Archive pour janvier, 2015

Marco 1, 21-28 – La guarigione di un indemoniato

Marco 1, 21-28 - La guarigione di un indemoniato dans immagini sacre Lucas-11-14-23

http://www.lalucedimaria.it/la-parola-del-giorno-del-giorno-dal-vangelo-secondo-marco-121-28/

Publié dans:immagini sacre |on 30 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

QUELLI CHE NON SI SPOSANO (il passo è successivo al testo di domenica…

http://www.oratoriopaullo.it/2014/03/12/quelli-che-non-si-sposano/

QUELLI CHE NON SI SPOSANO (il passo è successivo al testo di domenica…

…ma non mi piaceva nessun altro commento che ho trovato)

Categories: Bibbia

Dalla prima lettera ai Corinti (1Cor 7,32-40)

Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso! Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito. Questo poi lo dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio, ma per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni. Se però qualcuno ritiene di non regolarsi convenientemente nei riguardi della sua vergine, qualora essa sia oltre il fiore dell’età, e conviene che accada così, faccia ciò che vuole: non pecca. Si sposino pure! Chi invece è fermamente deciso in cuor suo, non avendo nessuna necessità, ma è arbitro della propria volontà, ed ha deliberato in cuor suo di conservare la sua vergine, fa bene. In conclusione, colui che sposa la sua vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio. La moglie è vincolata per tutto il tempo in cui vive il marito; ma se il marito muore è libera di sposare chi vuole, purché ciò avvenga nel Signore. Ma se rimane così, a mio parere è meglio; credo infatti di avere anch’io lo Spirito di Dio.
Commento
Ultimo brano dove Paolo mette a confronto due stati di vita: quello matrimoniale con quello dell’uomo libero. L’esordio è improntato a serenità: “Vorrei vedervi senza preoccupazioni”. C’era bisogno di parole così distensive. Probabilmente a Corinto qualcuno si arrovellava oltre misura, incerto sulla strada da imboccare per il suo futuro; se cioè metter su famiglia o consacrasi totalmente a Dio. Davanti a interrogativi così impellenti, Paolo invita tutti quanti alla calma. Come visto in precedenza, alla fine, nell’esistenza cristiana, ciò che conta veramente è essere di Cristo Gesù. Tutto il resto, invece, è solo un dettaglio, una sottigliezza, un’inezia. Essere sposati o essere celibi non è la questione prioritaria nella vita di nessuno. Ciò che conta è aver conosciuto Dio, e amare. Tutto il resto, invece, è secondario.
Se dunque dalla penna di Paolo – come vedremo tra poco – stillerà qualche goccia d’inchiostro in decisa simpatia nei confronti del celibato, questo non significa che il matrimonio sia una cosa da rigettare, o da buttare via. Matrimonio e celibato non si pongono in alternativa da un punto di vista morale, dove una scelta è giusta e l’altra sbagliata. Semmai vanno confrontati come opportunità, ugualmente apprezzabili. Si tratta insomma di due modi stupendi di realizzare la vocazione cristiana all’amore. Anche se è bene non essere ingenui, e capire che si tratta di strade molto diverse una
dall’altra.
Per comprendere questo brano, dobbiamo anzitutto identificare le persone cui Paolo si sta rivolgendo. Probabilmente non si tratta di corinzi in genere, ma di una particolare categoria di cristiani: vale a dire i fidanzati di cui abbiamo già parlato, che si erano rivolti a lui, per avere una delucidazione circa il comportamento da tenere. Come sappiamo alcuni giovani corinzi avevano scritto all’apostolo, trepidanti e ansiosi, incerti sul da farsi: le loro promesse spose erano seriamente tentate di abbracciare una vita di castità. La notizia deve essere esplosa all’interno di qualche litigio tra fidanzati in maniera non proprio tranquilla. In più, aggiungiamo: ci doveva essere stata qualche contaminazione di senso inverso. Perché l’attrattiva dell’ideale verginale non doveva aver avvinto solo le giovani di Corinto, ma anche diversi maschi. Dunque, nella capitale dell’Acaia, tutti quanti sono in ricerca vocazionale, e si domandano per quale strada debbano mai servire il Signore. Metto su famiglia, o mi dedico interamente al servizio del vangelo?
Da questi interrogativi posti all’apostolo ricaviamo un ritratto decisamente positivo dei giovani di Corinto. Si tratta di ragazzi raffinati, potremmo dire aristocratici, che non volevano sprecare la propria vita bruciandola sull’altare di qualche ideale spento. Tutti a far progetti per costruire al meglio il futuro: lavoro, gli studi, la famiglia, il volontariato. Intorno ai vent’anni si è sempre un po’ idealisti. Ma tra tutti questi progetti, uno risultava indubbiamente prioritario, quasi a far da cornice di tutto: piacere al Signore. I giovani di Corinto si portavano in cuore questo pungolo, questo desiderio: che la loro vita non fosse vuota, che non fosse consumata all’idolo della carriera e del potere sociale, ma fosse in qualche misura consacrata all’eterno. In questo panorama si inquadra quella domanda che fuoriesce sottilmente da questi versetti. Che cosa devo dunque fare nel mio futuro? La risposta è chiara: devo piacere al Signore. Ma qualcuno insiste: qual è la migliore via per piacere a Dio? Meglio che mi sposi, o cerchi di servire Dio in una vita totalmente consacrata a Lui?
È significativo notare come Paolo, davanti a questi interrogativi che qualcuno viveva con una certa dose di ansia, provvede anzitutto a rovesciare un bel secchio d’acqua sul fuoco. Già lo aveva fatto qualche versetto prima, spiegando a chiare lettere che, se una persona non fosse riuscita a mantenere il proposito dell’astinenza, allora si poteva benissimo sposare: il matrimonio non è peccato. Con buona pace di certi spirituali estremisti l’apostolo non coltiva una visione negativa dell’amore coniugale, visione che invece era presente in alcune sacche della cultura greca, e che sarà ricorrente in certe teste un po’ troppo calde, normalmente condannate dalla Chiesa. Che piaccia o no, dalle lettere di san Paolo non emerge una visione del matrimonio come “rimedio della nostra concupiscenza”. È invece un sacramento, un luogo dove, attraverso l’amore degli sposi, Dio si rende presente. Non dice forse Paolo, in un brano della lettera agli Efesini, spesso scelto nella liturgia di chi si sposa, che i mariti devono amare le loro mogli come Cristo amò la Chiesa?
Una volta messo al sicuro questo dato, Paolo si addentra nella questione, ponendo a confronto lo stato matrimoniale con quello celibatario. Ribadiamo: non si tratta di valutazioni morali, come per discernere ciò che è giusto, rifiutando invece ciò che è male. Le sue argomentazioni sono realiste, di natura prudenziale.
Chiaro che il matrimonio non è una scelta sbagliata, afferma l’apostolo. Lo sposato, però, deve mettere in conto una serie di preoccupazioni che appesantiranno la sua vita. Non potrà vivere quella forma di libertà che normalmente c’è nella vita di chi si consacra a Dio. L’apostolo lascia parlare i fatti.
Lo sposato giocoforza dovrà preoccuparsi di accumulare beni, per consegnare ai propri figli un futuro sicuro: difficile per lui abbracciare una povertà volontaria. Dovrà poi curare il rapporto di coppia, sforzandosi di piacere al proprio coniuge. Il tipo di vita che conduce, effettivamente qualche volta lo porterà ad essere distratto, dissipato. I miei amici sposati mi parlano con un po’ di nostalgia del tempo in cui vivevano ancora da celibi in oratorio, e c’era tempo per tutto: per i ritiri di preghiera, per le esperienze culturali, per la lectio divina, per la coltivazione della propria persona, per l’università, per le gite all’estero, per i servizi di volontariato. L’impressione di avere un progetto nitido in testa, e tanta energia in corpo. Poi ci si sposa, e vengono i doveri di famiglia. E allora, come all’improvviso, sembra non esserci più tempo per niente. Terminate le fatiche del lavoro, ci attendono altre incombenze, spesso più faticose delle prime: l’attenzione per i figli, le bollette da pagare, il tono di voce da alzare con l’adolescente che ha sbattuto la porta della sua camera, la casa da riassettare, un rapporto di coppia da tenere sempre vivo. Una signora mi confessava: non ho mai detto parolacce, ma da quando ho i figli… C’è una barzelletta simpatica che di solito non si racconta ai fidanzati. Suona così: sapete quando Gesù ha istituito il sacramento del matrimonio? Risposta: sulla croce, quando disse “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”. La vita di una famiglia presenta dunque elementi di durezza che da giovani un po’ s’immaginano, ma che forse non si colgono proprio del tutto.
Il celibe, invece, allarga spazi di vuoto nella sua esistenza, che sono riempiti da Dio. Ha un’unica preoccupazione: quella di piacere al Signore. I tempi della preghiera, della riflessione, della crescita personale sono particolarmente presenti nella scaletta della sua giornata. È interessante notare come Paolo non qualifichi la scelta celibataria partendo da un’assenza (non avere una famiglia propria), ma da una risorsa. Se giocata bene, se non è sentita come una condanna, la scelta celibataria è l’occasione per coltivare maggiormente se stessi, per avere un dialogo più stretto con Dio, un luogo per essere più disponibili ai bisogni dei poveri. In questo senso è un’opportunità.
Questa dunque la situazione. Dalle parole di Paolo si evince come fosse simpatizzante per la scelta celibataria, che d’altra parte era lo stato di vita che aveva abbracciato lui stesso. Lo considera uno spazio dove una persona può consacrasi più facilmente al Signore. Ma le motivazioni che adduce alla sua tesi non sono di ordine morale, come se il matrimonio fosse una cosa impura, o una via di minor santità. Semmai di ordine prudenziale: la scelta di una via che favorisce maggior vantaggio.
Sarebbe interessante leggere questo brano di san Paolo ponendolo in sinossi con un testo di un filosofo stoico praticamente coevo: Epitteto. Il filosofo, pur non essendo cristiano, dice praticamente le stesse cose: raccomanda di vivere senza distrazioni, consacrandosi completamente al servizio di Dio. Suggerisce di non contrarre relazioni che alla fine si trasformano in impedimenti: il filosofo deve invece restare libero. Non si fa una sua famiglia, perché tutti gli uomini e le donne di questo mondo sono la sua famiglia. Il filosofo sceglie la forma celibataria per non avere alcuno possesso ed essere libero per tutti.
Chiaramente c’è una certa diversità tra il pensiero del filosofo greco e il brano della 1Cor che abbiamo letto. Un conto è la vocazione di un sapiente che si mette a servizio di Zeus, un altro conto quella di un credente che si dedica a Gesù e al suo regno. Ma il parallelismo ci aiuta a capire che il celibato non è un valore solo cristiano, che è presente nella cultura e nel pensiero di tanti uomini passati per questo mondo, e che non deve essere letto in maniera puramente negativa, come se si trattasse di una forma di vita abbracciata da persone represse o infelici.
L’ultima battuta di questo brano riguarda il caso della vedovanza. Non ci addentriamo in essa, perché ormai la traiettoria del pensiero di Paolo è ormai delineata.

OMELIA 1 FEBBRAIO 2015 | 4A DOMENICA – T. ORDINARIO B

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/8-Ordinario/4a-Domen%20ica/12-4a-Domenica-B-2015-SC.htm

1 FEBBRAIO2015 | 4A DOMENICA – T. ORDINARIO B | APPUNTI PER LA LECTIO

* Dt 18,15-20 – Susciterò un profeta e gli porrò in bocca le mie parole.
* Dal Salmo 94 – Fa’ che ascoltiamo, Signore, la tua voce.
* 1 Cor 7,32-35 – La vergine si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa.
* Canto al Vangelo – Alleluia, alleluia. Un grande profeta è sorto tra noi; Dio ha visitato
il suo popolo. Alleluia.
*Mc 1,21-28 – Insegnava loro come uno che ha autorità.

« Una dottrina nuova, insegnata con autorità »
Il brano di Vangelo di questa Domenica è centrato sull’idea della « novità » e della « autorevolezza » dell’insegnamento di Gesù. Qualcosa che dovette fare enorme impressione sui primi ascoltatori, se l’evangelista nota espressamente che essi « erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi » (v. 22). Tanto che il fatto pone ai frequentatori della sinagoga di Cafarnao, in quel giorno di sabato, l’interrogativo sull’identità del misterioso personaggio che si comportava in quel modo: « Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono! » (v. 27).
Nel frattempo Gesù aveva compiuto il miracolo della liberazione di un indemoniato: però questa, come si dirà, è considerata solo come « consequenziale » al fatto che egli parlava « con autorità ».
Al centro di tutto, perciò, sta questo « parlare » ed « insegnare » di Cristo con « potenza » (eksusía, in greco).

« Il Signore tuo Dio susciterà per te un profeta pari a me »
In questo senso il nostro brano si ricollega molto bene con la prima lettura, ripresa dal Deuteronomio (18,15-20), in cui Dio promette a Israele di suscitare tra di loro, in continuità con il servizio fatto da Mosè, un « profeta » che sia come portavoce dei suoi voleri, e come « coscienza critica » permanente della fedeltà del popolo alle leggi dell’Alleanza: « Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me… Gli porrò in bocca le mie parole ed egli dirà loro quanto io gli comanderò. Se qualcuno non ascolterà le parole che egli dirà in mio nome, io gliene domanderò conto » (Dt 18,15.18-19).

Proprio agli inizi del Nuovo Testamento l’attesa di un tale « profeta » doveva essere molto sentita, dato il clima di incertezza e di disorientamento spirituale tipico di quel tempo: è per questo che Giovanni viene interrogato se per caso non sia lui « il profeta » (Gv 1,21). Nel suo invito a « convertirsi », infatti, e nel suo rigoroso atteggiamento di « penitenza », la gente avvertiva come il riemergere di un antico fuoco che in Israele non si era mai del tutto spento.
Quello che è certo, comunque, è che Gesù di Nazaret venne ben presto riconosciuto come un’espressione tipica di questo « profetismo », promesso da Dio al suo popolo. È quanto appare sia dai Sinottici, sia soprattutto da Giovanni. Dopo la moltiplicazione dei pani, infatti, la gente commenta: « Questi è davvero il profeta che deve venire nel mondo » (Gv 6,14). Dopo alcune sue dichiarazioni sullo Spirito in occasione della festa delle Capanne, l’evangelista ci riferisce ancora: « All’udire queste parole, alcuni fra la gente dicevano: « Questi è davvero il profeta ». Altri dicevano: « Questi è il Cristo! »" (Gv 7,40-41).

« Ed erano stupiti del suo insegnamento »
Nel brano di Marco, che stiamo commentando, siamo agli inizi di questa sorprendente scoperta, che i primi ascoltatori di Gesù fanno sentendolo parlare e vedendolo agire nella sinagoga di Cafarnao: « gesti » e « parole » sono elementi costitutivi della missione profetica.
Nella sezione che abbraccia i vv. 21-45 di questo primo capitolo abbiamo quello che diversi studiosi chiamano « giornata-tipo » di Gesù a Cafarnao: cioè Marco, in un quadro molto movimentato, ci descriverebbe una giornata di attività apostolica « piena » da parte di Gesù (insegnamento, miracoli, preghiera, allontanamento dalla folla, reimmergimento nella folla, ecc.). Nei versetti che ora ci interessano si pone l’accento sul suo « insegnamento », fatto con « autorità » (vv. 21-22).
Marco non ci descrive il « contenuto » di questo insegnamento: gli interessa di più mettere in evidenza l’impressione, lo « stupore » che esso suscita negli ascoltatori, per riprodurre analogo sentimento in tutti i futuri lettori del suo Vangelo.
Matteo, invece, ci descrive lo « stupore » delle folle al termine del discorso della montagna (7,28-29), dandone così una motivazione: è il « contenuto » di quel meraviglioso discorso che stupisce! Per Marco lo stupore nasce piuttosto davanti al « fatto » dell’insegnamento di Cristo, nel quale è Dio stesso che ammaestra gli uomini, e davanti al « modo » con cui insegna: « Insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi » (v. 22).
Il termine di paragone sono dunque gli « scribi », cioè i teologi di professione del tempo, che in genere appartenevano alla corrente religiosa dei farisei. Costoro si formavano nelle scuole rabbiniche, dove si trasmetteva un insegnamento molto tradizionale e formalizzato, che il più delle volte finiva con l’impoverire l’esplosivo messaggio biblico. Quello che sorprende in Gesù è il fatto che egli parli con « autorità », pur non avendo frequentato nessuna scuola rabbinica del tempo. L’autorevolezza, perciò, che gli altri percepiscono in lui gli deriva dal di dentro, dal fuoco che gli brucia nel cuore, dalle esigenze « nuove » che egli propone ai suoi ascoltatori. L’autorevolezza è congiunta pertanto con la « novità » dell’insegnamento: « Una dottrina « nuova » insegnata con autorità », commentano al termine i suoi ascoltatori (v. 27).

« Io so chi tu sei: il Santo di Dio »
L’insegnamento di Gesù, però, è fatto con autorità anche e soprattutto perché la sua parola « crea » immediatamente situazioni ed eventi nuovi, smaschera le intenzioni dei cuori, ed allontana e demolisce la forza di Satana. È quanto ci viene descritto nell’episodio della liberazione dell’uomo « posseduto da uno spirito immondo », il quale si mise a gridare: «  »Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! Io so chi tu sei: il Santo di Dio ». E Gesù lo sgridò: « Taci! Esci da quell’uomo ». E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui » (vv. 24-26).
È il primo scontro aperto e violento di Gesù con le forze del male, provocato come reazione immediata dalla « forza » della sua parola che sconvolge e inquieta le coscienze. Ecco la dimostrazione evidente, documentata dai fatti, dell’ »autorità » con cui Gesù insegna: un’autorità che è sinonimo di « potenza », di capacità di sconvolgimento e che deriva dal mistero della sua persona. L’autorevolezza, perciò, pur manifestandosi nella sua parola, risiede soprattutto nella sua persona!
È quanto Satana avverte subito confessandolo e proclamandolo « il Santo di Dio ». È un titolo cristologico, questo, che occorre solo qui, nel passo parallelo di Luca (4,34) e nella confessione di Pietro, al termine del discorso eucaristico: « E noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio » (Gv 6,69). Con esso si vuol caratterizzare Gesù in quanto nella sua persona gli uomini avvertono una particolare presenza di Dio che lo isola dalla nostra esistenza di peccato e, nello stesso tempo, lo mette a nostra disposizione per vincere in noi e negli altri ogni sorta di male.
« L’irruzione del Dio santo nella vita di un uomo gli rivela la sua impurità, facendogli percepire l’infinita distanza che li separa. L’insegnamento di Gesù colpisce l’uomo in fronte, e gli fa urlare la propria scoperta, togliendogli ogni contegno e sconvolgendo la sua giustizia personale… L’inaccessibilità del Dio totalmente altro, la sua trascendenza, provocano lo spavento religioso e il sentimento di non esistere più ».

« Taci! Esci da quell’uomo »
Gesù però non accetta la confessione di Satana, perché non è sincera. E non è sincera nella misura in cui, pur proclamandolo « il Santo di Dio », pone una barriera fra sé e Cristo: « Che c’entri con noi, Gesù Nazareno? Sei venuto a rovinarci! ». Cristo è sentito come il « nemico », che viene a distruggere il suo regno, non come il Signore a cui sottomettersi con gioia per la ricchezza di amore che porta. Proprio per questo gli comanda con forza (« lo sgridò ») di andarsene: «  »Taci! Esci da quell’uomo ». E lo spirito immondo, straziandolo e gridando forte, uscì da lui » (vv. 25-26).
È ancora una parola detta con « autorità », che compie il prodigio della liberazione dell’indemoniato, il quale ritorna così ad essere totalmente se stesso: Satana lo aveva come sdoppiato nella sua personalità. Questo « grido » convulso sta a rappresentare la sofferenza e la gioia che ogni autentica « liberazione », prodotta dalla parola di Dio, opera nella nostra vita.
Al termine del racconto la gente che ha assistito, stupita e quasi terrorizzata, all’episodio, congiungendo gesti e parole di Cristo, va alla ricerca di una spiegazione di quanto è accaduto: « Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono! » (v. 27).
È una domanda inquietante, aperta sul « mistero » di Cristo: tutto il seguito del Vangelo di Marco vuol essere un tentativo di risposta a questo interrogativo, che viene sempre di nuovo proposto ad ogni credente. Per il momento, all’evangelista preme annotare che l’interesse attorno a Cristo si va moltiplicando: infatti, « la sua fama si diffuse subito dovunque nei dintorni della Galilea » (v. 28).

« Vorrei che voi foste senza preoccupazioni »
Un saggio di « dottrina nuova », che suscitò sorpresa agli inizi del cristianesimo e continua ancor oggi a suscitarla, è quanto ci dice san Paolo sulla « verginità », proponendola come ideale di vita addirittura ai cristiani di Corinto, che vivevano in un ambiente tutt’altro che favorevole alla castità e ai buoni costumi.
« Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso!… » (1 Cor 7,32-35).
La motivazione della proposta di « verginità », che l’apostolo fa ai suoi cristiani, è di carattere esclusivamente religioso: la possibilità di aderire al Signore con la totalità del proprio essere e della propria capacità di amare, senza « divisione » del cuore (v. 34) e senza « distrazioni » nello spirito, sia pure del tutto legittime e perfino obbligatorie se scegliamo il matrimonio.
La « verginità » è libera scelta di un amore più grande, da dispensarsi a tutti i fratelli e non solamente alla moglie, o al marito, e ai propri figli: essa dilata il cuore, non lo rimpicciolisce! « Chi può capire, capisca » (Mt 19,12), ci ha insegnato il Signore. È una proposta di vita, rivolta a chiunque vuole amare « di più »!

Da CIPRIANI S., Convocati dalla Parola.

Publié dans:OMELIE, PREDICHE E ☻☻☻ |on 30 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

The Humility of Jesus Christ

The Humility of Jesus Christ dans immagini sacre Jesus_Washing_Peter_s_Feet

 

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Publié dans:immagini sacre |on 29 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

LA LIBERTÀ DALLA LEGGE E NELLO SPIRITO/2 – COMMENTO A ROM 8, 14-17

http://www.atriodeigentili.it/lectio/1999_00/200002.htm

LECTIO DIVINA – CHIAMATI A LIBERTÀ: IL GIUBILEO TEMPO DI GRAZIA

STELLA MORRA – 14 FEBBRAIO 2000

MONASTERO CISTERCENSE – FOSSANO

LA LIBERTÀ DALLA LEGGE E NELLO SPIRITO/2 – COMMENTO A ROM 8, 14-17

Il testo di questa sera è tratto dal capitolo 8 della lettera ai Romani e scherzosamente mi verrebbe da dire che è inutile che io faccia la lectio questa sera in quanto Padre Cesare, commentando il capitolo 6, lo scorso mese, ha debordato su molti temi che sono centrali anche in questo testo, ma sono temi di una tale rilevanza che ripetere non guasta.
Cercherò di dire alcune cose, sentendomi anche più libera, in quanto la volta scorsa appunto padre Cesare ha trattato con completezza una grossa riflessione sulla questione della libertà dal peccato, del passaggio dalla condizione di schiavi alla condizione di figli.
Dunque il capitolo 8: vi propongo di leggerlo tutto in quanto il testo è molto strutturato, poi ci fermiamo in particolare su alcuni versetti e non su tutti perché sarebbe impossibile. (lettura)
Mi rendo perfettamente conto che questo testo, letto così tutto di fila, fa spavento; presenta inoltre alcuni problemi: è un testo abbastanza usato nella liturgia, per cui l’abbiamo un po’ nell’orecchio, soprattutto alcune citazioni più famose, quindi sono parole “automatiche”, parole che siamo abituati a sentire nella Scrittura, che rischiano di rimanere scolpite, ma senza vita; secondo perché qui, in modo particolare, Paolo usa molto fortemente delle parole del suo tempo e, in particolare, in questo testo, parole che noi usiamo ancora, ma in modo completamente diverso, rispetto all’uso che ne fa san Paolo, il che è peggio che usasse parole ormai a noi sconosciute. Ad esempio, per la parola “dracma”, che non si usa più abitualmente nel nostro linguaggio, ci è stato spiegato il significato. Al contrario, quando ad esempio Paolo dice “carne” noi abbiamo la sensazione di sapere che cosa sta dicendo perché questa è una parola che si usa anche oggi, però il modo in cui Paolo la usa è talmente diverso che rischiamo di capire tutto il contrario. Dunque questa è la difficoltà: Paolo usa delle parole molto proprie della sua cultura, ma sono parole di uso comune che a noi sembra di riconoscere. Poiché questo testo è molto costruito (noi diremmo: non è scritto di getto) se ci perdiamo sulle parole, o le comprendiamo al contrario, tutto il testo perde il suo senso.
Visto che ci sono tutti questi limiti, perché è stato scelto questo testo? Mi sembra che questo testo, una volta “tradotto” è di una tale modernità nel suo contenuto, di una tale lucidità rispetto ad alcuni temi problematici su cui ci stiamo provando a riflettere che, forse, vale la pena di fare questa fatica di tradurre per poter entrare nel senso.
Noi stiamo tentando di fare una specie di itinerario intorno al tema del Giubileo, trattato come una chiamata a libertà e abbiamo visto la fondazione ebraica dell’evento del Giubileo, la sua fondazione storica, poi l’annuncio di Cristo (cap. 4 di Luca) quando Gesù si alza in piedi nella sinagoga e legge il testo di istituzione del Giubileo in Isaia e dice: “oggi questa parola si è adempiuta”. La volta scorsa e questa sera il passo che stiamo facendo, con questi due testi di Paolo, è: qual è, in fondo, la differenza tra il messaggio di conversione predicato dal Giubileo ebraico e il messaggio di chiamata a libertà e di ritorno al Padre predicato dal Giubileo cristiano?
Mi pare che valga la pena di fermarsi un po’ in quanto su queste domande su cui c’è spesso confusione. Un po’ perché non sapendo come spiegare il Giubileo ci si richiama all’uso ebraico, equiparando il Giubileo solamente a un percorso di ricostituzione della giustizia. Anche nel Giubileo cristiano l’esito deve essere visibile: non è un teorico ricostituire la giustizia; il giubileo chiede che sia instaurato un anno di giustizia, un anno, un tempo, nel senso di un nuovo inizio di giustizia, una nuova possibilità. Nel Giubileo cristiano tuttavia questa non è l’identità del Giubileo, ma ne è la logica conseguenza. Qui il passaggio è importante ed è un passaggio che Paolo nella tradizione religiosa definisce come il passaggio dalla legge allo spirito.
Padre Cesare vi ha già parlato a lungo di che cosa vuol dire che “non siete più sotto la legge, ma siete nella libertà dello spirito” Questo è il punto in cui si colloca questo brano. Ne parliamo a partire da lì. Faccio una esemplificazione a margine: questa questione può sembrare teorico-culturale, ma ha una rispondenza molto forte e concreta nelle nostre vite. In sostanza, con tante sfumature, ma, se il cristianesimo è una religione della legge, allora si tratta di fare alcune cose per provare ad essere cristiani; se il cristianesimo non è, come non è, una religione della legge, allora essere cristiani vuol dire altre cose. E’ una questione molto concreta: riguarda che cosa si mette al centro di una esperienza di fede. E’ vero che viviamo in una cultura che nei fatti ha interpretato che la questione centrale di un cristiano come non peccare, cioè non infrangere una serie di leggi.
Rimane la legge, rimane la preoccupazione di non peccare, ma non sono il centro: se la questione è “lo spirito” e non la legge, il non peccare è una conseguenza. La riduzione del cristianesimo alla classificazione dei comportamenti su di sé e, peggio ancora, sugli altri, è una valutazione non lecita. Il cristianesimo non è l’analisi e la valutazione dei comportamenti.
In questo ragionamento il cap.8 comincia con un versetto che è di una limpidezza, di una durezza molto forte. Siamo abituati ad avere, nella Bibbia di Gerusalemme, ma anche in altre edizioni, una divisione oltre che in versetti, anche in paragrafi con dei piccoli titoli: questo è dovuto all’uso moderno di avere titoli nei libri, titoli di capitoli, di paragrafi, ecc., Questo non era un uso antico. Gli antichi avevano un altro modo di “segnalare” l’argomento: scriverlo nelle prime righe. Il primo versetto di una sezione, in genere, dice che cosa ci sta dentro. Quando leggiamo la Scrittura dovremmo sempre tenere conto di questo e non leggere istintivamente, da moderni, il titolo, che in genere è extrascritturale, cioè aggiunto dall’edizione, e poi tendiamo a sottovalutare l’inizio, perché nel nostro modo di scrivere, all’inizio, in genere, c’è la premessa, mentre verso la metà c’è il centro del ragionamento. Perciò leggendo la Scrittura spesso ci perdiamo il segnale che ci viene dato dall’autore nella prima riga.
Dunque, nel versetto 1, Paolo inizia questa unità di ragionamento con parole molto secche: “Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù”. Non dice: non c’è più nessuna legge, dice: non c’è più nessuna condanna, il che è diverso, ovviamente. Ma lo dice in un modo fuori da ogni possibilità di equivoco. Su questo versetto c’è poco da interpretare, almeno sull’intenzione di Paolo.
Questo sarebbe il titolo, ma anche il punto di partenza. Da qui in poi tutti i ragionamenti di Paolo sono a partire da questo versetto, a partire dal fatto che per quelli che sono in Cristo Gesù non c’è più nessuna condanna. Si noti anche che qui Paolo, per indicare la fede, non usa l’espressione “credere in Cristo Gesù” che, pure conosce e usa, ma “essere” in Cristo Gesù. In modo semplificato potremmo dire che questo versetto ci introduce in un altro “campo di gioco”. Tutto quello che abbiamo in testa su quello che vuol dire essere credenti, sforzarsi di essere buoni, di fare i conti di quanto si è stati buoni, e poi “ammorbidito” in quanto dopo il Vaticano II non siamo più così moralisti, ma sostanzialmente si rimane sull’idea che tutta la questione si gioca su come ci comportiamo, perché questa poi rimane la struttura fondamentale e sul fare giusto o sbagliato: tutto questo è qui radicalmente messo in discussione. E questo non esclude un giudizio o una valutazione sui comportamenti: i comportamenti possono essere comunque buoni o cattivi: quello che non c’è più è la condanna. Noi siamo in Cristo redenti. E dunque la conversione che ci è richiesta dal Giubileo non è la “condizione per”, la conversione del Giubileo è “il segno di”. Il passare dall’idea che i comportamenti sono la condizione per qualcosa, e cominciare a pensare che i comportamenti, la storia, la vita, le cose che accadono sono il “segno” di qualcosa, è un cambiamento radicale. Questo è un modo per dire concretamente la differenza tra legge e spirito. E’ chiaro che ci sono comportamenti che possono essere segno di un male. Esattamente come certi sintomi sono segni di un certo tipo di malessere. Quando il medico mi chiede i sintomi, ha il problema di definire un quadro per capire qual è il male da curare. Nessuno di noi si sente valutato migliore o peggiore malato in base ai sintomi che ha. I sintomi non hanno di per sé un valore: ci sono sintomi più gravi e sintomi meno gravi, sintomi chiari o meno chiari, sintomi che richiedono interventi urgenti, altri no. Così i comportamenti, giusti o sbagliati, il ritrovarsi nella comunione con lo spirito della legge, o no, è sempre soltanto il sintomo di qualcosa che accade altrove. Dunque quando un comportamento è un male in genere è segno di qualcosa da curare. Ma il problema di Gesù è curarlo, non giudicarlo.
“Non c’è più nessuna condanna per quelli che sono in Cristo Gesù” è l’indicazione che da Cristo in poi il male è il segno di qualcosa, e di qualcosa su cui la misericordia di Dio in Cristo si è chinata, e che vuole curare, ma non la curerà senza di noi.
Ci fermiamo ora su una coppia di termini: carne e spirito. Già padre Cesare diceva l’altra volta che quando Paolo dice carne non intende la corporeità, con tutto ciò che è ad esso collegata, ma intende la dimensione fragile dell’umanità. Da questo punto di vista culturalmente noi siamo esattamente capovolti rispetto a quello che intende Paolo.
In questo secolo, che è il secolo della psicanalisi, noi facciamo l’esperienza della fragilità sulla psiche, non sul corpo. A torto o a ragione, abbiamo come idea diffusa che il corpo può essere un problema, ma è soprattutto una risorsa, un dato positivo di espressione, di possibilità, salvo poi digerire a fatica ogni menomazione del corpo che ci capita di subire, mentre quando si parla, ad esempio, della depressione, ci rendiamo conto che culturalmente per noi questo senso di fragilità è di una fragilità a cui siamo sottoposti quasi impotenti di fronte alla fatica che questa fragilità può imporci riguardo alla psiche. Al tempo di Paolo era esattamente il contrario. Dal mondo greco Paolo aveva l’idea che quella che noi chiamiamo psiche, l’aspetto razionale dell’uomo, così si diceva allora, era l’aspetto nobile che si educava, si allenava: era la risorsa. Per cui gli uomini si distinguevano tra quelli che avevano un pensiero razionale ed astratto sviluppato e allenato e coloro che erano rozzi da questo punto di vista, perché quella era la grande risorsa. Mentre la cultura in cui Paolo vive lega la carnalità ai ritmi della natura, in modo estremamente più forte rispetto al modo in cui la leghiamo noi. La vita corporea era estremamente fragile e in balia di mille difficoltà, fragile anche nelle sue passioni, nelle sue capacità di interpretazione: c’era una cultura che non sapeva riconoscere che cosa accadeva nel corpo, nella carne.
Quando Paolo contrappone la carne allo spirito in qualche modo, ha dietro questa cultura per cui la carne è la debolezza (e il pensiero greco viene poi passato da Paolo nel pensiero ebraico), quindi la carne è connessa al trema del peccato originale, quindi la fragilità esperienziale, naturale, viene rinforzata dall’idea della ribellione a Dio e quindi la carne rappresenta la totalità dell’uomo nel suo aspetto di fragilità, sia quella naturale, esperienziale, culturale, sia quella poi che è passata attraverso l’AT e il racconto di Genesi, mentre lo spirito rappresenta l’idea culturale della ragione, della razionalità. E la parte nobile, sapiente, dell’uomo, si arricchisce ancora, nel pensiero veterotestamentario di Paolo, dell’idea di sapienza, cioè dell’idea di quella Presenza creatrice e ordinatrice di Dio che organizza il mondo, che lo rende bello da vedere e funzionante Quindi il principio della razionalità umana diventa riflesso del principio ordinatore di Dio rispetto a tutto il cosmo. Quindi si capisce un po’ meglio che cosa dice Paolo quando parla di desiderio della carne e di desiderio dello spirito.
Qui c’è una parola che noi conosciamo molto bene: desiderio. Parola culturalmente reale, molto vera. Noi sappiamo che cosa significa desiderare. Viviamo in una cultura, in un tempo che ha talmente paura della potenza dei desideri che si è inventata mille modi per esorcizzare questa paura, per rimuovere, nascondere, riordinare, organizzare i desideri. Impariamo fin da bambini che esprimere desideri va bene, ma possiamo poi essere delusi. Perché non tutti i desideri possono essere esauditi. Questo indica in genere una realtà che è percepita come molto potente, proprio perché i desideri sono molto potenti. La psicanalisi ci ha insegnato che i desideri ci conformano: fanno di noi quello che siamo. Quando Paolo parla di carne e spirito, della dinamica che si innesta tra carne e spirito, la nostra parte migliore e la nostra parte peggiore, di per sé non sono ancora niente perché sono come una macchina senza un carburante. Il carburante che ci spinge dall’una o dall’altra parte sono i nostri desideri.
Mi pare che questo discorso sia di una modernità incredibile. Quando si hanno quindici anni si pensa che tutto ci è possibile, si hanno tanti amici e ci si vive come tutti uguali, se pensiamo ai nostri compagni di scuola non ricordiamo particolari differenze; poi ci sono dei momenti della vita in cui, intorno a piccoli episodi, uno scopre improvvisamente che gli altri quindicenni, che nel frattempo hanno vent’anni come lui, per esempio erano più ricchi di lui, o più poveri di lui, più felici di lui, o più infelici di lui, che non erano uguali o che comunque diversi sono diventati, per cui si scopre che non si ha più niente da dirsi. Quando Paolo dice che ci sono i desideri della carne e i desideri dello spirito, dice che nella vita non è tutto uguale, che si diventa diversi, e che non si diventa diversi casualmente. Nella vita non accadono le cose perché c’è chi decide al posto nostro; le cose accadono perché si seguono i desideri della carne o quelli dello spirito, cioè i desideri della nostra parte fragile, impaurita, in cui la paura è più forte del coraggio, della nostra parte che non cerca la verità di noi stessi, oppure perché si seguono i desideri di quella parte che ha più coraggio che paura, non che non ha paura, perché non c’è nessuna parte di noi che non ha paura, ma siccome in genere abbiamo tanta paura, ci vuole tanto coraggio, quella parte di noi che è disponibile a bruciarsi anche un po’ per trovare quella parte di verità di noi stessi.
Seguire i desideri della carne e i desideri dello spirito fa la nostra vita diversa, e fa la storia diversa. Credo che se mettessimo in questa idea la stessa convinzione che mettiamo nel monitorare in buoni o cattivi, giusti o sbagliati, tutti i singoli pezzetti di comportamento, avremmo la capacità di cambiare il mondo. Il sapere che nella nostra vita quotidiana possiamo fare alcune sciocchezze, ma se l’orientamento di fondo è quello di seguire i desideri dello spirito, queste quotidiane sciocchezze prima o poi, dalla fantasia di Dio, vengono reinglobate per ridonarle alla realtà salvifica. Invece io posso essere anche la persona più corretta di questo mondo (un altro mito di questo secolo, nel quale il centro non è più la giustizia, ma la correttezza, il rispetto di tutte le regole), ma distruggo me e il mondo, anche se materialmente non faccio niente di male.
Paolo dice che i desideri della carne, cioè i desideri della parte che non cerca la verità di noi, della parte che ha paura, della parte che non sa stare in piedi nella propria esistenza, sono desideri che uccidono, al di là e prima e dopo la legge.
Padre Cesare diceva la volta scorsa che la legge è pedagogo da una parte e dall’altra svela a noi stessi la nostra stessa malizia, cioè la legge ci aiuta quando rischiamo di confonderci, ci indica quale parte di noi stiamo seguendo. Questa è la funzione della legge: ci deve mostrare per sintomi che se uno si trova in una certa costellazione di comportamenti, c’è una buona probabilità che stia seguendo una parte di sé impaurita e non vera.
In seguito Paolo comincia a scrivere Spirito in maiuscolo, per parlare di Spirito di Gesù. Secondo me qui comincia ad essere un po’ più facile. Paolo dice: i desideri della carne e dello spirito riguardano l’uomo, ma “quelli che vivono secondo lo spirito desiderano le cose dello Spirito”. Cioè anche Gesù, che ha ricevuto una carne simile a quella del peccato per redimere dal peccato, anche Gesù aveva uno spirito e se noi seguiamo i desideri dello spirito stiamo nello spirito delle cose di Gesù. Paolo sa bene che secondo la creazione in noi c’è l’immagine e la somiglianza di Dio e che il Figlio è il volto del Padre. Dunque chi cerca la verità di sé trova Gesù, trova il volto del Padre.
Quello che Paolo sta dicendo è che la redenzione che Cristo ci offre non è un’opera dall’esterno: Gesù prende una carne come noi, per mostrarci, per darci un segno che l’immagine di Dio che è posta in noi, il soffio di Dio che ci è stato dato nella creazione, è lo stesso spirito che è lo Spirito Suo e del Padre, e dunque se seguiamo i desideri dello spirito prima o poi lo incontreremo, porteremo di nuovo in luce quella immagine di Dio che è nascosta nei nostri cuori. La redenzione è questa operazione dal di dentro: non placare un Dio ansioso di vendetta, ma ricostituire la possibilità per noi di ritrovare i desideri dello spirito e di riconoscerli come desideri dello Spirito di Gesù.
E questo non avviene a caso, e non avviene senza di noi. Il nostro volto, cioè ciò che ci identifica di più, non può essere visto da noi stessi se non tramite uno specchio; cioè siamo costruiti in modo che la realtà più profonda di noi ci arriva sempre riflessa da qualche parte. Non potremmo nascere,.vivere e morire da soli in un’isola deserta. C’è qualcuno o qualcosa, sempre, che ci rende a noi stessi. Per esempio, chi ci vuole bene. I credenti sanno che innanzi tutto Dio ci rende a noi stessi. L’esperienza storica quotidiana è che noi siamo quello che siamo perché abbiamo avuto un certo padre, una certa madre, una certa vita familiare che ci hanno rimandato tante cose belle, tante paure, :il bene e il male che ci hanno dato. Ognuno di noi sa, per esempio, che ci sono cose di sé che scopre solo se è amato da qualcuno, perché altrimenti non le avrebbe mai sapute. Le aveva dentro evidentemente da qualche parte, ma erano come disattivate.
Gesù ci dona il suo Spirito: significa che ci pone sotto il suo sguardo, sotto lo sguardo del Padre, perché siano richiamati in vita quella totalità di desideri di noi che non abbiamo disponibili. Per questo si dirà più avanti, verso la fine del capitolo: “ Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto ed essa non è la sola, ma anche noi che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli e la redenzione del nostro corpo.”
Spero che questo versetto cominci ad essere più comprensibile. Cioè l’esperienza che noi facciamo nella nostra vita è, in qualche modo, partorire noi stessi. Attraverso le doglie del parto ritrovare la più profonda verità di noi, che è l’immagine di Dio e darle luce, darle vita, partorirla al mondo. E questo richiede gemiti e sofferenze perché non si nasce senza prezzo.
Ci sono poi i versetti 14-17 dei quali ha già detto alcune cose padre Cesare, su figli e schiavi. Anche questa è un’accoppiata molto chiara in una società come quella in cui viveva Paolo. C’era un’esperienza normale, quotidiana della schiavitù: tutti sapevano come vivevano gli schiavi. C’era poi un’esperienza della famiglia per cui dire figlio voleva dire alcune cose. Noi non sappiamo più come vivevano gli schiavi e pensiamo di capire che cosa voglia dire figli, ma comprendiamo nell’idea attuale, che è incomparabilmente diversa da ciò che si dice qui. Non a caso qui figlio è detto in contrapposizione a schiavo, cioè figlio è detto per dire una dignità. Ciò che Paolo dice in questi versetti è: se siamo figli, siamo anche eredi. A noi non verrebbe in mente di accoppiare immediatamente la parola figli alla parola eredità, ci parrebbe anche un po’ di cattivo gusto. Per Paolo invece è normale perché figlio indica una condizione giuridica: non è un dato, come nella società post romantica, di tipo sentimentale, affettuoso; il che non vuol dire che i padri non volessero bene ai figli, ma l’indicazione che Paolo dà è un’indicazione di collocazione giuridica. Cioè dice che in Cristo noi abbiamo un nome socialmente riconoscibile, dice la nostra dignità di fronte a Dio. E’ come se noi acquisissimo un titolo. Quando Paolo dice: figli e non schiavi, dice: avete questa collocazione. Questo è il vostro posto di fronte a Dio, questa è la dignità: figli ed eredi.
Se noi rendiamo questa riflessione sulla paternità di Dio come una riflessione post romantica, cioè una riflessione tipo quella che noi facciamo sulla famiglia, poi ci tocca fare la “psicanalisi” su Dio, nel senso che essere figli è sicuramente una gran bella idea, ma non è solo una bella idea, è anche una serie di altre cose: alcune complessità, alcune fatiche. Cioè essere figli, così come essere genitori è il nome relazionale di una situazione amorosa e preziosa certamente, ma anche per questo molto complessa. Ed è vero che poi rispetto a Dio è la stessa cosa, cioè abbiamo una relazione amorosa e preziosa, ma anche complessa. Quando Paolo qui dice figli e non schiavi non addita questa costellazione. Noi spesso interpretiamo “figli o “quando pregate dite Padre”, in un senso affettivo: Dio è padre, quindi vuol dire che è buono, che ci vuole bene, che ha misericordia. Questa è una lettura anacronistica rispetto al testo. Dio ci vuole bene ed è buono: questo ce l’ha dimostrato mandandoci suo Figlio, sacrificando l’erede, che in una civiltà antica è il peggio che ti può succedere nella vita. Il primogenito maschio era quello da salvare a tutti i costi. Dio ci vuole bene e ce l’ha dimostrato sacrificando il figlio. Quando si dice che Dio è Padre nella Scrittura si dice che Dio ha una responsabilità accettata nei nostri confronti e che si prende cura di noi. Il Padre si occupa di noi, lo deve fare, per diritto giuridico. Non ha possibilità di scelta. E non a caso tutta la Scrittura per il paragone del rapporto tra Dio e l’umanità usa il paragone dello sposo e della sposa, in cui l’umanità è sempre la sposa, che dice certamente una relazione amorosa, ma dice anche un dato giuridico. Nella civiltà in cui la Bibbia è stata scritta, la sposa aveva uno stato di minorità giuridica, era totalmente in carico alla responsabilità dello sposo. Così come il figlio era totalmente in carico alla responsabilità del padre. Tutti coloro che erano minores, cioè non maschi adulti, erano sempre in carico a qualcuno, a un padre, a un marito.
Guarda caso la Bibbia usa sempre per l’umanità una terminologia familiare che la pone in carico a Dio. Ciò che la Bibbia dice è che Dio si fa carico di noi. E dunque se siamo figli siamo anche eredi, non solo si fa carico adesso, ma si fa carico anche nel pensare il nostro futuro, che è il senso dell’eredità. Tutto questo non è dato allo schiavo. Lo schiavo è colui che non è in carico a nessuno perché non è persona, è quello su cui il padrone ha diritto di vita e di morte, senza giustificare la scelta che fa. In Cristo noi siamo figli e non più schiavi.
Poi c’è il lungo paragrafo del quale ho già letto un paio di versetti, sulle doglie del parto, e l’attesa dell’adozione a figli e la redenzione del nostro corpo che non a caso Paolo mette insieme: la condizione di essere presi in carico da Dio fa sì che la redenzione di quella parte fragile di noi non è più a carico nostro, ma essendo a carico di Dio, non è più un problema. Poi conclude dicendo: “allo spesso modo, anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi con gemiti inesprimibili e colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello spirito, perché egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio”.
Paolo chiude il cerchio rispetto a “non vi è più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù”, cioè dice: non abbiate paura di confondervi sui vostri desideri. La Scrittura non è la psicanalisi, non ci si può sbagliare, perché lo Spirito intercede con gemiti inesprimibili per esprimere ciò che è conveniente chiedere, da una parte, dall’altra “Colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello spirito”, che è il motivo per cui è sempre piuttosto rischioso chiedere a Dio, perché se non si viene ascoltati uno rischia di rimanerci un po’ male, ma se si viene ascoltati uno di solito ci rimane peggio, nel senso che normalmente quando Dio ascolta una richiesta l’esito è tendenzialmente molto diverso da quello che noi avevamo immaginato formulando quella richiesta.
Questo testo è un testo veramente di grande fiducia, e soprattutto è un testo di grande libertà perché quello che sta a noi è vivere. Noi abbuiamo tutte le energie da poter mettere nella fatica e nella gioia della nostra vita, senza doverci stremare nell’autogiudicarci e nel chiederci continuamente se è giusto se è sbagliato, se abbiamo giustamente o malamente interpretato, perché per coloro che sono in Cristo Gesù non c’è più nessuna condanna.
Allora la questione è vivere rimanendo in Cristo Gesù, che è meno difficile di quanto sembri, nel senso che questa è una preghiera che Dio ascolta sempre. Se qualcuna lo desidera e lo chiede Dio ce lo tiene, lo fa rimanere in Cristo Gesù. Perché l’unica cosa da fare per rimanere in Cristo Gesù è desiderare profondamente esserci, come insegnano tutti i mistici. Non è che rimanere in Cristo Gesù voglia dire chissà quale strana cosa, vuol dire una cosa molto semplice. E’ la storia di un amore, fatta di tante cose, ma soprattutto di un grande desiderio.

Publié dans:LECTIO DIVINA, Lettera ai Romani |on 29 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

LO SPIRITO DELLA TRISTEZZA – di GIOVANNI CASSIANO

http://www.ora-et-labora.net/cassianoistituzioninove.html

LE ISTITUZIONI CENOBITICHE

di GIOVANNI CASSIANO

LIBRO NONO

LO SPIRITO DELLA TRISTEZZA

Estratto da “La melanconia” di Roberto Gigliucci – Ed. BUR Rizzoli

e da “Giovanni Cassiano – Le istituzioni cenobitiche » – a cura di Lorenzo Dattrino -

1. I DANNI DELLA TRISTEZZA
La nostra quinta lotta consiste nel reprimere gli impulsi della tristezza, una passione divoratrice, che se in qualche modo, con i suoi continui assalti e a seguito delle varie vicende della vita, riesce a impadronirsi della nostra anima, a poco a poco ci separa da ogni contemplazione divina e, dopo aver fatto cadere la stessa mente dall’intero suo stato di purezza, la scuote nel profondo e la deprime: non le permette di continuare a dedicarsi alla preghiera con lo stesso fervore del cuore e nemmeno di rimediare al proprio male applicandosi alla lettura dei testi sacri. Questo vizio, poi, non tollera che il monaco sia pacifico e mite con i propri fratelli, ma lo rende insofferente e scontroso nell’assolvere a tutti i suoi doveri, sia di lavoro che religiosi, e, dopo averlo privato della capacità di prendere una qualunque decisione salutare e averne turbato la saldezza del cuore, lo rende come un folle e un ubriaco, e quindi lo abbatte e lo sommerge sotto il peso di una penosa disperazione.

2. OCCORRE GUARIRE L’ANIMO DALLA TRISTEZZA
Se dunque noi aspiriamo ad affrontare decisamente e secondo le regole la lotta spirituale con impegno non minore delle battaglie precedenti, è necessario, da parte nostra, aver cura anche di questo male. Infatti, «come la tignola danneggia i vestiti e come il verme danneggia il legno, cosi la tristezza dell’uomo nuoce al suo cuore» (Pr 25, 20). Lo Spirito divino ha dunque espresso con sufficiente evidenza e proprietà la virulenza di questo vizio dannoso e pernicioso.

3. GLI INSEGNAMENTI DELLA SCRITTURA
l. E di fatto un vestito roso dalla tignola non avrà più alcun prezzo e non potrà servire ad alcun uso; così pure un legno, corroso dai vermi, non potrà essere destinato a ornare una casa anche modesta, ma soltanto a essere bruciato. Tale si rende anche l’anima corrosa dai morsi della tristezza: ella non è più adatta a indossare la veste pontificale che secondo il vaticinio del santo profeta Davide riceve abitualmente l’unguento dello Spirito Santo che discende dal cielo, prima sulla barba di Aronne e poi sulle frange del suo vestito. t scritto infatti: «Come l’unguento sul capo che scende sulla barba di Aronne e poi sul lembo del suo vestito» (Sal 132 [133], 2).
2. Ma quest’anima non potrà neppure prendere parte all’edificazione e all’ornamento di quel tempio spirituale, del quale Paolo, sapiente architetto, pose le fondamenta, dicendo: «Voi siete il tempio di Dio, e lo Spirito di Dio abita in voi» (1 Cor 3, 16). E nel Cantico dei Cantici la sposa indica di quale legno quel tempio deve essere costruito: «Le travi sono i cipressi, e le pareti delle nostre case sono i cedri» (Ct 1, 16; LXX). Per questo vengono scelti, per l’edificazione del tempio di Dio, quelle specie di tronchi d’albero che emettono buoni odori e non sono soggetti alla putrefazione, e non subiscono né la corrosione dei tempo né l’opera roditrice dei vermi.

4. LE CAUSE DELLA TRISTEZZA
A volte la tristezza è conseguenza dell’ira che l’ha preceduta, oppure è generata da un desiderio frustrato o da qualche guadagno mancato – quando cioè uno si vede svanire la speranza che nutriva per questa o quella cosa. Altre volte, poi, anche senza alcun motivo apparente che ci spinga a cadere in questo precipizio, ma solo perché pungolati dal nostro astuto Nemico, ci sentiamo improvvisamente oppressi da una così grande afflizione, che non riusciamo ad accogliere con la consueta affabilità neppure le persone che ci sono care e a cui siamo più legati; e qualunque cosa ci dicano, per quanto adeguata alla circostanza, ci sembra inopportuna e superflua, e rispondiamo loro in modo del tutto scortese, perché il fiele dell’amarezza invade ormai tutte le profondità del nostro cuore.

5. LE CAUSE DELLA TRISTEZZA DERIVANO SOLTANTO DA NOI
Da quanto si è detto risulta chiarissimamente che non è sempre colpa degli altri se in noi si accendono gli stimoli passionali, ma è piuttosto colpa nostra, perché siamo noi stessi a custodire nel segreto del nostro intimo le cause d’inciampo e i semi dei vizi, che poi, non appena la pioggia delle tentazioni bagna la nostra mente, subito germogliano e danno frutto.

6. LE CADUTE SONO LA CONSEGUENZA DI LUNGA NEGLIGENZA
Nessuno, infatti, per quanto provocato dal vizio di un’altra persona, può essere indotto a peccare, se non ha già nel proprio cuore la radice del peccato; e quando qualcuno precipita nell’abisso di una vergognosa concupiscenza per aver contemplato la bellezza di una donna, non bisogna credere che sia stato sedotto al l’improvviso in quel momento, ma piuttosto che quella vista sia stata solo l’occasione che ha fatto emergere in superficie una malattia nascosta che egli covava già nel profondo.

7. LA CONVIVENZA CON GLI ALTRI CI RENDE PIU’ PAZIENTI
Iddio perciò, creatore dell’universo, ben sapendo più d’ogni altro il segreto di curare le sue creature e conoscendo che non negli altri, ma in noi stessi s’affondano le radici e le cause delle nostre colpe, non ci domanda di abbandonare la convivenza con i nostri fratelli e di evitare coloro che riteniamo siano stati da noi offesi oppure abbiano essi stessi disgustato noi; al contrario, Egli vuole che cerchiamo di cattivarceli, ben sapendo che la perfezione dell’anima non si acquista tanto col separarci dagli uomini, quanto piuttosto con l’esercizio della pazienza. Ed è vero che la pazienza saldamente posseduta, come può, da una parte, mantenerci sereni perfino con quelli che ricusano la pace (cf. Sal 119 [120], 7), cosi pure, se essa non è stata assicurata, potrà, al contrario, provocare continuamente la discordia anche con quelli che sono già perfetti e migliori di noi. In realtà non potranno mancare nella vita comune occasioni di turbamento, al punto da farci perfino proporre di abbandonare coloro, con i quali abbiamo a convivere, ma con questo non eviteremo le vere cause della tristezza che ci avranno indotto a separarci dai primi compagni; semplicemente, le muteremo!

8. LA PAZIENZA RENDE FACILE LA VITA IN COMUNE
Pertanto dobbiamo procurare di emendare sollecitamente i nostri difetti e di correggere le nostre abitudini. E allora, se i nostri vizi saranno corretti, la nostra vita s’accorderà in maniera molto facile non soltanto con gli uomini, ma anche con gli animali e con le bestie selvatiche, secondo quanto risulta dal libro di Giobbe: «Le bestie selvatiche saranno in pace con te» (Gb 5, 23; LXX). Non avremo più da temere motivi d’offesa provenienti dal di fuori, e non potranno sorprenderci provocazioni dall’ambiente esterno, se in noi stessi non saranno accolte e innestate le loro radici. Infatti esiste «una grande pace per quelli che amano il tuo nome; non c’è per loro occasione d’inciampo» (Sal 118 [119], 165).

9. LA TRISTEZZA DI CAINO E DI GIUDA
Esiste anche un altro genere di tristezza, ancor più detestabile, che induce il peccatore non a correggere la propria condotta dì vita e a purificarsi dai vizi, ma a disperare in modo pericolosissimo della propria salvezza: fu questa tristezza a impedire a Caino di pentirsi dopo l’uccisione del fratello (cf. Gen 4, 9-16) e a spingere Giuda, dopo il tradimento, non a cercare di riparare la sua colpa, ma a impiccarsi per la disperazione (cf. Mt 27, 5).

10. UNA SOLA E’ LA TRISTEZZA UTILE
In un solo caso, dunque, dobbiamo ritenere utile la tristezza: se nasce in noi mentre siamo infiammati dal rimpianto dei peccati, dal desiderio della perfezione o dalla contemplazione della beatitudine futura. Di essa il beato Apostolo dice: «La tristezza secondo Dio produce un pentimento irrevocabile che conduce alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte» (cf. 2 Cor 7, 10).

11. COME DISTINGUERE LA TRISTEZZA UTILE DA QUELLA DANNOSA
La tristezza «che produce un pentimento irrevocabile che conduce alla salvezza» (cf. 2 Cor 7, 10) è ubbidiente, affabile, umile, mansueta, dolce e paziente, perché deriva dall’amore di Dio: mentre si sottopone infaticabilmente a ogni tipo di sofferenza fisica e di contrizione spirituale per desiderio della perfezione, resta però in qualche modo gioiosa e, fortificata dalla speranza del proprio progresso, custodisce la dolcezza dell’affabilità e della pazienza, avendo in se stessa tutti i frutti dello Spirito Santo enumerati dallo stesso Apostolo, che dice: «Il frutto dello Spirito è carità, gioia, pace, pazienza, bontà, benevolenza, fedeltà, mansuetudine, dominio di sé» (cf. Gal 5, 22-23). L’altra tristezza, invece, è quanto mai amara, insofferente, dura, piena di rancore, di sterile avvilimento e di penosa disperazione. Impedisce ogni attività a chi ne rimane vittima e lo distoglie dall’afflizione che lo porta alla salvezza, poiché è irrazionale e non solo distrugge l’efficacia della preghiera, ma elimina tutti i frutti spirituali che abbiamo appena enumerato e che la prima tristezza è in grado di procurarci.

12. OGNI TRISTEZZA E’ NOCIVA, SE NON PROVIENE DA DIO
Per queste ragioni ogni tristezza, se si eccettua quella che viene accolta per una salutare penitenza o per l’impegno della perfezione o per il desiderio dei beni futuri deve essere repressa, perché tutta propria del mondo e perché provocatrice di morte. Perciò è necessario estirparla radicalmente dal nostro cuore al modo stesso della fornicazione, dell’avarizia e della collera.

13. I RIMEDI PER VINCERE LA TRISTEZZA
Noi pertanto riusciremo a espellere da noi questa passione così dannosa solo se saremo in grado di sollevare il nostro spirito e mantenerlo continuamente occupato nella meditazione spirituale in previsione della speranza futura e della promessa beatitudine. In questo modo infatti saremo in grado di superare ogni genere di tristezza, quella che deriva in noi da un precedente atto di collera o per la perdita di un guadagno o per un danno a noi inferto; e cosi pure la tristezza generata in noi da un’ingiuria subita, oppure nata dentro di noi per qualche turbamento della mente sorto senza fondato motivo, o anche creatosi in noi per effetto d’una mortifera disperazione. Cosi, perseverando sereni e sicuri nella previsione dei beni futuri, senza lasciarci vincere dalle vicende del mondo presente quando esse ci sono avverse, e senza lasciarci lusingare quando esse tornano a nostro favore, potremo considerare le une e le altre come passeggere e destinate a cadere ben presto.

 

Publié dans:MEDITAZIONI, monachesimo |on 29 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

Thomas Aquinas, Detail from Valle Romita Polyptych, by Gentile da Fabriano (circa 1400)

Thomas Aquinas, Detail from Valle Romita Polyptych, by Gentile da Fabriano (circa 1400) dans immagini sacre 640px-Gentile_da_Fabriano_052
http://en.wikipedia.org/wiki/Thomas_Aquinas

Publié dans:immagini sacre |on 28 janvier, 2015 |Pas de commentaires »
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