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LA GIUSTIFICAZIONE PER MEZZO DELLA FEDE – 2 – DI JOACHIM JEREMIAS

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LA GIUSTIFICAZIONE PER MEZZO DELLA FEDE – 2 – DI JOACHIM JEREMIAS

Testo tratto da J. Jeremias, Il messaggio centrale del Nuovo Testamento, trad. it. Paideia, Brescia 1968 (ed. or. Stuttgart 1962), pp. 57-81.

Giustificazione e nuova creazione

Se facciamo un elenco dei passi paolini in cui ricorre la formula della giustificazione, ci imbattiamo in un fatto sorprendente e spesso trascurato: la dottrina della giustificazione manca completamente nella maggior parte delle epistole paoline. Se prendiamo le più antiche tra esse, le due lettere ai Tessalonicesi, non ne troviamo traccia.
Nella prima lettera, l’avverbio dikaíos indica il comportamento irreprensibile dell’apostolo (1Ts 2,10). Nella seconda, il giudizio di Dio è chiamato “giusto giudizio”, e Dio è chiamato “giusto” perché il suo giudizio è imparziale (2Ts 1,5 s.). Questi giudizi non hanno nulla che fare con la dottrina della giustificazione.
In Gal, che cronologicamente è la lettera successiva, la formula completa “giustificazione dalla fede” o “essere giustificato dalla fede” appare improvvisamente per la prima volta. Nelle due lettere ai Corinzi, dikaiosyne ha il senso di “salvezza”, ed “essere giustificato” appare almeno una volta (1Cor 6,11) nel senso specificamente paolino: ma in nessun luogo di queste due lettere appare la formula completa di “giustificazione dalla fede”.
Quindi troviamo la formula completa, con grande frequenza, nella lettera ai Romani. Ma, di nuovo, essa è assente nelle epistole della cattività e cioè nelle lettere ai Filippesi, agli Efesini, ai Colossesi, a Filemone, eccetto che in Fil 3,9, dove la dikaiosyne (salvezza) per mezzo della Legge è contrapposta alla dikaiosyne (salvezza) di Dio mediante la fede. Le epistole pastorali non contengono la formula completa, benché Tit 3,7 usi la variante seguente: “giustificato mediante la sua grazia”.
Così la formula completa “giustificazione dalla fede” o “esser giustificato dalla fede” è limitata alle tre epistole ai Galati, Romani e Filippesi (e nell’ultima a un versetto soltanto), a cui si può aggiungere Tit 3,7. Questo è un fatto molto singolare. Come lo si può spiegare?
La risposta è che la dottrina ricorre esclusivamente là dove Paolo polemizza col giudaismo. Certamente W. Wrede [1] aveva ragione quando concludeva che la dottrina della giustificazione era una dottrina polemica, originata dalla disputa con l’ebraismo e la sua teologia nomistica. Ma il Wrede andò oltre e, dall’uso limitato della formula, concludeva che la dottrina della giustificazione non era il centro della teologia paolina. A. Schweitzer [2] lo seguì con la frase divenuta ora famosa: la dottrina della giustificazione è soltanto un “cratere sussidiario, formatosi entro l’alveo del cratere principale” della mistica vista in Cristo, esperimentata da Paolo. Ma è proprio vero questo? Io non lo penso.
Sia Wrede che Schweitzer si sono lasciati fuorviare per non essersi posti la seguente domanda: come viene concessa la giustificazione? Come fa Dio ad accettare l’empio? Su questo punto noi ora siamo in grado di vedere meglio, perché negli ultimi decenni abbiamo appreso che tale dono divino viene concesso nel battesimo. Ciò è deducibile, per es., da 1Cor 6,11, ove il verbo “esser giustificato” è accompagnato da termini e formule battesimali: «Ma foste lavati, santificati, giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio» (cf. inoltre Gal 3,24-27; Rm 6,7; Tit 3,5-7).
Paolo non accentua in modo esplicito il legame tra giustificazione e battesimo per il semplice motivo che l’espressione «per la fede», inclusa nelle formule ove ricorre il termine di giustificazione, comprende già il battesimo, perché, come ha dimostrato in modo convincente R. Schnackenburg [3], essa è l’abbreviazione di un’espressione più lunga. Il legame tra giustificazione e battesimo è così pacifico per Paolo che egli non ritiene necessario spendere molte parole per affermare che è proprio nel battesimo che Dio salva chi crede in Cristo Gesù.
È necessario a questo punto ricordare a noi stessi che Paolo parla e scrive come un missionario. Nella attività missionaria, il battesimo era l’atto decisivo, attraverso il quale chi, gentile o giudeo che fosse, aveva aderito alla buona novella ed era deciso di entrare nella comunità cristiana, era inserito fra coloro che appartenevano a Gesù come loro Signore. Per questo Paolo sottolinea costantemente l’importanza del battesimo e ricorre ad una moltitudine di immagini per illustrare ai neo-convertiti che cosa significhi per loro questo rito. Egli dice loro: «Quando siete battezzati voi venite lavati; siete purificati, santificati; venite sepolti nell’acqua e con questa sepoltura siete associati alla morte e alla resurrezione di Cristo; vi siete rivestiti di Cristo e incorporati nel suo corpo; siete adottati e diventate figli di Dio; siete circoncisi, ma con una circoncisione non fatta da mano d’uomo, in altre parole, diventate membri del popolo di Dio; in breve, venite introdotti nel regno».
La formula “giustificazione per la fede” è appunto una di queste molteplici espressioni illustrative. Essa descrive la grazia che Dio accorda nel battesimo col ricorso ad un’immagine che originariamente apparteneva al dominio giuridico, e significa: la grazia che Dio accorda nel battesimo consiste nel suo perdono gratuito. Ed è in contrasto col giudaismo che Paolo offre questa presentazione della grazia del battesimo. Non si tratta, perciò, di un “cratere sussidiario”, ma di un’immagine che ha la stessa importanza delle altre usate per descrivere la grazia del battesimo. Si veda di nuovo 1Cor 6,11: «Ma voi siete lavati, siete santificati, siete giustificati nel nome del Signore Gesù Cristo e nello Spirito del nostro Dio».
Questa precisazione ha una conseguenza di grande portata, e cioè che la dottrina della giustificazione per la fede non dovrebbe restare isolata. Essa può essere compresa soltanto se connessa con tutte le altre affermazioni sul battesimo. La grazia che Dio ci dà per mezzo del battesimo è così ricca che Paolo usa i vari paragoni ed immagini per esprimerne di volta in volta i singoli aspetti. Se egli parla di abluzioni, l’accento è posto sulla rimozione delle impurità dell’esistenza precedente. Se egli usa l’immagine del “rivestirsi di Cristo” presa a prestito dal linguaggio mistico, viene sottolineata la comunione, e persino unità, col Signore risorto. Lo stesso concetto con la nota addizionale dell’unità dei cristiani tra di loro, è espresso dall’immagine dell’incorporazione nel corpo di Cristo. Se egli adopera l’espressione “la circoncisione di Cristo” vuole indicare l’aggregazione al nuovo popolo di Dio. Infine, quando egli adotta il vocabolario della giustificazione, di origine forense, intende affermare che chi agisce è Dio solo. L’uomo non fa nulla: Dio fa tutto.
Ancora una volta nessuna immagine singola può esaurire la ricchezza senza limiti della grazia di Dio. Piuttosto, ognuna di esse è solo una pars pro toto, un’illustrazione particolare che sta in funzione dell’intero dono. Perciò l’isolare l’immagine forense potrebbe condurre alla conclusione errata che farebbe consistere la grazia concessa da Dio nel battesimo in una entità puramente giuridica, riducendola ad un semplice “come se”: Iddio accoglie l’empio e lo tratta come se egli fosse giusto.
Ciò risultò molto chiaramente nel 1924 in una interessante controversia tra R. Bultmann e H. Windisch, in un’epoca in cui la teologia dialettica era di moda. Il Bultmann scrisse sul “Problema dell’etica in Paolo” [4]. Il suo argomento era il problema dell’apparente contraddizione tra indicativo e imperativo, cioè l’antinomia paradossale che troviamo ad esempio in 1Cor 5,7: «Purificatevi dal vecchio lievito così che diveniate un impasto nuovo, come in realtà siete azzimi (non-lievitati)», o in Gal 5,25: «Se noi viviamo per mezzo dello Spirito cerchiamo, anche, di camminare per lo Spirito».
Il Bultmann rigettava assai energicamente e convincentemente alcuni tentativi fatti in precedenza di trovare una soluzione meramente psicologica di questo problema. In contrasto, egli accentuava il carattere escatologico della giustificazione divina. Egli insisteva giustamente sul fatto che la giustificazione non è un cambiamento nelle qualità morali degli uomini, che non è un’esperienza simile alle esperienze mistiche, e che può essere percepita solo per mezzo della fede. Ma penso che egli si sbagliasse quando aggiungeva che la continuità tra il vecchio e il nuovo uomo non è interrotta, che cioè il credente non cessa di essere empio e che egli viene sempre giustificato solo in quanto persona empia.
Il Bultmann stesso confessava che in Paolo non si trovava una simile affermazione. Ma egli sosteneva che Paolo non aveva dedotto tutte le conclusioni dei principi che aveva posto e che era uno dei compiti dell’esegesi moderna di rendere esplicito quanto Paolo aveva sottaciuto. Il Windisch contraddisse il Bultmann nello stesso 1924 in un articolo intitolato “II problema dell’imperativo paolino” [5]. Il Windisch era un esponente della vecchia scuola liberale, come dimostrano chiaramente parecchie delle sue asserzioni. Egli seppe, tuttavia, rilevare il punto debole della tesi del Bultmann. Egli notò ironicamente che Paolo evidentemente aveva urgente bisogno di seguire le lezioni di Karl Barth e, forse, di Rudolf Bultmann (p. 278). Contro il Bultmann egli insistette che stando al pensiero dell’apostolo la continuità tra il vecchio e il nuovo è completamente spezzata, così radicalmente come succede nella morte e risurrezione. 2Cor 5,17 afferma: «Se uno è in Cristo, egli è una nuova creazione». Per dirla in breve, il pneûma è una realtà che prende possesso del battezzato e spezza la continuità tra la vecchia e la nuova esistenza.
Questa controversia è istruttiva in quanto la posizione del Bultmann (che tra l’altro, abbandonò nella sua Theology of the New Testament) mostra quanto sia pericoloso isolare la dottrina della giustificazione. Se noi sosteniamo che il credente non cessa di essere empio e se la giustificazione consiste semplicemente in un cambiamento del giudizio di Dio, allora ci avviciniamo pericolosamente all’equivoco che la giustificazione sia solo un “come se”. Tale non era certamente l’intenzione di Paolo.
Abbiamo visto che per lui la giustificazione era solo uno dei molti tentativi di descrivere l’inesauribile e inesprimibile ricchezza della grazia di Dio e che, se vogliamo metterla nel suo giusto contesto, dobbiamo inserire la giustificazione nel complesso dei detti che interpretano il battesimo. Ora il comune denominatore di tutte le affermazioni sul battesimo è che esse descrivono l’azione gratuita di Dio in quanto produce una nuova creazione («Se alcuno è in Cristo, egli è una nuova creazione»). E questa nuova creazione, continua Paolo, ha due facce: «La vecchia è scomparsa, ecco, la nuova è apparsa» (2Cor 5,17). La vecchia esistenza è giunta alla fine; il peccato è lavato via; la schiavitù della carne e delle forze delle tenebre, Legge compresa, è spezzato. Una nuova vita comincia: il dono dello Spirito di Dio è concesso e si manifesta effettivamente come una forza. Chiunque è incorporato in Cristo non resta immutato. Cristo è la sua vita (Col 3,4); Cristo è la sua pace (Ef 2,14). Troviamo sempre i due aspetti: Dio ci ha liberato dal potere delle tenebre e ci ha trasferito nel regno del suo amato Figlio (Col 1,13).
Ciò è vero anche della giustificazione. Benché sia assolutamente certo che la giustificazione è e rimane un’azione giuridica, un’amnistia di Dio, tuttavia il riferimento forense è superato. L’assoluzione di Dio non è soltanto declaratoria, non è un “come se”, non una pura parola, ma è la parola di Dio che opera e crea la vita. La parola di Dio è sempre una parola effettiva. Il perdono, la benevolenza che Dio concede, non è soltanto negativa, cioè una cancellazione del passato, ma è una antedonazione del dono finale di Dio (la parola “anticipazione”, che ci si potrebbe aspettare di vedere usata qui, è una espressione infelice, perché deriva dal latino anticipere che significa “prendere prima”. Il senso di questo punto sembra esser reso assai meglio dal termine “ante donazione”, che significa una “donazione fatta prima”).
In quanto antedonazione dell’assoluzione finale di Dio, la giustificazione è perdono nel senso più pieno. Essa è il principio di una nuova vita, una nuova esistenza: è una nuova creazione mediante il dono dello Spirito Santo. Come fu detto da Lutero: «Dov’è la remissione del peccato, là è la vita e la salvezza».
La nuova vita in Cristo, data nel battesimo, è rinnovata continuamente nell’Eucarestia. È vero che il verbo “essere giustificato” non appare quando Paolo parla della Cena del Signore. Ma ciò non deve destar meraviglia, se si considera che Paolo parla lungamente ma incidentalmente, dell’Eucarestia soltanto nei capitoli 10 e 11 di 1Cor che trattano di questioni pratiche, cioè del sacrificio offerto agli idoli e della spartizione del pasto con i fratelli poveri. Entrambe queste sezioni, specialmente 1Cor 10,16, mostrano che secondo Paolo l’Eucarestia trasmette lo stesso dono del battesimo: una partecipazione alla morte vicaria di Cristo e alla comunione del suo corpo. Così, l’Eucarestia rinnova la grazia di Dio data nel battesimo. Di questa grazia, la giustificazione è solo una delle tante descrizioni.
In quanto antedonazione della salvezza finale di Dio, la giustificazione è proiettata verso il futuro. Essa partecipa della duplice natura di tutti i doni di Dio: essi sono possesso presente e tuttavia oggetti di speranza. La giustificazione è un solido possesso presente (Rm 5,1, etc.) e ciononostante si colloca nello stesso tempo nel futuro, come è messo in rilievo, ad esempio, in Gal 5,5: «Perché mediante lo Spirito, per fede, noi attendiamo la speranza della salvezza (dikaiosyne)».
La giustificazione, quindi, è l’inizio di un moto verso un fine, e precisamente verso l’ora della giustificazione definitiva, dell’assoluzione nel giorno del giudizio, quando si realizzerà la piena donazione. Per questa ragione, la giustificazione del peccatore da parte di Dio non è possesso inerte, ma piuttosto impone un’obbligazione. Il dono di Dio può andar perduto. Il giustificato sta ancora nel timore di Dio. La giustificazione ha luogo nella tensione tra possesso e speranza. Ma è speranza fondata su solide fondamenta.
In Rm 5,8 s. leggiamo: «Dio mostra il suo amore per noi in questo, che mentre eravamo ancora peccatori Cristo morì per noi. Poiché, quindi, noi siamo ora giustificati dal suo sangue, assai più saremo salvati da lui dalla collera di Dio». Questa non è una conclusione a minori ad maius bensì a maiori ad minus. Dio ha fatto la cosa più grande: Cristo è morto per noi mentre noi eravamo peccatori – quanto più quindi, essendo giustificati, possiamo esser certi che egli ci concederà la salvezza finale.
Per riassumere: resta vero che la giustificazione è perdono, null’altro che perdono. Ma la giustificazione è perdono nel senso più pieno. Non è soltanto un ricoprire semplicemente il passato. È piuttosto una antedonazione della salvezza piena; è una nuova creazione dallo Spirito di Dio; è Cristo che prende possesso della vita già ora, già quaggiù.

Note

[1] W. Wrede, Paulus, Tübingen 1904 (trad. ingl. Paul, London 1907).
[2] A. Schweitzer, Die Mystik des Apostels Paulus, Tübingen 1930, p. 220 (trad. ingl. The Mysticism of Paul the Apostle, London 1931, p. 225).
[3] R. Schnackenburg, Das Heilgeschehen bei der Taufe nach dem Apostel Paulus, München 1950, p. 120.
[4] R. Bultmann, Das Problem der Ethik bei Paulus, “Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft” 23 (1924), pp. 123-140.
[5] H. Windisch, Das Problem des paulinischen Imperativs, “Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft” 23 (1924), pp. 265-281.

L’APOSTOLO SOFFRE A VANTAGGIO DELLA CHIESA E RIVELA IL MISTERO (COL 1,21-29)

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L’APOSTOLO SOFFRE A VANTAGGIO DELLA CHIESA E RIVELA IL MISTERO (COL 1,21-29)

Sebastiano Pinto

Ci si sofferma sulla portata teologica della sofferenza di Cristo e, di rimando, delle tribolazioni dell’Apostolo, cercando di cogliere l’importanza della morte di Cristo «nella carne» e del ministero dell’annunciatore come sacrificio a favore della Chiesa.

Introduzione Dopo l’inno iniziale che canta il primato universale di Cristo (1,12-20) i versetti finali del primo capitolo della lettera ai Colossesi sottolineano la ricaduta comunitaria di quest’opera di riconciliazione (vv. 21-29). Soffermeremo la nostra attenzione su due temi principali: la carnalità della morte di Cristo che giustifica il nesso fede-redenzione additato alla comunità dall’Apostolo (vv. 21-23), e il ruolo e l’esperienza diretta di Paolo a favore dell’annuncio del Vangelo, con la sottolineatura del rapporto singolare che intercorre tra il sacrificio di Cristo e quello del cristiano (vv. 24-29).

La carne di Cristo e l’unicità della redenzione 21 Un tempo anche voi eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive; 22 ora egli vi ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte, per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui (1,21-22). La contrapposizione tra il passato vissuto nell’ignoranza o nell’errore e il presente che è carico di verità e coscienza, è quasi un leitmotiv nella letteratura battesimale del Nuovo Testamento e in particolare paolina (1Cor 6,9-11; Rm 6,17-22; Col 2,13-14; 3,5-8; Ef 2,1-10.11-12; 1Pt 1,14-16; 2,10). Questa opposizione si fondava sulla comune considerazione che i costumi pagani erano perversi, frutto di non piena consapevolezza, e che il momento presente, quello della fede cristiana, costituisca invece il massimo disvelamento della verità sull’uomo e su Dio. La nuova condizione positiva in cui il cristiano si trova è frutto della riconciliazione avvenuta mediante la carne (sarx) di Cristo; l’insistenza sull’elemento fisico si spiega con la volontà di non considerare Cristo alla stregua di un mito o di una “sofia”.

È da tenere presente il contesto sincretistico della regione di Colossi: la città era in una zona dove prosperavano culti pagani collegati alla dea Cibele (o Rea), madre di tutti gli dèi, mitica divinità terrestre, procreatrice di tutto; fioriva anche il culto a Isis (o Iside), dea egiziana dell’abbondanza […] e quello a un Dio locale, Men, che la religiosità popolare identificava con Dionisio […]. Le allusioni all’osservanza dei sabati e all’imposizione dei precetti (2,16.21) fanno supporre anche un influsso giudaico[1]. La comunità di Colossi, per diversi aspetti solida nella fede e nella carità, corre il rischio di diluire il messaggio cristiano e vanificarlo: da alcuni passaggi dello scritto emerge, infatti, l’attività di falsi predicatori che parlano della fede come di una filosofia: Fate attenzione che nessuno faccia di voi sua preda con la filosofia (philosophías) e con vuoti raggiri ispirati alla tradizione umana, secondo gli elementi del mondo e non secondo Cristo (2,8). In concreto si mette in guardia da un duplice pericolo. Il primo consiste nel considerare il cristianesimo uno tra i diversi sistemi di pensiero greci legati alle scuole e ai relativi maestri di saggezza. Per philosophía si può intendere anche una di quelle teosofie giudeo-elleniste che speculavano sul mondo, sulla sua origine, sui suoi movimenti e sulla sua evoluzione. Ma il secondo e più insidioso tranello che queste filosofie e i loro banditori portavano con sé consiste nella vanificazione della potenza salvifica dell’evento-Cristo. Se esso è solo frutto dell’ingegno umano che si applica alla scienza filosofica, non ha nulla di trascendente e di unico, rivelandosi incapace di un reale e radicale rinnovamento ontologico dell’uomo e dell’universo perché foriero di un sistema pratico e intellettuale effimero e passeggero: Sono tutte cose destinate a scomparire con l’uso, prescrizioni e insegnamenti di uomini, che hanno una parvenza di sapienza con la loro falsa religiosità e umiltà e mortificazione del corpo, ma in realtà non hanno alcun valore se non quello di soddisfare la carne (2,22-23). L’inganno che l’Apostolo smaschera sembra seguire questo ragionamento: svuotando il significato della sarx di Cristo e il legame con la carne degli essere umani, si vanifica il valore autentico del corpo e si smarrisce la capacità di un reale dominio su di esso: I cristiani di Colossi manifestavano una malsana curiosità per un movimento giudaico mistico-ascetico in voga in quel periodo nella valle del Lico […]; influenzati dalla speculazione giudaica, alcuni erano pervenuti a credere che l’astinenza dal cibo e dalle bevande unita a una stretta osservanza delle festività giudaiche potesse procurare un’ascesa mistica al vertice del cosmo, dove ognuno avrebbe potuto vedere gli angeli che rendevano culto presso il trono di Dio (cosa molto più gratificante dell’amore per il prossimo nel sacrificio di sé)[2]. Si scade, pertanto, in schizofreniche pratiche restrittive che, alla fine, non producono altro effetto se non l’accrescimento dell’orgoglio di chi è riuscito a sottomettere quella parte istintiva di sé che è spesso fuori controllo. Questo risultato non libera dalla schiavitù del corpo (considerato come componente secondaria rispetto all’anima/spirito perché soggetto alla corruzione e al disfacimento) elevando lo spirito ma lo strumentalizza per il proprio autocompiacimento. Il primato cosmico di Cristo dell’inno iniziale consiste nel superamento di tutte le potenze umane e di quegli elementi sovrumani che pretendono di portare una luce di verità sull’uomo e sul suo habitat. La differenza specifica tra il cristianesimo e questa “filosofia” risiede proprio della carnalità della salvezza che trasforma la morte da limite estremo di ogni creatura a porta attraverso la quale si accede alla profonda riconciliazione dell’uomo con se stesso e con il creato; solo in questo modo l’essere umano è definitivamente strappato all’autoreferenzialità e posto in relazione al “tu” di Cristo «per presentarsi santi, immacolati e irreprensibili dinanzi a lui» (v. 22b). La nuova condizione qui descritta richiama il contesto liturgico e rituale che permetteva agli Israeliti di non temere di comparire davanti Yhwh (Es 19,10.14-15; 29,37-38); ma evoca anche il contesto giuridico del giusto che si presenta in tribunale certo della sua innocenza (Gb 31). Quasi in polemica con questa visione del mondo Paolo traccia, dunque, una gerarchia ponendo Cristo al vertice del cosmo e individuando nella sua sarx il fulcro di quest’ultimo: È in lui che abita corporalmente tutta la pienezza (pléroma) della divinità (2,9). È vinta l’ignoranza dei cristiani, dunque, perché è ormai palese che non esistono elementi complementari a Cristo e alla sua redenzione, né forze che ne possano surrogare l’azione potente e pienamente efficace.

Il Vangelo è la speranza Purché restiate fondati e fermi nella fede, irremovibili nella speranza del Vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunciato in tutta la creazione che è sotto il cielo, e del quale io, Paolo, sono diventato ministro (1,23). L’Apostolo illustra ai cristiani di Colossi che la riconciliazione di Cristo e la sua irradiazione cosmica si rendono disponibili e fruibili solo a determinate condizioni. La prima è la fede che costituisce il fondamento stabile e certo della vita del cristiano: come in 1Cor 16,13 la fede è dono dello Spirito (1Cor 12,9; 13,2) e radicamento in quelle convinzioni che nell’oggi generano il dinamismo salvifico della vita nuova in Cristo dettata dallo Spirito (Gal 5,22). Se la fede fonda la vita morale nell’oggi, la speranza la proietta nel futuro perché indica il compimento dell’itinerario al quale la fede introduce. Tale speranza non è il pio e vago desiderio di vedere la buona riuscita dei progetti o delle aspirazioni ma è una realtà che conferisce fermezza al pari della fede, perché la speranza è il Vangelo. Il genitivo «del Vangelo» può essere letto, infatti, come un genitivo oggettivo (il Vangelo è il contenuto della speranza) esplicitando che quanto Paolo ha già consegnato ai Colossesi – il primato di Cristo e della sua salvezza – è ciò che anima e proietta in avanti il cammino del credente abbracciando l’intero universo in questo processo di rigenerazione. Si inserisce, a questo punto della riflessione, il senso della missione dell’Apostolo qui descritta nei termini del servizio: egli è il diacono del Vangelo e non il padrone, come indicato anche altrove (1Cor 3,5; 2Cor 3,6; 6,4; 11,23). Il vero evangelizzatore sa trovare il giusto rapporto tra verità del Vangelo e partecipazione/appropriazione personale. Per questo nei versetti che seguono Paolo specificherà la sua personale adesione al mistero della croce di Cristo senza correre il rischio di sminuirne la portata oggettiva e universale.

Il completamento personale del sacrificio di Cristo Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa (1,24). Nella traduzione della Bibbia del 1971 operata della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), questo versetto veniva reso con qualche ambiguità: Sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa. A primo impatto sembrerebbe che il sacrificio di Cristo sia incompleto e che sia Paolo a dargli pieno compimento. Una simile impressione, seppur riduttiva, non è errata; è necessario, tuttavia, specificare il senso della frase al genitivo «patimenti di Cristo» (thlípseõn tou Christou) e contestualizzarla legandola alle «sofferenze» (pathémasin) dell’Apostolo. I due termini sembrano, infatti, richiamare la medesima realtà, quella, cioè, delle prove subite dai cristiani e dai missionari in unione alle prove di Cristo crocifisso. Nell’epistolario paolino o negli altri scritti del Nuovo Testamento il termine «tribolazione» (thlípsis) non designa le sofferenze di Cristo – associate, invece, a vocaboli quali «sangue», «croce», «morte» – ma l’angoscia che coinvolge gli uomini e il cosmo e che precede la venuta piena del regno e il giudizio definitivo (Mc 13,19-24; Rm 8,35; 2Cor 6,4; Ef 3,13; 2Ts 1,4). A conferma di quanto ora asserito si può leggere 2Cor 1,5 in cui Paolo chiama «sofferenze di Cristo» (pathémata tou Christou) le prove che come evangelizzatore deve sopportare a motivo della croce di Cristo. Alla luce di questa considerazione si comprende il senso del genitivo partitivo «patimenti di Cristo» (thlípseõn tou Christou) che, tra le varie tipologie di genitivo della lingua greca, indica la parte di un tutto: si specifica, nel nostro contesto, l’esistenza di una porzione riservata all’Apostolo all’interno del più ampio rimando alle sofferenze accettate in conformazione al mistero della croce. Il sacrificio di Cristo, infatti, è completo in sé e lo si afferma a chiare lettere più avanti nella lettera in 2,13: Con Cristo Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe. In conclusione, possiamo asserire che a dover fare ancora il suo corso è il cammino di Paolo (e del cristiano) che attraverso la sua croce è chiamato a conformarsi al Crocifisso in un sacrificio che, similmente a quello di Cristo, è finalizzato all’edificazione della Chiesa: La Chiesa diviene compimento del mistero di Cristo e realizza il suo divenire attraverso gli uomini: le loro tribolazioni sono per essa fermento di crescita (1,24); le loro comunità costituiscono la Chiesa locale (1,2; 4,16); le loro famiglie, la Chiesa domestica (4,15). La vita del Cristo che si dilata nel cosmo si manifesta ovunque: nel cristiano che ne accoglie l’annuncio per essere perfetto in lui (1,28) e che ha parte alla sua pienezza (2,10)[3]. In questo senso la traduzione della Bibbia CEI del 2008 esplicita correttamente il senso teologico della frase fugando ogni dubbio.

Conclusione Emerge, dalla riflessione sviluppata in queste pagine, che l’importanza della morte nella carne di Cristo, della conseguente riconciliazione e della partecipazione alle sue sofferenze si spiega oltre che in rapporto all’applicazione attuale e personalizzata dell’evento storico-salvifico, anche in ragione della preoccupazione fortemente pratica ed esistentiva dell’esortazione; lo scopo della riconciliazione è quello di dare ai cristiani la reale possibilità di una vita secondo il progetto di Dio[4]. Ci pare molto attuale questa sottolineatura esistenziale che getta una luce particolarissima e unica sul mistero della sofferenza di Cristo e del credente. Essa ha un valore positivo perché non solo assimila e incorpora a colui che mediante il suo sacrificio ha rinnovato l’universo, ma rende feconda anche la croce di ogni singolo uomo conferendo forza e efficacia proprio nel momento della debolezza e dell’apparante inutilità. Lo specifico del messaggio paolino ha, infatti, una forte impronta antropologica perché la persona di Cristo dischiude all’essere umano il mistero della propria vocazione. L’intuizione dell’Apostolo nelle sue esortazioni alla comunità di Colossi mira a saldare indissolubilmente l’umanità di Gesù – nato, morto e risorto nella sua sarx – con la debolezza di ogni singola sarx, perché è consapevole della posta in gioco: negando la prima si dissolve anche la seconda e, al contrario, riconoscendo il Dio-uomo si apre la strada per la reale divinizzazione dell’essere umano.

[1] E. Ghini, La Lettera ai Colossesi. Commento pastorale, EDB, Bologna 1990, 18. [2] J. Murphy-O’Connor, «Lettera ai Colossesi», in R. Penna – G. Perego – G. Ravasi (edd.), Temi teologici della Bibbia, San Paolo, Cinisello B. (MI) 2010, 176. [3] Ghini, La Lettera ai Colossesi, 31. [4] Cf. R. Fabris, Le lettere di Paolo. Traduzione e commento, Borla, Roma 19902, 92.

L’INCARNAZIONE IN SAN PAOLO

http://www.donorione.org/Public/ContentPage/content.asp?hdnIdContent=3832

L’INCARNAZIONE IN SAN PAOLO

23 Ottobre 2008

“ Nato dalla stirpe di Davide secondo la carne ” ( Rom 1,3) “Nato da donna, nato sotto la legge” ( Gal 4,4)   Nel 1960 un piccolo libricino fece molto scalpore nel campo degli studi biblici. Il grande esegeta tedesco Joachim Jeremias affrontò da par suo Il problema del Gesù storico (questo è il titolo del libretto, tradotto e stampato in Italia nel 1964 a cura della Paideia di Brescia). Non è qui il momento per addentrarci in questo tema; a noi interessa riportare una delle sue affermazioni più perentorie e conosciute: “Non possiamo eliminare lo ‘scandalo’ dell’incarnazione” . E poco prima: “L’origine del cristianesimo non è il cherigma, non sono le esperienze pasquali dei discepoli, non è un’ idea del Cristo; l’origine del cristianesimo è un avvenimento storico, e precisamente la comparsa dell’uomo Gesù di Nazareth, il quale fu crocifisso da Ponzio Pilato, e il suo messaggio”. Sembra di leggere le catechesi recenti di Benedetto XVI; basta leggere le catechesi dedicate all’Apostolo Paolo e alle battute iniziali della prima Lettera Enciclica ( Deus caritas est ). Anche Giovanni Paolo II , nel libro-intervista Varcare la soglia della speranza , ha trattato questo tema: “Poteva Dio andare oltre nella Sua condiscendenza, nel Suo avvicinamento all’uomo e alle di lui possibilità conoscitive? In verità sembra che sia andato lontano quanto era possibile. Oltre non sarebbe potuto andare. In un certo senso Dio è andato troppo lontano! Cristo non divenne forse «scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor 1,23)? Proprio perché chiamava Dio Suo Padre, perché Lo rivelava così apertamente in Se stesso, non poteva non suscitare l’impressione che fosse troppo… L’uomo ormai non era più in grado di sopportare tale vicinanza, e cominciarono le proteste. Questa grande protesta ha nomi precisi: prima si chiama Sinagoga , e poi Islam. Entrambi non possono accettare un Dio così umano. «Ciò non si addice a Dio» protestano. «Egli deve rimanere assolutamente trascendente, deve rimanere pura Maestà». Certo, Maestà piena di misericordia, ma non fino al punto di pagare le colpe della Propria creatura, i suoi peccati” [1] . Il giovane Saulo arrivò a Gerusalemme per completare i suoi studi, alla scuola di Gamaliele I, probabilmente nel 15 d.C. Alcuni si chiedono se Saulo a Gerusalemme ha incontrato Gesù; la questione non ha molta importanza. Scrive acutamente Murphy O’ Connor : “E anche nel caso in cui avesse di fatto sentito parlare di Gesù, perché avrebbe dovuto perdere tempo a cercare e ascoltare qualcuno che andava scartato per tre buone ragioni? Gesù veniva dalla Galilea, non aveva i titoli per insegnare e, a quanto pare, credeva di essere il Messia” [2] . Saulo – continua Murphy O’ Connor – “cominciò a pensare seriamente a Gesù quando si scontrò con il cristianesimo” [3] . Saulo intuì che ciò che predicavano i cristiani – la salvezza non dipendeva più dall’osservanza della Legge, ma dalla fede in Gesù – era una pretesa assurda, inconcepibile, scandalosa, e per questo andava combattuta. Può Dio – il “Totalmente Altro” – “sporcarsi le mani” con la nostra umanità? Peggio ancora: può la salvezza venire da un “maledetto” che è stato crocifisso? Questo era veramente troppo! Pertanto “va da sé che Paolo il fariseo non credeva a una sola parola di quello che aveva sentito raccontare su Gesù. La sua risurrezione non poteva essere stata altro che un trucco, perché Dio non avrebbe mai ricompensato qualcuno che si poneva al di sopra della legge, come aveva fatto Gesù” [4] . Poi è successo quello che sappiamo… Benedetto XIV, in una sua catechesi per l’Anno paolino, ha scritto: “San Paolo è stato trasformato non da un pensiero ma da un evento, dalla presenza irresistibile del Risorto… Solo l’avvenimento, l’incontro forte con Cristo, è la chiave per capire che cosa era successo” [5] . Incontro folgorante col Risorto e incontro con la Chiesa : deve farsi battezzare e vivere in comunione con gli apostoli. Così potrà scrivere ai Corinti: “Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici ( 1 Cor 15,3-5). A Saulo – ormai diventato Paolo – interessa soprattutto l’annuncio che Gesù è il Cristo (l’ Unto, il Messia), Gesù è il Signore. Questo è l’asse portante delle sue lettere. I dati, per così dire biografici relativi a Gesù, sono ridotti all’osso. Tra l’altro, i versetti di Romani e Galati sono generici: Rom 1,3 : “ Nato dalla stirpe di Davide secondo la carne ”. Gal 4,4-5 : “ Ma quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli . Più circostanziati, invece, quelli della 1 Timoteo (accenno a Pilato) e 1 Corinti (accenno al tradimento): 1 Cor 11,23 : “ Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito prese del pane …”. 1 Tim 6,13 : “… e di Gesù Cristo che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato . Il testo che si avvicina al celebre “ Et Verbum caro factum est ” di Giovanni 1,14 si trova nell’ inno stupendo della lettera ai Filippesi 2,6-11 . Questo pregevolissimo riassunto di cristologia – che probabilmente è di origine e uso liturgico anteriore alla lettera ai Filippesi – è collocato in un contesto di tenerezza. Ringraziando i fedeli per averlo soccorso con le loro offerte, Paolo li ricambia con auguri e raccomandazioni per la loro vita cristiana e la loro felicità. L’inno esalta il mistero di Gesù, Dio-Uomo. Le diverse tappe del mistero di Cristo storico, Dio e uomo nell’unità della sua persona – che Paolo non divide mai, sebbene ne distingua i diversi stadi di esistenza – sono celebrate in strofe distinte: la preesistenza divina (v. 6); l’abbassamento dell’incarnazione (v. 7); l’ abbassamento ulteriore della morte (v. 8); la glorificazione (v. 9); l’adorazione dell’universo (v. 10); il titolo nuovo (v. 11): Gesù Cristo è il Signore : è la professione di fede essenziale del cristianesimo! [6] . Ecco il testo:

Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra; e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre.

In Fil 2,7 Paolo usa il verbo evke,nwsen ( ekénosen – il verbo kenóo ricorre solo 5 volte nel NT e solo nelle lettere paoline: Rm 4,14; 1 Cor 1,17; 9,15; 2 Cor 9,3; Fil 2,7); la Bibbia di Gerusalemme traduce in Fil 2,7 con « spogliò »; il significato è quello di svuotare , annientare. Gesù doveva diventare uno di noi per andare fino in fondo in questa follia dell’abbassamento. “Per riprendere la società umana in decomposizione, così come per una casa che crolla, bisogna scendere fino alle fondamenta, proprio in basso e solo dopo si potrà ricostruire a poco a poco l’edificio. Gesù è venuto a portare un nuovo ordine di comunione, alla luce e a immagine di Dio. Le società umane sono costruite su una gerarchia che scarta e disprezza chi è più in basso, i deboli e gli emarginati. Ecco perché Gesù si rivolge per primo a loro” [7] . È proprio questo scendere così in basso che è il vero «scandalo dell’incarnazione». Ma questa è la logica di Dio!

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Note: [1] GIOVANNI PAOLO II (con Vittorio Messori), Varcare la soglia della speranza , Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1994, p. 43. [2] J . MURPHY O’ CONNOR, Paolo. Un uomo inquieto, un apostolo insuperabile , Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 2007, p. 30. [3] Ibidem , p. 31. [4] Ibidem , p. 39. [5] Cit. nella rivista Paulus , Anno I – n. 4 Ottobre 2008, p. 1. [6] Vedi anche Rm 10,9; 1 Cor 12,3; Col 2,6. [7] J. VANIER, Lettera della tenerezza di Dio , Edizioni Dehoniane, Bologna 1995, p. 20.

IL CONCETTO DI “ECONOMIA”, DI DISEGNO DIVINO, IN PAOLO E NEI PADRI DELLA CHIESA: LA CREAZIONE E LA STORIA COME “CASA” DI DIO.

http://www.gliscritti.it/approf/2007/saggi/lonardo070707.htm

IL CONCETTO DI “ECONOMIA”, DI DISEGNO DIVINO, IN PAOLO E NEI PADRI DELLA CHIESA: LA CREAZIONE E LA STORIA COME “CASA” DI DIO.

Appunti in forma di recensione ad un articolo di Giulio Maspero

di Andrea Lonardo

Questa economia (oeconomia) della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi… (DV2). L’espressione economia, οικονομια, è centrale nel linguaggio teologico, come ci manifesta il Concilio Vaticano II[1]. Benedetto XVI ne ha sinteticamente espresso il senso e la ricchezza in un passaggio della sua catechesi sull’inno con il quale si apre la lettera agli Efesini[2]:
Il «mistero della volontà» divina ha un centro che è destinato a coordinare tutto l’essere e tutta la storia conducendoli alla pienezza voluta da Dio: è «il disegno di ricapitolare in Cristo tutte le cose» (Ef 1,10). In questo «disegno», in greco oikonomia, ossia in questo piano armonico dell’architettura dell’essere e dell’esistere, si leva Cristo capo del corpo della Chiesa, ma anche asse che ricapitola in sé «tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra». La dispersione e il limite vengono superati e si configura quella «pienezza» che è la vera meta del progetto che la volontà divina aveva prestabilito fin dalle origini.
Siamo, dunque, di fronte a un grandioso affresco della storia della creazione e della salvezza.

E’ subito evidente come con questa espressione si vuole indicare l’unità del disegno divino. Ne fa parte la creazione, il peccato non è in grado di interromperlo, l’incarnazione lo porta a compimento, aprendolo alla parousia. E’ il vero disegno, il vero senso che sostiene il mondo. Senza questa unità, niente avrebbe significato – perché si dà un senso solo nel rapporto fra una realtà particolare ed il tutto della realtà! Ogni singolarità e, soprattutto, ogni vita umana trova in questo disegno il proprio senso, la propria vocazione e missione, il proprio futuro. La stessa unità della Bibbia discende da questa unità di oikonomia e non avrebbe modo di essere al di fuori di essa.
Se veniamo alle ricorrenze bibliche del termine nella Scrittura possiamo seguire una evoluzione dell’utilizzo del vocabolo dall’ambito dell’amministrazione affidata da un superiore ad un suo sottoposto all’ambito dell’ “amministrazione” divina dell’intero creato e dell’uomo, perché tutto raggiunga la comunione con Dio in Cristo.
Il termine oikonomia indica nel greco ellenistico, così come ci testimonia anche il greco della LXX, innanzitutto l’ “amministrazione”. Il termine ricorre due volte nella versione greca di Is22,19.21, nei versetti contro Sebnà: “Ti toglierò l’economia (l’amministrazione)”. Nello stesso senso primario compare nelle parabole, in Lc 16,2.3.4: “Rendi conto della tua amministrazione”.
Nel linguaggio paolino, il termine esprime ancora questa amministrazione affidata ad un uomo, ma questa volta ancora più esplicitamente che nel vangelo di Luca, all’interno di un esplicito progetto divino:
Se non lo faccio di mia iniziativa è un incarico (oikonomian) che mi è stato affidato (1Cor9,17).
Penso che abbiate sentito parlare del ministero della grazia (oikonomian tes charitos) di Dio a me affidato a vostro beneficio (Ef3,2).
Di essa (della chiesa corpo di Cristo) sono diventato ministro secondo la missione (oikonomian) affidatami da Dio presso di voi (Col1,25).
Ma – e qui si rivela la profondità dell’espressione – il ministro di Paolo è parte (appartiene!) di un disegno ben più grande della sua stessa vita di apostolo. C’è un disegno, una oikonomia, che abbraccia ogni cosa creata e nulla lascia fuori di sé! Dio ha pensato questo orizzonte, se ne è compiaciuto, lo ha iniziato e lo ha portato a compimento, nella pienezza dei tempi. Lo ha realizzato e lo realizzerà, finché sarà “tutto in tutti”[3]. Qui appare tutta la ricchezza dell’espressione e della sua realtà teologica. Così, ancora nell’epistolario paolino:
Per realizzarlo nella pienezza dei tempi, il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra
(Lett. per il disegno, oikonomian, della pienezza dei tempi, ricapitolare in Cristo…) (Ef1,10).
Far risplendere agli occhi di tutti qual è l’adempimento (oikonomia) del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio (Ef3,9).

Non badare più a favole e genealogie interminabili che servono più a vane discussioni che al disegno (oikonomian) divino manifestato nella fede (1Tm1,4).
Un recente articolo di Giulio Maspero[4], tracciando l’evoluzione del termine oikonomia, ci aiuta a penetrare ancora di più nella ricchezza teologica di questa visione.
Maspero si sofferma, innanzitutto, sull’etimologia del termine[5]:
Il pensiero cristiano, di fronte alla radicale novità degli eventi salvifici, fu costretto a creare una nuova terminologia, rielaborando concetti e vocaboli già esistenti: in particolare, la dimensione storica della salvezza cristiana fu espressa attraverso la famiglia semantica legata ad οικονομια[6].
La sua radice è composta a partire da: οικος o οικια e da νεμειν: i sostantivi si riferiscono principalmente alla dimora, alla casa, sia come edificio che come focolare. Per estensione significa anche la famiglia in senso allargato, schiavi inclusi, ed il casato da cui si discende. Il verbo assume il significato fondamentale di dispensare, distribuire, e quindi anche quello di pagare, amministrare o abitare. Le cariche politiche potevano essere designate in tale modo. Nel corso del tempo, si aggiunsero i significati tecnici di disposizione di un testo letterario o di un discorso, insieme a quello di adattamento alle circostanze e calcolo in ambito morale. Questo processo spinse J.Reumann a scrivere: “Così, da Senofonte fino all’epoca romana, questa parola, nel suo senso fondamentale di amministrazione della casa, ha continuamente suggerito alla mente del popolo un modo di fare scaltro e sottile, e perfino tra i filosofi, compreso Filone, che l’identificava con una delle virtù del saggio, essa ebbe spesso il senso di espediente”.
L’analisi degli autori greci pre-cristiani porta Maspero ad individuare un senso fondamentale del termine, un senso cosmologico ed, infine, un senso narrativo ed a concludere così per quel che riguarda la riflessione precedente al cristianesimo[7]:
In sintesi, l’analisi degli usi della terminologia in esame negli autori non cristiani dimostra l’interazione dei tre sensi principali: il significato di governo della casa, dei beni e dello stato è il principale ed il più originario, ma quasi immediatamente passa all’ambito cosmologico. Se già nel senso primigenio i termini in studio avevano un significato positivo, questo risalta nel dominio cosmologico. Ultimo cronologicamente, il senso retorico-narrativo riafferma, insieme alle accezioni cosmologiche, la connessione dell’ οικονομια e delle espressioni ad esso collegate, con lo scopo, con la visione d’insieme e con la struttura organica. In questo senso essi acquistano un valore particolarmente interessante nel contesto narrativo ed esegetico. L’arte dell’οικονομια e dell’οικονομειν è dunque quella di governare e organizzare le parti in funzione del tutto, rispettando il contesto e secondo lo scopo ultimo dell’azione. E ciò si applica allo stato-famiglia, all’universo e alla composizione oratoria o narrativa.
Maspero passa poi a riflettere sulla novità dell’utilizzo biblico del termine, con particolare riferimento agli scritti paolini ed afferma[8]:
L’economia cristiana è allora economia del dono, della grazia (οικονομια της χαριτος): amministrazione del mistero dell’amore divino per l’uomo e per il creato, cooperazione con Lui per realizzare il Suo disegno eterno. La fedeltà trova il suo fondamento nella filiazione.
E’, infatti, la lettera agli Efesini che rivela all’uomo che il soggetto e l’autore dell’ οικονομια è Dio stesso e che l’ οικονομια manifesta l’unione del mistero dell’Eterno e del tempo. Il concetto di οικονομια unisce dunque per Paolo la presenza del Figlio di Dio nel mondo e gli eventi salvifici della sua vita terrena, che egli testimonia come apostolo, con il disegno del Padre e Creatore su tutta la storia. L’οικονομια unisce creazione e redenzione nel Figlio di Dio fatto uomo.
In perfetta continuità con le lettere paoline, Ignazio d’Antiochia, nelle sue lettere (ed, in particolare, proprio in quella agli Efesini I,6,1,2-4; I,18,1,2-2; I,20,1,3-5) approfondisce i diversi aspetti del temine[9]:
Invece… proprio la necessità di combattere la gnosi porta Ignazio all’uso di οικονομια, come succederà poi anche con Giustino ed Ireneo: la sua grandezza è proprio l’essere rimasto fedele a Paolo ed ai Vangeli, rifiutando di scindere il disegno divino e la realtà storica dei singoli eventi della vita terrena del Cristo.
Questa linea, che unisce l’affermazione dell’origine divina del disegno di salvezza e la presentazione della materialità e storicità degli eventi della vita di Cristo, caratterizza tutto il primo periodo della patristica. In Atenagora si ripete ancora l’accostamento ignaziano della carne di Cristo con il disegno divino (καν σαρκα θεος κατα θειαν οικονομιαν λαβη). NelMartyrium Sancti Polycarpi il riferimento è ancora alla carne (την της σαρκος οικονομιαν)[10].
Giustino, similmente, parla dell’oikonomia realizzatasi mediante la Vergine Maria[11], con la nascita di Cristo[12]:

Così per Giustino l’ οικονομια è fondamentalmente la vita terrena di Cristo, dalla sua nascita fino alla sua passione ed alla redenzione dell’uomo, vita terrena che, preparata dall’inizio dei secoli e tipologicamente annunciata nell’Antico Testamento, fonda l’unità dei due Testamenti. Si tratta del disegno del Padre che si realizza in Cristo.
In questo modo alla visione gnostica, che separava i due Testamenti ed interpretava i misteri solo allegoricamente, Giustino contrappone proprio l’οικονομια, che è l’unico progetto del Padre, realizzato nella storia in Cristo e culminato nella Sua passione e morte, con la vittoria sul demonio e la salvezza di ogni uomo, che cerchi la Verità e compia il Bene.
Infine, Maspero, analizza il pensiero di Ireneo di Lione, del quale afferma[13]:
È essenziale notare l’importanza della dimensione trinitaria, in quanto Ireneo è anche il primo ad applicare il termine οικονομος allo Spirito Santo, affermando che unico è il ‘dispensatore’, che governa tutte le cose. Probabilmente i primi Padri erano restii nell’applicare questo termine a Dio, poiché spesso, come si è visto, l’amministrazione era affidata ad un servo ed il senso classico era ancora preponderante, come, d’altronde, nei LXX e nei Vangeli. Ma la concezione dell’ οικονομια paolina permette la maturazione della categoria profondamente positiva che si manifesta nell’opera di Ireneo, sostenuta dalla mediazione linguistica del senso cosmologico e retorico-narrativo della terminologia stessa.
Questa mediazione consente ad Ireneo di raggiungere, alle soglie del III secolo, un mirabile equilibro tra realtà dell’evento concreto e unità del disegno divino, suggellando nel suo concetto di οικονομια l’affermazione della dimensione autenticamente storica della salvezza cristiana.
L’importanza del ricorso al senso retorico-narrativo della terminologia in esame è particolarmente rilevante, in quanto permette ad Ireneo di distinguere perfettamente la storia da Dio, a differenza di Tertulliano, Ippolito e Taziano, che cercano di esprimere il mistero stesso trinitario in termini di οικονομια, appoggiandosi principalmente all’accezione fisiologica del vocabolo[14] stesso. Il confronto con la gnosi, invece, obbliga Ireneo a storicizzare l’ οικονομια, fondandone l’unità e la dimensione salvifica nella sua inclusione tra l’αρχη ed il τελος trinitari[15].
Al termine del suo studio Maspero conclude[16]:
Il termine οικονομια giunge, quindi, ad esprimere, in modo sintetico, sia la dimensione storica della salvezza che la dimensione salvifica della storia. Le tre principali accezioni precristiane interagiscono, infatti, fra loro, rendendo possibile il passaggio dall’ambito della gestione della casa, alla concezione del cosmo stesso come una casa retta da un ordine provvidente, per giungere al culmine cristiano del riconoscimento della storia stessa come casa di Dio. Ciò si fonda sullo stesso linguaggio del Nuovo Testamento, nel quale il Figlio si fa servo, per compiere fedelmente il disegno del Padre, dispensando la salvezza ad ogni uomo ed in ogni epoca, mediante i misteri della sua vita terrena, verso i quali tutta la storia converge.
Affrontare il concetto di οικονομια dal punto di vista dello sviluppo semantico a partire dai tre usi originari tutt’altro che negativi, permette di osservare come, in ambito cristiano, essi si fondono mirabilmente per esprimere il mistero dell’Incarnazione del Figlio. Se la concezione provvidenziale si riconduce immediatamente all’accezione cosmologica, la dimensione propriamente soteriologica, particolarmente sottolineata da Ignazio, Giustino ed Ireneo, si ricollega all’accezione retorico-narrativa, poiché in Cristo si rivela il senso del mondo e di tutta la storia: l’amore del Padre.

Note – molte, sul sito

 

DIO PADRE IN SAN PAOLO

http://www.clerus.org/clerus/dati/1999-06/14-2/DioPadre3.rtf.html

DIO PADRE IN SAN PAOLO

ALBERTO PIOLA

Introduzione
Affrontando il messaggio su Dio presente nella teologia di san Paolo, non solo andiamo a conoscere che cosa Gesù ci ha rivelato su Dio, suo e nostro Padre, ma vediamo anche una riflessione cristiana su Dio. Nelle sue lettere Paolo seppur non in modo sistematico visto il loro carattere occasionale spiega ai primi cristiani il nuovo concetto cristiano di Dio, inscindibilmente legato a quanto è successo nell’evento della vita, morte e risurrezione di Gesù.

Alla ricerca di Dio
Essere cristiani secondo Paolo non significa essere delle persone che adorano Cristo come l’unico Dio: infatti, il rimando ultimo non è Gesù, ma il Padre; compito di Gesù è proprio quello di metterci in contatto con il Padre: 1 Timoteo 2,5-6 Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti.
Il centro della predicazione di Paolo ha un carattere soteriologico: Dio ha salvato gli uomini per mezzo di Gesù Cristo morto e risorto. Quindi egli guarda innanzi tutto a ciò che Dio ha fatto e non tanto alla sua natura e al suo mistero. Ma da quello che Dio « fa » si può capire ciò che Dio « è ».
Ma chi è questo Dio? È precisamente « il Padre del Signore nostro Gesù Cristo » (Romani 15,5). Per Paolo questo è il volto specifico della prima persona della Trinità ed è questa paternità che gli permette di annunciare la nuova immagine cristiana di Dio.
Paolo non parte dall’ateismo: per lui è scontata l’esistenza e la presenza di Dio: Romani 11,36 da lui, grazie a lui e per lui sono tutte le cose. A lui la gloria nei secoli. Sente Dio come presente e vicino a sé: egli sta « davanti » a Lui, lo loda e lo ringrazia; Romani 1,8 rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. È addirittura « il mio Dio »! e allora può arrivare a dire: 1 Corinzi 8,6 per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Tutto questo è possibile per Paolo perché ha capito di essere inserito in un progetto di Dio: Romani 8,28-30 noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. Per Paolo allora « Dio non è soltanto prima dell’uomo, ma è prima nell’amore; ha amato gli uomini prima che essi potessero amarlo: li ha amati dall’eternità. Il Dio vicino è dunque il Dio che chiama e ama l’uomo dalla profondità infinita della sua eternità. Così è un Dio vicino e, nello stesso tempo, un Dio lontano ».
Però, ci dice Paolo, questo Dio non è immediatamente raggiungibile: è necessaria nella vita dell’uomo la ricerca di Dio. Dio è più grande di noi: è uno ed unico; 1 Corinzi 8,4-6 noi sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo e che non c’è che un Dio solo. E in realtà, anche se vi sono cosiddetti dei sia nel cielo sia sulla terra, e difatti ci sono molti dei e molti signori, per noi c’è un solo Dio, il Padre, dal quale tutto proviene e noi siamo per lui; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui. Il netto rifiuto di altri idoli (cfr. l’ambiente pagano in cui Paolo annuncia il Vangelo) significa che per essere cristiani occorre fare il passaggio dagli idoli sempre possibili della nostra vita alla scelta dell’unico Dio; come hanno fatto i Tessalonicesi: vi siete convertiti a Dio, allontanandovi dagli idoli, per servire al Dio vivo e vero (1Tess 1,9).
Ciononostante, non è facile per Paolo capire chi è questo Dio, i cui giudizi sono imperscrutabili (Romani 11,33 O profondità della ricchezza, della sapienza e della scienza di Dio! Quanto sono imperscrutabili i suoi giudizi e inaccessibili le sue vie!). L’uomo non può capire da solo chi sia Dio: 1 Corinzi 2,10-11 lo Spirito infatti scruta ogni cosa, anche le profondità di Dio. Chi conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui? Così anche i segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio. Ci sono delle strade umane per arrivare a Dio:
la via della creazione: l’osservazione del mondo creato pone degli interrogativi per la sua grandezza e bellezza: Romani 1,20 dalla creazione del mondo in poi, le sue perfezioni invisibili possono essere contemplate con l’intelletto nelle opere da lui compiute, come la sua eterna potenza e divinità. Quindi le creature rimandano al Creatore; ma per Paolo questa via è pericolosa: il mistero di Dio rimane comunque inaccessibile e c’è sempre il pericolo di divinizzare il creato. Infatti gli uomini sono caduti nell’idolatria: Romani 1,21-23 sono dunque inescusabili, perché, pur conoscendo Dio, non gli hanno dato gloria né gli hanno reso grazie come a Dio, ma hanno vaneggiato nei loro ragionamenti e si è ottenebrata la loro mente ottusa. Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti e hanno cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile, di uccelli, di quadrupedi e di rettili. L’uomo da solo non è quindi in grado di arrivare dalle creature al Creatore: 1 Corinzi 1,20-21 Dov’è il sapiente? Dov’è il dotto? Dove mai il sottile ragionatore di questo mondo? Non ha forse Dio dimostrato stolta la sapienza di questo mondo? Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione.
le opere buone: sono senza dubbio l’espressione dei nostri sforzi di fedeltà alla legge del Signore e manifestano il nostro desiderio di essere fedeli a Lui. Però Paolo conosce l’orgogliosa consapevolezza che il popolo di Israele aveva del possesso della Legge e invita a non farsi illusioni: la sola osservanza della Legge non salva: Romani 9,30-32 Che diremo dunque? Che i pagani, che non ricercavano la giustizia, hanno raggiunto la giustizia: la giustizia però che deriva dalla fede; mentre Israele, che ricercava una legge che gli desse la giustizia, non è giunto alla pratica della legge. E perché mai? Perché non la ricercava dalla fede, ma come se derivasse dalle opere. Non è quindi possibile giungere a Dio solo con una prestazione morale, perché Dio non si lascia ipotecare dai presunti meriti dell’uomo.
In Paolo risulta così « chiaro che il Dio del Nuovo Testamento, essendo colui che si rivela mediante l’imprevedibile e scandalosa stoltezza della Croce di Cristo (cfr. 1Cor 1,17-25), è per eccellenza il Dio della grazia (Ef 2,8), che preferisce i deboli, i peccatori, gli emarginati dalle religioni, i lontani. Egli è presente attivo là dove non lo si immaginerebbe: nel condannato e suppliziato Gesù di Nazareth. Egli perciò diventa, a sorpresa, oggetto di una scoperta donata: un Dio così non si poteva trovare in base a semplici presupposti umani; un Dio così poteva soltanto rivelarsi di sua propria iniziativa ».

L’azione salvifica di Dio Padre
Quindi il vero punto di partenza è che Dio si è rivelato in Gesù Cristo: il suo nome è proprio quello di essere il Padre di Gesù e in questo suo Figlio ci ha voluto salvare. Che Dio ci salvi è un’affermazione tanto scontata quanto problematica: l’uomo moderno sembra fare benissimo a meno di una salvezza, al limite può riconoscere la sua impotenza di fronte a certe situazioni.
È nella vita, morte e risurrezione di Gesù che Dio si è rivelato come il Dio per noi: Romani 8,31-32 Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi, come non ci donerà ogni cosa insieme con lui?. È proprio in Gesù che abbiamo potuto conoscere un amore insospettato: Romani 8,35-39 Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? Proprio come sta scritto: Per causa tua siamo messi a morte tutto il giorno, siamo trattati come pecore da macello. Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori per virtù di colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore.
Ma che cosa vuol dire per Paolo che Dio è un Padre che ci salva?
tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio (Romani 3,23): la condizione propria dell’uomo è quella del peccato: infatti tutti quanti commettiamo peccati e siamo all’interno di un mondo che porta con sé il peccato e la sua forza (cfr. i vari condizionamenti che subiamo verso il male). È la condizione dell’umanità in cui nasciamo: Romani 5,12 come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato. È una condizione tragica, perché siamo lontani da Dio e siamo dominati dal potere del peccato; se infatti al di là di ingenue illusioni andiamo a vedere che cosa succede in noi quando siamo « abitati » dal peccato, ci rendiamo conto che se il circolo non viene spezzato facilmente siamo schiavi della logica del peccato che ci allontana da Dio rendendoci attraente il bene. Proprio per questa situazione Dio è venuto a salvarci in Gesù: Romani 5,17-19 se per la caduta di uno solo la morte ha regnato a causa di quel solo uomo, molto di più quelli che ricevono l’abbondanza della grazia e del dono della giustizia regneranno nella vita per mezzo del solo Gesù Cristo. Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l’opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita. Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l’obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti.
Dio nel suo amore misericordioso giustifica i peccatori: questo Padre che ci è venuto a cercare non ha voluto che noi restassimo in questa condizione di peccato ma ha scelto di trasformarci e di renderci giusti. Tutti gli uomini sono sotto il giudizio e l’ira di Dio (cfr. Romani 1,18): ma ad essere annientato non è l’uomo peccatore, bensì il suo peccato; perché Dio, oltre ad essere giusto, è anche il Dio della tolleranza e della pazienza: Romani 2,1-11 Sei dunque inescusabile, chiunque tu sia, o uomo che giudichi; perché mentre giudichi gli altri, condanni te stesso; infatti, tu che giudichi, fai le medesime cose. Eppure noi sappiamo che il giudizio di Dio è secondo verità contro quelli che commettono tali cose. Pensi forse, o uomo che giudichi quelli che commettono tali azioni e intanto le fai tu stesso, di sfuggire al giudizio di Dio? O ti prendi gioco della ricchezza della sua bontà, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell’ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all’ingiustizia. Tribolazione e angoscia per ogni uomo che opera il male, per il Giudeo prima e poi per il Greco; gloria invece, onore e pace per chi opera il bene, per il Giudeo prima e poi per il Greco, perché presso Dio non c’è parzialità. Quell’uomo che era peccatore è ora reso giusto dall’amore di Dio in Cristo: Romani 5,8 Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. È questa la lieta notizia sul destino dell’uomo: 1 Tessalonicesi 5,9-10 Dio non ci ha destinati alla sua collera ma all’acquisto della salvezza per mezzo del Signor nostro Gesù Cristo, il quale è morto per noi, perché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui. Si tratta quindi di un Dio « giusto » e nello stesso tempo « giustificante », che ci rende giusti: Romani 3,24-26 tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù. Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione per mezzo della fede, nel suo sangue, al fine di manifestare la sua giustizia, dopo la tolleranza usata verso i peccati passati, nel tempo della divina pazienza. Egli manifesta la sua giustizia nel tempo presente, per essere giusto e giustificare chi ha fede in Gesù.
Non possiamo giustificarci da soli: la Legge degli Ebrei non serve più, l’unica condizione per essere resi giusti da Dio nostro Padre è la fede nel suo Figlio Gesù. Noi oggi non abbiamo certo più i problemi dei primi cristiani che si sentivano ancora vincolati all’osservanza della Legge giudaica, ma possiamo avere la medesima tentazione di fondo: cavarcela da soli, essere giusti per le nostre forze. È troppo forte per Paolo il rischio di sentirci orgogliosamente salvati da soli; il vero modello del credente è Abramo con la sua fede: Romani 3,28; 4,1-3.18-22 Noi riteniamo infatti che l’uomo è giustificato per la fede indipendentemente dalle opere della legge. Che diremo dunque di Abramo, nostro antenato secondo la carne? Se infatti Abramo è stato giustificato per le opere, certo ha di che gloriarsi, ma non davanti a Dio. Ora, che cosa dice la Scrittura? Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia . Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza e così divenne padre di molti popoli, come gli era stato detto: Così sarà la tua discendenza. Egli non vacillò nella fede, pur vedendo già come morto il proprio corpo aveva circa cento anni e morto il seno di Sara. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento. Ecco perché gli fu accreditato come giustizia.
Dio ci giustifica per mezzo della fede in Gesù Cristo: con il Cristo è cominciato il tempo ultimo della salvezza in cui Dio Padre ci ha detto e dato tutto nel suo Figlio Gesù. Egli è morto sulla croce « per noi », cioè a causa nostra e per i nostri peccati; ed è proprio lì che ci ha salvati, ci ha resi giusti liberandoci dalle colpe. Lui è il Risorto, colui che il Padre ha confermato dopo lo scacco supremo della morte: credere in Lui è ora per il cristiano il mezzo per salvarsi. Credere in Dio Padre si vedrà ora nel nostro rapporto personale di fede con il Figlio, perché tutta la nostra vita sia inserita nel Signore: Romani 14,7-8 Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore.
« In conclusione, il Dio che rivela san Paolo è il Dio Salvatore, cioè il Dio che, nel suo infinito amore per gli uomini peccatori, ha mandato nel mondo il suo Figlio Gesù, nato da donna, perché con la sua morte redimesse gli uomini e con la sua risurrezione desse la vita eterna a coloro che credono in lui e con la fede e la carità vivono in lui e per lui. Per san Paolo, Dio è il Dio di Abramo, di Mosè e dei Profeti; è il Dio della promessa fatta ad Abramo. Tuttavia la rivelazione che Gesù gli ha fatto di sé sulla via di Damasco ha trasformato la sua vita e la sua visione di Dio. Per lui ormai Dio è colui che salva gli uomini in Gesù Cristo. È il Dio per noi (Rm 8,31), il Dio che ci dà speranza, perché il suo amore è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato (Rm 5,5) ».

Alcuni spunti
Il messaggio di Paolo su Dio Padre ci dà senza dubbio molti altri spunti oltre a quanto abbiamo già trovato nei Vangeli.
Dio Padre è un Dio che va sempre cercato: c’è da preoccuparsi seriamente quando non siamo più capaci a cercare Dio o quando crediamo di saper già tutto di lui Può non esserci molto difficile lasciare aperta la domanda su Dio di fronte alle bellezze del creato o di fronte ai grandi perché della vita; ma l’atteggiamento della ricerca è ancora qualcosa di più: è un dinamismo attivo, è un desiderio. Come è accaduto a Paolo, così ognuno può avere la sua caduta lungo la strada di Damasco: e si scopre di non conoscere ancora il vero volto di Dio.
L’esperienza personale di Paolo ci ha presentato un Dio presente e vicino, che lui chiama il « mio Dio »: è un punto di arrivo del cammino di fede, che deve partire dal riconoscimento della trascendenza di Dio (altrimenti diventa « l’amicone » che non mi mette più in discussione). Il Dio trascendente ed immanente è il Dio che vediamo nel Natale: l’Eterno sotto la figura di un piccolo bambino ma è proprio così che lo comprendiamo come il « Dio per noi », il Dio che sta dalla nostra parte, combatte la nostra stessa battaglia. Altrimenti che ce ne facciamo di un Dio che sta solo accanto a noi o sopra di noi?!
Nel nostro cammino verso Dio Padre ci ha avvertiti Paolo corriamo il rischio di divinizzare il creato: logicamente non fa problema che il passaggio da fare è quello dalle creature al Creatore, ma praticamente è molto più difficile riuscire a dare sempre a tutto il giusto posto. Verificare ogni tanto il nostro rapporto con i beni creati non fa male: dov’è il nostro cuore?
Nemmeno le « opere della Legge » servono per essere in comunione con il Padre: con Dio cioè non vale contrattare in base ai propri meriti. La logica commerciale può essere presente anche nel nostro rapporto con Dio, quando perdiamo la dimensione filiale; ovviamente i problemi nascono quando non siamo ripagati delle nostre prestazioni a Dio. Lasciarci salvare è terribilmente difficile: la passività arriva dopo una serie infinita di sforzi, e forse non ce la faremo mai ad essere totalmente ricettivi nei confronti di Dio. Intendere le nostre attività « solo » come risposta ad un dono richiede moltissima umiltà. Forse impariamo troppo poco dai nostri fallimenti
E per lasciarci salvare occorre riconoscere il peccato che è noi: è un’altra dimensione della medesima realtà. Ma se continueremo a dire che tutto sommato siamo a posto così, che c’è in fondo chi è peggio di noi, molto difficilmente avremo bisogno di invocare Dio salvatore. Al limite potremo pretendere che ci ricompensi dei nostri successi e che nella sua bontà un po’ ingenua chiuda gli occhi sui nostri insuccessi.
Credere in Dio è credere che Lui ci trasforma: può essere il messaggio finale che ci dona san Paolo; lui ha saputo cambiare la sua concezione di Dio e ha saputo lasciarci trasformare da Lui. Tutta la nostra vita cristiana è un cammino per lasciarci trasformare da Dio e per poter giungere a vivere con Lui per sempre.
Allora Giobbe rispose al Signore e disse: Comprendo che puoi tutto e che nessuna cosa è impossibile per te. Chi è colui che, senza aver scienza, può oscurare il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo. Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere (Gb 42,1-3.5-6).

IL « VANGELO » DI SAN PAOLO – DI BRUNO FORTE

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IL « VANGELO » DI SAN PAOLO

DI BRUNO FORTE

Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo…

1. Il Vangelo di Paolo. Un uomo “toccato” da Dio in una maniera così profonda, da vivere il resto dei suoi giorni mosso dall’unico desiderio di comunicare agli altri l’esperienza di amore gratuito e liberante fatta nell’incontro col Signore Gesù sulla via di Damasco: tale fu Paolo. Il Suo Vangelo – la buona novella cioè da Lui annunciata al mondo – è tutto radicato in quell’esperienza straordinaria: afferrato da Cristo, può dire a tutti, che mentre eravamo ancora peccatori, il Figlio di Dio è morto per noi, facendo sue la nostra fragilità, la nostra colpa, la nostra morte; risorgendo da morte per la potenza dello Spirito effusa su di Lui dal Padre, ci ha portati con sé in Dio, rendendoci partecipi della vita che viene dall’alto. Con Cristo, in Lui e per Lui è possibile vivere un’esistenza significativa e piena, uniti ai nostri fratelli e sorelle nella fede, al servizio di tutti. La gratuità del dono divino trionfa sul male: l’impossibile possibilità di Dio, la forza di amare, cioè, di cui noi siamo incapaci e che ci è data dall’alto, è offerta a chiunque apra al Signore le porte del cuore. Per chi accoglie questo annuncio con fede, niente è più lo stesso. La vita nuova comincia nel tempo e per l’eternità. Questo messaggio Paolo lo proclama non solo con le parole e gli scritti (le tredici lettere che portano il suo nome), ma anche con la sua esistenza, che è tutta un Vangelo vissuto: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (Galati 2,20). Narrare le tappe della vita di Paolo vuol dire, allora, imparare a vivere di Cristo alla scuola di Colui, che non vuole essere altro che un discepolo di Gesù, un suo imitatore, un suo servo e apostolo. Conoscere Paolo significa conoscere Cristo!
2. La conoscenza di Paolo si fonda anzitutto sul libro degli Atti degli Apostoli (scritti da Luca agli inizi degli anni 60 d.C.), quasi tutti dedicati alla vocazione e ai viaggi missionari dell’Apostolo. Anche le lettere contengono importanti notizie biografiche. Paolo nasce agli inizi dell’era cristiana, tanto che nel racconto della lapidazione di Stefano è presentato come il giovane,ai cui piedi sono deposti i mantelli dei lapidatori (Atti 7,58). Il luogo di nascita è Tarso di Cilicia, “una città non senza importanza” (Atti 21,39); la famiglia è ebrea, agiata al punto da aver acquisito la cittadinanza romana. Dai genitori, che probabilmente l’avevano atteso intensamente, viene chiamato Saulo, “il desiderato”, e forse anche Paolo, come sarà sempre nominato a partire da Atti 13,9, può darsi in ricordo del proconsole Sergio Paolo, convertito a Cipro dalla sua predicazione. A Tarso impara il greco come lingua propria, ma la sua formazione è giudaica: i genitori seguono la sua educazione con grande cura, tanto da mandarlo a Gerusalemme verso i 13-14 anni per farlo studiare alla scuola di Gamaliele, uno dei più illustri maestri del tempo. Tornato a Tarso alla fine degli studi, non ha modo di conoscere personalmente Gesù. Apprende il lavoro di tessitore di tende da viaggio, molto richiesto in una città di traffici e di commerci come la sua. L’ordinarietà della vita che gli si apre davanti, tuttavia, lo lascia ben presto insoddisfatto: probabilmente contro il parere dei suoi, decide di tornare a Gerusalemme, dove entra nel partito dei Farisei e si impegna nella lotta al cristianesimo nascente. Prende parte alla condanna di Stefano. È un giovane colto, focoso, di ardente fede giudaica, dotato di spirito pratico e di capacità decisionali. Fino a questo punto, però, quella di Saulo è un’esistenza come tante: Dio interviene nell’ordinarietà delle opere e dei giorni di ciascuno di noi. Non dobbiamo pretendere di aver fatto chi sa quali esperienze, perché l’incontro con Lui cambi per sempre la nostra vita. Il dire “se fossi.. se avessi…” è un inutile alibi. Occorre solo accettare di mettersi in gioco…
3. La vocazione sulla via di Damasco. Nel pieno del suo fervore anticristiano, Paolo accetta di recarsi a Damasco per contribuire a reprimere la diffusione della prima evangelizzazione dei discepoli di Gesù. Siamo all’incirca nel 35-36 d.C. È allora che accade l’evento che segnerà per sempre la sua vita. L’episodio – narrato in terza persona in Atti 9 e in forma autobiografica in Atti 22 e 26 – consiste in un incontro, l’incontro con Cristo, che gli fa vedere tutto in modo nuovo. Paolo capisce che la fede che intendeva perseguitare non consiste anzitutto in una dottrina, ma in una persona, il Signore Gesù, il Vivente, che prende l’iniziativa di rivelarsi a lui: “Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento” (1 Timoteo 1,12-13). Riferendosi a quanto gli è accaduto, Paolo parlerà di una rivelazione, di una missione ricevuta, di un’apparizione. Lui che a motivo della formazione e del temperamento pensava di possedere Dio e si sentiva giusto, scopre di essere stato raggiunto e posseduto da Dio, giustificato unicamente da Lui: “Se qualcuno ritiene di poter avere fiducia nella carne, io più di lui: circonciso all’età di otto giorni, della stirpe d’Israele, della tribù di Beniamino, Ebreo figlio di Ebrei; quanto alla Legge, fariseo; quanto allo zelo, persecutore della Chiesa; quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della Legge, irreprensibile. Ma queste cose che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo… avendo come mia giustizia non quella derivante dalla Legge, ma quella che viene dalla fede in Cristo, la giustizia che viene da Dio, basata sulla fede” (Filippesi 3,4-7. 9). È il capovolgimento totale delle sue precedenti certezze: ora Paolo accetta di non appartenersi più per appartenere unicamente a Cristo e farsi condurre dove Lui vorrà. Condizione dell’incontro col Dio vivente è lasciarsi sovvertire da Lui, accettare di essere e fare quello che Lui vuole da noi, non quello che noi pretendiamo da Lui.
4. Gli anni del silenzio, i primi entusiasmi e la prova. La risposta alla vocazione implica un distacco, che è una vera esperienza di buio e di cecità. La luce che ha raggiunto Paolo gli fa percepire tutto il peso del peccato personale e di quello radicale, che grava sulla condizione umana: ne parlerà con accenti insuperabili nel capitolo settimo della lettera ai Romani, lì dove descrive la condizione tragica dell’essere umano, l’impotenza a fare il bene che vorremmo. Il Signore gli fa intuire quanto dovrà soffrire per il suo nome. Nel vivo di questa maturazione interiore, comincia ad annunciare Cristo con entusiasmo nella stessa Damasco, da cui l’odio degli avversari lo costringe ben presto a fuggire in maniera quasi rocambolesca: “I Giudei deliberarono di ucciderlo, ma Saulo venne a conoscenza dei loro piani. Per riuscire a eliminarlo essi sorvegliavano anche le porte della città, giorno e notte; ma i suoi discepoli, di notte, lo presero e lo fecero scendere lungo le mura, calandolo giù in una cesta” (Atti 9,23-25). Torna a Gerusalemme, dove molti degli stessi discepoli hanno paura di lui, non riuscendo a credere che fosse divenuto uno di loro. È Barnaba a dargli fiducia e a prenderlo con sé, aiutandolo ad essere accolto anche dagli altri: nasce così un’amicizia, che è fra le pagine più belle della vita di Paolo. “Allora Barnaba lo prese con sé, lo condusse dagli apostoli e raccontò loro come, durante il viaggio, aveva visto il Signore che gli aveva parlato e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù” (Atti 9,27). Nonostante gli sforzi di Barnaba, tuttavia, alla fine Paolo è costretto a lasciare anche Gerusalemme, dietro l’insistenza degli stessi fratelli nelle fede, timorosi che il suo slancio evangelizzatore potesse provocare una reazione ancora più dura della persecuzione in atto. Paolo torna a Tarso, confuso e umiliato: vi resterà alcuni anni (almeno fino al 43), in un grigiore tanto più pesante, quanto più lo aveva fuggito da giovane e quanto più avverte in sé l’urgenza di fuggirlo. Al tempo dei primi entusiasmi, segue quello delle amarezze e delle delusioni: le incomprensioni gli vengono non solo dagli avversari, ma anche dai fratelli di fede. Conosce la solitudine, un senso di vergogna davanti ai suoi e di sconfitta rispetto ai suoi sogni, lo sconforto dell’incompiuto, che appare impossibile. L’esperienza di Paolo dimostra sin dall’inizio come l’amore chieda il suo prezzo: senza dolore nessuno vivrà veramente l’amore per Dio o per gli altri.
5. La missione e la crisi. Sarà Barnaba, l’amico del cuore, a trarlo fuori dalla prova e a lanciarlo nel grande impegno missionario: Barnaba appare dal racconto degli Atti come un uomo prudente e generoso, che sa capire e valorizzare l’irruenza di Saulo. Con un’iniziativa tanto libera, quanto audace, va a Tarso a prenderlo per portarlo ad Antiochia, dove c’è una comunità che lo desidera, perché la missione sta fiorendo al di là di tutte le più rosee attese e i discepoli – che qui sono stati chiamati per la prima volta “cristiani” – hanno bisogno di aiuto per la predicazione del Vangelo. Barnaba e Saulo iniziano a lavorare insieme e tutto sembra procedere meravigliosamente: nel racconto degli Atti (capitoli 11 e 13-15) il nome di Barnaba dapprima precede quello di Paolo; poi avverrà il contrario. I due amici sono, in realtà, molto diversi: quanto Paolo è irruente, tanto Barnaba è pacato e mediatore. Si giunge così al momento forse più doloroso della vita di Paolo: la rottura con Barnaba. L’occasione è legata ad un giovane discepolo – Giovanni Marco (Marco l’evangelista?) – che si è mostrato tiepido nel primo viaggio missionario, al punto da tornare indietro (cf. Atti 13,13). Paolo non lo vuole più con sé (più tardi lo riscoprirà e lo manderà a chiamare per averne la vicinanza e l’aiuto: “Prendi Marco e portalo con te, perché mi sarà utile per il ministero”: 2 Timoteo 4,11). Barnaba invece non vuole perdere nessuno e ritiene che bisogna dare ancora una possibilità al giovane: “Il dissenso fu tale che si separarono l’uno dall’altro. Barnaba, prendendo con sé Marco, s’imbarcò per Cipro. Paolo invece scelse Sila e partì, affidato dai fratelli alla grazia del Signore” (Atti 15,39-40). I due – entrambi innamorati del Signore, ma totalmente diversi – decidono di separare le loro strade a causa della valutazione differente di una stessa questione, che ciascuno dei due ritiene di guardare con gli occhi della verità e dell’amore! La santità – come si vede – non annulla i caratteri: e, alla luce dei fatti, sembrerebbe che Barnaba avesse più ragione di Paolo! L’Apostolo ha dei limiti caratteriali: proprio questo, però, può esserci d’aiuto. I nostri limiti non devono diventare un alibi per disimpegnarci. Possiamo anzi domandarci con umiltà alla scuola di Paolo: riconosco i limiti del mio carattere e quelli altrui e li accetto, sforzandomi di lasciarmi trasfigurare progressivamente da Cristo nel servizio del Vangelo e di accettare gli altri con benevolenza?
6. La “trasfigurazione” di Paolo. Seguiranno i grandi viaggi missionari di Paolo, con innumerevoli prove e consolazioni (leggi, ad esempio, 2 Corinzi 11,24-28). Attraverso le prove, superate per amore di Cristo con la forza della Sua grazia, animato nell’annuncio del Vangelo da una gioia vittoriosa di ogni fatica, Paolo dimostra una cura amorosa verso tutte le Chiese, nate o corroborate dalla sua azione apostolica. Ne sono testimonianza le lettere a loro inviate, in cui le esorta, le rimprovera, le guida, le illumina sull’essere con Cristo, sulle vie di accesso al Suo perdono e al Suo amore, sulla vita secondo lo Spirito, sulle esigenze della fedeltà nell’esprimere il dono ricevuto. Di questo ministero appassionato è voce intensa il discorso di Mileto, riportato nel capitolo 20 degli Atti, un discorso di addio, quasi il testamento dell’Apostolo, di cui riassume in qualche modo la vita. Paolo sa di essere oramai ben conosciuto: “Voi sapete…”. I fatti parlano per lui! Ha vissuto il suo ministero con immenso amore a Cristo e ai suoi: “Ho servito il Signore con tutta umiltà… non mi sono mai tirato indietro da ciò che poteva essere utile, al fine di predicare a voi e di istruirvi, in pubblico e nelle case, testimoniando a Giudei e Greci la conversione a Dio e la fede nel Signore nostro Gesù” (Atti 20,19-21). Paolo ha conosciuto la prova ed è stato fedele fino alla fine, perché ha fatto esperienza della fedeltà del suo Signore: “Affinché io non monti in superbia – ci confida nella seconda lettera ai Corinzi – è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: ‘Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza’. Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo” (2 Corinzi 12,7-9). Cristo lo ha trasfigurato e Paolo ne ha fatto tesoro, imparando a svuotarsi di sé per essere pieno di Dio e darsi agli altri da innamorato del Signore. Perciò non esita a definirsi “il prigioniero di Cristo” (Efesini 3,1), il “servo di Cristo Gesù, apostolo per chiamata, scelto per annunciare il vangelo di Dio” (Romani 1,1). È divenuto in Cristo il collaboratore della gioia altrui (cf. 2 Corinzi 1,24), il testimone esigente ed insieme il padre amoroso: “Non per farvi vergognare vi scrivo queste cose, ma per ammonirvi, come figli miei carissimi. Potreste infatti avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri: sono io che vi ho generato in Cristo Gesù, mediante il Vangelo. Vi prego, dunque: diventate miei imitatori!” (1 Corinzi 4,14-16). La domanda radicale che nasce per noi dalla conoscenza di Paolo è dunque: chi è Cristo per me? È come per Paolo il Vivente, che ho incontrato e di cui sono e voglio essere prigioniero nella libertà e nell’amore? Vivo di Lui, per Lui, con Lui, sull’esempio di Paolo?
7. La passione del Discepolo. L’Apostolo è pronto, preparato a seguire il Maestro fino in fondo, sulla via della Croce: Paolo rivive in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte. “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Colossesi 1,24). I capitoli 21-28 degli Atti vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Tre volte il suo capo tagliato sarebbe rimbalzato sulla terra, facendo sgorgare tre fontane, figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. Molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Colossesi 1,29). A differenza di Gesù Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, sigillando il suo amore nel silenzio eloquente del martirio. Il grande evangelizzatore conclude la sua esistenza parlando dalla più alta e ineccepibile delle cattedre: il martirio. Paolo non si è risparmiato per il Vangelo: che significa per noi, in questa luce, quanto egli dice sul bisogno di dare compimento a ciò che della passione di Cristo manca nella sua carne a vantaggio del Suo Corpo, la Chiesa? Amo, amiamo la Chiesa, come Paolo l’ha amata? L’Apostolo ha patito ogni genere di prova e ci fa chiedere perciò: seguo Gesù nel dolore, dove Lui vorrà per me e dove mi precede e mi accompagna? Lo amo più di tutto, come lo ha amato Paolo?
8. Paolo e noi. Nella consapevolezza della nostra fragilità, soprattutto se ci misuriamo su ciò che fu l’Apostolo, dopo aver risposto con verità alle domande che la vita di Paolo suscita in noi, invochiamo con fiducia il Signore Gesù, vero protagonista nell’esistenza dell’Apostolo: Lode a te, Signore Gesù, che parli a noi nel volto di Paolo e ci chiedi di seguirti senza condizioni come Ti ha seguito Lui! Lode a Te, Cristo, cercatore di ogni uomo, che sei venuto per me nei luoghi della mia vita, come entrasti nella vita di Paolo sulla via di Damasco! Lode a Te, che ci raggiungi sulle nostre strade e ci prendi con te e ci invii per essere Tuoi testimoni, a tempo e fuori tempo, per ogni essere umano, fino agli estremi confini della terra! Nella comunione dei Santi, affidiamoci poi all’intercessione e all’aiuto dell’Apostolo delle genti: Prega per noi, Paolo, perché possiamo vivere come Te l’incontro con Cristo, che cambia il cuore e la vita. Aiutaci a svuotarci di noi per riempirci di Lui, affinché, resi forti dal Suo Spirito, siamo capaci di credere, di sperare e di amare oltre ogni prova o misura di stanchezza. Ottienici di divenire sempre più testimoni umili e innamorati di Colui che è la speranza del mondo, in comunione con tutta la Chiesa, al servizio di ogni creatura. Il Cristo Gesù sia per noi la vita vera, la gioia piena, la sorgente di un amore sempre nuovo, la luce senza tramonto, nel tempo e per l’eternità. Amen.

(Teologo Borèl) Marzo 2009 – autore: mons. Bruno Forte

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – (I PARTE) – DI GIUSEPPE BARBAGLIO

http://www.giuseppebarbaglio.it/Articoli/finesettimana130190.pdf

LA CREAZIONE E L’ESCATOLOGIA IN S. PAOLO – (I PARTE)

SINTESI DELLA RELAZIONE DI GIUSEPPE BARBAGLIO

VERBANIA PALLANZA, 13-14 GENNAIO 1990

Le domande dell’uomo tra natura e storia e le risposte in Paolo
Il problema essenziale è il rapporto tra noi e il mondo. Il mondo è natura, ma anche storia e gli attori della storia sono gli uomini. Mentre la natura è il regno della necessità, la storia è il regno della libertà.
C’è però anche la cultura che sta tra natura e storia: l’uomo , collocandosi nella natura e nella storia, produce le istituzioni del suo vivere (familiari e sociali), modi di pensare e di essere. Quale senso ha la nostra vita, la nostra storia, la nostra natura, dato che apparteniamo ad entrambe? Gestiamo la storia ma apparteniamo anche alla natura. Mentre gli animali sono totalmente assorbiti nella natura l’uomo, oltre che nella natura, ha una presenza significativa nella storia.
Lo gnosticismo ha posto il problema con tre interrogativi fondamentali: donde veniamo? chi siamo? dove andiamo? E’ un problema ineludibile per l’uomo di ogni generazione che pensa e riflette, a differenza degli animali. La ricerca di risposte rispecchia situazioni specifiche. Noi ci poniamo le stesse domande degli gnostici, ma in situazioni nuove e perciò dobbiamo cercare nuove risposte adeguate alla situazione in cui viviamo. C’è un problema ecologico che riguarda tutti, c’è la novità del dialogo tra le religioni, c’è la presenza di movimenti pacifisti, c’è la crescente disparità di ricchezze nel mondo, c’è una sfrenata ricerca del profitto che mette il silenziatore alle grandi domande di senso.
Cercheremo di trovare delle risposte in Paolo, delle risposte certamente datate. Anche Paolo, come del resto anche Gesù e i profeti, non sfuggiva al criterio della storicità.
Paolo è una voce che, pur essendo datata come Cristo e i profeti, noi riconosciamo come espressiva della fede cristiana. Ci indica un cammino consono alla fede cristiana anche se in una cultura particolare.
1 Corinzi 8,4-6: un solo Dio e Signore
E’ un testo molto significativo che Paolo trae dalla tradizione e lo fa suo, rielaborandolo, per esprimere la fede nei suo tratti essenziali: la fede creazionistica e la fede soteriologica della salvezza. Dice Paolo a proposito delle carni immolate agli dei pagani, che la tradizione giudaica vietava di mangiare non solo nei luoghi di culto dove si sacrificavano gli animali ma anche quando venivano vendute al mercato.
« Quanto poi al cibarsi delle carni immolate agli idoli sappiamo che non esiste alcun idolo al mondo (l’idolo è una nullità), e non c’è dio se non uno solo. Infatti anche se ci sono dei cosiddetti dei sia in cielo sia in terra, come di fatto ci sono molti dei e signori… » Sembra una contraddizione, m a prosegue: « per noi invece c’è un solo Dio, il Padre,
dal quale tutto (la totalità del mondo) viene e noi esistiamo per lui, e c’è un solo Signore, Gesù Cristo,
mediante il quale tutto è, e noi siamo mediante lui ».
Paolo dice che se vogliamo considerare la situazione concreta guardandoci intorno, vediamo che molti sono gli dei, molti i signori. A quel tempo, ma non solo a quel tempo, c’era uno spreco di dei e signori. L’imperatore era Dio, Cesare Augusto era un titolo divino, Adriano si faceva lodare come il salvatore del mondo, gli dei orientali erano « signori », gli eroi erano i figli di Dio.
Anche il mondo di oggi è pieno di dei e signori, perché è pieno di servi. Se non ci fossero i servi non ci sarebbero i signori. Sono i servi che creano l’altro come signore di se stessi. « ma per noi », per le nostre soggettività, dice Paolo, « non ci sono dei e signori perché c’è un solo Dio, il Padre, e un solo Signore, Gesù Cristo » . E’ un credo costruito su di un motivo creazionale.
Colossesi 1,15-20
E’ un testo straordinariamente bello. E’ da notare che questi testi della chiesa primitiva, giunti a noi attraverso la testimonianza di Paolo e della sua scuola, usano un poco la enfasi, esprimono la lode, sono poetici. Non c’è grande precisazione teologica, e molti termini esprimono l’emozione dei credenti che professano in quel modo la loro fede. Non bisogna insistere molto sui particolari. « Gesù Cristo – dice Colossesi – è l’immagine e l’icona del Dio invisibile ».
Paolo rilegge l’affermazione creazionale dell’uomo a immagine di Dio in senso cristologico, « primogenito di ogni creatura ». C’è un rapporto molto stretto tra Gesù e la creazione in Paolo. « Poiché in lui sono state create tutte le cose, sia quelle che stanno nei cieli che sulla terra, sia quelle visibili che quelle invisibili, sia i troni, sia le signorie, sia i principati, si le potestà ». Si tratta del quadro cosmologico di allora, soprattutto degli ambienti dell’Asia Minore legati ad una pregnosi, in cui tra Dio e l’umanità c’erano esseri intermedi che dominavano la storia, gli eoni. In questa concezione si dice che Cristo ha vinto gli eoni e quindi ogni dominatore è messo fuori gioco. « Tutte le cose sono state create » Si tratta di un perfetto che indica qualcosa che è avvenuto e che perdura, cioè tutto è stato creato dal primo giorno e resta creato.
« Egli è prima di tutte le cose e la totalità delle cose ha consistenza in lui; Lui è la testa del corpo della chiesa, lui che è l’arché, il principio, il prototipo di ogni creazione e di ogni risurrezione, affinché abbia il primato in tutte le cose, poiché in lui piacque a Dio di fare abitare tutta la pienezza e mediante lui riconciliare tutte le cose, facendo pace mediante il sangue della sua croce e mediante lui sia le cose che ci sono sulla terra, come quelle che sono nel cielo ».
Il motivo centrale è la correlazione tra la totalità e l’unità di Gesù. Tutto è mediante lui, verso lui e consistente in lui; le preposizioni « en », « dia », « eis » stanno ad indicare un rapporto molto forte di comunità essenziale tra l’universo e l’unità singolare, che è Gesù. Tutto (ta panta) è stato creato e tutto è stato riconciliato. Il beneficiario della riconciliazione è lo stesso di quella della creazione, la totalità della realtà, noi e il mondo
2Corinzi 5,17 e Galati 6,15
I due testi sono carichi di significati. Dice 2Corinzi 5,17:
« Cosicché se uno è in Cristo è una creatura nuova di zecca ». Si usa l’aggettivo « kainé » che a differenza di « neos » indica novità qualitativa, non ripetitiva.
Il tema della creatura nuova ha una lunga storia alle spalle. E’ presente nel Deuteroisaia e in Isaia: l’escatologia è una proiezione nel futuro della creazione. L’originalità in Paolo sta nel dire che la « creatura nuova » si realizza nella storia se uno è in Cristo. Non c’è « verranno i cieli e terra nuova », ma la « creatura nuova » è già qui.
Paolo, così diverso da Gesù, in questa intuizione profondissima è suo discepolo contro ogni concezione apocalittica.
Due sono i motivi presenti in questi testi: la dimensione cristologica della creazione e la dimensione escatologica della creatura nuova. Tutto, l’uomo e il mondo, è stato creato, è creatura (ktisis) di fronte al creante (ktisas). La Bibbia offre qui una prima fondamentale risposta alle domande su chi siamo, donde veniamo e dove andiamo.
Il rapporto tra la totalità come creatura e il creante è un rapporto strutturale. Non può esistere
creatura senza creante. Non è un rapporto che è stato all’inizio per poi interrompersi, ma persiste. Noi siamo stati, siamo e saremo creatura di fronte al creante. E’ un rapporto costitutivo del nostro essere nei confronti di Dio e di Dio nei nostri confronti. Ci definiamo, gli uni e gli altri, su questa linea della creazione.
sdivinizzazione dell’uomo e del mondo
Questo sta ad indicare che l’uomo (e il mondo) non è un assoluto, non è Dio di se stesso. Fa parte della comprensione essenziale dell’uomo la coscienza della creaturalità propria e del mondo. Quindi fa parte della coscienza umana il processo di sdivinizzazione dell’uomo e del mondo. Non c’è nessun dio e nessun signore a questo mondo perché non ci deve essere nessun servo a questo mondo. Nessuno a questo mondo può essere l’oggetto davanti al quale piegare le ginocchia e levare l’incenso, invocare la clemenza, dipendere schiavisticamente. Non c’è nessun padre da scegliere a questo mondo, perché c’è un solo Dio, il Padre.
L’unica categoria che definisce l’uomo nel suo essere profondo rispetto a Dio è la fraternità, la sorellanza. Non c’è nessun padre nel senso signorile.
Ancora, il nostro essere creatura di fonte al creatore vuol dire che noi e il mondo siamo stati voluti, fatti da Dio creante, che ha comunicato la sua vita, il suo Spirito. I racconti della creazione in Genesi ci dicono che Dio ha soffiato nei viventi il suo Spirito. La categoria del dono libero è essenziale per capire il senso della totalità di fronte a Dio. Dio creatore non ha nessuna gelosia, nessuna competizione, nessuna rivalità nei nostri confronti e quindi nessuna violenza, dato che la violenza nasce dalla rivalità. Dio è gratuitamente comunicativo, comunica il suo Spirito, la sua vita senza la logica commerciale del do ut des. Dio dà perché è così per nativa esigenza del suo comunicare. Quello che è suo viene condiviso. Il problema della creazione è il problema della condivisione da parte di Dio al mondo e a noi. Dio non vuole godere da solo della sua vita, ma vuole condividerla con gli uomini, con gli animali, con il mondo in generale. La dinamica della creazione è la dinamica della condivisione. Non è un dono mosso da calcoli o da condizionamenti.
un dono di Dio irrevocabile
Procedendo poi su questo motivo di fondo della totalità che è creatura di fronte a Dio che è creatore, capiamo che noi siamo stati voluti e fatti una volta per tutti senza pentimento. E’ vero che c’è nella bibbia il racconto del pentimento di Dio per avere fatto il mondo e dell’invio del diluvio, ma il mondo è poi salvato, e l’arcobaleno diventa il segno dell’alleanza cosmica con Dio che si impegna a non distruggere mai più la vita. Il dono di Dio, la condivisione di Dio è irrevocabile. Se Dio revocasse questa sua comunicazione e donazione cesserebbe di essere quello che è, il creante (ktisas). Nonostante tutto permane la fedeltà di Dio a questo mondo, l’unico creato e voluto da Dio. Dio non ha alternative: si è definito liberamente ma irrevocabilmente creante (ktisas) di questa creatura (ktisis). L’errore della corrente apocalittica è stato quello di ammettere la possibilità di fare un altro mondo. La dimensione di fondo della apocalittica, espressa nel IV libro (apocrifo) di Esdra, si esprime nella creazione di un secondo mondo, perché il primo è riuscito male. Invece non c’è un’altra umanità, alla quale Dio si è legato liberamente, ma indissolubilmente. L’incarnazione è nella logica della creazione, è pensabile solo all’interno della creazione: se questo mondo non fosse il mondo di Dio, perché Dio avrebbe dovuto venire a questo mondo, avrebbe dovuto prendersene cura, volerne la salvezza? A questa domanda non poteva rispondere Marcione che aveva diviso la creazione dalla salvezza operata da Cristo. E’ il tallone di Achille di Marcione. C’è un mondo solo che Dio ha voluto e che ha fatto e che resta il suo mondo: questo.
alterità Dio mondo
Altra dimensione importante è che Dio creatore è altro da noi creature, è diverso. Il mondo è non Dio, e Dio è non mondo. Questa alterità tra Dio e il mondo è un elemento caratteristico della fede creatrice contro ogni tipo di immanentismo, che attenua i confini tra Dio umanità e mondo. La concezione creazionistica invece traccia una linea assolutamente invalicabile tra Dio e il mondo. Il mondo in quanto « ktisis » di fronte al « ktisas » è altro da Dio e vive nella sua mondanità, nella sua profanità, non è mescolato al divino. Al contrario della mitologia pagana in la mescolanza è dominante. Proprio della visione biblica è la separatezza: il mondo è diverso da Dio e Dio è diverso dal mondo.
Ora la concezione di alterità rende possibile la relazione, perché la relazione esiste tra due diversità, tra due altri. Se c’è mescolanza non c’è relazione, ma confusione. Il concetto di persona rinvia ad una soggettività come individualità assolutamente irripetibile.
E’ molto importante questa visione perché ci sollecita ad assumerci la piena responsabilità delle realtà mondane, senza cercare responsabili divini: Dio non manda e non toglie la malattia, la guerra non è un castigo di Dio o la pace un premio. La procreazione è una realtà puramente mondana, come la realtà sessuale. L’autorità tra gli uomini non viene da Dio, ma è una scelta operata da persone che delegano a qualcuno un potere per alcuni scopi. Così la famiglia, la società, gli eventi storici. Il Dio creatore non è un soggetto storico, mondano, Dio è altro. Potremmo dire che Dio è la fonte della vita ma non agisce come soggetto magari più grande, più potente, come siamo portati ad immaginarlo.
I cristiani a Roma erano tacciati di essere atei perché avevano ripulito il mondo di tutti gli dei, di tutti i signori di cui il mondo politeistico era pieno.
l’uomo interlocutore rischioso di Dio
C’è quindi una autonomia dell’umanità e del mondo da Dio, un’autonomia propria delle creature di fronte al creatore, però la creatura, che é il risultato del movimento di comunicazione, di partecipazione, di condivisione, è interlocutrice libera di Dio; noi siamo soggettività.
La differenza tra l’uomo e la natura è che la natura è determinata, mentre l’uomo è una possibilità di essere, è storia. La natura è dato, ma la storia è da farsi. L’uomo, attraverso le sue scelte, è possibilità di essere, ma anche possibilità di autodistruzione. Dio e noi siamo in dialogo, ma un dialogo altamente rischioso.
Dio ha di fronte una soggettività, che può scegliere liberamente, anche di dire di no. Il Dio creatore è un Dio audace e avventuroso che accetta di avere di fronte a sé uno che ha mille volti, e possibilità. Dio entra in un gioco pericoloso, rischioso. Tutto questo è stato percepito dal salmo 8 in cui si dice: « hai fatto l’uomo di poco inferiore ad un dio ». Nella creazione Dio ha di fronte a sé un altra soggettività, che si definisce nelle scelte sue libere, di fronte alla quale può solo proporsi, non imporsi. Questo Dio avventuroso si autolimita; si è imposto alla natura, ma non all’uomo, che si definisce per conto proprio. Dio rischia sempre di essere messo in scacco nel suo progetto, perché ha un progetto con l’uomo, al quale si limita a proporlo e le cui risposte sono quanto mai avventurose. E’ un Dio che per il suo progetto non minaccia, non terrorizza, non punisce il dialogante.
il Dio bifronte nella Bibbia
Il limite del discorso biblico è proprio quello di avere mantenuto la faccia del Dio punitore, presente negli stereotipi religiosi di tutti i tempi. In un libro del 1920 circa, Rudolf Otto, un filosofo della religione, intitolato « Il sacro », afferma che lo schema abituale di visione del divino negli uomini di tutti i tempi è costruito su una immagine religiosa del « mysterium » di Dio, della realtà nascosta di Dio, che ha due facce. C’è il « mysterium fascinans » – che affascina con la sua bontà, la sua generosità, con l’essere fonte di vita, di perdono, di grazia, di salvezza, un Dio benefico – e c’è l’altra faccia del « mysterium tremendum », del nume tremendo, terribile. L’uomo ha sempre vissuto il
divino – il dio monoteistico e le divinità – con questa griglia interpretativa, come « mysterium tremendum » e come « mysterium fascinans ». Anche nella bibbia questo appare con molta chiarezza (sto scrivendo un un libro su questo Dio come Giano bifronte).
Il Dio della Bibbia paga un alto prezzo a questo stereotipo religioso della duplice faccia. C’è un testo del Deuteroisaia che dice: « io sono colui che dà la vita, io sono colui che dà la morte ». Dio nella sua faccia benefica dà la vita, però ha anche l’altra faccia tremenda della morte. Le due facce sono state unite per cui il Dio che dà la vita poi domanda conto dell’uso che noi abbiamo fatto, e minaccia la punizione nel caso facciamo un uso distorto o cattivo. E’ una faccia violenta.
Siamo in contrasto con la logica creazionistica per la quale Dio partecipa la vita senza merito nostro, per sua nativa spinta. Dio si propone all’uomo indeterminato che ha davanti, a questo dialogante così inafferrabile, senza proclamare minacce, senza spargere terrore, senza comminare punizioni. Non è un Dio violento. Con la nostra risposta negativa siamo noi che ci creiamo la morte con le nostre mani. L’uomo si gioca la vita e la morte. Se dice di no a Dio non è che Dio gli manda la morte; la morte è una realtà mondana, nostra, solo la vita è il dono di Dio. Dio viene escluso o può essere escluso da noi, che siamo un dialogante capriccioso, ma mai Dio può escludere noi che lo escludiamo perché è donazione, comunicazione, soffio di vita: non si riprende per punizione il soffio di vita. Dobbiamo assumere il dato primordiale della fede creazionale come elemento assolutamente caratterizzante e non introdurre elementi religionistici estranei che offuscano, stravolgono la faccia partecipativa. Dio è tutto in questo darsi e non c’è in lui alcun pentimento, alcun riprendersi i doni, perché è sempre « ktisas ».
il mondo è donato da Dio nella sua materialità: oltre il dualismo
Da questi testi paolini si coglie un altro importante elemento: il mondo è « ktisis », donato da Dio, anche nella sua materialità, nella sua naturalità, è da accettare con gioia, con gratitudine, da godere anche, da custodire con cura e rispetto. La fede creazionistica esclude ogni concezione dualistico- spiritualistica. La visione dualistica ha contaminato il mondo del passato ed ammorba ancora oggi le coscienze nella tradizione cattolica. Secondo questa concezione la realtà – « ta panta » – viene suddivisa in realtà spirituale e in realtà materiale. La realtà spirituale, l’uomo nella sua coscienza e nella sua anima immortale, è positiva e tutto il resto è realtà negativa.
Il dualismo spiritualistico, che rifiuta come male tutto ciò che non è spirituale, che non è immateriale, è un fenomeno postbiblico. Nella Bibbia infatti si dice che il Verbo si è incarnato, si è fatto « sarx », (Giovanni). « Sarx » è la materialità, la naturalità. Noi dobbiamo ricuperare le radici bibliche. Se la tradizione cristiana cattolica ha accolto la visione dualistico-spiritualista dell’ambiente circostante è stata infedele alle sue origini. C’è da ricuperare, attraverso la fede creazionistica, questo aspetto gioioso per cui le persone godono di questo mondo che è creatura, è dono, senza per questo negare l’infiltrazione del male, il peccato. E’ strano che nella nostra tradizione cattolica si siano accolti aspetti profondamente infedeli alla visione biblica. Per esempio, la verginità di Maria nella Bibbia non ha una connotazione antisessuale ma è un modo per esprimere la fede nel figlio di Dio, che esiste solo in Matteo e in Luca, ma non in Paolo e in Giovanni. E’ in funzione della figliolanza divina che nasce la credenza nel concepimento verginale di Gesù. In questa maniera si vuole affermare che Gesù è il figlio di Dio, il dono di Dio.

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