettano di essere strumenti, nemici da abbattere. E quando non riesco ad esercitare effettivamente questo mio sapermi soggetto di diritto, mi ripiego nel vittimismo percependo il mondo come persecutore.
Inoltre la gloria di Dio è il povero che vive. Il bisogno del povero, fragile, impotente, viene avvolto e sorretto dallo sguardo di Dio che ci dice che non ci appartiene e che ne siamo responsabili.
Ora appropriarsi del bene e del male significa non solo espropriare Dio alla fonte, ma anche l’altro, ogni uomo in quanto povero. L’altro diventa un dato (occasione o ostacolo) dentro i miei progetti.
Vivo l’altro come strumento o come nemico.
Certamente anch’io, in quanto povero ed essere bisognoso, ho i miei diritti, « miei » in quanto anche in me è presente lo sguardo di Dio. Non è mio diritto come genitivo possessivo, ma è il diritto che mi avvolge.
Abitualmente la favola del lupo e dell’agnello ha vigenza generale. Difficilmente uno opera per il proprio vantaggio confessando a sé e agli altri che lo fa per il proprio vantaggio.
L’uomo moderno si è costituito sempre di più trasformando i diritti dell’uomo in diritti individuali, in « i miei diritti ». Questo vale anche a livello delle nazioni: la guerra giusta è sempre quella che faccio io, difendendo il mio diritto dall’ingiusto aggressore.
Il gesto con cui Adamo si appropria della conoscenza del bene e del male è l’inizio della storia che noi conosciamo, una storia attraversata dalla duplice inimicizia, l’uomo che si fa nemico di Dio nell’atto in cui si fa nemico dell’altro uomo.
La buona notizia, l’evangelo è che Dio riconcilia l’uomo a sé e riconcilia gli uomini tra loro. Dio rovescia il rovesciamento che l’uomo ha fatto del proprio essere.
Gesù, pace di Dio con l’uomo e pace tra gli uomini
Il NT è la narrazione di quello che Dio ha fatto in Gesù per riconciliare l’uomo a sé e per ricostituire l’uomo nella sua capacità di essere con gli altri.
In Gesù Dio riconcilia l’umanità a sé
Innanzitutto Gesù è un essere paradossale in cui si uniscono i poli estremi della santità e del peccato. È insieme – risulta questo aspetto dalle lettere di Paolo – l’innocente, il santo, colui che non conosce il peccato ed è colui che è coinvolto come nessun altro nella vicenda di peccato dell’umanità.
Ma non c’è simultaneità tra le due facce, ma una si alimenta dell’altra: Gesù è santo proprio perché condivide radicalmente la condizione umana, nella sua adesione radicale alla volontà di Dio. Mentre un certo monachesimo ha inteso la santità come fuga mundi, come una presa di distanza dal partecipare a un mondo di peccato, come progressivo distacco dal mondo per avvicinarsi a Dio, Gesù aderisce a Dio sprofondandosi, in obbedienza, nell’esistenza del mondo. Si siede a tavola con i peccatori e muore in croce, esprimendo così la massima adesione alla storia umana peccatrice e la massima distanza da Dio. Proprio nell’essere maledetto, nello sperimentare l’abbandono di Dio vive la massima adesione al Padre che gli chiede di fare così.
La resurrezione non è l’ultimo gradino di una salita, ma è un ribaltamento: il maledetto diventa il benedetto.
La ragione della scelta di Gesù è stata forse quella di rovesciare il soggetto di diritto, il soggetto padronale, l’uomo che si è appropriato del divino per autoaffemarsi riducendo tutto a strumento da usare o a ostacolo da abbattere. Gesù, in solidarietà con il mondo perduto, dice di sì a quello che il Padre gli chiede, restituendo al Padre la divinità. Come dice Paolo, Gesù è l’anti-Adamo.
La scelta di Gesù di essere radicalmente obbediente alla volontà del Padre ci dice che ciò che si realizza attraverso di lui è il disegno di Dio sull’umanità. Dire che l’identità di Gesù è l’obbedienza radicale al Padre è dire in modo più evangelico il dogma di Calcedonia che Gesù è Dio, che Gesù è la mano tesa di Dio verso l’uomo perduto. La storia di Gesù è la storia di Dio sul mondo.
Perché Dio per riconciliare a sé l’umanità non è ricorso ad un gesto di liberalità, ma ha richiesto la fedeltà che ha comportato la croce? Forse una riposta la troviamo nell’analogia con l’esperienza del rapporto tra perdono e pentimento. Il pentimento è espressione del disagio per il male fatto all’altro, ma, a differenza del rimorso, è anche offerta di riconciliazione, è già un rispondere alla offerta di perdono, un volere risarcire il male fatto recuperando il tempo perduto.
Il perdono è causa del pentimento, non l’effetto. Il pentimento è cogliere l’offerta di perdono per ricostituire interamente l’amicizia.
Il rapporto tra perdono e pentimento sul piano individuale mostra quello che è avvenuto sul piano universale nella storia di Gesù. Dio dona il perdono e Gesù è in seno all’umanità la coscienza penitente. Gesù è il grande penitente che prende su di sé il peccato del mondo, la maledizione, la croce perché è convinto che è giusto.
L’umanità che il Padre ha riconciliato a sé in Gesù riceve ora da Dio, individualmente, il suo spirito, cioè la capacità di vivere come Gesù, non come soggetti di diritto, padroni del mondo, ma come obbedienza a Dio e al diritto del povero e quindi come solidarietà e giustizia.
L’amore di Dio si è manifestato in questo, nell’aver amato l’uomo quando l’uomo era suo nemico. In Gesù è avvenuto il riavvicinamento dell’umanità a Dio, in modo tale che, qualunque cosa l’uomo faccia, l’ultima parola non sarà il no dell’uomo, ma il sì di Dio. Dio dona all’uomo un cuore di carne (Ezechiele), che Paolo chiama spirito: lo spirito è la soggettività di Dio che diventa soggettività dell’uomo, capacità di vivere la storia secondo la vocazione originaria.
« beati i costruttori di pace »: evangelo e cultura di pace
Tratti essenziali di un soggetto di pace.
L’essere soggetti di pace non deriva ultimamente da fattori psichici, sociali, istintuali. Nell’ottica biblica l’uomo è libertà in quanto responsabilità. L’uomo non è, ma è chiamato a farsi di fronte alla scelta tra bene e male, tra vita e morte, tra essere per o essere contro, tra promuovere e uccidere. Credere in Gesù Cristo vuol dire credere che la storia umana è tenuta sempre aperta dal sì di Dio, dallo spirito di Dio, aperta verso la possibilità di un mondo di pace. Credere in Gesù Cristo è credere nell’uomo, non per le sue risorse psichiche o culturali ma per la presenza dello spirito del risorto che riapre continuamente la storia.
Secondariamente il dono dello spirito, il cuore nuovo donatoci da Dio, non è una realtà già tutta compiuta. La nostra appartenenza di base è la storia peccatrice (qui è il senso del battesimo). Il cuore nuovo è un dono iniziale e insieme un compito, è il dono di un compito, è la conversione continua. Le strutture sociali (e questo è il compito di una cultura di pace) possono essere in sintonia con il cuore nuovo, ma non lo possono produrre. Il cuore nuovo, costruttore di pace, è sempre un atto di libertà
Terzo. Il gesto fondatore del cuore costruttore di pace è un cuore che consente di lasciarsi pacificare dentro di sé, di accettare di spogliarsi del cuore padronale, del soggetto di diritti. Nel cuore padronale c’è la violenza originaria di chi già in cuor suo ha costituito l’altro come nemico e quindi come legittimamente aggredibile. Dobbiamo abbattere dentro di noi il gesto fondatore dell’altro come nemico. Può darsi che effettivamente l’altro sia nemico, ma ciò di cui dobbiamo spogliarci è il cuore padronale che non tiene conto di ciò che realmente l’altro è. Occorre rifarci uno sguardo capace di vedere le cose come sono.
Quarto. Il superamento del cuore padronale e del cuore vittimista che arma la mano è quanto c’è di più arduo. Non si fa pace senza far penitenza. La croce fondamentale che dobbiamo portare sulle spalle è la rinuncia all’inflazionamento dell’io, riaprendo la strada dall’io all’altro.
Quinto. Anche la non violenza va posta sotto il segno della responsabilità. Io sono chiamato a costruire positivamente la pace e per questo devo evitare il ricorso a strumenti violenti. Però devo farmi carico (Bonhoeffer) del male che c’è nel mondo arrivando a condividerlo anche nella forma della violenza, nel senso che la non violenza diventa la minor violenza possibile. Il cuore padronale fa violenza senza problemi, il cuore pacificato con la consapevolezza di essere partecipe del peccato del mondo.
Sesto. Una cultura della pace integra il cuore pacificato. Dal centro della libertà buona si dilata la cultura della pace, dal primo cerchio dei rapporti interpersonali, al secondo dei rapporti sociali (con il superamento dello spirito corporativo), al terzo cerchio della politica sia statuale che internazionale. Ad ogni livello la cultura della pace ha problematiche specifiche.
Settimo. La chiesa muove verso Gerusalemme, visione di pace. Compito della chiesa è quello di dire a tutti che il loro fine ultimo è quello di essere momenti della universale fraternità, che la volontà di pace di Dio nella storia è il fine ultimo della
storia stessa.

La pace nella Bibbia (sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio, 1986)

dal sito:

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=35

La pace nella Bibbia

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio

Verbania Pallanza, 22-23 novembre 1986

La pace, nella visione biblica veterotestamentaria, non significa semplicemente assenza di guerra o rapporti favorevoli, ma benessere materiale. Nel Nuovo Testamento – l’ambito è quello delle piccole comunità – il concetto di pace assume connotazioni più spirituali.
bibbia ebraica: fede e scelte di guerra
L’Antico Testamento è intriso di violenza, di guerre condotte non solo dagli uomini, ma anche da Dio. « Il campo di battaglia non è solo la culla della nazione, ma anche il suo più antico santuario. Lì era Israele e lì era Jahwé » (Wellhausen). Questo aspetto bellico non è secondario, ma nell’AT Jahwé è salvatore in quanto guerriero, salva il suo popolo annientando gli altri popoli. Anche nelle preghiere, nei salmi, si invoca l’annientamento dei nemici, la vendetta sanguinaria. Negli oracoli profetici si garantisce lo sterminio da parte di Dio delle nazioni pagane. Il libro di Giosué è pieno di guerre sante, di guerre di sterminio. L’apocalittica è protesa verso la guerra finale in cui saranno sbaragliati i nemici.
Nell’attuale bibbia sono confluite quattro grandi tradizioni (Jawista, Eloista, deuteronomistica e sacerdotale).
La più antica, quella Jahwista – che va dalla creazione sino alla monarchia – ritiene il tema della guerra come naturale, senza elaborare una riflessione esplicita sul tema guerra-pace.
La tradizione deuteronomista (Deuteronomio, Giosué, Giudici, 1 e 2 Samuele, 1 e 2 Re) invece elabora una riflessione sulla guerra, in particolare sulla guerra sacra, soprattutto nel racconto dell’insediamento nella terra promessa. La guerra è combattuta da Jahwé in favore di Israele: è lui che combatte e vince (l’espressione « Dio degli eserciti » compare ben 284 volte); a lui spetta la gloria per la vittoria e anche il bottino di guerra (herém: uomini e animali venivano uccisi e offerti ritualmente a Dio). C’è una liturgia militare. L’insediamento nella terra promessa viene presentato come una conquista militare dalla bibbia. Oggi gli storici ritengono che l’insediamento sia durato molto a lungo con interventi militari e insediamenti pacifici.
I circoli deuteronomistici teologizzano la guerra sacra in questo modo: la terra è di Dio che la assegna lotto per lotto ai diversi popoli. Ad Israele ha assegnato la terra di Canaan. Quindi Israele ha su di essa un diritto divino che viene affermato con la violenza. La fede israelitica si esprime nel coraggio bellico di effettuare, mano armata, la conquista della terra.
Il problema nell’AT non sono le violenze condannate, ma la giustificazione della guerra a servizio di un diritto divino. La fede è bellica.
Questa interpretazione teologica è nata sotto Giosia (648 a.C.), il quale diede inizio ad una grande riforma religiosa per estirpare l’idolatria, centralizzare il culto a Gerusalemme e opporsi alla potenza assira che aveva conquistato le regioni del Nord.
La tradizione sacerdotale invece risale al periodo dell’esilio e del dopo esilio e rilegge la storia di Israele alla luce delle nuove situazioni. Non vuole risuscitare lo stato monarchico, dato l’esito disastroso dell’esilio, ma propone una nuova immagine di Israele. Per il sacerdotale tutta la storia, a partire dalla creazione, è segnata da una violenza-caos che deve essere vinta. Il peccato originale dell’umanità è la violenza che sfocia nel diluvio. Il patto di Dio con Noè è all’insegna della esclusione della violenza. In termini non violenti è presentato il passaggio del Mar Rosso e l’insediamento nella Terra.
Nella visione complessiva del sacerdotale la guerra è bandita dalla faccia della terra. Si prospetta una società pacifica al proprio interno e prefiguratrice di una umanità pacificata. L’aggressività è ammessa solo nei confronti degli animali per motivi cultuali.
Tra la tradizione deuteronomista e quella sacerdotale il Nuovo Testamento ha scelto la linea del sacerdotale, privilegiando la non violenza, l’immagine di Dio che spezza la guerra.
Nell’AT ci sono voci che si mettono sulla linea del sacerdotale, attendendo (attese escatologiche) una svolta epocale nella storia dell’umanità, una terra da cui sia bandita la violenza.
I profeti sono i costruttori di questa attesa escatologica, di una umanità pacificata e pacificatrice.
Dio « spezza la guerra » (Osea); « faranno aratri delle loro spade e trasformeranno le lance in falci » (Isaia); « il lupo abita con l’agnello… » (Isaia). La funzione del re è quella di essere principe di pace (Michea).
il messianismo di Gesù
Il Nuovo Testamento riprende e approfondisce i filoni della non violenza e della pace. Gesù si colloca nella linea profetica e del messianismo dell’AT, che attende un re che farà giustizia al povero e che instaurerà il regno di pace paradisiaca. Il tema della pace è affrontato secondo diverse prospettive
la pace con Dio
La pace è sinonimo di salvezza. È quanto emerge nel canto angelico natalizio: pace agli uomini che sono oggetto dell’amore di Dio (Lc 2,14). La pace è dono di Dio in Cristo agli uomini.
Avere pace è essere messi in un giusto rapporto con Dio: noi, giustificati mediante la grazia, abbiamo pace con lui (Rom 5,1).
Pace è inoltre riconciliazione, nel senso che Dio riconcilia a sé l’uomo, superando una condizione di inimicizia.
Quindi la pace indica i rapporti positivi con Dio: in questo senso devono essere interpretate le parole di saluto di Gesù ai discepoli pace a voi
pace con Dio e tra gli uomini
Nel mondo di allora c’era una frattura insanabile tra pagani e giudei, che erano una minoranza consistente (un 10 per cento) e significativa. I giudei disprezzavano i pagani dal punto di vista morale religioso e culturale e i pagani disprezzavano i giudei odiatori dell’umanità (per la loro separatezza). L’autore della lettera agli Efesini vede la chiesa come una nuova umanità in cui è superata la frattura: In Cristo, nella sua croce, giudei e pagani sono pacificati
pace come non violenza e amore del nemico
Gesù propone un superamento della legge del taglione (rispondere alla violenza con una violenza pari). Vuole spezzare la spirale della violenza.
Positivamente Gesù afferma che al nemico si deve rispondere con l’amore. Non l’amore sentimentale, ma l’amore fattivo, benefico. Il soggetto non si fa nemico al nemico. La motivazione risiede nell’essere figli di Dio, che ama tutti in modo indiscriminato.
Nella beatitudine beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio, si sostiene che diventa figli di Dio diventando operatori di processi di pacificazione.
Il messianismo di Gesù si discosta dalle attese prevalenti al suo tempo (Gesù è molto riservato nell’attribuire a sé il titolo di Messia, proprio per le attese trionfalistiche e bellicistiche). Gesù è un messia pacifico, umile, non violento, disarmato, che non è venuto per essere servito, ma per servire.
Gesù rinuncia alla guerra (potrei chiedere al Padre legioni armate…) e diventa il criterio interpretativo dei diversi e a volte contrastanti filoni presenti nell’AT.

P.Prof. Giuseppe Barbaglio: Il vangelo della pace nelle scritture ebraico-cristiane

dal sito:

http://www.giuseppebarbaglio.it/Articoli/finesettimana13.pdf

Il vangelo della pace nelle scritture ebraico-cristiane

sintesi della relazione di Giuseppe Barbaglio
Verbania Pallanza, 17 gennaio 2004

L’espressione « vangelo della pace » si trova in Paolo nella lettera agli Efesini: è la lieta notizia della pace, annunciata e realizzata da Dio stesso.  La parola pace ha molti significati, sia nel mondo biblico che in quello greco-romano. Può anzitutto indicare una condizione in cui il popolo si trova, negativamente la condizione in cui non c’è guerra, positivamente la condizione di benessere, soprattutto materiale. Può avere un significato collettivo, indicando rapporti buoni tra i popoli e tra i gruppi. Nella tradizione biblica è presente la concezione della pace come rapporti buoni tra l’umanità e Dio e della pace come salvezza. Meno presente è la concezione di pace come serenità d’animo, o come rapporti interpersonali buoni.

ubi desertum faciunt pacem appellant

L’anelito alla pace emerge anche nel mondo greco romano. Nel 9 a.C. Augusto, sconfitti i nemici, inaugura un’era di pace e fa costruire l’Ara pacis, l’altare alla dea della pace. Era una svolta per una città, Roma, la cui divinità principale era Marte, il dio della guerra. Nel frattempo, Tacito, molto critico nei confronti della politica imperiale afferma con ironia che i romani fanno deserto della terra e la chiamano pace (ubi desertum faciunt pacem appellant).

pace e sicurezza

Stupefacente la modernità di alcuni testi scritturistici antichi. Paolo, nel più antico scritto neotestamentario, chiama figli della luce i membri della piccola comunità di Tessalonica che
vivevano in un contesto molto ostile, mentre sostiene che per la stragrande maggioranza, che si illude di vivere nella pace e nella sicurezza, sarà la rovina: Quando dicono pace e sicurezza allora all’improvviso verrà su di loro la rovina…

la pace nella bibbia ebraica

Verranno presi in esami alcuni testi profetici.

Geremia

È un profeta dalla parola molto libera, osteggiato dal potere politico, ma anche da altri profeti, suoi avversari, che dicevano pace: dicono pace, pace, ma pace non è (8,11). Pace è utilizzato in senso negativo, come legittimazione di una situazione esistente ingiusta. O si cambia o non ci sarà pace, dice il profeta. In un altro brano Geremia afferma che Dio coltiva pensieri di pace (29,11).

Isaia

In Isaia 52,7 appare la categoria del vangelo della pace, del lieto annuncio da parte del profeta dell’esilio (l’attuale libro di Isaia è composto di almeno tre distinti testi di diversi autori): Come sono belli i passi dell’evangelista, del lieto annunciatore, che proclama la pace.
In Isaia 9,1-5, nel libro dell’Emmanuele che contiene gli oracoli del grande Isaia, si presenta
l’ideologia regale del principe di pace. Dio dona la pace attraverso l’azione umana del principe, che instaura una pace senza fine, fondata sulla giustizia. La giustizia del re è una giustizia molto particolare, diversa da quella dei tribunali, ed è volta a rendere giustizia a chi giustizia non ha, a prendere le difese dei deboli. L’anelito alla giustizia è il grande portato di Israele all’umanità. Questa azione giusta del re è ampiamente descritta al capitolo 11: giudicherà con giustizia i poveri e emetterà sentenze giuste a favore dei miseri del paese. Questa pace fondata sulla giustizia si estende a tutto il cosmo, a tutto il mondo creato: il lupo dimorerà presso l’agnello / e la tigre si accovaccerà accanto al capretto / il vitello e il leone pascoleranno insieme / e un bambino piccolo li condurrà…
Sulla stessa linea è il testo di Isaia 2,1-5, in cui si sogna il grande pellegrinaggio dei popoli a Gerusalemme. La pace diventa pace universale.

Zaccaria

Un testo famoso di Zaccaria, utilizzato anche da Matteo per illustrare Gesù messia pacifico, indicail re che entra a Gerusalemme cavalcando un asino. È la cavalcatura utilizzata in occasioni di pace.

la pace nel nuovo testamento

Nelle lettere di Paolo il saluto è: « grazia e pace », cioè vi auguro il dono della pace.

Romani 5,1: pace come salvezza

« …abbiamo pace nei confronti di Dio… » Paolo dopo aver detto che la lieta notizia è che Dio
accoglie in modo indiscriminato tutti sulla base della fede, afferma che, sempre come dono di
grazia, abbiamo un buon rapporto con Dio.

Romani 5,11: pace come riconciliazione

Paolo usa il termine riconciliazione in senso religioso: Dio ci ha riconciliato.
Dio non ha bisogno di essere riconciliato, al contrario di quanto sosteneva la religione romana tutta intenta a placare la ira Deum (l’ira degli dei) con riti e preghiere. C’era una concezione minacciosa del divino, che appare anche nella tradizione ebraica recente, come nel libro dei Maccabei. Paolo dice che è Dio a vincere la nostra distanza da lui.

Giovanni e Luca: pace come dono

Il Pace a voi del Cristo risorto nel vangelo di Giovanni, come il pace in terra agli uomini che sono oggetto della benevolenza divina di Luca (2,14) indicano la pace come dono di Dio. Dio ha donato la pace agli uomini sulla terra.

Matteo: la pace interpersonale

La beatitudine in Matteo 5,9: beati i creatori di pace, saranno chiamati figli di Dio. Nel rabbinismo, a cui Matteo è vicino, emerge il significato di pace interpersonale, di pace come riconciliazione tra persone. Anche in Matteo 5,23: Se ti avviene di presentare il tuo dono all’altare e ti ricordi che tuo fratello ha qualcosa contro di te, lascia là il tuo dono davanti all’altare e va prima a riconciliarti…La comunione con Dio, espressa nel culto che si celebra, non avviene se due persone non sono in comunione tra loro.

Efesini 2: nella croce crollano i muri di separazione

È una lettera della scuola di Paolo, in cui si afferma che la chiesa universale è il luogo dove gli
opposti si sono riconciliati. Nel mondo di allora c’erano molte divisioni. I greci distinguevano le
persone tra greci e barbari (quelli che non parlavano greco). I romani tra romani, greci e tutti i barbari. Anche nel mondo ebraico c’era una grande divisione di tipo religioso dell’umanità: gli incirconcisi (la maggioranza, 70 milioni di persone) e i circoncisi (la consistente minoranza di ebrei, 6 milioni di persone). Queste due parti si disprezzavano cordialmente (anche Gesù parla di « cagnolini » riferendosi alla Cananea). I non ebrei disprezzavano gli ebrei, accusati di ogni tipo di nefandezze (uccisioni rituali…)

…Ma ora in Cristo Gesù voi che un tempo eravate lontani siete diventati vicini mediante la morte violenta di Cristo. Egli infatti è la pace. Lui che ha fatto le due parti le ha ridotte ad unità. Ha sbriciolato questa parete che sta in mezzo e che separa. Cioè l’inimicizia l’ha distrutta mediante la sua carne, ha reso inoperante la legge mosaica dei comandamenti che si esprime nei precetti. Gesù toglie le radici del conflitto, cioè la legge mosaica. La legge mosaica era il segno della separatezza: privilegio per chi la possedeva e handicap per gli altri.
Paolo dice che gli ebrei possono tenersi la legge, ma questa non può essere il motivo della identità del credente. Le diversità non sono annullate, ma sono depotenziate. Le diversità (essere circoncisi o incirconcisi) non sono più elemento separatore. Il muro è abbattuto.
Egli è venuto ad annunciare, a dare la lieta notizia della pace, a voi che eravate lontani e pace a
voi che eravate i vicini, perché mediante lui noi abbiamo questa entratura in un solo Spirito presso l’unico Padre.

La legge non è più la carta di identità dell’uomo.

Dietro questo testo c’è la teologia di Paolo, cioè la grazia incondizionata di Dio verso gli uni e verso gli altri e la giustificazione sulla base della sola fede, senza la legge. Giudei e non giudei sono su di un piede di parità nei confronti del vangelo della pace, del vangelo della riconciliazione. Mentre la comunità di Gerusalemme, capitanata da Giacomo, il fratello di Gesù, era aperta al mondo pagano, a patto che si giudaizzasse, accettando la circoncisione, e mentre la comunità di Antriochia era composta anche da gentili a cui si chiedeva di osservare i precetti della legge, Paolo proclama la libertà dalla legge, non solo nella pratica ma anche attraverso una giustificazione, una riflessione.

i muri di separazione oggi

Anche oggi occorre saper far risuonare l’antica lieta notizia del vangelo di pace individuando quali sono i muri di separazione di cui annunciare l’abbattimento. Oggi la grande divisione non è più tra circoncisi e incirconcisi, ma tra nord e sud del mondo. La lieta notizia per i deprivati, per gli esclusi, per i lontani di oggi ha come punto di riferimento remoto il Cristo in croce che viene a chiamare su di un piede di parità alla salvezza, e come punto di riferimento prossimo Paolo che ha annunciato e operato l’abbattimento del muro di separazione tra circoncisi e incirconcisi. A noi spetta il compito di individuare il muro di separazione di oggi e di annunciarne anche fattivamente l’abbattimento, proclamando così la lieta notizia, il vangelo della pace.

Rinuncia alla violenza in Rom 12,14-21 (Marcello Buscemi – 2004)

P. PROF. MARCELLO BUSCEMI – DA PDF –

SBF – CORSO DI AGGIORNAMENTO BIBLICO-TEOLOGICO Il cristiano di fronte alla violenza — Gerusalemme, 13-16 aprile 2004

Rinuncia alla violenza in Rom 12,14-21 (Marcello Buscemi)

Il tema della non-violenza, che attraversa tutto l’arco degli scritti del NT è un tema sempre attuale; d’altronde esso fa eco e in qualche modo si ispira alla letteratura veterotestamentaria. La storia degli uomini è stata sempre segnata dalla violenza e il nostro tempo, che parla tanto di pace, vive tale realtà di fondo in un’ambiguità spaventosa. Anzi, si è arrivati al paradosso che per eliminare la violenza si usa o, così polticamente si dice, si è costretti ad usare la violenza. Così, in Kosovo, in Afganistan, in Iraq e, per non andare troppo lontani, anche in Israele. Non che gli sforzi della comunità internazionale per la pace siano pochi e incosistenti. Ci sono persone e organizzazioni realmente “pacifiche” nel senso proprio del termine: “costruttori di pace”, sia che esse ricevano o no il “Premio Nobel per la pace”. Tali sforzi sono notevoli, ma per un cristiano sono insufficienti, come spesso ha notato Papa Giovanni Paolo II nei suoi discorsi, sia in riferimento all’attuale crisi tra Israeliani e Palestinesi, sia in riferimento alla guerra in Iraq. Ed è proprio il Magistero pontificio che ci invita a rileggere il tema della non-violenza alla luce della Parola di Dio: “«Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Come potrebbe questa parola, che invita a operare nell’immenso campo della pace, trovare così intense risonanze nel cuore umno, se non corrispondesse ad un anelito e ad una speranza che vivono in noi indistruttibili? E per quale altro motivo gli operatori di pace saranno chiamati figli di Dio, se non perché Egli per sua natura è il Dio della pace? Proprio per questo, nell’annuncio di salvezza che la Chiesa diffonde nel mondo, vi sono elementi dottrinali di fondamentale importanza per l’elaborazione dei principi necessari ad una pacifica convivenza tra le Nazioni” (1). “Noi crediamo che Gesù Cristo, con il dono della sua vita sulla croce, è diventato la nostra Pace: egli ha abbattuto il muro di odio, che separava i fratelli nemici (cfr Ef 2,14). … I più fedeli discepoli di Cristo sono stati operatori di pace, fino a perdonare ai loro nemici, fino ad offrire talvolta la propria vita per essi” (2).
Tenuto conto di tale invito del Papa, interroghiamo i testi del NT sul tema della non-violenza, che guardano in prospettiva la “costruzione della pace”. I testi sono parecchi e se ne potrebbe fare anche una lettura globale, anche se mi sembra difficile inquadrali in una trattazione unica e con uno spazio temporale ridotto, in quanto perderebbero molto della loro specificità. Per questo, ho scelto di presentarli brevemente e poi di concentrarmi
sul testo di Rom 12,14-21, che, se l’attuale cronologia degli scritti neotestamentari è esatta, risulta insieme a 1Tess 5,15 una testimonianza tra le più antiche della predicazione di Gesù sulla non-violenza.

1) Un detto di Gesù sul non-vendicarsi: Mt 5,38-48; Lc 6,27-36

È proprio da Gesù, nostra pace, che bisogna partire. Dal suo insegnamento e dal suo esempio. “Avete inteso che fu detto agli antichi: .Non uccidere’, chi avrà ucciso sarà sottoposto a giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della geenna” (Mt 5,21-22). “Avete inteso che fu detto: .occhio per occhio e dente per dente’; ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l’altra; e a chi vuole chiamarti in giudizio per toglierti la tunica, tu lasciagli anche il mantello” (Mat 5,38-40). “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti. Infatti, se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani? Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste”.

Al di là della evidente schematizzazione, questi detti di Gesù, sia nella versione matteana del Discorso della montagna (5,11-12.21-26.38-48) che in quella lucana del Discorso della pianura (Lc 6,22-23.27-36) hanno uno scopo catechetico ben preciso: mostrare Gesù come il nuovo Mosè che insegna ai suoi discepoli una giustizia superiore a quella degli scribi e farisei e che permette di entrare nel Regno dei cieli (Mt 5,20). Per questo, egli può affermare: “Fu detto agli antichi…, ma io vi dico”. Non abolisce quello che fu detto agli antichi, ma stabilisce le premesse per superare una giustizia fredda, senza amore, esterna all’uomo. Per Gesù, invece, la giustizia di Dio deve raggiungere il cuore dell’uomo, le profondità del suo sentire e operare: “Dal cuore vengono i propositi malvagi, gli omicidi, gli adulteri, le prostituzioni, i furti, le false testimonianze, le bestemmie” (Mt 15,19). “Perché pensate cose cattive nel vostro cuore?” (Mt 9,4). Non basta “non uccidere”, e al limite neppure non chiamare stupido o pazzo il proprio fratello, ma c’è bisogno di cambiare il proprio cuore. Togliere la “durezza di cuore”, di cui si lamenta Gesù in Mt 13,15 citando Is 6,9-10, e soprattutto di imparare da lui, di essere come lui “miti e umili di cuore” (Mt 11,29). Solo in questa trasformazione radicale del cuore la legge potrà trovare il suo qelal più profondo ed essenziale, cioè quella norma interiore che riassume tutti i precetti della legge e che conquista il cuore dell’uomo: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi comandamenti dipende tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22,37-39). Forse, a qualcuno sembra che tutto ciò basti. No! Per superare “la giustizia degli scribi e dei farisei”, di ieri e di oggi, a volte camuffati anche da cristiani, non basta. Gesù infatti afferma con vigore: “Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico; ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”. L’amore del cristiano non ha limiti razziali, culturali o religiosi: il “prossimo” per lui non è il connazionale o colui che condivide il mio modo di vedere o di fare. Il mio prossimo è quel povero “samaritano” (Lc 10,29-37) che sulla via della vita quotidiana ha bisogno di me, del mio aiuto, del mio intervento fraterno per sentirsi uomo, donna, figlio e figlia di Dio. Il suo cuore può ancora soffrire della “durezza di cuore”, che lo rende “nemico”, estraneo alla giustizia e alla pace, ma che il mio cuore conquistato dalla mitezza e umiltà del cuore di Gesù vorrà conquistarlo al progetto di
amore di Cristo e di Dio. La strada è difficile, tutta in salita, ed è possibile che lungo la via questo fratello che soffre di “durezza di cuore” possa avere pretese ingiuste (pretendere la veste non sua) o che possa compiere gesti insani di cattiveria (colpire la guancia, usare violenza). Lungo tale strada il cristiano deve “imparare la mitezza” di Gesù (Mt 11,29), deve saper cedere per amore (Mt 5,43-48; Lc 6,32-36), pregare perché Dio spezzi quell’indurimento e penetri nel cuore del fratello (Mt 5,44; Lc 6,27-28), perdonare come Gesù perché questo fratello indurito non sa quello che fa (Lc 23,34; At 7,60), offrire la propria vita (Rom 5,6-11; 22Cor 5,18-20; cfr anche Gv 15,12-17) per spezzare quella logica nefasta “dell’occhio per occhio e dente per dente”.
Tale insegnamento di Gesù è divenuto il centro portante dell’insegnamento cristiano, il distintivo che lo caratterizza rispetto sia al giudaismo sia al paganesimo. Per questo, gli echi di tale messaggio non sono affatto rari nella letteratura parenetica del NT e il messaggio della non-violenza e dell’amore al proprio nemico sono spesso coniugati insieme. In un ambiente ostile, come quello in cui vivevono i primi cristiani, il comandamento di Gesù assumeva una duplice valenza etica: una interna alla comunità e una esterna alla comunità. All’interno della comunità, nonostante l’entusiamo dei neofiti e tutta la buona volontà, continuavano a persistere certi atteggiamenti di “durezza di cuore” che non sempre erano in linea con il comondamento dell’amore, dato da Gesù. Così, Paolo esorta i Galati: “Qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi, gli spirituali, correggetelo con spirito di mitezza. E vigila su te stesso, per non cadere anche tu in tentazione” (Gal 6,1). Principio questo difficile a praticarsi, tanto che Matteo nel Discorso della comunità ci offre una catechesi illustrativa di esso: “Se il tuo fratello commette una colpa, va’ e ammoniscilo fra te e lui solo; se ti ascolterà, avrai guadagnato il tuo fratello; se non ti ascolterà, prendi con te una o due persone, perché ogni cosa sia risolto sulla parola di due o tre testimoni. Se poi non ascolterà neppure costoro, dillo all’assembea; e se non ascolterà neanche l’assemblea, sia per te come un pagano e un pubblicano” (Mt 18,13-17). È chiaro che le cose non erano sempre semplici o facili a risolvere, come nel caso, prospettato da 1Cor 6,1, di quei cristiani che, non avendo ottenuto ragione all’interno della comunità, si rivolgevano ai tribunali pagani. Paolo dà una risposta simile a quella di Mt 5,38-42, “Un fratello viene chiamato in giudizio da un altro fratello e per di più davanti ad infedeli. È già per voi una sconfitta avere liti vicendevoli! Perché non subire piuttosto l’ingiustizia? Perché non lasciarvi privare di ciò che vi appartiene?” (1Cor 6,7). Ma c’è di più: “Quante volte devo perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte? … Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette” (Mt 18,21-22). Ma molto significativa è la conclusione della parabola dei due debitori di Mt 18,23-34, perché ancora una volta punta sul “rinnovamento del cuore”: “Così anche il Padre mio celeste farà a ciascuno di voi, se non perdonerete di cuore al vostro fratello” (Mt 18,35). Certo, nelle comunità, di ieri e di oggi, vi sono o ci possono essere degli “indisciplinati”, ma anche in questi casi bisogna ascoltare la voce dello Spirito: “Vi esortiamo, fratelli, vivete in pace tra voi; correggete gli indisciplinati, confortate i pusillanimi, sostenete i deboli, siate pazienti con tutti. Guardatevi dal rendere male per male ad alcuno, ma cercate sempre il bene tra voi e con tutti. … Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie; esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono. Astenetevi da ogni specie di male” (1Tess 5,13b-22). A volte, Gesù, Paolo, Giovanni, hanno dovuto lanciare degli “anatema”, ma sempre con l’intenzione che “gli indisciplinati” “potessero ottenere la salvezza nel giorno del Signore”. “Se la mia lettera vi ha rattristati, non mi dispiace, … perché questa tristezza vi ha portato a pentirvi” (2Cor 7,8-9).
Ma i casi più incresciosi si registravano fuori della comunità, dato che i primi cristiani si trovavano tra due fuochi: da una parte l’incomprensione dei giudei che li consideravano minim o nozrim, cioè eretici, e dall’altra il disprezzo dei pagani che consideravano la sequela di un uomo crocifisso come una stoltezza (cfr 1Cor 1,23-24). E non sempre l’incomprensione o il disprezzo si limitava alle parole minacciose, ma a volte diveniva “castigo con flagellazione”, vera e propria scomunica con pesanti conseguenze per la vita quotidiana, persecuzione.
“Guardatevi dagli uomini, perché vi consegneranno ai loro tribunali e vi flagelleranno nelle loro sinagoghe; e sarete condotti davanti ai governatori e ai re per causa mia, per dare testimonianza a loro e ai pagani. … E sarete odiati da tutti, ma chi persevererà sino alla fine sarà salvato (Mt 10,17-18.22). Come reagire? “E quando vi consegneranno nelle loro mani, non preoccupatevi di come o di che cosa dovrete dire, perché vi sarà suggerito in quel momento ciò che dovrete dire: non siete infatti voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” (Mat 10,17-20). Lo Spirito Santo è la forza del cristiano, che gli farà comprendere che “un servo non è più grande del suo padrone; se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi” (Gv 15,20; Mt 10,24-25); ma nello stesso tempo gli darà il coraggio di dire la verità a tutti gli uomini, senza temere “quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima”. In tal clima si inquadrano le dure parole di Stefano contro i giudei di Gerusalemme: “O gente testarda e pagana nel cuore e nelle orecchie, voi sempre opponete resistenza allo Spirito Santo; come i vostri padri, così anche voi. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccisero quelli che preannunciavano la venuta del Giusto, del quale voi ora sieti divenuti traditori e uccisori” (At 7,51-52); di Paolo contro i giudei della diaspora: “Voi, fratelli, siete diventati imitatori delle chiese di Dio in Gesù Cristo, che sono in Giudea, perché avete sofferto anche voi da parte dei vostri connazionali come loro da parte dei giudei, i quali hanno perfino messo a morte il Signore Gesù e i profeti e hanno perseguitato anche noi. Essi non piacciono a Dio e sono nemici di tutti gli uomini, impedendo a noi di predicare ai pagani perché possano essere salvati. In tal modo essi colmano la misura dei loro peccati! Ma ormai l’ira è arrivata al colmo sul loro capo” (1Tess 2,14-16). Certo le dure parole di Stefano e di Paolo possono impressionare, ma esse non sono un atto di condanna di Israele, quanto un invito molto forte alla conversione del cuore. Stefano, infatti, non chiede vendetta a Dio, ma “Signore, non imputar loro questo peccato” (At 7,60). E Paolo gli fa eco: “Dico la verità in Cristo, non mentisco, e la mia coscienza me ne dà testimonianza nello Spirito Santo: ho nel cuore un grande dolore e una sofferenza continua. Vorrei infatti essere io stesso anatema, separato da Cristo a vantaggio dei miei fratelli, miei consaguinei secondo la carne. Essi sono Israeliti e possiedono l’adozione a figli, la gloria, le alleanza, la legge, il culto, le promesse, i patriarchi; da essi proviene Cristo secondo la carne, egli che è sopra ogni cosa, Dio benedetto nei secoli. Amen” (Rom 9,1-5). Altrettanto dure possono risultare le accuse di Paolo contro i vizi dei pagani in Rom 1,18-32 e riassunte in Ef 4,17-19: “Vi scongiuro nel Signore: non comportatevi più come i pagani nella vanità della loro mente, accecati nei loro pensieri, estranei alla vita di Dio a causa dell’ignoranza che è in loro e per la durezza del loro cuore. Diventati così insensibili, si sono abbandonati alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile”. A tale condanna, però, fa subito seguito l’invito accorato di Paolo: “Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (2Cor 5,20), “deponete l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici, rinnovatevi nello spirito della vostra mente, rivestite l’uomo nuovo, creato nella giustizia e nella santità vera” (Ef 4,20-3). Pertanto, le accuse di Gesù, di Paolo e di altri apostoli non sono una forma di rivalsa orale, ma un invito a tutti a rivedere la propria condotta e ad abbandonare la “durezza del cuore”. La regola del cristiano è “mentre abbiamo l’occasione, facciamo il bene verso tutti” (Gal 6,10); “e se facendo il bene sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito a Dio. A questo infatti siete stati chiamati, poiché anche Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme: egli non commise peccato e non si trovò inganno nella sua bocca, oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo non minacciava vendetta, ma rimetteva la sua causa a colui che giudica con giustizia” (1Pt 2,19-23).

2) Rom 12,17-21: un midrash su un detto di Gesù sul non vendicarsi

Una risposta più articolata a tale problema della non violenza e del non vendicarsi la si trova in Rom 12,14-21, che lo si può ritenere un midrash su un detto di Gesù riguardante il non vendicarsi”. Senza la pretesa di farne un’esegesi completa, vedremo brevemente alcuni problemi del testo, la sua struttura e la parenesi che ne scaturisce.

Il testo di Rom 12,14-17

Rom 12,14-21 è inserita nella parenesi sulla “carità senza finzioni” di Rom 12,9-13,10, che è svolta in 4 momenti: 12,9-13: le caratteristiche fondamentali dell’amore cristiano verso tutti; 12,14-21: l’esercizio della carità nella vita quotidiana; 13,1-7: la carità in rapporto all’autorità costituita; Rom 13,8-10: il comandamento dell’amore al prossimo come principio base della vita cristiana. Tale struttura generale della parenesi sull’«amore senza finzioni» è molto significativa, in quanto ci mostra che l’amore al prossimo non fa distizioni tra amico e nemico: tutti sono figli di Dio, tutti sono “prossimo”; l’esercizio dell’amore non fa differenza se l’offesa viene da un membro della comunità o da un nemico della comunità, in quanto la risposta è unica: fare il bene a tutti senza vendicarsi. Se poi isoliamo Rom 12,14-21 e ne guardiamo la struttura letteraria, ci accorgiamo come tale parenesi ha come due momenti: uno comunitario (12,14-16) e uno personale (12,17-21); queste due parti, poi, sono legate ad un detto di Gesù, simile a quello di Mt 5,44 e Lc 6,28: “benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite” (12,14), che viene ripreso anche con il detto: “Non rendete a nessuno male per male” (12,17). L’impostazione di questa parenesi è interessante e ci permette di considerare Rom 12,14-21 come un “midrash cristiano sul non vendicarsi”. La struttura letteraria è semplice:

1)12,14: un detto di Gesù sul non vendicarsi

2) 12,15-16: risposta comunitaria

- v.15: immedesimarsi nella situazione dell’altro

- 12,16: l’unità nel sentire

3) Rom 12,17-21: risposta personale

A. v. 17: Ripresa del detto di Gesù

B. vv. 18-20: diversi modi di reagire al male con il bene.

1. v 18: Vivere in pace con tutti

2. v.19: lasciare a Dio la vendetta

3. v. 20: fare il bene anche al proprio nemico

A’ v. 21 Conclusione generale

La struttura midrashica di Rom 12,14-21, invece, la si può rilevare dai seguenti elementi:

1º) si parte da un testo biblico ritenuto mormativo: “benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite”; il detto non lo si trova letteralmente né in Mt né in Lc, ma è come una fusione di Mt 5,44: “amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”, e di Lc 6,28: “benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi maltrattano”. Non sappiamo quale è il detto originale di Gesù, e non è neppure importante ricostruirlo. Importante è che il detto fa parte di un discorso programmatico e normativo di Gesù, del “discorso della montagna” o del “discorso della pianura”, in cui Gesù annuncia le esigenze richieste per entrare nel Regno di Dio. D’altra parte, Gesù ha ripreso il comandamento di Lev 19,17: “Non coverai nel tuo cuore odio contro tuo fratello” e ne fa una rilettura positiva e radicale alla luce proprio del precetto dell’“amerai il prossimo tuo come te stesso” (Lev 19,18; Mt 5,43; Rom 13,8-9; Gal 5,14) o come dirà Paolo di una “carità senza finzioni” (Rom 12,9), determinando un superamento qualitativo rispetto all’antica legge.
2º) l’uso della Scrittura per commentare il detto normativo. Così, nel giro di 8 versetti abbiamo sette allusioni a testi biblici: Rom 12,15 allude a Sir 7,34 (LXX), Rom 12,16 a Prov 3,5-7; Sir 15,5-8 e Is 5,21; Rom 12,17 allude a Es 23,4-5 e a Prov 20,22; 25,21; e in Rom 12,19 due citazioni esplicite di Dt 32,31 e Prov 25,21 e fa riferimento esplicito al comando di Lev 19,18. Il riferimento ai testi normativi di Esodo e Deuteronomio sono determinanti nella parenesi che Paolo svolge, mentre i testi di Proverbi, Siracide ed Isaia sono un invito
ad una riflessione sapienziale, che deve far penetrare il messaggio dell’amore nel profondo del cuore.
3º) l’applicazione attualizzante: in Rom 12,16: bisogna condividere la gioia e il dolore senza porsi al di sopra del proprio prossimo; in Rom 12,18: nei limiti del possibile vivere in pace con tutti; in Rom 12,19: l’esortazione a rifiutare la logica della vendetta; in 12,21: l’esortazione a vincere il male con il bene.

2) La parenesi della non violenza in Rom 12,14-21

Il punto di partenza è l’insegnamento di Gesù: “benedite coloro che vi perseguitano, benedite e non maledite”. È un insegnamento duro e sconcertante. Forse, ci sembra più ragionevole l’insegnamento di Lev 19,17: “Non coverai odio contro il tuo fratello” e gli insegnamenti di Es. 23,4-5 di aiutare il proprio nemico a trarre fuori il bue caduto in un fosso. In fondo, è più facile e anche più pratico ignorare le persone che ci hanno fatto del male e, teoricamente parlando, accettare in maniera eccezionale che in qualche occasione di emergenza si possa venire incontro anche ad un nostro nemico. In fondo, il comandamento di “non odiare” è ben poca cosa rispetto a quello che ci chiede Gesù, sia che il verbo “benedire” lo si interpreti come “dire bene di qualcuno” o come “invocare la benedizione su qualcuno”. Il comando, infatti, non è più negativo: basta non pensare più al nemico, ma è positivo: bisogna pensare a lui e “dire bene di lui” e “invocare la benedizione su di lui”. Non ci si può equivocare, perché Paolo secondo il suo stile continua: “benedite e non maledite”. Riconosciamolo: è difficile. Ma è ciò che chiede una “carità senza finzioni”. Paolo lo ha scritto anche 1Cor 13,4-7: “La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta”. Dinanzi a tale esigenze dell’amore si resta senza parole. Ci sentiamo piccoli piccoli. Ma ciò avviene perché continuiamo a pensare con categorie umane e non con la logica di Cristo. Non basta, però, accettare le sue parole e al limite sforzarsi di metterle in pratica, ma bisogna spogliarsi dell’uomo vecchio, rinunciare al cuore indurito e rivestirsi di Cristo, al punto che “non sono più io che vivo ma Cristo vive in me”.  Bisogna che le parole di Paolo in 2Cor 5,17 divengano una realtà esistenziale nuova: “Chi è in Cristo, questi è nuova creazione. Le cose vecchie sono passate, ecco sono sorte quelle nuove”. La prima risposta alla violenza e all’ingiustizia deve venire da una comunità unita, che sa immedesimarsi nel problema di chi subisce la violenza e l’ingiustizia e che cerca una soluzione comune al problema. In primo luogo, il cristiano deve “gioire con chi gioisce, piangere con chi piange”. Non si tratta di organizzare feste o sedute di lutto, ma piuttosto di fare propri la gioia o il dolore del fratello, in una parola di immedesimarsi nella sua situazione concreta e di fare sentire la propria presenza nei momenti più forti dell’esistenza umana. Una presenza che condivide, che pensa e sente all’unisono con il fratello. Non una condivisione esterna di dolore, ma una vera “com-passione” che nasce da un cuore rinnovato dalla grazia di Cristo e dall’azione feconda dello Spirito, che nasce dalla consapevolezza che “se un membro soffre, tutto il corpo soffre; e se un membro è onorato, tutto il corpo ne gioisce. Siamo corpo di Cristo e sua membra” (1Cor 12,26). Proprio per questo, i cristiani “devono avere gli stessi sentimenti gli uni verso gli altri”. Ciò può avvenire solo quando partecipiamo alla gioia e al dolore del fratello non con aria di superiorità, ma con quella carità umile che ascolta non con le orecchie, ma con il cuore; che non detta leggi di comportamento, ma che si pone vicino al fratello e cammina con lui; soffre se egli sbaglia, consiglia con prudenza, gioisce se egli si rialza. In altre parole, si riveste dei sentimenti di Cristo (Fil 2,5) e insieme a lui “ama e consegna se stesso” per il proprio fratello, “perché non c’è un amore più grande di questo: dare la propria vita per il proprio fratello” (Gv 15,13). La seconda risposta è personale. Non individuale, ma personale, perché essa cerca l’interazione, il rapporto
con il fratello. Proprio per questo, il primo compito della “carità senza finzioni” è quello di “fuggire il male con orrore, di attaccarsi al bene” (Rom 12,9) e in conseguenza di “non rendere a nessuno male per male” (Rom 12,17), ma di “essere in pace con tutti” (Rom 12,10). L’accento cade ancora sull’aspetto positivo della parenesi e sulla dinamicità dell’amore cristiano, che crea un crescendo nella relazione: parte da un profondo sentimento di avversione verso il male che è il primo passo per liberarsi dalla “durezza del cuore”, si lascia afferrare totalmente da “tutto ciò che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, ciò che è virtù e merita lode” (Fil 4,8), fino a divenire un modo connaturale di pensare e di agire. Allora, diverrà una realtà ciò che si legge in Fil 4,5-7: “La vostra affabilità sia nota a tutti gli uomini. Il Signore è vicino. Non angustiatevi per nulla, ma in ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste con preghiere e ringraziamenti; e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù”. Il cuore, allora, sarà liberato dal desiderio di vendetta e i pensieri coltiveranno la pace e l’amore, doni dello Spirito che ci permettono di guardare con rispetto al fratello, anche quando sbaglia nel suo comportamento. Non è dell’uomo vendicarsi o stabilire piani di vendetta, per stabilire la giustizia o la pace. La giustizia e la pace sono dono di Dio, la vendetta per il male è riservata a lui, all’uomo rimane solo l’adempimento del comand-mento di amare il prossimo, non solo “non lasciandosi vincere dal male e vincendo il male con il bene”, ma soprattutto ad imitazione di Cristo di intercedere per il proprio fratello dal cuore duro e offrendo tutto se stesso per la sua salvezza. Dobbiamo fare nostro il realismo del papa: “Le difficoltà che incontriamo nel cammino verso la pace, sono legate in parte alla nostra debolezza di creature, i cui passi sono necessariamente lenti e graduali; sono aggravate dai nostri egoismi, dai nostri peccati di ogni genere, dopo quel peccato di origine, che ha segnato una rottura con Dio, determinando una rottura anche tra i fratelli. Ma noi crediamo che Gesù Cristo, con il dono della sua vita sulla croce, è diventato la nostra Pace: egli ha abbattuto il muro di odio, che separava i fratelli nemici (cfr. Ef 2,14). Risuscitato ed entrato nella gloria del Padre, egli ci associa misteriosamente alla sua vita: riconciliandoci con Dio, egli ripara le ferite del peccato e della divisione e ci rende capaci di inscrivere nelle nostre società un abbozzo di quell’unità che ristabilisce in noi. I più fedeli discepoli di Cristo sono stati operatori di pace, fino a perdonare ai loro nemici, fino ad offrire talvolta la propria vita per essi. Il loro esempio traccia la via per un’umanità nuova, che non si accontenta più di compromessi provvisori, ma realizza la più profonda fraternità” (3).
———
NOTE

1 “Un impegno sempre attuale: educare alla pace”, 9 , (Messaggio di Giovanni Paolo II per la celebrazione della giornata mondiale della pace – 1 Gennaio 2004).
2 “Per giungere alla pace, educare alla pace”, n. 16, (Messaggio di Giovanni Paolo II per la XII Giornata della Pace).
3 “Per giungere alla pace, educare alla pace”, n. 16, (Messaggio di Giovanni Paolo II per la XII Giornata della Pace).

LA PAROLA « PACE » IN SAN PAOLO – HO FATTO UNA SEMPLICISSIMA RICERCA

LA PAROLA : « PACE » – HO FATTO UNA SEMPLICE RICERCA DELLA PAROLA PACE IN SAN PAOLO, POI COPIA E INCOLLA, LA RICERCA PERÒ SI PUÒ CONTINUARE, DAL SITO (non metto il colore perché temo che mi salti l’impostazione della pagina):

http://www.laparola.net/ricerca.php

Atti 15:33

Dopo un certo tempo furono congedati con auguri di pace dai fratelli, per tornare da quelli che li avevano inviati.

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Atti 16:36

Il carceriere annunziò a Paolo questo messaggio: «I magistrati hanno ordinato di lasciarvi andare! Potete dunque uscire e andarvene in pace».

At 16:36 in tutte le versioni Mostra capitolo

Atti 24:3

«La lunga pace di cui godiamo grazie a te e le riforme che ci sono state in favore di questo popolo grazie alla tua provvidenza, le accogliamo in tutto e per tutto, eccellentissimo Felice, con profonda gratitudine.

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Romani 1:7

A quanti sono in Roma diletti da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.

Ro 1:7 in tutte le versioni Mostra capitolo

Romani 2:10

gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco,

Ro 2:10 in tutte le versioni Mostra capitolo

Romani 3:17

e la via della pace non conoscono.

Ro 3:17 in tutte le versioni Mostra capitolo

Romani 5:1

Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo;

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Romani 8:6

Ma i desideri della carne portano alla morte, mentre i desideri dello Spirito portano alla vita e alla pace.

Ro 8:6 in tutte le versioni Mostra capitolo

Romani 12:18

Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti.

Ro 12:18 in tutte le versioni Mostra capitolo

Romani 14:17

Il regno di Dio infatti non è questione di cibo o di bevanda, ma è giustizia, pace e gioia nello Spirito Santo:

Ro 14:17 in tutte le versioni Mostra capitolo

Romani 14:19

Diamoci dunque alle opere della pace e alla edificazione vicendevole.

Ro 14:19 in tutte le versioni Mostra capitolo

Romani 15:13

Il Dio della speranza vi riempia di ogni gioia e pace nella fede, perché abbondiate nella speranza per la virtù dello Spirito Santo.

Ro 15:13 in tutte le versioni Mostra capitolo

Romani 15:32

sicché io possa venire da voi nella gioia, se così vuole Dio, e riposarmi in mezzo a voi. Il Dio della pace sia con tutti voi. Amen.

Ro 15:32 in tutte le versioni Mostra capitolo

Romani 16:20

Il Dio della pace stritolerà ben presto satana sotto i vostri piedi. La grazia del Signor nostro Gesù Cristo sia con voi.

Ro 16:20 in tutte le versioni Mostra capitolo

1Corinzi 1:3

grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.

1Co 1:3 in tutte le versioni Mostra capitolo

1Corinzi 7:15

Ma se il non credente vuol separarsi, si separi; in queste circostanze il fratello o la sorella non sono soggetti a servitù; Dio vi ha chiamati alla pace!

1Co 7:15 in tutte le versioni Mostra capitolo

1Corinzi 14:33

perché Dio non è un Dio di disordine, ma di pace.

1Co 14:33 in tutte le versioni Mostra capitolo

1Corinzi 16:11

Nessuno dunque gli manchi di riguardo; al contrario, accomiatatelo in pace, perché ritorni presso di me: io lo aspetto con i fratelli.

1Co 16:11 in tutte le versioni Mostra capitolo

2Corinzi 1:2

grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo.

2Co 1:2 in tutte le versioni Mostra capitolo

2Corinzi 2:13

non ebbi pace nello spirito perché non vi trovai Tito, mio fratello; perciò, congedatomi da loro, partii per la Macedonia.

2Co 2:13 in tutte le versioni Mostra capitolo

2Corinzi 13:11

Per il resto, fratelli, state lieti, tendete alla perfezione, fatevi coraggio a vicenda, abbiate gli stessi sentimenti, vivete in pace e il Dio dell’amore e della pace sarà con voi.

2Co 13:11 in tutte le versioni Mostra capitolo

Galati 1:3

Grazia a voi e pace da parte di Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo,

Ga 1:3 in tutte le versioni Mostra capitolo

Galati 5:22

Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé;

Ga 5:22 in tutte le versioni Mostra capitolo

Galati 6:16

E su quanti seguiranno questa norma sia pace e misericordia, come su tutto l’Israele di Dio.

Ga 6:16 in tutte le versioni Mostra capitolo

Efesini 1:2

grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.

Ef 1:2 in tutte le versioni Mostra capitolo

Efesini 2:14

Egli infatti è la nostra pace,
colui che ha fatto dei due un popolo solo,
abbattendo il muro di separazione che era frammezzo,
cioè l’inimicizia,

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Efesini 2:15

annullando, per mezzo della sua carne,
la legge fatta di prescrizioni e di decreti,
per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo,
facendo la pace,

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Efesini 2:17

Egli è venuto perciò ad annunziare pace
a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini.

Ef 2:17 in tutte le versioni Mostra capitolo

Efesini 4:3

cercando di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace.

Ef 4:3 in tutte le versioni Mostra capitolo

Efesini 6:15

e avendo come calzatura ai piedi lo zelo per propagare il vangelo della pace.

Ef 6:15 in tutte le versioni Mostra capitolo

Efesini 6:23

Pace ai fratelli, e carità e fede da parte di Dio Padre e del Signore Gesù Cristo.

Ef 6:23 in tutte le versioni Mostra capitolo

Filippesi 1:2

Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo.

Fili 1:2 in tutte le versioni Mostra capitolo

Filippesi 4:7

e la pace di Dio, che sorpassa ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori e i vostri pensieri in Cristo Gesù.

Fili 4:7 in tutte le versioni Mostra capitolo

Filippesi 4:9

Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare. E il Dio della pace sarà con voi!

Fili 4:9 in tutte le versioni Mostra capitolo

Colossesi 1:2

ai santi e fedeli fratelli in Cristo dimoranti in Colossi grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro!

Col 1:2 in tutte le versioni Mostra capitolo

Colossesi 3:15

E la pace di Cristo regni nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo. E siate riconoscenti!

Col 3:15 in tutte le versioni Mostra capitolo

1Tessalonicesi 1:1

Paolo, Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: grazia a voi e pace!

1Te 1:1 in tutte le versioni Mostra capitolo

1Tessalonicesi 4:11

e a farvi un punto di onore: vivere in pace, attendere alle cose vostre e lavorare con le vostre mani, come vi abbiamo ordinato,

1Te 4:11 in tutte le versioni Mostra capitolo

1Tessalonicesi 5:3

E quando si dirà: «Pace e sicurezza», allora d’improvviso li colpirà la rovina, come le doglie una donna incinta; e nessuno scamperà.

1Te 5:3 in tutte le versioni Mostra capitolo

1Tessalonicesi 5:13

trattateli con molto rispetto e carità, a motivo del loro lavoro. Vivete in pace tra voi.

1Te 5:13 in tutte le versioni Mostra capitolo

1Tessalonicesi 5:23

Il Dio della pace vi santifichi fino alla perfezione, e tutto quello che è vostro, spirito, anima e corpo, si conservi irreprensibile per la venuta del Signore nostro Gesù Cristo.

1Te 5:23 in tutte le versioni Mostra capitolo

2Tessalonicesi 1:2

grazia a voi e pace da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo.

2Te 1:2 in tutte le versioni Mostra capitolo

2Tessalonicesi 3:12

A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace.

2Te 3:12 in tutte le versioni Mostra capitolo

2Tessalonicesi 3:16

Il Signore della pace vi dia egli stesso la pace sempre e in ogni modo. Il Signore sia con tutti voi.

2Te 3:16 in tutte le versioni Mostra capitolo

1Timoteo 1:2

a Timòteo, mio vero figlio nella fede: grazia, misericordia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù Signore nostro.

1Ti 1:2 in tutte le versioni Mostra capitolo

2Timoteo 1:2

al diletto figlio Timòteo: grazia, misericordia e pace da parte di Dio Padre e di Cristo Gesù Signore nostro.

2Ti 1:2 in tutte le versioni Mostra capitolo

2Timoteo 2:22

Fuggi le passioni giovanili; cerca la giustizia, la fede, la carità, la pace, insieme a quelli che invocano il Signore con cuore puro.

2Ti 2:22 in tutte le versioni Mostra capitolo

Tito 1:4

a Tito, mio vero figlio nella fede comune: grazia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù, nostro salvatore.

Tit 1:4 in tutte le versioni Mostra capitolo

Filemone 3

grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo.

File 1:3 in tutte le versioni Mostra capitolo

Ebrei 7:2

a lui Abramo diede la decima di ogni cosa; anzitutto il suo nome tradotto significa re di giustizia; è inoltre anche re di Salem, cioè re di pace.

Eb 7:2 in tutte le versioni Mostra capitolo

Ebrei 12:11

Certo, ogni correzione, sul momento, non sembra causa di gioia, ma di tristezza; dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per suo mezzo sono stati addestrati.

Eb 12:11 in tutte le versioni Mostra capitolo

Ebrei 12:14

Cercate la pace con tutti e la santificazione, senza la quale nessuno vedrà mai il Signore,

Eb 12:14 in tutte le versioni Mostra capitolo

Ebrei 13:20

Il Dio della pace che ha fatto tornare dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di un’alleanza eterna, il Signore nostro Gesù,

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