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LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

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LA TEOLOGIA DELLA RISURREZIONE IN SAN PAOLO

Autore: Marie-Emilie Boismard,

Intervento del 30/04/1992
Marie-Emile Boismard [1]

Nel considerare il tema della resurrezione, come è trattato nelle lettere di san Paolo, in questa sede ci si limiterà a due testi: il capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi e i capitoli 3 e 5 della Seconda Lettera ai Corinzi; vedremo che nel passaggio da uno scritto all’altro Paolo cambia radicalmente il suo modo di esprimersi a proposito di quella che, piuttosto che resurrezione, forse è meglio chiamare la nostra vittoria sulla morte. Per comprendere meglio questi testi paolini, è innanzitutto necessario considerare il problema da un punto di vista antropologico: vedere, in altri termini, come si presentavano le teorie sulla natura dell’essere umano nel mondo semitico e quindi in quello greco ed ellenistico.
L’idea di resurrezione nasce in un contesto di pensiero semitico e in tempi relativamente recenti. Ne abbiamo tracce nel capitolo dodici del Libro di Daniele e nel capitolo settimo del Secondo Libro dei Maccabei, libri composti verso la fine del secondo secolo avanti Cristo, in un tempo di persecuzione. I semiti, come anche i greci ai tempi di Omero, non facevano distinzione tra anima e corpo e, pertanto, consideravano l’uomo nella sua unità psico–somatica; per conseguenza tutta la vita psichica dell’uomo, i suoi sentimenti, il suo volere, il suo sentire, erano un’emanazione del suo essere fisico. In termini più concreti si pensava che sentimenti, volontà e pensiero derivassero o dal cuore o dai reni, secondo la concezione biblica. Pertanto alla morte, quando il corpo umano si dissolve nella terra, questo perde la sua corporeità, il suo cuore, i suoi reni, resta solo uno scheletro e si perde quindi anche la sua attività psichica. Questa idea si esprimeva in termini concreti, dicendo che l’uomo scendeva allo Sheol dove non esisteva vita, gli uomini erano là come ombre inconsistenti, senza sentimenti, senza volontà; erano spogliati di ogni personalità. L’immagine della resurrezione è una ri–creazione dell’elemento fisico dell’uomo, in particolare del suo cuore e dei reni, e questo processo è ben descritto nel capitolo trentasettesimo del Libro di Ezechiele, nel quale si trova la celebre visione delle ossa aride. La resurrezione è immaginata come rifarsi sopra queste ossa aride del corpo, della carne e della pelle, ma soprattutto del cuore e dei reni e, all’ultimo momento, lo spirito di vita viene insufflato negli esseri in modo che possano tornare ad essere viventi. Anche in questa prospettiva non bisogna immaginarsi una ri–vivificazione del cadavere che è stato sepolto nella terra, ma come del resto anche nel Libro di Daniele, una nuova creazione di tutti gli elementi che noi diciamo comporre l’essere fisico.
Il pensiero greco, in particolare quello di Platone, si pone in maniera molto differente: per il filosofo l’uomo è composto di un’anima e di un corpo e questi elementi sono a tal punto distinti che Platone immagina che le anime preesistessero prima di venire in un corpo. Per conseguenza, la nascita terrena dell’uomo è concepita come un decadimento dell’anima, la quale si trova ad essere nel corpo quasi come in una prigione; pertanto il fine dell’uomo è liberarsi dai vincoli della corporeità. Nel pensiero platonico l’uomo in realtà non muore, ma la sua anima continua a vivere anche dopo essersi staccata dal corpo; in questa prospettiva non è assolutamente il caso di parlare di resurrezione, perché ritrovare un corpo sarebbe per l’anima ritrovarsi bloccata in qualcosa che impedisce l’espressione delle sue facoltà.
Per quanto estremamente schematico, quanto detto può essere sufficiente per comprendere il pensiero di Paolo. Prendiamo ora in esame la Prima Lettera ai Corinzi al capitolo 15. In questo capitolo, e particolarmente a partire dal versetto 35, Paolo risponde all’obiezione di quanti pensano che non sia possibile la resurrezione e sviluppa la concezione semitica dell’uomo, come del resto ha fatto nella prima Lettera ai Tessalonicesi al capitolo 4. Cominciamo con il leggere il testo tenendo presente che c’è una difficoltà di interpretazione, in quanto Paolo utilizza il termine greco soma: «Qualcuno dirà come resuscitano i morti, quale soma essi avranno?». La difficoltà sta nella traduzione della parola greca soma, normalmente tradotta con il termine «corpo», ma si può dare un equivoco, perché quando sentiamo parlare di corpo in questo contesto pensiamo immediatamente con mentalità greca alla resurrezione del corpo inteso come opposto all’anima. In realtà in greco la parola soma ha un senso più vasto, un valore più ampio; in particolare poteva designare un qualunque essere, sia vivente che morto. È stato scritto molto a questo proposito: per esempio il termine soma può definire gli schiavi. Per rimanere nell’ambito biblico, leggiamo nel Secondo Libro dei Maccabei che Antioco manda un messaggio lungo la costa perché gli siano inviati dei somata, dei corpi giudei, ed evidentemente non si tratta di cadaveri. Nello stesso libro leggiamo che Gionata fece sgozzare 25 mila corpi ed evidentemente non si trattava di sgozzare corpi inanimati, ma uomini viventi. In tutti i testi che leggeremo ora non va bene tradurre il termine soma unicamente con corpo; pertanto, tra i diversi termini, preferisco utilizzare quello di «essere», senza insistere sul senso dell’esistenza, come quando si parla di esseri umani.
Per spiegare cosa intende per resurrezione, Paolo comincia con due esempi che poi spiegherà. Il primo brano si estende nei versetti 36–38 e inizia così: «Stolto! Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore; e quello che semini non è un soma che poi verrà, ma un semplice chicco di grano o di altro genere. È Dio che dà a ciascun chicco un suo proprio soma secondo la sua volontà e a ciascun seme il proprio soma». Nel testo risulta evidente che non può trattarsi di un corpo come opposto all’anima perché si sta parlando di piante, di esseri vegetali. L’idea fondamentale, che poi Paolo svilupperà, è che esiste una differenza essenziale fra il chicco che viene seminato e la pianta che ne sorgerà; sono due realtà differenti. Nel versetto 36 dice chiaramente che quello che si semina non è quel corpo che poi diventerà pianta, bensì qualcosa che deve morire, marcire e poi sarà Dio a far nascere la pianta. Paolo sottolinea che sarà Dio a dare un corpo a ciò che ormai è completamente scomparso nella terra in maniera differente secondo i vari generi di piante. In questo primo esempio viene costituita una netta differenza tra ciò che si semina e ciò che sorgerà.
Nel secondo esempio, dal versetto 40, Paolo insiste sulla differenza fra gli esseri: «Vi sono degli esseri celesti e degli esseri terrestri, altro è lo splendore dei celesti, altro lo splendore dei terrestri; altro è lo splendore del sole, altro è quello della luna e altro quello delle stelle poiché una stella differisce nello splendore da un’altra». Paolo sottolinea che tra gli esseri che ci circondano vi sono delle differenze sostanziali, in particolare quella che distingue gli esseri terrestri da quelli celesti. Dati questi due esempi, Paolo svilupperà ora quello che lui pensa circa la resurrezione dei morti. Inizia il versetto 42: «Così è la resurrezione dei morti». A conferma di quanto detto fino ad ora si noti che Paolo non parla della resurrezione dei corpi, ma di quella dei morti; in questo primo stadio usa soprattutto l’immagine della seminagione e solo in sottofondo, ma la svilupperà in seguito, l’immagine della differenza fra gli esseri. Il testo continua: «Si semina il corpo nella corruzione e risorge incorruttibile» e qui abbiamo un verbo ambiguo, che potrebbe significare tanto «si leva», «si alza» ed è l’immagine della pianta che sorge dal terreno o potrebbe significare specificatamente «risorge». «Si semina nell’ignominia e sorge nella gloria, si semina nella debolezza e sorge nella pienezza di forza, si semina un essere animale e sorge un essere pneumatico o spirituale».
Paolo spiega ora in che modo comprenda l’opposizione fra l’essere psichico e quello spirituale e si appoggia al testo di Genesi 2,7 in cui si narra della creazione dell’uomo da parte di Dio: «Allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un soffio vitale e l’uomo divenne così un essere vivente.» Anche qui c’è una difficoltà di traduzione perché Paolo gioca sul testo greco e utilizza la parola psyche zosa, letteralmente un’anima vivente. Il testo greco riporta la parola psyche e ci fa capire che Paolo oppone all’uomo spirituale, l’uomo psichico. Guardiamo ora come il testo di Genesi venga utilizzato da Paolo, che continua dicendo: «Poiché sta scritto che il primo uomo, Adamo, divenne un’anima vivente, ma l’ultimo Adamo divenne uno spirito vivificante». Si noti nelle integrazioni fatte da Paolo come venga riecheggiato il testo di Genesi, che è citato alla lettera: «Il primo uomo divenne una psyche vivente»; ma nel seguito del versetto – dove si parla di Adamo che divenne spirito datore di vita – evidentemente si fa allusione a quella parte di versetto di Genesi in cui si dice che Dio soffiò un alito di vita nell’uomo. Utilizzando questo vocabolario, Paolo continua nel versetto 46: «Non vi fu prima lo spirituale, ma l’animale e poi lo spirituale». A questo punto Paolo instaura un doppio paragone fra ciò che è fatto di terra e ciò che è del cielo e poi descrive la nostra condizione prima e dopo la parusia del Cristo. Per continuare l’immagine di Genesi, Paolo riprende il tema dell’uomo fatto dal fango e dalla polvere; parlando invece dell’ultimo uomo, dell’ultimo Adamo, egli parla di un individuo che viene dal cielo. I termini della comparazione continuano e Paolo dice: «Qual è l’uomo fatto di terriccio così sono fatti quelli terrosi, ma qual è l’uomo celeste, così anche i celesti e come abbiamo portato l’immagine di quello fatto di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste». La prospettiva è evidentemente escatologica: Paolo parla del ritorno di Cristo, della sua parusia e dopo questa ci sarà un cambiamento di natura negli uomini. Fino al ritorno di Cristo gli uomini saranno fatti solo di terra, mentre dopo saranno fatti ad immagine dell’uomo celeste, di cielo. Si riprende l’immagine del seme che scompare completamente nella terra per dire che l’uomo di terra scompare nella terra e dopo il ritorno di Cristo ci sarà un uomo completamente celeste. A questo punto Paolo si interessa del problema non solo di quanti sono già morti, ma di tutti gli uomini, poiché dobbiamo ricordarci che Paolo è convinto che vi sarà il ritorno di Cristo in un momento prossimo, probabilmente la notte di Pasqua, secondo la tradizione. Continua: «Ecco, vi annunzio un mistero, non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati in un istante, in un batter d’occhio, al suono dell’ultimo squillo di tromba, i morti sorgeranno incorruttibili e noi saremo trasformati». Così dicendo Paolo parla dei cristiani ed è convinto che saranno trasformati tutti coloro che saranno in vita al momento del ritorno di Cristo. Non si interessa qui della sorte dei pagani, sta parlando con un «noi» a dei cristiani. Gli scrittori dei secoli seguenti, quando ovviamente non si aspettava più un ritorno imminente di Gesù Cristo ed era già passato molto tempo dalla stesura della Prima Lettera ai Corinzi, trovandosi di fronte a questo versetto si sentivano in imbarazzo e pertanto hanno spostato la negazione e abbiamo in alcuni codici la frase: «Tutti, certo, moriremo, ma non tutti saremo trasformati». Lo spostamento della negazione era dovuta la fatto che la morte era considerata un evento comune a tutti gli uomini, ma l’essere trasformati a immagine dell’uomo celeste è comune solo ai credenti. Paolo conclude in maniera trionfale dal versetto 53 in poi: «È necessario infatti che questo qualche cosa di corruttibile si rivesta di incorruttibilità e questo qualcosa di mortale si rivesta di immortalità. Quando poi questo qualche cosa che è corruttibile si sarà vestito di incorruttibilità e questo qualcosa che è mortale di immortalità, si compierà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria, dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?». Per riassumere, Paolo si tiene ancora all’interno della mentalità semitica e pertanto afferma che, quando il corpo sarà morto, sarà posto nella terra e si dissolverà come il seme che viene seminato e che, in un tempo relativamente prossimo, Dio darà ai credenti un nuovo essere, non più come il precedente fatto di terra, bensì celeste, come è del resto il corpo di Cristo il quale è già celeste.

 

Passiamo ora alla Seconda Lettera ai Corinzi, in cui noteremo che la prospettiva di Paolo, pur rimanendo in parte simile a quella che abbiamo esaminato nella Prima Lettera, subisce una notevole trasformazione. Leggiamo innanzitutto nel terzo capitolo i versetti 17 e 18; il testo è abbastanza difficile, ma senza scendere in dettagli che peraltro non hanno grande importanza, darò la traduzione ammessa da molti commentatori. Il contesto ci propone l’episodio narrato nel capitolo 34 dell’Esodo laddove si dice che quando Mosé saliva sul monte a parlare con Dio, il suo volto diventava talmente splendente che alla sua discesa dal monte doveva velarlo con un panno perché lo splendore della gloria di Dio riflesso sul volto del patriarca non risultasse dannoso e accecante per quanti lo vedevano. Togliamo la seconda parte del versetto 17 che, a detta di molti, è una glossa: «Dove c’è lo Spirito del Signore, c’è libertà». Prestiamo ora attenzione invece alla prima parte del versetto 17 e al versetto 18: «Ora il Signore è lo Spirito e noi tutti a viso scoperto, riflettendo come degli specchi la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella stessa immagine di gloria in gloria come dal Signore che è lo Spirito.» In questo testo troviamo alcuni dei termini utilizzati nella Prima Corinzi ma, come vedremo, ci sono cambiamenti altamente significativi. Innanzitutto l’affermazione che il Signore Cristo è lo Spirito va letta alla luce del versetto 6 che la precede di poco, in cui si parla dello Spirito che vivifica. Sotto l’azione dello Spirito che dà vita, noi tutti siamo trasformati di gloria in gloria, come a dire che noi riflettiamo come degli specchi la gloria del Signore. Si ritrova lo stesso tema della Prima Corinzi in cui si affermava che: «Quando il Signore verrà noi saremo trasformati ad immagine della gloria» che si può intendere sia come gloria che come splendore del Cristo. La differenza essenziale è che nella Prima Corinzi questa trasformazione ad opera del Signore che è Spirito vivificante si compirà in un futuro, mentre nella Seconda Corinzi questa trasformazione è nel presente ad opera soprattutto del battesimo, per mezzo di cui, come Paolo afferma altrove, noi ci rivestiamo del Signore che è Spirito; pertanto già ora siamo rivestiti di questa gloria in attesa di una trasformazione definitiva. Si introduce qui un tema come conseguenza necessaria: se noi adesso siamo trasformati in gloria per opera dello Spirito che dà vita, noi non possiamo morire, perché già il battesimo ci ha dato lo Spirito vivificante. Quindi una parte di noi, al di là della morte, deve rimanere viva e si sente che Paolo sta abbandonando l’immagine semitica dell’unità dell’essere umano per adottare i termini greci che portano nella direzione dell’immortalità di un qualche cosa dell’uomo che non può morire. Questo si rende estremamente chiaro nel capitolo 5. Vediamo innanzitutto i versetti da 6 a 8; notiamo che in questo testo Paolo adotta volontariamente la terminologia filosofica greca, non semplicemente il linguaggio greco, ma specificamente i termini filosofici. I versetti così recitano: «Dunque siamo pieni di fiducia ben sapendo che finché abitiamo nel corpo siamo come in esilio lontani dal Signore, infatti camminiamo nella fede e non ancora nella visione, siamo pieni di fiducia e riteniamo meglio andare in esilio dal corpo e abitare presso il Signore».
Abbiamo qui un linguaggio che si trova in Platone e nei suoi discepoli, in particolare in Filone d’Alessandria. Il fondamento della nostra sicurezza davanti alla morte, seguendo il Fedone, è la convinzione che l’anima è immateriale e quindi incorruttibile. Dice Platone nel Fedone: «Colui che ha tutto ciò dalla filosofia, avrà piena fiducia di fronte alla morte». Il tema è ripreso da Filone nel De agricoltura: «In verità ogni anima di saggio ha ricevuto il cielo come patria e la terra come esilio. Essa stima sua la dimora della saggezza e straniera quella del corpo nella quale ella crede di vivere come una straniera». Nel testo di Paolo è ora necessario prendere la parola corpo non nel senso di essere, ma nel senso filosofico di corpo opposto all’anima. È evidente è che qui non si trova più traccia della mentalità semitica secondo la quale l’essere, quando muore, scompare totalmente nello Sheol e non ha una sua vita personale. La resurrezione è ora il passaggio mediante la morte ad una vita presso Dio, evidentemente con tutta la personalità e con tutta la propria ricchezza umana. Pertanto nella Seconda Corinzi, Paolo ha abbandonato la prospettiva semitica e ha accolto una mentalità di tipo platonico.

A questo punto si innesta un problema: il corpo cosa diventa? Paolo opera una specie di sintesi fra le nuove idee di tipo platonico e il pensiero semitico, nel senso che quest’anima che ha abbandonato il corpo mortale non rimane un’anima nuda ma ben presto avrà modo di rivestire un altro corpo. Paolo dice questo all’inizio del quinto capitolo, versetto 1: «Sappiamo infatti che quando questa nostra dimora fatta di terra, la tenda del nostro corpo, si sarà disfatta, riceveremo un’abitazione da Dio eterna, nei cieli, non costruita da mani d’uomo». Troviamo anche qui l’opposizione tra quello che è fatto di terra, come abbiamo nella Prima Lettera ai Corinzi, e ciò che è celeste. Per quanto Paolo non parli esplicitamente di un corpo celeste, tuttavia dobbiamo ammettere un’opposizione fra il corpo terreno o terroso, che è la nostra abitazione sulla terra, e la nuova dimora celeste che noi riceveremo. È evidente che non è certo quel corpo, fatto di terra e destinato a sparire, che viene ri–vivificato nella resurrezione, ma è una nuova realtà celeste quella che noi riceveremo dopo la morte. Per affermare l’idea che subito dopo la morte l’uomo ottiene una nuova dimora, Paolo non crea assolutamente i suoi concetti, ma li prende da alcuni scritti del giudaismo tardivo. In realtà nella prospettiva della Seconda Corinzi non si può più utilizzare il termine resurrezione; Paolo lo utilizza ancora in senso spiritualizzante, come abbiamo letto nel capitolo 3, dove si dice che siamo rivestiti di Cristo che è Spirito datore di vita. In questo senso si può parlare di resurrezione, ma in una prospettiva maggiormente spiritualizzata e lo si vede chiaramente, anche se in maniera non ancora precisissima, nella Lettera ai Colossesi, dove Paolo dice: «Noi siamo risorti in Cristo». L’espressione semitica di «resurrezione» in questo contesto non tiene più nel senso materiale che le dava la tradizione, perché evidentemente il corpo si dissolve e non è certo quello che riprende vita. Questo si evidenzia anche col fatto che Paolo nella Seconda Corinzi, mentre continua a parlare di resurrezione a proposito di Cristo, non ne parla più a proposito dei credenti. Vorrei che venga fatta estrema attenzione alle parole: non si tratta di negare la vittoria sulla morte, ma di ribadire che, da un certo punto della sua produzione in poi, Paolo non pensa più alla resurrezione nel senso stretto del cadavere che riprende vita, ossia nel concetto materiale semitico.
Leggiamo un altro brano ancora dalla Seconda Lettera ai Corinzi in cui Paolo esprime benissimo e con grande vivacità anche il suo spessore umano, i versetti 2 – 4 del capitolo quinto: «Perciò noi sospiriamo per questo fatto, che desideriamo rivestirci di quel nostro corpo fatto di cielo, se pur saremo trovati già vestiti del nostro corpo e non già spogliati alla venuta di Cristo. In realtà in questa tenda noi sospiriamo sotto un peso non volendo essere spogliati, ma sopra–vestiti, perché ciò che è mortale venga assorbito dalla vita». Non dimentichiamo che anche quando scrive la Seconda Corinzi, Paolo attende come prossima la venuta di Cristo, ma come tutti gli uomini egli, per quanto speri di essere trasformato ad immagine di Cristo, teme di essere morto a quel momento perché la morte è comunque uno strappo, un qualcosa che dilania l’uomo e pertanto egli ne ha paura. Nel versetto 3 Paolo si augura di essere trovato al momento dell’avvenimento escatologico, al ritorno di Cristo, ancora vestito e non nudo perché nei termini filosofici che ha finora impiegato, significa precisamente ancora vivente e non spogliato del corpo. Questo per poter evitare il passaggio doloroso della sua morte personale e per potersi vestire del Cristo al di sopra di quel vestito che è già il suo corpo. In altri termini spera, molto umanamente, di non dover passare attraverso quello strappo che è la morte, ma di accogliere il Cristo ancora durante la sua vita. Pertanto quando qualcuno rimprovera i cristiani perché, pur avendo fede nella vittoria di Cristo sulla morte, si trovano ad averne paura, siamo autorizzati a dire che anche Paolo, che pure aveva una decente certezza di incontrare il Cristo al di là della morte, la temeva e sperava di non doverla sperimentare.

[1] Marie Emile Boismard, domenicano, professore di esegesi del Nuovo Testamento all’Ecole Biblique di Gerusalemme (1948–1950), poi all’Università di Friburgo (1950–1953) e di nuovo all’Ecole Biblique di Gerusalemme. Il testo della conversazione non è rivisto dall’Autore.

CREDO LA RISURREZIONE DELLA CARNE (punto 1.3. San Paolo)

dal sito:

http://www.cappellauniss.org/teologia/risurrezione_carne.htm

Aspetto la risurrezione della carne
 
CREDO LA RISURREZIONE DELLA CARNE
 
1. Fondamenti biblici

1.1. La disputa di Gesù con i Sadducei (Mc 12,18-27)
Questa disputa è collocata nel contesto delle controversie di Gerusalemme. La risposta elaborata da Gesù in questa controversia offre una puntualizzazione straordinariamente illuminante sull’orientamento da dare all’idea di risurrezione.
Lo sfondo di questa disputa con i Sadducei merita qualche precisazione. Come si configura al tempo di Gesù la fede nella risurrezione? Qual è il suo contenuto e senso più specifico?
Com’è noto, la risurrezione dei morti intesa in senso più stretto ed esplicito, è un articolo molto recente della fede d’Israele, attestato nel Libro di Daniele e nei Libri di 1 e 2 Maccabei. Nasce dall’esperienza del martirio di quanti sacrificarono la loro vita per la fedeltà alla fede e alla legge di Mosè, nella certezza che comunque quella fine cruenta e ingiusta sarebbe stata ricompensata da Dio con una nuova vita (2Mac 7). Questa speranza venne presto molto diffusa, maggioritaria, condivisa da molte correnti del giudaismo (dai rabbini, dagli apocalittici, dai farisei, come pure dai qumraniani), ma non proprio unanimemente (come appunto mostra lo stesso testo evangelico: i sadducei se ne chiamano fuori).
Chi sono i Sadducei? Tradizionalisti aristocratici, benestanti conservatori (clericali e laici), in antitesi ai farisei (questi più univocamente laici, più rigorosi e, in certo qual senso, anche più moderni). Privilegiano più univocamente l’autorità del Pentateuco, anche se probabilmente non è vero (come vorrebbe Girolamo) che rifiutino tout court i libri profetici. Non accettano, in ogni caso, le nuove prospettive apocalittiche (per il canone ebraico Daniele non è un libro inserito tra i profeti, bensì tra gli scritti). E certamente rifiutano tutta la tradizione orale, la ‘tradizione degli anziani’ promossa invece dai farisei. Normativa per loro è sola scriptura. Sono quindi una corrente piuttosto secolarizzata, scarsamente interessata e religiosamente riduzionista: per loro non vi è risurrezione o ricompensa escatologica (cfr. At 23,8), niente angeli o demoni. Inoltre, bene e male stanno in mano all’uomo (niente determinismo), e Dio non interviene più di tanto nella storia: ciascuno è artefice della propria fortuna o sfortuna. Conta l’esistente, il potere, l’istituzione, la sua gestione.
 
Obiezioni alla risurrezione
Nel nostro episodio i Sadducei si oppongono all’idea stessa di risurrezione in nome di una loro interpretazione della legge mosaica sul levirato (Dt 25,5ss.; Gen 38,8). Con quella legge emanata per garantire una discendenza a chiunque disgraziatamente fosse morto prematuro e per giunta senza figli, Mosè (secondo i Sadducei) avrebbe implicitamente escluso la risurrezione. Nell’eventualità di una risurrezione da morte infatti, la legislazione mosaica risulterebbe di fatto impraticabile (tanto più agli occhi di una cultura patriarcale con tratti maschilisti): come potrebbe una donna essere contemporaneamente moglie di sette uomini?
Il ragionamento dei Sadducei intende ridicolizzare il modo più diffuso in Israele di pensare la risurrezione dei corpi, idea molto semplicistica di risurrezione, intesa come ulteriore riedizione di questa vita, una fotocopia presumibilmente migliore, senz’ombra di dolore, peccato, e ogni sorta di male. Idea che soggiace anche a 2Mac 7, e forse anche a Dan 12, testi universalmente riconosciuti come culla di questa speranza. Niente di strano se questa semplicistica idea risultava inaccettabile agli spiriti più critici (come anche ai meno fantasiosi) quali i Sadducei. Agli occhi di quest’ultimi l’unica risurrezione di cui Israele dispone sta nel futuro che il popolo si può garantire con la discendenza delle generazioni. Questa dei Sadducei è un’antichissima convinzione d’Israele, ma anche un’atavica pulsione della nostra natura: se siamo fecondi di posterità, allora abbiamo la percezione di non morire, e di prolungare la nostra esistenza lungo il fluire del tempo attraverso quella di altri che prendono vita da noi.
 
Ignoranza delle scritture ed ignoranza di Dio
Tutta la risposta di Gesù s’inquadra sotto un pesante rimprovero.
« Voi errate, siete fuori strada » (v 24)
« Voi errate molto, siete molto fuori strada » (v. 27).
Per Gesù pensare come loro è deviare dalla via di Dio, il che comporta un errore sostanziale, dalle pesanti implicazioni. In pratica dice: voi, i pretesi conservatori della tradizione più sicura, siete in realtà a un passo dallo svendere la sostanza viva della fede d’Israele, in ragion della meschinità della vostra idea di Dio, che di fatto costituisce un vero attentato alla sua signoria. Ai Sadducei è quindi rinfacciato un doppio deficit, la ragione del quale viene ricondotta a comune radice di ignoranza (e, implicitamente, di incredulità):
Voi non conoscete né le scritture, né la potenza di Dio.
Non conoscere le scritture significa due cose, anzitutto: « voi non leggete bene come invece si dovrebbe, con fede e nel rispetto della tradizione »; in secondo luogo: « nemmeno leggete per intero (nota il plurale: « scritture ») tutte le scritture che sarebbero da leggere! ». In sintesi: « voi leggete ma non capite, e non potete capire, perché leggete male e parzialmente, cioè solo quel che volete ».
In effetti i Sadducei certamente non leggono il Libro di Daniele, cui Gesù è invece tanto legato, soprattutto per il Figlio dell’uomo, quella personalità individuale e corporativa nella quale egli si identifica (Dan 7). Mutilando l’ampiezza della testimonianza biblica, ne mancano il senso.
L’altra ignoranza rimproverata – perfino più grave – svela la ragione ultima e profonda della prima: non conoscere/riconoscere la potenza di Dio che già svariegate volte si è manifestata nell’AT (potenza che si fa conoscere attraverso le meraviglie operate per Israele). L’accusa di Gesù insinua una mancanza di fede. La fede conosce quanta e quale sia la potenza di Dio: « Tutto è possibile a chi crede! » (Mc 9,23), e a chi chiede con fiducia nella preghiera (Mc 11,22-24). « Abba’, Padre, tutto ti è possibile! » (14,36). Non potenza nel senso da noi abitualmente equivocato come onnipotenza-prepotenza. Ma potenza della sua signoria paterna, visibile ovunque e sempre a tutti, senza più ombra di equivoci e tutta trasparente solo in Gesù, nelle sue parole, nelle sue opere (la potenza che usciva da lui solo a toccarlo, cfr. Mc 5,30; 6,2.5), nella sua storia culminante con la risurrezione (2Cor 13,4), segno del regno effettivamente avvicinato con potenza (Mc 9,2). In filigrana forse Gesù sta rimproverando ai Sadducei di non saper vedere ciò che avviene nella sua stessa missione, tutta nel segno della vita e della risurrezione.
 
« Come » angeli
Gesù dà poi due illustrazioni. Una prima illustrazione è sulla modalità correttamente e sensatamente pensabile della vita dei risorti (Mc 12,25). Una seconda invece verte circa l’effettiva realtà e credibilità della risurrezione, sulla base di una valida ‘prova scritturistica’ (12,26). In entrambi i casi l’ironia è pure sferzante.
Secondo Gesù la risurrezione è tutt’altro che paradossale e opposta all’insegnamento di Mosè. Anzi, essa risulta perfettamente pensabile e ricavabile proprio dalla rivelazione goduta da Mosè. Risurrezione che va intesa come un nuovo ordine di esistenza. Essa è una nuova creazione che ha per supporto (ma non per modello) la prima (che semmai è stata da Dio modellata sulla seconda).
Quando Gesù dice che nella risurrezione saremo tutti « come angeli nei cieli » è per dire che la risurrezione comporta una nuova forma di vita: si tratta di un’esistenza celeste (cioè più vicina a Dio: il cielo è nell’antichità spazio creato più contiguo alla trascendenza di Dio). Gesù non sta quindi certo pensando a una forma immateriale e incorporea di esistenza. Però, più che descrivere, fornisce qui un termine di confronto, un po’ come usa fare nel suo abituale linguaggio parabolico applicato al Regno di Dio (« come »: cfr. Mc 4,26.31). Suggerisce quindi un’analogia in cui la differenza risulta più forte della somiglianza. Paolo (1Cor 15) azzarda una ‘descrizione’ del corpo glorioso dei risorti, cercando di pensarlo più speculativamente (ma non raggiunge risultati migliori…).
Tuttavia, poiché i Sadducei non credono all’esistenza di angeli o demoni, la risposta di Gesù risulterebbe inservibile nella spiegazione positiva. Va riconosciuto qui un tratto tipico di Marco, che dipinge un Gesù sferzante nell’ironia con i propri interlocutori. Se non siete capaci di pensare l’esistenza di un altro ordine di creature, se non siete capaci di pensare un creatore di un ordine immortale, non arriverete a pensare la risurrezione. Risorgere significa inaugurare una vita che non muore, collocata alla piena e diretta presenza di Dio, tutta luminosa di questa sua presenza, e quindi svincolarsi dalla legge – meravigliosa e terribile – della riproducibilità. Quest’immaginazione credente manca ai Sadducei.
 
Promessa e alleanza, fondamento della risurrezione
La seconda argomentazione di Gesù tocca il fatto della risurrezione: non più la sua astratta pensabilità, bensì l’effettiva accertabilità e leggibilità nella Bibbia. Dove può aversene notizia certa, in che passi scritturistici sarà riconoscibile?
Qui il suo tono si fa più solenne, e al tempo stesso perfino sarcastico, con una domanda ovviamente retorica: « Non avete letto nel Libro di Mosè il passo sul roveto…? ». Certo, chissà mai quante volte hanno letto e udito alla sinagoga il passo della vocazione di Mosè (Es 3). Ma l’hanno mai capito?
Invocando addirittura l’autorità di quel Mosè che i Sadducei hanno preteso citargli come voce contraria alla risurrezione dai morti, Gesù stringe i suoi interlocutori alle corde. Rovescia contro di loro l’unica autorità che sono disposti a riconoscere come normativa. Ma qui si tratta non di una delle tanti leggi di Mosè, bensì della vocazione/rivelazione da lui goduta da parte del Dio dei Padri: nientemeno che il fondamento della sua missione di liberatore dall’Egitto e di mediatore dell’alleanza sinaitica. Per ‘dimostrare’ il fatto che si risorge Gesù non si riconduce più alla teologia degli apocalittici, ma direttamente a quella stessa mosaica, in particolare a un contesto in cui la teologia della promessa ai Padri si combina con la rivelazione esodica della liberazione e dell’alleanza sinaitica. Gesù fornisce una chiave di lettura teologica di incredibile portata sintetica, riannodando la risurrezione alla promessa abramitica confermata dall’alleanza (berît). Il Dio che a Mosè dichiara di legarsi personalmente (« Io… ») ai Padri che gli hanno risposto con la fede, sarà certo Dio « non di morti, ma di viventi ». Il Vivente per eccellenza non può che far vivere i suoi eletti, i suoi credenti. Lo statuto della persona investita dalla promessa/alleanza del Signore entra nella memoria di Dio, così che il suo destino si iscrive per sempre in riferimento alla vita e non alla morte. L’uomo è tenuto in vita dal Dio che si ricorda di lui (Sal 8).  Così « Io, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe! », vuol dire prima di tutto: « Io, il Dio che benedice Abramo, Isacco, Giacobbe, i quali, proprio in quanto benedetti, non muoiono, ma vivono della mia promessa ». Già con la benedizione abramitica – dice Gesù – Dio si impegna in vista di una risurrezione.
 
1.2. Io sono la risurrezione e la vita
« Ma c’è di più. Gesù lega la fede nella risurrezione alla sua stessa Persona: “Io sono la Risurrezione e la Vita” (Gv 11,25). Sarà lo stesso Gesù a risuscitare nell’ultimo giorno coloro che avranno creduto in lui e che avranno mangiato il suo Corpo e bevuto il suo Sangue. Egli fin d’ora ne dà un segno e una caparra facendo tornare in vita alcuni morti, annunziando con ciò la sua stessa Risurrezione, la quale però sarà di un altro ordine. Di tale avvenimento senza uguale parla come del “segno di Giona” (Mt 12,39), del segno del tempio (cfr. Gv 2,19-22): annunzia la sua risurrezione al terzo giorno dopo essere stato messo a morte » (CCC 994).
 
1.3. San Paolo (cfr. CCC 989-991)
Per San Paolo Cristo è primizia del mondo della risurrezione (1Cor 15,20). Egli intende con ciò significare che l’evento della risurrezione della risurrezione di Cristo è da intendersi come modello e causa della risurrezione escatologica dei cristiani. Quest’ultima partecipa della risurrezione del Signore, nel senso che ne è la sua estensione ed insieme il compimento della vita nuova dell’uomo in Cristo, già iniziata sacramentalmente nel battesimo. La ‘rinascita’ del credente dall’ “acqua e dallo Spirito” innesca, infatti, tutto un processo di partecipazione all’evento di Cri9sto morto e risorto, che avrà il suo culmine nella parusia, nella gloria della creazione nuova, e consisterà, per l’opera dello Spirito che darà la vita ai nostri corpi mortali (cfr. Rm 8,11), nella comunione suprema, anche corporale con Gesù Signore. La speranza cristiana assume così una particolarissima struttura: la signoria di Dio sulla storia umana implica la configurazione piena della persona al Crocifisso-Risorto. La persona umana non scompare nell’infinito e nell’eterno Dio come una realtà provvisoria; al contrario proprio il risorgere in Cristo permette a una persona di diventare se stessa. La fedeltà che il Padre ha mostrato nella Pasqua del suo inviato Gesù è la stessa – un unico evento – che trasforma la nostra vita e la colloca nella definitiva, escatologica comunione con lui: « … Colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi » (Rm 8,11).
 
2. Come risuscitano i morti?

Ma come può venire pensata la trasformazione della vita umana personale in vita radicalmente risorta?
La risurrezione dei cristiani, in quanto partecipazione a quella di Cristo, è un evento che interessa la totalità dell’umano. La centralità che viene riconosciuta al corpo, in questo evento, sostanzia la suddetta affermazione. Il corpo risorto, trasfigurato, cioè, non è altro dal corpo terreno. La risurrezione non è quindi un seguitare a vivere sulla terra reincarnandosi in altri corpi, come dicevano alcuni filosofi greci e come dicono ancora oggi certe religioni orientali. Il corpo risorto è ‘identico’ al corpo che esprime storicamente l’unico e medesimo io personale (identità), anche se trasformato in una nuova condizione. In questo senso, la risurrezione dei corpi non significa la riassunzione del corpo biologico, che ha dato forma fisica all’uomo lungo la sua vicenda terrena; non significa cioè la ripresa di quanto è diventato ‘cadavere’ con la morte, non è un riassemblaggio del nostro corpo, fatto racimolando le sue molecole tra i resti putrefatti, cremati, trapiantati in altri corpi o sparse per il mondo. Siffatta interpretazione materialistica non renderebbe ragione della novità trasformante inclusa nell’evento della risurrezione ed escluderebbe di fatto la compiutezza antropologica. Lo stesso dicasi per una interpretazione spiritualistica che, prevedendo una radicale trasformazione spirituale del corpo (una specie di corpo etereo), renderebbe vano il senso stesso della corporeità, che dice il riferimento essenziale dell’io personale alla sua storia e al suo mondo.
La risurrezione, in altri termini, è l’evento che compie l’uomo nella sua unità sostanziale di corpo e anima che lo identifica personalmente; per cui, quando si afferma la ricongiunzione dell’anima al corpo nella risurrezione non si vuole intendere l’atto di ricomposizione di due entità separate, ma il compimento dell’identità umana nella totalità delle sue espressioni spirituali e corporee. Ciò che permane nel trapasso è l’identità personale nella complessa relazione che intratteniamo con Dio. Dal momento, però, che l’identità personale esiste nella vita storica di una persona, essa è necessariamente anche identità somatica. Ciò che risorgerà nell’ultimo giorno (Gv 6,54) sarà l’uomo intero. Per questo, la risurrezione comporta per l’uomo il recupero di tutta la propria vita e di tutta la propria storia, il compiuto recupero di tutto ciò che ha segnato la sua vicenda umana di persona che si è intrattenuta consapevolmente nelle relazioni con Dio, con i propri simili e con il suo ambiente mondano. La risurrezione corporea dell’io spirituale di ogni uomo è la compiuta maturazione nel corpo di Cristo risorto di tutta la storia personale di ciascuno, il definitivo superamento delle limitazioni antropologiche terrene come integrazione totale di esse e non come abbandono spersonalizzante di quanto, in realtà, costituisce la misteriosità della vicenda umana. Tutti i momenti storici di un uomo che hanno segnato il suo procedere verso la pienezza vengono ora ritrovati trasfigurati, unificati, in Dio, il quale è fedele alla sua creazione e nulla vuole perdere di quanto è uscito dalle sue mani.
B. Sesboué suggerisce, in proposito: « Tutto ciò che fa la nostra identità di uomo o di donna, identità modellata dalla nostra storia terrestre, sarà dunque tutto conservato, pur essendo trasfigurato. L’essere personale che noi ci saremo forgiati, la ricchezza delle nostre esperienze, il patrimonio culturale acquisito nella nostra esistenza, tutto questo, che è frutto della grazia e della nostra libertà, si conserverà con tutte le capacità di apertura, di relazione e di comunione così suscitate. Il cielo sarà il luogo in cui si ritroveranno le relazioni umane stabilite in questo mondo. Dio allora potrà prendere in mano questo essere incompiuto per dargli nuove dimensioni di cui noi non abbiamo idea ». Non sappiamo e non possiamo, infatti, rappresentarci adeguatamente la corporeità risorta. Di certo è che « come abbiamo portato l’immagine dell’uomo di terra, così porteremo l’immagine dell’uomo celeste » (1 Cor 15,49).
 
3. Carattere comunitario della risurrezione dei morti

Tutto ciò dice anche il carattere comunitario della risurrezione dei morti, propriamente anticipato nella glorificazione di Maria in corpo e anima. La risurrezione, infatti, è l’evento in cui la comunione escatologica dei risorti corporalmente in Cristo si manifesta in pienezza e perfezione. Nessun evento storico-salvifico è puramente individualistico; per cui, la risurrezione gloriosa di ciascun uomo sarà l’esito conclusivo di tutto quel processo di incorporazione a Cristo, ecclesialmente formato, che prende l’avvio nel sacramento della rigenerazione battesimale. Lo Spirito di Dio, che permette e qualifica il cammino del cristiano come itinerario di pienezza antropologica in Cristo, conformerà i risorti al corpo stesso di Gesù Cristo (cfr. Rom 8,11) e ciascun redento esprimerà la totale apertura del proprio essere in relazione agli altri. Solo allora la storia di ciascun uomo sarà veramente compiuta, perché escatologicamente legata ai suoi fratelli nel corpo di Cristo e quindi totalmente accogliente l’umanità dei compagni di viaggio.
Inoltre in questa realtà sommamente comunicativa e accogliente trova necessariamente posto il mondo creato, “il quale è intimamente unito con l’uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine” (Lg 48). Il compimento definitivo del progetto salvifico di Dio si realizza, infatti, nella perfetta unità dei viventi con la loro storia e con il loro mondo. Per questo, “la creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio [....] e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rm 8,19-21).
 
 
MORIRE IN CRISTO GESU’

4. La morte del credente in Cristo

Nella luce di Cristo, morto, disceso agli inferi e risorto, la morte umana assume un significato propriamente pasquale. Per cui, tutti coloro che credono in Cristo e muoiono in lui partecipano dello stesso transito pasquale del Figlio di Dio. La morte non è più il risultato ultimo del peccato, fonte di dolore e sofferenza, ma motivo di « guadagno » (Fil 1,21); essa introduce il credente in una condizione escatologica, che esprime la pienezza di un incontro salvifico (cfr. Lc 23,43). Chi, nella fede, muore dentro la morte di Cristo è destinato ad andare con lui oltre la morte, nello Spirito, verso il Padre.
La decisività della fede nel farsi dell’evento cristiano della morte non è, tuttavia, circoscritta al momento terminale della vita umana. Ciò significa che la morte del credente in Cristo non è altro che la consumazione di quanto egli ha già vissuto sacramentalmente nella propria esistenza teologale. Nella fede, infatti, l’uomo innesta tutta la sua vita nel mistero di Cristo morto e risorto e il suo morire in lui, quindi, non è un atto che avviene unicamente nell’istante della morte fisica, ma è un atto che egli compie di continuo lungo tutto il corso dell’esistenza. L’apostolo Paolo ci ricorda che l’intera vita cristiana è vita pasquale, per il battesimo (cfr. Rom 6,3-6; Col 2,12-13); per cui, il transito mistico dalla morte alla vita caratterizza sempre l’esistenza di coloro che sono « in Cristo ». Il transito pasquale ultimo, nella morte personale, è, pertanto, l’accoglienza nella fede di una particolare pienezza di grazia, che fa del credente un « essere con Cristo » (cfr. Rom 6,8; 2 Cor 4,14; Fil 1,23). In altri termini, la partecipazione alla morte di Cristo Signore, che nel regime sacramentale della vita terrena avviene in modo mistico, nella morte personale fisica accade realmente. In questo momento sommo, l’atto teologale del credente è significato nell’abbandono ultimo all’azione misericordiosa di Dio e la morte stessa diventa un atto teologale supremo. Chi, infatti, muore nella fede, in e con Cristo, nasce alla vita vera (dies natalis), perché incontra pienamente la grazia della salvezza pasquale.
 
5. La morte del cristiano come compimento dell’esistenza personale
La morte del credente in Cristo necessita di ulteriori approfondimenti, che meglio ne chiariscono il suo essere condizione escatologica.
 
5.1. La morte come incontro decisivo con Cristo
La grazia della salvezza pasquale che l’uomo credente incontra nella morte è decisiva per il suo destino escatologico. Per chi muore “in Cristo” la relazione con il Signore si fissa definitivamente; da allora vive in un modo qualitativamente nuovo
Tale permanenza nella vita, con Cristo, è garantita unicamente da Dio. Essa non rimanda semplicemente all’idea di una immortalità dell’anima di marca greco-romana, ma ad una verità teologica che richiama, in modo evidente, il dono dello Spirito della vita di Dio, che crea e conserva nell’essere la sua creatura. In questo senso, ciò che vive o sopravvive non è una parte dell’uomo, ma l’intera identità umana nella sua nuova condizione di esistenza, libera da ogni forma di limitazione spazio-temporale, definita nella sua realtà escatologica in Cristo e proiettata dallo Spirito verso la totale rigenerazione gloriosa, che comporterà la compiuta integrazione in Dio dell’uomo, della sua storia e del suo mondo.
 
5.2. Il giudizio particolare
In questa prospettiva si comprendono meglio le affermazioni dogmatiche circa l’immediata retribuzione per l’uomo che muore in e con Cristo « subito dopo la morte » contenute nella costituzione conciliare Lumen gentium con le seguenti parole:
« Siccome poi non conosciamo né il giorno né l’ora, bisogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo assiduamente, affinché, finito l’unico corso della nostra vita terrena (cfr. Eb 9,27), meritiamo con lui di entrare al banchetto nuziale ed essere annoverati fra i beati (cfr Mt. 25,31-46), né ci si comandi, come a servi cattivi e pigri (cfr. Mt 25,26), di andare al fuoco eterno (cfr. Mt 25,41), nelle tenebre esteriori dove ‘ci sarà pianto e stridore di denti’ (Mt 22,23 e 25,30) » (n. 48).
Il contenuto di queste affermazioni ribadisce chiaramente la decisività dell’evento della morte cristiana. Nell’incontro con il Signore nella morte, al termine del suo peregrinare storico, l’uomo consegue il suo definitivo destino escatologico, in relazione alla sua adesione personale all’offerta di salvezza di Dio in Cristo maturata lungo l’unico corso dell’esistenza terrena e svelata in questo momento ultimo e supremo. Anzi, nell’evento della morte il dono di Dio, cristologicamente connotato, è particolarmente intenso e quindi estremamente esigente la responsabilità dell’uomo nella fede. Tale dinamismo salvifico « fa della morte un giudizio, un giudizio che deve essere inteso anzitutto come la consumazione di tutta l’opera positiva con cui Dio liberamente e amorevolmente conduce, nella sua grazia, l’uomo alla salvezza e quindi come ‘momento critico della libertà’ in quanto ‘nell’ora della morte’ l’appello dell’amore divino che incessantemente si è curvato sulle miserie dell’uomo assume una risonanza complessiva e singolare nel quadro di un’esistenza personale che in essa si conclude in modo definitivo ».

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Cfr. R. VIGNOLO, Risorgere dai morti, in « La rivista del clero italiano » 72 (2001) 6, 419-437.
Cfr. G. ANCONA, Escatologia cristiana, Queriniana, Brescia 2003, pp. 352-356.
B. SESBOÜÉ, Dopo la vita. Il credente e le realtà ultime, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1992, p. 126.
Cfr. G. ANCONA, Escatologia cristiana, cit., pp. 321-329.
Cfr. anche CCC 1022.
M. BORDONI – N. CIOLA, Gesù nostra speranza. Saggio di escatologia in prospettiva trinitaria, Dehoniane, Bologna 20002, p. 217.

Publié dans:IL "CREDO" |on 29 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

GIANFRANCO RAVASI – (sul Natale, sul simbolo apostolico e su Gal 4,4)

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_ravasi12.htm

GIANFRANCO RAVASI – (sul Natale, sul simbolo apostolico e su  Gal 4,4)
da »Avvenire », 16/12/’07

Il « Simbolo apostolico » professa la fede del Natale così: «Natus de Spiritu Sancto ex Maria Virgine» e il « Credo Niceno Costantinopolitano » che ogni domenica proclamiamo nella liturgia ripete: «Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo e per opera dello Spirito Santo si è incarnato nel seno della Vergine Maria e si è fatto uomo». I ventun versetti del « Vangelo di Luca » (2,1-21), che descrivono gli eventi che accompagnano la nascita del Cristo erano già stati sintetizzati da Paolo in una sola espressione simile a un piccolo Credo: «Quando venne la pienezza dei tempi, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4).
Prima di iniziare il nostro viaggio spirituale all’interno di questi versetti e dei loro temi principali, fermiamoci davanti all’icona della « Madonna del Natale » per abbozzarne e contemplarne i tratti essenziali attraverso alcuni versi della « XIX Ode di Salomone », appartenente a quei quaranta inni che furono ritrovati nel 1905 in un manoscritto siriaco e che costituiscono un documento importante dell’antica poesia cristiana. Anche nel testo di Luca il racconto della nascita di Gesù si allarga lungo due orizzonti « antitetici »: alla povertà estrema della cornice terrestre si associa un’eco cosmica e celeste. Mentre nella narrazione parallela della nascita del Battista la circoncisione era il dato fondamentale così da occupare ben otto versetti, per Gesù la circoncisione occupa un solo versetto contro i venti della nascita. Il Battista conduce al Cristo l’alleanza della circoncisione, il Cristo con la circoncisione accoglie il popolo della prima alleanza divenendone membro, compimento e salvezza. Il Natale è il centro anche del grandioso inno di apertura del « Vangelo di Giovanni »: «Il Verbo si fece carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14).
Il verbo greco che allude alla tenda dell’arca dell’alleanza, « skenoun », contiene le tre consonanti radicali della parola ebraica « Shekinah » (« s-k-n »), il termine con cui il giudaismo definiva la « Presenza » divina nel tempio di Sion, come abbiamo già avuto occasione di ricordare. Il Natale è cantato anche dalla « Lettera agli Ebrei », una potente e monumentale omelia « neotestamentaria », che applica al Cristo il « Salmo 8″, un inno notturno destinato a celebrare l’uomo e la sua grandezza e ora applicato al Cristo, uomo perfetto che entra nella storia per redimerla, strappandola al male.
Il testo di Luca è poi alla base della creatività popolare che sui sobri versetti evangelici ha ricamato arabeschi spesso fantasiosi. Il riferimento scontato è ai vangeli apocrifi, in particolare al « Protovangelo di Giacomo » del III secolo, ma spunti affascinanti si possono cogliere in centinaia di testi cristiani antichi, come in questa dichiarazione messa in bocca a Gesù da parte di uno scritto « gnostico » egizio, l’ »Interpretazione della gnosi »: «Io divenni piccolo perché attraverso la mia piccolezza potessi portarvi in alto donde siete caduti… Io vi porterò sulle mie spalle» (XI, 10,27-34). Solo per evocare la fertilità poetica e spirituale di queste tradizioni popolari, pensiamo che cosa significhi il soggetto del Natale di Cristo nella storia dell’arte, che cosa rappresenti il presepio, quante siano le tipologie orientali e occidentali della Madre Maria col Bambino Gesù! Pensiamo all’accumulo dei particolari attorno a quella scena così essenziale. Ad esempio, il bue e l’asino sono introdotti solo da un apocrifo, lo « Pseudo-Matteo », redatto nel VI-VII secolo; ma già nel IV secolo l’arte li aveva presentati nel sarcofago romano del « Museo Pio » e in quello di « Stilicone » della Basilica di Sant’Ambrogio a Milano.
Origene nel III secolo rimandava a un passo di Isaia (1,3: «Il bue conosce il padrone e l’asino la greppia del suo padrone»), mentre i Padri della Chiesa trovavano nei due animali un curioso simbolismo che San Gregorio di Nazianzo così definisce: «Tra il giovane toro (bue) che è attaccato alla Legge giudaica e l’asino che è gravato dal peccato dell’idolatria pagana giace il Figlio di Dio che libera da entrambi i pesi». Con Francesco e il suo presepio di Greccio i due animali diventano, invece, espressione dell’adorazione e della gioia cosmica per la nascita del Salvatore di ogni cosa. Un anonimo francescano del ’300, autore delle « Meditazioni sulla vita di Cristo » (« Città Nuova », Roma, 1982), immagina allora «il bue e l’asino piegarsi sulle zampe anteriori, sporgere i musi sulla mangiatoia soffiando con le narici, quasi fossero dotati di ragione e capissero che il bambino, così miseramente riparato in quella freddissima stagione, aveva bisogno di essere riscaldato». Secondo il « Physiologus », poi, nella notte del solstizio d’inverno, gli animali selvatici mandano due volte un forte raglio: sarebbe la reazione del diavolo che nella notte santa s’indigna perché col Bambino Gesù sorge il «nuovo giorno» e viene infranta la «potenza delle tenebre».
Il Natale ha poi alimentato la meditazione dei Padri della Chiesa (pensiamo ai « Sermoni del Natale » di Leone Magno), ha generato musiche colte e popolari (« Stille Nacht »; « Tu scendi dalle stelle »; « Adeste, fideles »…), ha trionfato nella liturgia, e nell’Occidente cristiano è divenuto la festa più sentita.
 
Dopo questa lunga premessa, torniamo al testo lucano per far affiorare lo spirito genuino del Natale del Figlio di Maria, spogliandolo dei rivestimenti fantasiosi e retorici. Cerchiamo anche noi il bimbo di Maria, non tanto per esprimergli tenerezza ma per conoscere il suo mistero. La maternità di Maria ha due coordinate esterne ben dichiarate dall’evangelista.
La prima coordinata è quella « spaziale », legata a Betlemme, «la città di Davide», come dice Luca, nonostante che nell’Antico Testamento questo sia il titolo ufficiale di Gerusalemme (2Sam 5,7.9). Gesù giunge a noi dallo spazio umano, fisico e spirituale della « promessa davidica ». È per questo che in alcune testimonianze dell’arte cristiana non si oppone solo la Gerusalemme terrestre a quella celeste, ma anche la Betlemme terrestre a quella del cielo. Da Betlemme l’umanità viene assunta in Dio. Nello spazio di Betlemme la nostra attenzione si fissa su due punti « topografici ». Il primo è quello del parto di Maria, una mangiatoia per animali probabilmente scavata nella roccia, perché il « katalyma » (in greco «albergo, casa, alloggio, stanza») non aveva spazio per il Signore dello spazio. La tradizione cristiana, sostenuta da San Girolamo che vivrà per decenni a Betlemme, parlerà di una grotta simile a quelle adiacenti alle povere case di allora. Giovanni era nato nella casa sacerdotale del padre, Cristo nasce nell’emarginazione, privo di un guanciale.
Eppure nel racconto di Luca c’è un particolare sottolineato con tenerezza: Maria «avvolse il bambino in fasce e lo depose nella mangiatoia» (v. 7). Del Battista si dice soltanto: «Per Elisabetta si compì il tempo del parto e diede alla luce un figlio» (1,57).
Attorno a quella grotta, a quel punto dello spazio di Betlemme si erge ora la solenne « Basilica Giustinianea », iniziata però da Elena nel IV secolo. Una basilica ancor oggi intatta perché non mai distrutta, diversamente dalle altre chiese di Terra Santa: i musulmani l’avevano risparmiata perché dedicata anche a Maria, che pure essi veneravano, e i persiani non l’avevano distrutta perché sul frontone avevano visto la sfilata dei Magi coi loro costumi persiani.
L’altro punto topografico che vogliamo evocare è il cosiddetto «campo dei pastori», la campagna circostante a Betlemme percorsa da « seminomadi » pastori. Due residenze provvisorie, due località misere, due segni di quotidiana miseria diventano il centro di una speranza cosmica. È famosa l’iscrizione greca di Priene che usa il termine « evangelo » per la nascita di Augusto: «La nascita del dio (Augusto) ha segnato l’inizio della « buona novella » (« evangelo ») per il mondo». Un evangelo, questo, proclamato in palazzi di marmo e nell’impero più potente del mondo; un evangelo, quello della nascita di Gesù, proclamato in una mangiatoia e tra nomadi: «Vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo: oggi, vi è nato un salvatore!» (vv. 10-11). Il primo evangelo ben presto genererà cattive notizie di oppressioni, di tasse, di guerre, di schiavitù: l’evangelo di Cristo è «liberazione per i prigionieri, lieto messaggio per i poveri, vista per i ciechi, libertà per gli oppressi» (Lc 4,18).
C’è una seconda coordinata da considerare, quella « temporale ». Essa è scandita dalle ore dell’imperatore Ottaviano Augusto (31 a.C.-14 d.C.) ed è precisata da Luca con l’indicazione del famoso « primo censimento », ordinato dal legato di Siria Quirinio. Non è il caso ora di entrare nel merito della secolare discussione su questa informazione che apparentemente sembra errata, essendo documentato solo un censimento di Quirinio del 6 d.C., quando Gesù aveva ormai dodici anni. È probabile che si tratti di una « prima » operazione censuale, ordinata durante un incarico straordinario ricoperto da Quirinio prima di essere formalmente nominato legato di Siria. Vogliamo solo ricordare che con questi dati appare nitidamente il valore dell’incarnazione, cioè dell’ingresso di Dio negli eventi e nel tempo umano. Efrem il Siro unirà i due estremi del parto da Maria e della morte in croce per esaltare l’incarnazione nella sua realtà: «La sua morte in croce attesta la sua nascita dalla donna. Infatti se un uomo muore, dev’essere pure nato… Perciò la concezione umana di Gesù è dimostrata dalla sua morte in croce. Se uno nega la sua nascita, venga smentito dalla croce» (« Sermone su Nostro Signore », 2). Il censimento romano, segno di schiavitù, ci ricorda che Cristo nasce da un popolo oppresso e in mezzo a quei poveri che i potenti considerano pedine insignificanti sullo scacchiere dei loro giuochi politici.
Eppure il figlio di Maria sarà il centro del tempo e della stessa famiglia umana. Sarà proprio questo bambino povero a segnare nella storia i secoli in un « prima » e in un « dopo » di lui. La liturgia bizantina canta per il Natale del Signore questa bella antifona…

« L’autore della vita è nato dalla nostra carne dalla madre dei viventi. Un bambino da lei è nato ed è il Figlio del Padre. Con le sue fasce scioglie i legami dei nostri peccati e asciuga per sempre le lacrime delle nostre madri. Danza e sussulta, creazione del Signore, poiché il tuo Salvatore è nato…
Contemplo un mistero strano e inatteso: la grotta è il cielo, la Vergine è il trono dei cherubini, la mangiatoia è il luogo dove riposa l’incomprensibile, il Cristo Dio.
Cantiamolo ed esaltiamolo! ».

Attorno al figlio di Maria si raccoglie una serie di spettatori diversi ma tutti convergenti verso quella scena e quella figura.
I primi sono « i pastori » ai quali è riservata una vera e propria annunciazione come a Maria, Giuseppe e Zaccaria: apparizione dell’angelo, l’invito a «non temere», l’annunzio di una nascita straordinaria, il segno della mangiatoia (vv. 9-12). Eppure i pastori erano considerati impuri dal giudaismo ufficiale di allora e quindi erano esclusi dalla vita religiosa pubblica. Essi cercano e trovano, come è indicato dai molti verbi di movimento che percorrono tutto il racconto: «Andiamo… vediamo… conosciamo… andarono senza indugio… trovarono… videro… riferirono… tornarono…». Una costellazione di verbi di ricerca, di rivelazione, di adorazione che rende i pastori primi missionari del Cristo, suoi « evangelizzatori ».
C’è poi un’altra classe di persone, «tutti quelli che udirono», cioè « la folla ». Essi «si stupiscono», restano solo colpiti, la reazione non ha seguito: «Essi ascoltano la parola, la ricevono con gioia, ma non hanno radici» (Lc 8,13).
Ci sono poi « gli angeli » col loro annunzio a cui fa seguito un inno. L’annunzio, presente nel v. 11, sviluppa cinque dati teologici significativi. Il testo suona così: «Oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore». Innanzitutto l’«oggi», il presente costante della salvezza, vissuto nella liturgia, espressione della pienezza dei tempi. C’è poi la nascita, che è indizio di un inizio e quindi di una storia concreta; il terzo elemento è lo spazio, la «città di Davide». L’«oggi» eterno di Dio penetra nelle dimensioni « spazio-temporali » dell’uomo per fecondarle e trasfigurarle. Il quarto articolo di fede del Credo angelico è l’affermazione che Cristo è Salvatore (vedi Lc 1,69; Gv 4,42). Il quinto elemento è posto al vertice: Cristo è il « Kyrios », il Signore, il titolo che definiva il Dio dell’Antico Testamento. Come si vede, si proclama già la fede pasquale perché Gesù apparirà veramente come Signore nella sua risurrezione. È interessante notare che l’arte orientale ha reso questo aspetto pasquale del Natale in modo curioso: l’icona russa della « Natività », appartenente alla « Scuola di Novgorod » (XV secolo) rappresenta Gesù bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia che ha la forma di un sepolcro.
Accanto all’annunzio gli angeli pongono un inno, un altro dei cantici del vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Luca. È un « carme » che risuonerà nelle nostre liturgie festive: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama» (v. 14). La gloria è l’adorazione di Dio; Dio si manifesta agli uomini attraverso il suo amore, la sua « eudokía », la sua «buona volontà», il desiderio ardente del bene della sua creatura. Da questo atto di bontà nasce la «pace», il « shalôm » biblico che abbraccia prosperità, gioia, serenità, tranquillità, pienezza di vita. Il bambino di Maria, «principe della pace» (Is 9,5), «è la nostra pace, colui che dei due ha fatto un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, per creare dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare tutti e due con Dio in un solo corpo, per mezzo della croce. Egli è venuto, perciò, ad annunziare pace a voi che eravate lontani e pace a coloro che erano vicini» (Ef 2,14-17).
L’ultimo personaggio che è presente alla scena del Natale è la figura più importante, è lei, la « Theotókos », la Madre di Dio, come proclamerà il « Concilio di Efeso ». Maria «serbava tutte queste cose e le meditava nel suo cuore» (v. 19): essa «ha ascoltato la Parola e la conserva in un cuore onesto e buono» (Lc 8,15). Maria conserva e, come dice l’originale greco, «mette insieme», cioè dà un senso a tutto ciò che sta accadendo, scoprendo il piano divino sotteso agli eventi. È la sapiente per eccellenza, che penetra nei segreti della salvezza che Dio ci sta offrendo e che si attuano anche per suo tramite.
 
Concludiamo la nostra descrizione, associandoci al cantore siro Romano il Melode, nato in Siria attorno al 490, convertitosi al cristianesimo e vissuto come diacono tutta la vita presso il santuario mariano del quartiere «di Ciro» a Costantinopoli, ove fu sepolto dopo il 555 e prima del 562. Romano, secondo la tradizione, avrebbe composto un migliaio di inni; i codici ce ne hanno trasmesso solo 85 e non tutti autentici. Eppure anche questi bastano a rivelarci la statura poetica di questo artefice dell’innografia bizantina, venerato come santo dalle Chiese d’Oriente che lo ricordano il 1° ottobre. I suoi inni, appartenenti al genere detto « kontakion », sono in realtà omelie in poesia. Al Natale sono dedicati tre inni. Nel primo, Romano mette sulle labbra di Maria questo dolcissimo « monologo-dialogo » col Figlio…

« Dimmi, o Figlio, come sei stato seminato in me e come sei nato!
Ti vedo, o mie viscere, e stupisco.
Il mio seno è gonfio di latte e non sono sposa. Ti vedo avvolto nelle fasce e scorgo ancora intatto il sigillo della mia verginità.
Sei tu, infatti, che l’hai serbato tale quando ti sei degnato di nascere, o nuovo Bambino, Dio anteriore ai secoli!
O Re eccelso, che cosa c’è di comune tra te e le nostre miserie?
O creatore del cielo, perché vieni tra noi, uomini della terra?
Ti sei lasciato incantare da una grotta e un presepio ti è caro? (I, 2-3).
Lo Spirito stese le sue ali sul grembo della Vergine ed ella concepì e partorì e divenne madre-vergine con molta sollecitudine.
Rimase incinta e partorì senza dolore un figlio… Lo generò in esempio, lo possedette in grande potenza, lo amò in salvezza, lo custodì nella soavità, lo mostrò nella grandezza.
Alleluia! ».

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