Archive pour la catégorie 'Paolo e Gesù'

NON È STATO PAOLO A CAMBIARE IL CRISTIANESIMO, MA GESÙ A CAMBIARE PAOLO

http://www.gliscritti.it/approf/2008/papers/lonardo081008.htm

NON È STATO PAOLO A CAMBIARE IL CRISTIANESIMO, MA GESÙ A CAMBIARE PAOLO

di Andrea Lonardo

“Ultimo fra tutti Cristo risorto apparve anche a me come a un aborto” (1 Cor 15, 8). Paolo descrive qui se stesso, prima della conversione sulla via di Damasco, come una vita non nata, come un’esistenza non giunta alla gioia della nascita. Egli ha cominciato a vivere solo dopo l’incontro con il Signore. Chi è stato veramente Paolo e qual è la radice ultima che lo portò alla decisione di arrivare a Roma e di giungere fino al martirio nell’urbe? Per chi vorrebbe, snaturando gli scritti neotestamentari, che Cristo sia stato solo un rabbino fra i tanti maestri del suo tempo, non resta che affermare che Paolo è il secondo fondatore del cristianesimo o ne è addirittura l’iniziatore stesso, colui che ha ellenizzato il cristianesimo, colui che ha portato a tutti – contro le stesse intenzioni di Gesù, a loro dire – il messaggio del rabbì di Galilea. Secondo altri egli avrebbe, invece, giudaizzato il cristianesimo, reinserendo in esso gli elementi liturgici e ministeriali dei quali un Gesù in versione liberale avrebbe fatto piazza pulita in episodi come la cacciata dei mercanti del Tempio (il tutto sostenuto con un’esegesi a dir poco approssimativa di quel passo). Altri ancora, invece, sulla scia di una certa interpretazione della Riforma, lo vedrebbero come l’unico vero interprete di Gesù, a motivo dell’accentuazione paolina dei temi della grazia e della misericordia che renderebbero superflua – a loro dire – ogni esigenza morale del cristianesimo. La testimonianza stessa di Paolo indica, invece, con precisione una via totalmente differente: non è stato l’apostolo a trasformare il Signore, ma è stato Gesù a cambiare Paolo! Egli che non aveva mai vissuto, ha trovato la vita sulla via di Damasco. La cecità fisica, sperimentata da Paolo in quell’occasione, ha un suo corrispettivo interiore nell’accorgersi in quel giorno di non aver mai visto niente nel giusto modo. È solo l’incontro con la chiesa, l’invio a lui di Anania ed il dono sacramentale del battesimo, a far sì che egli cominci a vedere, che egli abbia la vista. Il cavallo che la tradizione iconografica ha voluto aggiungere al racconto degli Atti non è in dissonanza con questo, ma rappresenta in maniera straordinaria e vera l’accaduto a partire dal simbolo. L’elegante e possente animale è sempre stato immagine di potenza. Gli imperatori, i re, i nobili, hanno sempre voluto essere rappresentati in sella – si pensi solo al Marco Aurelio del Campidoglio – a manifestare la loro autorità. Caravaggio e Michelangelo a Roma, insieme a tanti altri prima e dopo di loro, hanno voluto sottolineare il rovesciamento dei valori avvenuto nell’esistenza di Paolo in quel giorno. Cristo lo aveva disarcionato, smontato dalla sua sicurezza. Gli aveva rivelato il suo essere ‘come un aborto’. Questo non significa dimenticare i tratti ebraici o greci di Paolo, ma tutto, in quel giorno, assunse un diverso significato. Paolo era ancora ebreo, Paolo era ancora greco e romano. Ma Paolo era divenuto cristiano. Vengono qui in mente le famose espressioni di G. K. Chesterton quando scriveva che l’eresia non è necessariamente una affermazione falsa, ma più spesso è una verità che dimentica tutte le altre verità. E continuava sostenendo che il cattolicesimo è l’unico luogo dove tutte le verità si danno appuntamento. Ha senso parlare di un Paolo ebreo, di un Paolo che conosce a menadito le Scritture, è lecito parlare di un Paolo impregnato di cultura ellenistico-romana, pensando ad episodi come la discussione avvenuta all’Areopago di Atene o ancora all’uso della Bibbia nella sua versione greca elaborata dai rabbini di Alessandria d’Egitto. Ma l’evento che è la chiave di volta per capire l’uno e l’altro è ormai il suo rapporto con il Signore Gesù, è l’incontro sulla via di Damasco. È così importante quella svolta nella vita di Paolo che Luca, negli Atti, la descriverà ben tre volte (At 9, 1-18; 22, 1-21; 26, 2-23). Paolo stesso nel suo epistolario vi farà continuamente riferimento (1 Cor 9, 1; 1 Cor 15, 8; 2 Cor 4, 6; Gal 1, 11-16; Fil 3, 7-14; Ef 3, 1-12; 1 Tim 1, 11b-17). Se Paolo fu per nascita ebreo e romano, formato nella tradizione ebraica e nella cultura greca, ciò che lo segnò in maniera radicale fu il suo diventare cristiano. Quel giorno nacque in lui la vocazione che lo spinse poi fino a Roma. Come gli disse sulla via di Damasco il Signore: «Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani» (At 22, 21).

LEGGE E VANGELO: DA GESU’ a PAOLO – DI ROMANO PENNA

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LEGGE E VANGELO: DA GESU’ a PAOLO

DI ROMANO PENNA

Premetto che il mio è un discorso non speculativo ma di carattere storico-letterario, nel senso che è limitato alle origini cristiane e ai suoi scritti, nella misura in cui là troviamo il DNA della nostra identità, in quella storia e in quei testi che ci documentano la prima presa di coscienza di cosa significa essere cristiani. Ho parlato di una prima presa di coscienza, al singolare, ma in realtà si dovrebbe usare il plurale, perché lo studio degli inizi conduce inevitabilmente a prendere atto di una dimensione pluralistica, cioè di una varietà di ermeneutiche, che è tipica delle origini e che perciò dovrebbe auspicabilmente essere propria anche del corso storico del cristianesimo1.

1. Grecità e giudaismo. Il punto di partenza per il mio discorso non può essere altro che il concetto giudaico di legge di Dio, da cui dipende poi il discorso cristiano. Lo stesso sintagma “Legge di Dio”, infatti, si comprende bene solo all’interno del giudaismo e non della grecità, per il semplice motivo che differisce il rispettivo concetto di Dio. In effetti, come scrive un noto studioso dello stoicismo, «l’etica greca deduce la moralità unicamente dalla physis dell’uomo … e fa astrazione da qualsiasi potenza superiore che regoli il suo agire dal di fuori … Uno Zeus che con un suo decalogo crei la moralità sarebbe stato inconcepibile per gli Elleni»2. L’uomo greco, infatti, fonda la moralità nient’altro che nella legge di natura e nel logos/ragione inerente all’uomo. In Israele abbiamo invece un concetto personalistico di Dio, e di un Dio unico. E, come si sa bene, il monoteismo ebraico nell’antichità, benché soggetto a un certo sviluppo nella sua affermazione, costituì un’eccezione nelle culture del tempo per il modo di rapportarsi a Dio3. Il Sommo Bene di Platone o il Motore Immobile di Aristotele si disinteressano delle vicende storiche dell’uomo, mentre d’altra parte gli storici greci nelle loro opere storiografiche non tirano in ballo gli dèi (a meno che siano poeti come Omero, ma è un’altra cosa). Il Dio d’Israele invece è un Dio che conduce la storia, non tanto dell’umanità (in prima battuta) quanto piuttosto di un popolo specifico, che Egli ritiene suo, e che ha coscienza di appartenere a lui. A questo popolo il Signore Dio dona una sua legge, da intendersi come livello elevato sui cui camminare per essere alla sua altezza. Certo avete presente il capitolo 20 dell’Esodo, dove si trova redatto il decalogo. Esso comincia così: “Io sono il Signore Dio tuo, che ti trasse dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avrai altro Dio al di fuori di me….. ”. Come si vede, prima della elencazione degli imperativi c’è un indicativo che ricorda l’intervento gratuito e immotivato di Dio in favore del popolo liberato dalla schiavitù. Appare di qui manifesto che nella coscienza di Israele c’è l’idea, secondo cui all’origine della sua esistenza e della sua identità c’è un atto di grazia di Dio e che la legge perciò, in qualche modo, è ‘seconda’ rispetto alla grazia iniziale, la quale sola è primaria, fondamentale e fondante, concretamente dimostrata da Dio nei confronti del suo popolo. In ogni caso, la legge donata da questo Dio costituisce la griglia, la piattaforma, la cornice e anche il quadro di ciò che questo Dio di Alleanza richiede al suo partner che è Israele. Ebbene, un’idea del genere non è greca. È vero che un filosofo pagano del I secolo, pressoché contemporaneo di Paolo, lo stoico Epitteto, impiega lo stesso sintagma nómos theoû, “legge di dio”. Ma in Epitteto questa legge non è altro che la legge di natura (cfr. Diatribe 1,29,19): essa consiste nella possibilità e anzi nel dovere dell’uomo di costruire sé stesso sapendo di non dipendere da niente e da nessuno e di mettersi così al servizio degli dèi a prescindere da ogni presunzione ed emozione, da ogni condizionamento esterno che lo potrebbe disturbare. La legge divina, per Epitteto, è questo: “Se vuoi qualcosa di buono, tiralo fuori da te stesso” (ib.1,29,4); è quindi paradossalmente una legge in potere dell’uomo in quanto tale. In un certo senso potremmo dire che l’uomo è legge a sé stesso. Si tratta di un atteggiamento del tutto umanistico, che potremmo qualificare come sapienziale, quello cioè di sapersi rapportare al mondo con totale distacco. Substine et abstine, “sopporta e rinuncia”, è il celebre principio stoico: il mondo non deve disturbarmi, intralciare la mia interiorità personale o semplicemente la mia serenità. Quindi, costruire sé stessi: questa è la legge di dio. Ma il dio di cui parla Epitteto non è certo il Dio del Sinai; è il dio della natura. La legge di cui si parla qui, in sostanza, coincide almeno con una certa interpretazione della legge naturale. E poiché, come scrive Seneca, “non c’è natura senza dio né c’è dio senza natura, ma entrambi sono la stessa cosa” (Sui benefici 4,8,2), va considerata “una innocenza meschina quella di essere virtuosi secondo la legge … infatti le obbligazioni che impongono la pietà, l’umanità, la giustizia, la generosità, la lealtà non stanno scritte sulle tavole ufficiali” (Sull’ira 28,2)! Quando però il Nuovo Testamento parla della “legge”, in greco nómos, la intende in un senso molto variegato e comunque intende il termine secondo almeno tre accezioni. Già si discute sulla traduzione di questo vocabolo, almeno in rapporto all’originale ebraico, Torà, che di per sé vuol dire “insegnamento, istruzione”. Il fatto è che il vocabolo ebraico è stato reso in greco appunto con nomos, che propriamente vuol dire “delimitazione”, richiamando l’idea del pascolo perimetrato (poiché deriva dal verbo némō, “distribuire, assegnare; pascolare”). Ebbene, ci sono tre concetti di nomos che sono salvaguardati dal Nuovo Testamento in generale e da Paolo in particolare. Il primo, tipico, consiste nel già accennato significato mosaico del termine: la legge è quella data da Dio a Mosè sul Sinai ed eventualmente specificata poi nella tradizione orale del giudaismo farisaico (questa reca il nome di halakà, dal verbo halak, “camminare”). È a questa legge che di fatto si riferisce sempre Gesù. Essa è ristretta dalla tradizione al Decalogo, ma i suoi comandamenti nel Talmud sono ampliati a un totale di ben 613 precetti (intesi come somma dei giorni dell’anno più il numero delle membra del corpo umano), che riguardano gli aspetti più vari dell’agire umano secondo il pio giudeo. C’è poi un concetto di conio greco già accennato, inteso non come legge di un Dio personale, ma formulato senza il genitivo come “legge ágrafos”, cioè legge “non scritta”, la quale è equivalente a ciò che un giudeo-ellenista qual è Filone Alessandrino definisce esplicitamene come nómos fýseos, “legge di natura” (Su Giuseppe 29). È quel tipo di norma che già faceva dire ad Antigone che è meglio disobbedire alla legge positiva del re di Tebe, lo zio Creonte, e seppellire invece comunque il fratello, poiché “vi sono delle leggi non scritte” (Sofocle, Antigone 454-455). Questa legge non scritta è, non dico esaltata, ma ammessa da Paolo chiaramente nel capitolo 2 della Lettera ai Romani (versetti 14-15) ed è messa in parallelo con la legge scritta dei Giudei. Cioè: i Giudei saranno giudicati sulla base della legge scritta, mentre i Greci, i gentili, lo saranno sulla base della legge che è scritta nei loro cuori. Quindi anche il cristianesimo ha un concetto positivo di questa legge, e già questo è molto interessante perché si vede che, almeno Paolo, ha lo sguardo aperto anche fuori degli steccati religioso-culturali di provenienza. C’è però ancora un altro concetto positivo di legge in Paolo, là dove il termine nómos si riferisce semplicemente ad una parte del canone biblico, e precisamente a quello che noi chiamiamo Pentateuco, i Cinque Rotoli, e che sono identificati semplicemente come grafé, cioè “Scrittura”. E la legge come scrittura è assolutamente un punto di riferimento inevitabile e fondamentale. Nella Lettera ai Romani 3,21, in uno stesso versetto, ci sono i due significati di legge, cioè uno positivo ed uno negativo, quando dice che “ora invece indipendentemente dalla legge si è manifestata la giustizia di Dio testimoniata dalla legge e dai profeti”. Qui con il binomio legge-profeti Paolo rimanda al canone delle Sacre Scritture, mentre con la prima ricorrenza scarta il significato di cui ora parleremo, cioè la legge (mosaica ma anche naturale) come criterio di giustificazione. Ma dicevo del concetto giudaico di “legge di Dio”. ebbene, noi dipendiamo da quel concetto (sia detto per inciso: mi sarebbe piaciuto che il papa Benedetto XVI nella visita alla sinagoga di Roma il 17 gennaio 2010 avesse riconosciuto che il cristianesimo è solo una variante del giudaismo, poiché tra i due non c’è una distinzione simmetrica ma assolutamente asimmetrica: noi siamo figli di Israele più che fratelli minori). All’interno del giudaismo odierno c’è una varietà di significati e di importanza attribuita alla legge: per esempio, il giudaismo riformato americano ammette le donne Rabbino, cosa che il giudaismo ortodosso non fa, poiché, secondo la lettera dell’Antico Testamento e alcuni antichi autori (penso a Giuseppe Flavio e agli antichi rabbini), le donne non sarebbero deputate a svolgere un servizio del genere; eppure c’è un settore del giudaismo contemporaneo che ammette questo fatto. In ogni caso nel giudaismo ciò che è fondamentale, anche se abbiamo parlato della grazia di Dio che conduce Israele fuori dall’Egitto, ciò che denota Israele è il Fare. Questo lo ha scritto in termini chiarissimi il celebre psicanalista Eric Fromm, ebreo tedesco, nella sua tesi di laurea discussa nel 1922 e che era proprio intitolata La Legge degli ebrei, dove si dichiara apertis verbis: “La legge chiede l’azione e non la fede”4! È dunque il fare che conta, più del credere. In effetti, se voi togliete al giudaismo la legge, gli togliete l’anima, il midollo della spina dorsale. Ecco perché ai nostri fratelli ebrei l’Apostolo Paolo è assolutamente indigesto. Ed è altamente significativo che il rabbino americano, professore universitario, Jacob Neusner (citato per altre cose anche da Benedetto XVI nel suo libro su Gesù di Nazareth), in una sua pubblicazione intitolata A Rabby talks with Jesus dice testualmente che se lui fosse stato tra gli uditori del discorso della montagna, se ne sarebbe tornato deluso a casa sua, al suo villaggio, alla sua famiglia, al suo contesto sociale, perché nelle parole di Gesù c’è una carenza di legge5! Questo è interessantissimo, e io come cristiano paolino sono molto contento che Gesù, a differenza di Mosé, non sia stato un legislatore, perché proprio non lo è! Certamente il cosiddetto Medio giudaismo o giudaismo del Secondo Tempio, ovvero quello che va grossomodo dal III secolo a.C. fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dell’imperatore Tito nell’anno 70, e quindi quello contemporaneo di Gesù e di Paolo, con corrisponde esattamente a quello successivo, di impostazione rabbinica, ma è un fenomeno molto sfaccettato. Là ci sono delle correnti in cui la legge è ritenuta una cosa secondaria, come nell’essenismo, e altre correnti come la comunità di Qumran, dove la legge è fondamentale: tuttavia, la comunità di Qumran che, come si legge nel Rotolo della Regola (1QS), si costruisce proprio per studiare e attuare la legge, sorprendentemente precisa che se tu osservi la legge ma non appartieni a questa comunità, non ti serve: come dire che c’è ormai una “comunità della nuova alleanza” (così si autodesignano quelli di Qumran) e se non appartieni a questa comunità, se non fai parte di questo gruppo, di questi’impostazione della vita, la semplice osservanza materiale della legge non serve, non basteranno tutte le acque dei fiumi per purificarti (così in 1QS 2,25-3,7: “Chiunque rifiuti di entrare nel patto di Dio [= nella comunità] … non sarà santificato dai mari o dai fiumi né sarà purificato da tutta l’acqua delle abluzioni”)! Quindi l’appartenenza alla comunità stessa è posta addirittura al di sopra della mera osservanza prassistica della legge.

2. Gesù. All’interno del complesso fenomeno del giudaismo del secondo Tempio c’è anche un movimento particolare messo in piedi da un certo Gesù di Nazareth, all’inizio un illustre ignoto, uno che quando ritorna al suo paese dopo 30 anni non viene praticamente riconosciuto e i compaesani si stupiscono del suo parlare perché prima non si era mai fatto notare (cfr. Mc 6,1-6). Il fatto resta qualcosa di straordinario! Egli si farà notare solo negli ultimi 3 anni della sua vita, ma nei lunghi decenni precedenti vissuti nel villaggio di Nazareth non aveva mai attirato l’attenzione: questo è sorprendente… Però quando poi si allontanò da casa e iniziò il suo movimento, chiamiamolo così, prese degli atteggiamenti davvero originali, che suscitarono l’interesse di molti. In ogni caso, arrivare al piano del Gesù storico non è cosa facile. Voi sapete che i testi evangelici sono posteriori di decenni alla vita terrena di Gesù, e quindi si pone sempre il problema di sapere se quella parola o quel gesto che leggiamo in quel dato vangelo come attribuiti a lui, davvero ci riferiscano il pensiero e il volto del Gesù terreno o se invece non siano qualcosa che di aggiunto dalla comunità posteriore. Questo è un problema fondamentale per lo studio delle origini cristiane e della figura di Gesù, per arrivare eventualmente a scindere, a precisare quale sia stata davvero la figura storica di questo Nazareno ricostruibile a monte delle varie interpretazioni che ce ne vengono date nei testi che parlano di lui. Questi testi appunto sono tanti, anche a prescindere da quelli apocrifi. Per il fatto stesso che ne siano stati canonizzati 4 la chiesa si è resa la vita difficile. Per me è stato un atto di estrema onestà intellettuale canonizzarne più di uno, anche se ciò avrebbe semplificato di molto le cose, visto che essi sono spesso in discordia tra di loro (Sant’Agostino, usando un ossimoro, parlava di concordia discors). A proposito del nostro tema, leggiamo in Matteo che “non passerà uno iota o un solo trattino della legge, senza che tutto sia avvenuto; chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti … sarà considerato minimo nel regno dei cieli” (5,18-19). Può Gesù aver detto una cosa del genere? A parte che queste parole sono scritte nel testo evangelico e quindi ‘fanno testo’, diciamo così, è legittimo chiedersi: ma Gesù può aver detto davvero queste parole? Un motivo di dubbio può consistere nel fatto che le troviamo solo in Matteo, poiché sono assenti tanto in Marco quanto in Luca come in Giovanni. Sicché viene a cadere uno dei criteri usati oggi dalla critica biblica per ricostruire le parole del Gesù storico, ovvero il criterio della molteplice attestazione. In questo caso non c’è la molteplice attestazione, poiché si tratta di parole presenti solo in Matteo. E il vangelo di Matteo, nel cristianesimo antico, è considerato di fatto uno scritto giudeo-cristiano. Matteo e Paolo sono due poli diversi, e non per nulla Ireneo (seconda metà del II secolo) ci dà la notizia che il gruppo giudeo-cristiano degli Ebioniti, quindi di provenienza giudaica o comunque caratterizzati da una ermeneutica giudaizzante dell’evangelo, ritenevano come unico vangelo Matteo, considerando invece Paolo come apostata dalla legge (cfr. Contro le eresie 1,26,2). Questo dato esemplificativo serve, se non altro, per prendere coscienza di quanto sia complesso il cristianesimo delle origini, plurale e sfaccettato. Comunque, per dirla subito tutta, io ritengo che queste parole non siano gesuane, cioè non siano state pronunciate dal Gesù storico, ma esprimano il punto di vista della comunità matteana, che è giudeo-cristiana e che sta a monte di questo scritto ma anche a valle del Gesù storico6. D’altronde, ogni vangelo ha una sua comunità alle proprie spalle, di cui esso è espressione e che diverge in qualche cosa da quella degli altri scritti; la stessa cristologia non è uguale per tutti i vangeli. Ebbene, da uno sguardo d’insieme sulla figura di Gesù e dalle testimonianze di cui disponiamo, possiamo dedurre che Gesù non critica la legge in linea di principio, come farà almeno in parte Paolo. Egli certo non la critica come grafé, quindi come “Scrittura” (e così neanche Paolo), ma esplicitamente non la critica neppure come principio di prassi, di vita morale o istituzionale (a diversità di Paolo); al lebbroso infatti dice: “Andate a mostrarvi ai sacerdoti” perché così dice la Legge (Mc 1,44). Quindi è certamente vero che Gesù non critica la legge in linea di principio. Tuttavia nella sua pratica di vita si dimostra molto libero nei suoi confronti. Si trova libero nella prassi del sabato, nell’osservanza del sabato, dove preferisce la situazione dell’uomo all’osservanza della norma; abbiamo in Mc 3,1-6 la guarigione in giorno di sabato dell’uomo con la cosiddetta mano secca o rattrappita, ed egli giustifica il proprio intervento col dire che è meglio guarire un uomo che osservare la legge. Questo principio lo si vede ancora di più per quanto riguarda le leggi di purità, che Gesù bellamente sorvola: infatti tocca il lebbroso, tocca il cadavere del figlio della vedova di Nain o della figlia di Giairo, si lascia toccare da una mestruata, che sarebbe fonte di impurità, sta a contatto con un centurione pagano, addirittura vieta a chi decide di seguirlo di seppellire il padre contravvenendo proprio a una norma esplicita. Si vede bene dunque che Gesù è un uomo libero, è libero dalla legge o comunque dalle prescrizioni della legge soprattutto quando questa va ad umiliare l’uomo: questo è il suo criterio7. Quanto alle specifiche norme di purità è eloquente il principio enunciato in Marco 7,14-23, secondo cui non ciò che entra nell’uomo contamina l’uomo (si vedano tutte le norme alimentari, che vigono tuttora per i nostri fratelli ebrei, per non dire dei musulmani), bensì ciò che esce dall’uomo. E un po’ a commento di questa prassi di Gesù si potrebbe citare Romani 14,14, dove Paolo scrive: “Non c’è nulla di impuro per sé stesso se non solo per chi lo ritiene tale”. Questo è un principio paolino straordinario, che Gesù stesso avrebbe sottoscritto! Quindi il concetto di purità o impurità è soggettivo, ma non ci può essere e non c’è una norma per il cristiano che delimiti da un punto di vista religioso il menù che devi seguire. Ecco, dunque: il Gesù storico doveva essere un uomo libero. Non sviluppo qui la pur necessaria precisazione, secondo cui la sua sottovalutazione della legge era tutta funzionale alla centralità della persona stessa di Gesù, visto che i suoi discepoli erano chiamati non a studiare la Torà insieme a lui (come nelle scuole dei Rabbi) ma semplicemente a condividere la sua vita.

4. Paolo. Veniamo ora alla posizione di Paolo, che all’interno delle origini cristiane è comunque originale. Infatti, sorprendentemente, il comportamento di Gesù, a ben vedere, non sembra che abbia fatto testo e questo è uno delle questioni più interessanti sul passaggio dalla fase gesuana, cioè del Gesù storico, alla fase della chiesa o delle chiese post pasquali. Quando Pietro in Atti 10 non vuole entrare nella casa del pagano perché si sarebbe contaminato, riceve una visione dal cielo di quadrupedi e animali di ogni sorta che lui non vuole mangiare perché alcuni sono impuri, e allora una voce dal cielo invece gli dice: “Mangia e non chiamare impuro ciò che io ho creato puro” (At 10,28). Insomma, c’è da chiedersi se Pietro c’era o non c’era quando Gesù si è pronunciato in quei termini così liberanti? Come mai ha bisogno di una visione dal cielo? Non bastavano le parole di Gesù? Quindi o Gesù non si è espresso nei termini che noi leggiamo oppure i suoi discepoli più vicini non lo hanno capito. In effetti, all’interno del cristianesimo delle origini prese corpo quel filone ermeneutico ed ecclesiale che noi oggi chiamiamo “giudeo-cristianesimo”, di cui è esponente massimo Giacomo, fratello del Signore (non uno dei due Giacomo della lista dei Dodici). Questo Giacomo è ampiamente lodato in alcuni testi di stampo giudeo-cristiano (le cosiddette Pseudo-Clementine), in cui è considerato addirittura al di sopra di Pietro e soprattutto contrapposto a Paolo che è identificato con il “nemico” della parabola della zizzania che va a seminare l’erbaccia nel campo del buon grano. Del resto, accennavo poco sopra alla qualifica di Paolo come “apostata” da parte dei giudeo cristiani ebioniti. Avete presente ciò che si legge in Gal 2,11-15 e che successe ad Antiochia di Siria, la città delle prime volte (dove per la prima volta l’annuncio evangelico fu fatto ai pagani, dove per la prima volta i seguaci di Gesù furono detti cristiani, e di dove per la prima volta partì una missione esplicitamente voluta). Proprio lì Paolo aveva speso sé stesso per superare le barriere delle leggi di purità e impurità, che dividevano i cristiani di origine giudaica dai cristiani di origine pagana; nella prassi del mangiare a tavola Pietro in un primo tempo aderisce al principio della commensalità e adotta un comportamento di libertà, ma poi al sopraggiungere di quelli di Giacomo da Gerusalemme (come se fossero del Sant’Uffizio) Pietro fa un voltafaccia e non mangia più con i pagani, sia pure cristiani; egli sovverte in qualche modo quel principio di comunione privo di pregiudizi, che già aveva guidato l’esistenza di Gesù, il quale mangiava liberamente con pubblicani e prostitute. Ecco, Pietro dal punto di vista giudaico appare persino più ‘ortodosso’ di Gesù! Allora è lì che si attiva il rimprovero pubblico di Paolo, e viene fuori almeno questa dualità di atteggiamenti verso la matrice giudaica del cristianesimo. D’altronde, c’è chi ha paragonato le origini cristiane all’arco parlamentare che va da un’estrema destra ad un’estrema sinistra: l’estrema destra sarebbe quella di Giacomo, poi c’è un centro-destra che sarebbe quello di Pietro, poi un centro-sinistra che sarebbe quello di Paolo, ed una sinistra che sarebbe quella del vangelo di Giovanni e della lettera agli Ebrei8. Questo schema potrebbe essere discusso; comunque è certo che alle origini esisteva un ventaglio di ermeneutiche dell’evangelo accompagnato da diverse attuazioni pratiche dell’evangelo stesso. Ora, diciamo, Paolo è un innovatore, se non altro perché è anteriore al vangelo di Giovanni e anche, penso io, alla lettera agli Ebrei: anche se questi forse fanno ancora un passo avanti, è Paolo che ha innovato per primo nelle origini cristiane. Ed egli è innovatore rispetto non tanto a Gesù quanto ai giudeo-cristiani, come dicevo poco fa. Quando di ritorno dal terzo viaggio missionario Paolo si trova a Gerusalemme e incontra Giacomo, questi lo rimprovera perché “si sente dire che tu vai in giro a predicare contro la legge di Mosè, ma fai vedere che non è vero” e gli consiglia quell’escamotage di pagare lo scioglimento di un voto nel Tempio di Gerusalemme ad alcuni giudeo-ellenisti; questi vengono poi scambiati per dei Gentili introdotti dove essi non potevano entrare, allora vengono aggrediti e poi si tenta una lapidazione contro lo stesso Paolo, ma subentra l’autorità romana occupante che lo sequestra e lo salva (cfr. At 21,17ss). Quindi la posizione di Paolo si capisce bene se rapportata a quest’altro filone, che noi oggi denominiamo appunto con l’etichetta di giudeo-cristianesimo e che individuiamo come fenomeno a parte solo perché è sorto Paolo che gli si è contrapposto9. Proprio lui fu l’imprevisto nel quadro delle origini cristiane; senza di lui il cristianesimo sarebbe certamente andato avanti su di una linea giudaizzante. Ma, senza voler fare il filosofo della storia, possiamo ben ritenere che poi, come spesso succede, ciò che si butta fuori dalla porta rientra poi dalla finestra… Per quanto riguarda il rapporto specifico con la legge, sapendo che per Paolo il nómos in prima battuta è essenzialmente la legge mosaica, quella data da Dio stesso (ma in Gal 3,19-20 non è nemmeno chiaro che il datore sia stato proprio Dio!), egli da una parte ammette senz’altro la santità della legge. Come leggiamo in Rom 7, “la legge è buona e santa”, ma egli dice queste parole come mera concessione retorica. Infatti, per conoscere un testo bisogna anche conoscere i suoi destinatari, che ne relativizzano in parte il contenuto; ebbene, i destinatari della Lettera ai Romani sono giudeo-cristiani, poiché la chiesa di Roma era stata fondata prima di Paolo da alcuni cristiani di origine giudaica. Quindi a questi destinatari Paolo concede di ritenere che la legge sia santa, buona, giusta; ma nel contempo egli argomenta chiaramente col dire che essa è tuttavia impotente a giustificare il peccatore davanti a Dio10. È importante precisare che il concetto paolino di legge è strettamente connesso con un originale concetto di Peccato (con la P maiuscola)11. In Paolo infatti bisogna distinguere due diversi concetti di peccato. L’uno, minoritario, è quello di impronta farisaica e consiste nel considerare il peccato come trasgressione fattuale della legge, come atto trasgressivo di una prescrizione, di un comandamento. Da questo punto di vista si può e si deve parlare al plurale di “peccati”, come leggiamo in 1 Cor 15,3: “Vi ho trasmesso ciò che anch’io ho ricevuto: che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture”. Ma non per nulla questo testo non è paolino, essendo invece un testo di tradizione che viene citato. Di suo, invece, quando Paolo parla di peccato/hamartía, ne parla al singolare (51 volte su 58 ricorrenze) e gli riconosce tre caratteristiche: l’universalità, in quanto tutti peccano (ma questo lo diceva anche Seneca, quindi non è la cosa più originale: tutti trasgrediscono almeno una legge), la personificazione, perché è fatto soggetto di vari verbi (entra nel mondo, regna, signoreggia, abita addirittura in me, in casa mia [cfr. Rom 7,17: “Non sono io che faccio il male, ma il peccato che abita in me”]), e infine la sua precedenza rispetto alla legge stessa e quindi anche a tutte le sue trasgressioni possibili. Quindi nell’ottica di Paolo c’è una situazione, uno status di peccato in cui gli uomini sono immersi, senza una loro personale responsabilità. Per uscire da questo invischiamento non basta che un altro muoia per me. Sono piuttosto io che devo morire ad esso. Ebbene, questo Peccato si supera solo con la mia partecipazione alla morte di Cristo: non soltanto ritenendo che la sua morte è valida per me, ma per il fatto che io sono addirittura personalmente morto con lui. A questo proposito il testo paolino fondamentale è Rom 6,1-11. Certo è che una morte subìta da altri per me può valere per i miei peccati, ma qui si tratta di un Peccato che non è mio, poiché mi ci trovo dentro prima di ogni mio peccato. Quindi vengono sovvertite anche tutte le liturgie sacrificali (del giudaismo o altro). Si tratta invece di una concezione originalissima, che porta in primo piano una concezione “mistica” dell’identità cristiana: mistica nel senso di “partecipativa”, poiché comporta un transfer da una signorìa a un’altra12. Si vede bene dunque che il punto di partenza della critica che Paolo fa alla legge non è una riflessione sulla legge stessa o, come si dice con un termine tecnico, non è una toralogia, cioè non è una riflessione sul fatto che la legge possa giustificare o meno e che la natura umana sia debole cosicché nessuno mai riuscirebbe a mettere in pratica tutti i comandamenti. Paolo non parte da una considerazione negativa della legge, anzi lui stesso dice in un testo autobiografico di essere stato “irreprensibile per quanto riguarda l’osservanza della legge” (Fil 3,6). Il punto di partenza della critica paolina alla legge non è nient’altro che la considerazione della decisività di Cristo, è la figura stessa di Gesù Cristo e della sua portata soteriologica: “Tutti hanno peccato, ma sono giustificati gratuitamente per grazia mediante la redenzione che è in Cristo Gesù” (Rom 3,24). All’inizio quindi della svalutazione della legge non c’è una toralogia, ma c’è la cristologia, c’è una attenta valutazione di ciò che Cristo significa per me e, diciamo pure, per tutti gli uomini. È lui che mette in scacco il valore della legge: “Fine della legge è Cristo” (Rom 10,4)! Di qui si comprende anche l’assioma di Rom 3,28: “Riteniamo quindi che venga giustificato per fede un uomo senza opere di legge”. Nell’originale greco di questa frase, a differenza delle traduzioni, non ci sono articoli così che viene messo in rilievo il valore assoluto dei termini. La mancanza dell’articolo invita a considerare la natura delle cose, più che questo uomo qui o quella legge là. E se Lutero nella sua traduzione tedesca aggiunge l’avverbio “allein”/soltanto, fa un errore di traduzione perché nel testo greco non c’è, ma interpreta esattamente il pensiero del’Apostolo. D’altronde, l’avverbio “soltanto” è tradizionale, essendo già presente nella traduzione del primo commento alla lettera ai Romani di Origene (III secolo) fino almeno a Tommaso d’Aquino, che parla di fides scilicet sola … ac si totum fecisset (= colui che crede in Cristo, per il solo fatto di credere, è !come se avesse fatto tutto” [!], evidenziando ancora di più con il suo costrutto latino il valore insostituibile e persino sufficiente della fede). Infatti, chi regge la comparazione con la figura di Gesù non è certamente Mosè, che anzi in Galati 3 è presentato solo come una parentesi tra la promessa fatta ad Abramo (che risponde alla promessa soltanto mediante la fede) e la venuta di Gesù Cristo a cui ci si rapporta solo mediante la fede (cfr la versione CEI di Gal 2,16: “L’uomo non è giustificato per le opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo”, dove il soltanto nel testo greco non c’è!). Addirittura in Gal 3,23 si paragona la situazione dell’uomo sotto la legge a quella di un carcerato, e in Gal 4,1-2 a quella di un minorenne…! Dunque il punto di riferimento per Paolo non è Mosè, ma è Abramo, perché questi si rapportò a Dio prima di ogni legge e solo mediante la fede, come si legge in Gen 15,6 che Paolo cita ben due volte (in Gal 3,6 e in Rom 4,3): “Abramo credette e gli fu computato a giustizia”, cioè fu ritenuto giusto da Dio, e giusto vuol dire santo! Abramo aderì alla parola di Dio e la accolse prima di fare qualunque opera (infatti di circoncisone si parla solo in Gen 17 e il sacrificio di Isacco è narrato solo in Gen 22). La legge invece propriamente non va creduta, ma va solo osservata, cioè va messa in pratica, come suggerisce anche il sintagma paolino “le opere della legge”, riferito alle opere che la legge prescrive di fare. Si potrebbe anche dire che Paolo va oltre Abramo e propone come antonimo di Gesù uno che non è neanche ebreo, ma è semplicemente uomo, il primo uomo: “Adamo”. A lui corrisponde un ultimo Adamo che è Gesù (1Cor 15,45), come dire che Gesù è l’uomo nuovo; non per nulla chi aderisce a Gesù secondo Paolo è una creatura nuova (2Cor 5,17; Gal 6,15). Infatti, se dall’uno è provenuto il Peccato con la condanna, dall’altro proviene soltanto il dono della grazia giustificante (Rom 5,15-16). In Gal 5,1 c’è poi una frase famosa: “Per la libertà Cristo ci ha liberati”, e nel contesto dell’argomentazione della lettera la libertà di cui si parla qui non è propriamente la libertà dal peccato, ma è piuttosto la libertà dalla legge. In Gal 5,4 Paolo scrive arditamente: “Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge, siete decaduti dalla grazia”! Io mi chiedo quante volte questo concetto venga davvero annunciato, presentato, sottolineato nella predicazione e nella catechesi. Vi confesso che, se l’anno paolino appena celebrato non avesse portato ad appropriarsi di questa tematica, non sarebbe servito a niente; anzi, la stessa indizione di un anno sacerdotale immediatamente successivo lascia supporre che l’anno paolino è servito a ben poco (visto che nelle lettere e nelle chiese paoline non c’è nessun ministero di tipo sacerdotale). Queste constatazioni, se non altro, servono per riconoscere che Paolo è sempre avanti a noi e che in lui c’è sempre qualcosa da esplorare. A questo punto viene il discorso sull’etica. E a questo proposito, per andare subito al nocciolo delle cose, trovo illuminante una frase di Lutero nel suo commento alla Lettera ai Romani (su 3,20): “Non è facendo le cose giuste che diventiamo giusti, ma se siamo giusti facciamo le cose giuste” (Non enim iusta operando iusti efficimur, sed iusti essendo iusta operamur); egli del resto lo ripete nella sua Lettera sulla libertà cristiana indirizzata a Leone X (§ 36: “Buone, pie opere non fanno mai un uomo buono e pio; ma un buono, pio uomo fa buone, pie opere”)13. Questo è autenticamente Paolo! L’accento fondamentale e primario è posto non sull’agire ma sull’essere (vedi al contrario Eric Fromm citato al’inizio, che peraltro è nientemeno che sulla linea di Aristotele, Etica Nicomachea 1103ab: “Compiendo atti giusti si diventa giusti”, ma non a caso il filosofo sta parlando delle virtù, che è un concetto non paolino!). Quando Paolo definisce i suoi destinatari “santi” (1Cor 1,2; 2Cor 1,1) è perché sono “santificati” in Cristo Gesù. C’è dunque un ‘essere’ che precede l’‘agire’! E’ quindi assolutamente fondamentale rendersi conto che l’originalità del cristianesimo (se volete diciamo pure del cristianesimo paolino) sta in un atto del tutto pre-morale, quello della fede e quindi della grazia, che è anteriore a ogni nostro impegno etico o comportamentale. Se riduciamo il cristianesimo a moralità, non abbiamo nulla di originale da dire sul mercato delle religioni! Persino il perdono delle offese si trova in Musonio Rufo, che è uno stoico romano contemporaneo di Paolo. Persino la condanna dell’adulterio, della contraccezione e della pederastia, che non si trova esplicita nel Nuovo Testamento, la troviamo invece in un’iscrizione di un culto privato pagano del 100 a.C. rinvenuta in una casa a Philadelphia in Licia (a sud di Efeso)14. Ciò che di originale ha da dire il cristiano è che già prima della morale si gioca la nostra identità. Prima! Com’è il caso del buon ladrone (riportato dal commento di Origene) o il caso di uno che è stato battezzato ma muore subito dopo (riportato dal commento di Tommaso d’Aquino). La grazia di Dio in Gesù Cristo, che io peccatore accolgo in un atto di fede: questo è pre-morale. La morte di Gesù è pre-morale. La mia adesione/partecipazione a/in Lui è assolutamente pre-morale. Dire pre-morale non vuol dire certo scaricare le responsabilità morali del cristiano. Iusti essendo, iusta operamur, dice Lutero: se siamo giusti noi facciamo le cose giuste. È il principio dell’albero, insomma, che dà i frutti conformi alla propria natura. È quindi sull’albero e sulle sue radici che semmai bisogna agire, non sui frutti che vengono dopo! Certo è per quanto riguarda l’uomo non conta il paragone necessitante della natura, di ciò che avviene nella botanica, perché nell’uomo c’è la libertà. Però a proposito di chi aderisce a Gesù Cristo, Paolo dice addirittura che è “connaturato” (Rom 6,5: sýmfytos) a lui, sicché dovrebbe scaturirne un ethos confacente a questa radice. Ecco perché Paolo dedica ben 11 capitoli della sua Lettera ai Romani per presentare e dettagliare i costitutivi fondanti dell’identità cristiana, e solo tre capitoli (12,1-15,13) alle sue conseguenze etiche. Mi chiedo se per caso non abbiamo invertito i termini nelle nostre prediche, nelle nostre omelie o trattati… Se non altro, ci resta molto lavoro da fare.

1 Cfr. R. Penna, Le prime comunità cristiane. Persone tempi luoghi forme credenze, Carocci, Roma 2010. 2 M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, Bompiani, Milano 2005, pag. 272. 3 Cf. A. Lemaire, Naissance du monothéisme. Point de vue d’un historien, Bayard, Paris 2003; J. Assmann, Dio e gli dèi. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, il Mulino, Bologna 2009. 4 Ed. Rusconi, Milano 1993, pag. 27. 5 Traduzione italiana: “Un rabbino parla con Gesù”, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, pagg. 182-193. 6 Cfr. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria –I. Gli inizi, Nuova edizione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, pag. 74, nota 136. 7 Cfr. R. Penna, Op.cit., pagg. 74-86. 8 Così lo studioso americano R.E. Brown con J.P, Meier, Antioch and Rome, New Testament cradles of catholic christianity, Paulist Press, New York 1983, pagg. 2-8 (trad. ital.: Cittadella, Assisi 1987). 9 Cfr. in breve C. Gianotto, Giacomo e il giudeocristianesimo antico, in: G. Filoramo – C. Gianotto (a cura), Verus Israel. Nuove prospettive sul giudeocristianesimo. Atti del Colloquio di Torino, 4-5 novembre 1999, Paideia, Brescia 2001, pagg. 108-119. 10 Cfr. S. Romanello, Una legge buona ma impotente. Analisi retorico-letteraria di Rm 7,7-25 nel suo contesto, Supplementi alla Rivista Biblica 35, EDB, Bologna 1999. 11 Cfr. R. Penna, “Origine e dimensione del peccato secondo Paolo: echi della tradizione enochica”, in: Id., Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, Studi sulla Bibbia e il suo ambiente 6, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pagg. 391-418. 12 Si veda in materia il classico studio di E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione, Biblioteca teologica 21, Paideia, Brescia 1986, specialmente le pagg- 634-647. 13 Cfr. rispettivamente: Lezioni sulla lettera ai Romani (1516-1517), a cura di G. Pani, vol. I, Marietti, Genova 1991, pag. 185; La libertà del cristiano (1520), a cura di P. Ricca, Claudiana, Torino 2005, pag. 169. 14 Cfr. R. Penna, “Chiese domestiche e culti privati pagani alle origini del cristianesimo. Un confronto”, in: Id., Vangelo e inculturazione, cit., pagg. 746-770.  

   

SAN PAOLO – L’APOSTOLO DELLE GENTI, FEDELE A GESÙ CRISTO

http://www.innomedimaria.it/san_paolo/san_paolo.htm

SAN PAOLO -  L’APOSTOLO DELLE GENTI, FEDELE A GESÙ CRISTO

(è un po’ lungo, ma interessante, alcuni riferimenti storici messi in rilievo)

S’intende qui affiancare agli avvenimenti accaduti tra il 34 e il 70, secondo la cronologia tradizionale, quali risultano dalla “Storia dei Vangeli”, quelli desumibili dalla biografia di san Paolo storicamente accertata, in particolare da Marta Sordi, che è stata docente di Storia romana e greca presso l’Università Cattolica di Milano ed è scomparsa il 5 aprile del 2009. Contemporaneamente si mostreranno le correzioni cronologiche necessarie a ristabilire la continuità dei fatti storici, risolvendo pure quei problemi di storia della Chiesa e di storia romana che sembrano un vero enigma. Gli eventi della vita di san Paolo lumeggiano in modo particolare la simpatia del mondo romano per il Cristianesimo nascente prima della svolta Neroniana, si pongono in continuità con l’opera di Teofilo presso Tiberio, spiegano la diffusione del Cristianesimo a Roma e poi in tutto l’Impero a partire dalle case romane (le chiese domestiche) tramite la conversione del paterfamilias o della domina con neutralità benevola del paterfamilias. Ancora oggi, come nell’antica Roma imperiale, la fede del paterfamilias e/o della domina (la moglie/madre) distinguono le famiglie cristiane da quelle non cristiane, con ripercussioni incalcolabili sui figli.   1 – La vita e la missione di San Paolo Nacque a Tarso, in Cilicia. Gli fu posto nome Saulo, che si dice Saulos in greco, Saul in ebraico, come il primo re di Israele. Ma il suo nome «era anche Paolo», dal latino, come è ricordato in At 13,9, ed egli cominciò a usarlo quando incontrò il proconsole Sergio Paolo a Cipro. La sua famiglia era della più rigorosa setta dei farisei. Ma possedeva anche la cittadinanza romana, ciò che appare insolito per i farisei, fortemente insofferenti alla dominazione romana sulla Palestina. Si suppone che sia nato nell’8 d.C., perché era detto “giovane” nel 34, quando era presente alla lapidazione di Stefano. Saulo crebbe a Gerusalemme e frequentò la scuola del sacerdote Gamaliele (At 22,3; 5,34), probabilmente fino alla scuola superiore, come era normale per i farisei. Quindi lo incontriamo al momento in cui avviene il martirio del diacono Stefano, facilmente riconducibile all’anno 34. Luca riferisce tutti i particolari di questo fatto, perché era presente a Gerusalemme già durante la vita pubblica di Gesù. Nella città lavorava come medico del Tempio e contribuì attivamente alla missione del Signore. Si deve qui introdurre una nota cronologica. Dall’1 al 34 d.C. il conto degli anni, che ci è stato tramandato dagli storici romani, fila liscio, ma dal 34 al 40 occorre inserire 3 anni in più andati « persi » durante il regno di Tiberio, come ci conferma proprio San Paolo nella lettera ai Galati (1,18; 2,1). I fatti riguardanti gli inizi della Chiesa si svolgono giusto a cavallo di questa lacuna cronologica. Ad esempio, grazie alla correzione della cronologia tradizionale, reintegrando i 3 anni « persi » da Tiberio, è possibile la conciliazione di alcuni dati cronologici riguardanti la vita di san Pietro. La tradizione vanta un settennato di Pietro in Antiochia e pone l’inizio di questo al quarto anno dai fatti della Passione. Ciò significa che il settennio ha inizio dal 37, ritenendo correttamente i fatti della Passione avvenuti nel 33; senza la correzione ciò appariva problematico perché, sempre secondo la tradizione, nel 42 Pietro era già a Roma. Se però collochiamo l’andata di Pietro a Roma nel 45 (42), i dati della tradizione potrebbero bene inserirsi in questo quadro cronologico. In seguito Pietro tornò a Gerusalemme e subì nel 47 (44) la persecuzione di Erode Agrippa, venendo arrestato, poi miracolosamente liberato, sicché poté tornare a Roma nel medesimo anno. È dunque necessario spostare avanti di 3 anni tutti gli avvenimenti, non astronomici, compresi tra il 37 e il 238. Le date sono di una certa qual importanza per stabilire su base logica la probabile verità di un avvenimento, o la improbabilità dello stesso, nel suo riferimento temporale. D’ora in poi useremo questa datazione e metteremo tra parentesi quella tradizionale. La cronologia riguardante san Paolo si ricava a partire dall’anno in cui Gallione era proconsole in Grecia (Acaia). Durante gli scavi archeologici al Tempio di Apollo a Delfi, nel 1892-1903, furono trovati alcuni frammenti di un’iscrizione su pietra. Vi si può leggere che l’imperatore Claudio, nella sua 26ª proclamazione imperiale, prende provvedimenti in favore di Delfi, dopo essere stato informato dall’amico proconsole Gallione del degrado in cui versa la città. La 26ª proclamazione imperiale di Claudio avvenne nella prima metà dell’anno 55 (52) (lo si ricava dal confronto tra un’iscrizione rinvenuta nella Caria, esaminata in Bull. Corr. Hell. 11,1887, pp. 306-308, un’iscrizione latina sull’acquedotto dell’Acqua Claudia alla Porta Maggiore di Roma e una notizia di Frontino nel De acquaeductu urbis Romae, 13 ss.). Si può ben ritenere che Gallione fosse all’inizio del suo mandato proconsolare e intendesse provvedere personalmente a ridare gloria al tempio di Apollo di Delfi. La carica proconsolare durava un anno, da primavera a primavera, per cui è ragionevole dedurre che Gallione l’abbia rivestita nel 55-56 (52-53). Quindi ebbe a difendere Paolo dalla gente di Corinto nell’anno 55 (52). Paolo era a Corinto da un anno e mezzo e prima aveva percorso varie città fino in Macedonia, per cui il Concilio di Gerusalemme risale al 52 (49). Infatti Paolo si era incontrato con gli apostoli a Gerusalemme, per il primo Concilio. Al momento di quell’incontro erano passati, come leggiamo nella lettera ai Galati, 3 + 14 anni dalla sua conversione. È arduo includere i 3 anni nei 14, mentre i conti tornano se aggiungiamo proprio quei 3 anni che Tiberio ha « perduto ». Se torniamo indietro di 17 anni a partire dal 52 (49), troviamo che l’anno della conversione di Saulo è stato realmente il 35 d.C., appena due anni dopo l’ascensione di Gesù Cristo al cielo. La conversione avvenne mentre il giovane si recava a Damasco per individuare i cristiani della città, denunciarli e farli imprigionare. Gesù parlò a Saulo in una luce che lo rese cieco per tre giorni, finché a Damasco incontrò un discepolo di nome Anania, dal quale ricevette il battesimo. Rimase là alcuni giorni insieme ai discepoli della città (At 9,19). Poi si dedicò a predicare nelle sinagoghe dei dintorni. Nella lettera ai Galati dice «in Arabia» (= territorio a sud di Damasco, regno dei Nabatei, con capitale Petra), senza precisare il motivo, i luoghi, il tempo trascorso e i risultati. In seguito tornò a Damasco, dove i Giudei fecero in complotto per sopprimerlo. Anche le guardie del governatore di Areta, re di Petra, vigilavano in favore dei Giudei. Ma i discepoli lo calarono dalle mura della città in una cesta ed egli andò a Gerusalemme, «dopo tre anni» dalla conversione, cioè nel 38 (35), «per consultare Cefa (Pietro)» (Gal 1,18). Che la fuga da Damasco sia avvenuta intorno a questa data è reso plausibile dal riferimento al re Areta di 2 Cor 11,32-34. Questo personaggio sarebbe il nabateo Areta IV, che poté esercitare un controllo, almeno parziale, della città damascena, peraltro inglobata nella provincia romana di Siria, solo per il periodo precedente la morte di Tiberio, cioè prima del 40 (37). Areta aveva vinto una battaglia contro Erode Antipa e aveva occupato la regione. La battaglia si era svolta dopo la morte di Giovanni Battista (32 d.C.), dopo la morte di Filippo, nel 33 d.C., ma anche, sicuramente, dopo il primo intervento di Vitellio nel 36 e prima che Vitellio insediasse Teofilo come sommo sacerdote a Gerusalemme, nel 40 (37), quando morì Tiberio (G. Flavio, Antichità Giudaiche, XVIII,106-124). Areta IV regnò dall’8 a.C al 43 (40) d.C. A Gerusalemme i cristiani lo accolsero inizialmente con sospetto, sapendo che era stato un loro persecutore (At 9,26-30). Il cugino Barnaba, che era ebreo e cristiano, si fece garante per lui e, da quel momento, divenne suo collaboratore. Così Saulo poté predicare nelle sinagoghe della città santa. Ma a un certo punto i Giudei volevano ucciderlo e i discepoli lo fecero partire per Tarso. Nella sua patria rimase dal 38 (35) al 46 (43) dedicandosi però, presumubilmente, alla predicazione nei dintorni, in Siria e Cilicia (Gal 1,21). Intanto i discepoli fuggiti da Gerusalemme, per la persecuzione iniziata con il martirio di Stefano, diedero origine a una vivace comunità ad Antiochia di Siria. Qui per la prima volta furono detti «cristiani». La tradizione cristiana ha conservato memoria di una grotta, detta di San Pietro, nella quale si sarebbe riunita questa Chiesa. Anche Barnaba era stato inviato dalla Chiesa di Gerusalemme ad Antiochia di Siria. In Atti 11,25-26 va a cercare Saulo nella vicina Tarso per farne un suo collaboratore e lo conduce ad Antiochia, che è la principale metropoli del medio-oriente. Qui Paolo rimane per alcuni anni. Dopo « un anno intero », Paolo e Barnaba si recarono a Gerusalemme (At 11,27-30; 12,21-25). Occasione del viaggio fu una colletta della chiesa di Antiochia per la chiesa di Gerusalemme in vista di una carestia che era stata predetta da un cristiano di nome Agabo. Dopo aver portato le offerte della colletta tornarono ad Antiochia conducendo con loro Marco e Luca, che in questa parte del suo libro non nomina se stesso. Ritornarono ad Antiochia dopo la morte di Erode Agrippa I, avvenuta nel 47 (44). Autori extra-cristiani ricordano la prolungata carestia in Palestina in quel periodo.   Prima missione – anni 48-52 (45-49) Era l’anno 48 (45); Saulo e Barnaba, con Marco e Luca, partirono da Antiochia per la prima missione. Notiamo subito che, se leggiamo le Lettere di san Paolo tenendo presente il quadro storico, comprendiamo meglio anche alcuni aspetti dei Vangeli, perché l’Apostolo delle Genti si riferiva costantemente «a ciò che è scritto» (1 Cor 4,6). Predicava il Vangelo che aveva ricevuto per rivelazione da Gesù stesso, ma lo rendeva più preciso consultando ciò che avevano scritto Luca e gli altri evangelisti. Applicava i Vangeli, già scritti, alle situazioni concrete. Si fermarono a Cipro, dove era proconsole Sergio Paolo, che si convertì a Gesù Cristo. Da questo momento Saulo, il cui nome «era anche Paolo» iniziò a usare il secondo nome, di origine latina. Poi i missionari passarono attraverso Antiochia di Pisidia, Iconio, Listra e Derbe in Licaonia. Quindi tornarono ad Antiochia di Siria. Paolo, 17 anni dopo la sua conversione, Barnaba e gli apostoli si ritrovarono a Gerusalemme per il primo Concilio Ecumenico, nell’anno 52 (49). Qui fu deciso di non imporre ai Gentili convertiti l’intera Legge di Mosè.   Seconda missione – anni 52-55 (49-52) Da questo momento iniziò il secondo viaggio missionario di Paolo, nelle comunità già presenti a Derbe e Listra. Lo Spirito Santo impedì  ai missionari di andare nella provincia dell’Asia minore e in Bitinia, per cui scesero a Troade, poi passarono in Macedonia, a Tessalonica e Berea, ad Atene e infine a Corinto. Qui Paolo rimase un anno e mezzo e trovò il proconsole Giunio Gallione che lo difese da un tumulto causato dai Giudei. Era l’anno 55 (52). È questo il periodo in cui Paolo detta le due Lettere ai Tessalonicesi, dopo essere stato impedito da satana di tornare a Tessalonica e dallo Spirito Santo di predicare nelle località in cui si trovavano le sette Chiese dell’Apocalisse. Nella prima lettera raccomanda che la si legga a tutti i fratelli, ossia a tutte le Chiese; nella seconda dice che autenticherà ogni lettera con i saluti e la sua calligrafia nello scriverli. Dobbiamo ricordare che quasi mai egli scriveva le lettere «di suo pugno» e ciò ha dato ingiustamente adito al sospetto che alcune di esse non siano autentiche. Queste due lettere preludono all’Apocalisse, profezia fondata sulla rivelazione di Gesù Cristo che si conclude con l’attesa del suo ritorno, all’improvviso come un ladro per chi non veglia e non lo attende. Ecco che cosa significa «Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,20). Con i Tessalonicesi i missionari ne avevano ragionato, concludendo che non sarebbe stato un ritorno imminente, e l’Apocalisse elenca tutto ciò che il Figlio di Dio aveva profetizzato. Nell’Apocalisse, cap. 8, versetti 10-11, leggiamo: « E il terzo angelo suonò: cadde dal cielo una grande stella, ardente come una torcia e cadde su un terzo dei fiumi e sulle sorgenti delle acque; il nome della stella si pronuncia: l’Assenzio; un terzo delle acque è diventato come assenzio; molti degli uomini sono morti a causa delle acque, perché sono divenute amare ». Le diverse immagini si possono interpretare in questo modo: « Uscì dalla Gerusalemme santa un grande predicatore, Paolo, ardente di Spirito Santo come una torcia, e percorse un terzo delle regioni interne e lontane dal Mare; il nome del predicatore si pronuncia: l’Apsinto, che ha il doppio significato di Assenzio e di Trace, perché Paolo si è spinto a evangelizzare fino alla Tracia; un terzo delle popolazioni delle regioni interne è diventato come assenzio; molti degli uomini ebrei di quei luoghi hanno creduto nel Cristo a causa di quelli che hanno ascoltato Paolo, conquistati dalla sua dottrina ». In 2 Ts 2,7 conosciamo l’opera svolta da Teofilo. Potrebbe risalire alla permanenza di Paolo a Corinto anche la Lettera agli Ebrei, non scritta direttamente da lui, ma forse da Apollo, giudeo di Alessandria collaboratore dell’Apostolo. In essa è celebrato Gesù, l’unico sommo ed eterno sacerdote della Nuova Alleanza. Il sacerdote che ben ci comprende, per aver patito sulla croce. Se leggiamo anche questa lettera in relazione alle due Lettere ai Tessalonicesi e all’Apocalisse, la scopriamo molto concreta, anzi gli insegnamenti, che ci appaiono a prima vista sublimi, si rivelano molto utili anche nell’apostolato di oggi. Poteva essere indirizzata a più comunità di Ebrei, come quella di Gerusalemme, quelle dell’Asia minore (Ap 2,10: alcuni Ebrei cristiani messi in prigione a Smirne), di Antiochia. In Eb 13,7.17 sono nominati «i vostri capi», più di uno come le comunità. Ecco perché mancherebbe un indirizzo preciso. Appena arrivato nella città di Corinto, Paolo aveva incontrato alcuni Ebrei (Aquila e Priscilla) venuti dall’Italia in seguito all’ordine di espulsione di Claudio (At 18,2; Eb 13,24). Quando successivamente partì da Corinto, passò a salutare diverse comunità, compresa quella di Gerusalemme, prima di tornare ad Antiochia (At 18,5.22; Eb 13,23). Dopo ciò si imbarcò verso Antiochia ma fece sosta a Efeso. In tutti questi viaggi c’era anche Luca. Nel viaggio per mare tra Efeso e Cesarea si incontra l’isola di Patmos e qui Luca si è probabilmente incontrato con Giovanni e gli ha suggerito l’idea dell’Apocalisse.  A questo proposito, dobbiamo far notare che l’espressione « per rivelazione » (= δι’ αποκαλυψεως), usata da san Paolo per la prima volta nella lettera ai Galati, è successiva a quest’incontro di Luca con Giovanni a Patmos. La troviamo in Rm 2,5; 8,19; 16,25; 1 Cor 14,6.26.30; Gal 1,12; 2,2; Ef 1,17; 3,3. L’Apocalisse di Giovanni fu realizzata, poco dopo l’incontro a Patmos, da uno scriba di Gamla, città-fortezza che si stendeva sul fianco meridionale di una collina rocciosa sul Golan, 8 chilometri a nord est del Lago di Galilea. Notiamo che Matteo conclude il suo Vangelo con la visita, che non è precisamente un’apparizione sul luogo, di Gesù risorto ad alcuni che erano su un monte insieme agli Undici (Mt 28,16-20). San Paolo ricorda che Gesù apparve «a più di cinquecento fratelli insieme» (1 Cor 15,6), che perciò dovevano già essere uniti da qualche motivo, prima di conoscere Gesù. Infatti, nei quaranta giorni delle apparizioni, il gruppo stesso più vicino a Gesù faceva fatica a trovarsi insieme. Il motivo che teneva uniti quei fratelli poteva essere il fatto di appartenere a una città particolarmente unita e isolata, quale appunto Gamla. Da qui erano partiti gli «uomini» che avrebbero voluto «rapire» Gesù «per farlo re», dopo che aveva moltiplicato i pani e i pesci (Gv 6,14-15). Poi, nei viaggi di Paolo, si nota che in una delle Chiese dell’Apocalisse collegate a Gamla, quella di Efeso, non era presente una comunità cristiana in città. Ma la comunità « giovannea » di Efeso viveva probabilmente, come a Gamla, su una collina fuori città. Ci sono notizie e dati archeologici che lo confermano.   Terza missione – da aprile del 55 fino alla Pentecoste del 58 (52-55)  Per il terzo viaggio missionario, Paolo andò a Efeso e poi attraversò le regioni dell’altopiano, compresa la Galazia. Si inserisce in questo contesto la Prima lettera ai Corinzi. 1 Cor 4,6: «…impariate a stare a ciò che è scritto (riguardo a Gesù Cristo)…». a) Paolo attribuisce importanza fondamentale allo scritto, rispetto alla sua predicazione a voce. b) C’erano già testimonianze scritte, i quattro Vangeli, giuridicamente più valide della trasmissione a voce, sulla vita e l’opera di Gesù Cristo. Paolo trasmetteva ciò che aveva ricevuto: era scritto e giuridicamente valido (1Cor 15,3). 1 Cor 12,4-31: «Vi sono poi diversità di carismi, ma uno solo è lo Spirito». I carismi sono distribuiti dallo Spirito Santo nei battezzati (e cresimati) e basta fare attenzione a quello che lo Spirito opera in ciascun fedele, perché anche oggi tutti, nella Chiesa, possano riceverne beneficio. Quindi tornò a Efeso. Qui rimase per almeno 2 anni e 3 mesi. Forse proprio a Efeso gli giunse notizia che i « superapostoli » (che nell’Apocalisse sono chiamati Nicolaiti, « che si dicono apostoli e non lo sono », « che appartengono alla sinagoga di satana », il « drago », il « serpente antico ») stavano predicando anche nella Galazia un falso Vangelo, come avevano già fatto nelle Chiese nominate nell’Apocalisse. Da qui la Lettera ai Galati. La giustificazione, ossia l’adesione al Dio di Israele e Dio unico, avviene per tutti, Ebrei e Gentili, attraverso la fede e non per le opere della Legge. Questo non significa che non occorrano le opere della fede, ma che non sono necessarie la circoncisione e altre osservanze, richieste da Mosè ma non contenute nella promessa fatta in precedenza da Dio ad Abramo. In conrrispondenza di ciò, notiamo che anche nell’Apocalisse, dopo i centoquarantaquattro mila segnati delle tribù di Israele, viene una folla immensa «di ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (Ap 7,9-10), che accolgono con palme il Regno di Dio e dell’Agnello (Gv 12,13). Poi passò in Macedonia. Durante questo soggiorno in Macedonia, pieno di tribolazioni, inviò la Seconda Lettera ai Corinzi, preoccupato com’era che i « superapostoli » non li facessero deviare dal Vangelo. In questa lettera (13,1) e in altre (1 Tm 5,19; Eb 10,28) troviamo l’espressione «sulla parola di due o tre testimoni», che incontriamo per la prima volta nel Vangelo secondo Matteo (18,16). Era probabilmente una formula usata dagli Ebrei nelle questioni legali, ma stabilisce anche un legame tra il Vangelo di Matteo e l’opera di San Paolo. Infatti questo Vangelo è la Nuova Legge, sancita da Gesù Cristo per gli Ebrei e per i Gentili, mentre Paolo, nelle sue lettere, mostra più volte che è necessario superare la Legge antica È un segno che il Vangelo di Matteo era già diffuso nell’impero romano. Tornò in Grecia, dove trascorse più di 3 mesi. In una sosta durante il viaggio di ritorno dalla Grecia venne scritta, per mano di Terzo, la Lettera ai Romani. Il fondamento di quanto è scritto nella lettera è ciò che leggiamo in Rm 1,3-4: «riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, certificato Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore». Il tutto è di una concretezza rigidamente argomentata. Con questa attenzione si dovrebbe rivedere la traduzione di alcuni passi, per poterne riscoprire il valore pratico. – Predestinazione (Rm 8,29-30; Ef 1,11): non c’è niente di fatalistico in questa dottrina. Semplicemente Paolo vuole ricordare che dall’eternità anche i Gentili sono stati predestinati dal Dio di Israele alla salvezza, perciò chi è fedele a Dio non deve ostacolare il suo disegno eterno. Quindi andò a Mileto, tornò a Efeso e da qui, per nave, arrivò insieme a Luca a Cesarea e infine a Gerusalemme, all’incirca nei giorni della Pentecoste giudaica dell’anno 58 (55). Qui i Giudei, sapendo che Paolo aveva convertito molti Gentili, a Gesù Cristo e al Dio di Israele, ma che non aveva loro imposto la Legge di Mosè, lo accusarono di predicare contro il popolo ebreo, contro la Legge e contro il Tempio, anzi di aver introdotto nel Tempio il pagano Trofimo di Efeso.   L’arresto e l’appello a Cesare- anno 58 (55) La gente lo prese e voleva ucciderlo, cosicché il tribuno della città, avvertito, lo fece arrestare. Da Gerusalemme fu inviato a Cesarea, a causa dei tumulti che si continuavano a riaccendere contro di lui. Sembrerebbero state scritte durante questa prigionia la Lettera ai Colossesi e la Lettera agli Efesini (o ai Laodicesi). Ef 4,15: «Vivendo la verità nella carità». Paolo fu quindi giudicato da Felice, procuratore di Giudea. Questi, terminati i due anni del suo mandato, se ne andò e fu sostituito da Festo. Ma andandosene lasciò Paolo in prigione. Felice era stato inviato come procuratore della Giudea da Claudio, mentre stava compiendosi il dodicesimo anno del suo regno (Giuseppe F., A.G., XX,137-138), ossia nell’anno 56 (53) e ora correva l’anno 58 (55). Festo dunque giudicò di nuovo Paolo e lo fece anche il re Agrippa II, ma l’Apostolo delle Genti si dichiarò cittadino romano e si appellò a Cesare, che era in quel momento Nerone.   A Roma- anni 59-61 o 62 (56-58 o 59)  Fu allora trasferito via mare a Roma. La nave partì nel tardo autunno del 58 (55) e, a causa di una tempesta nelle acque di Creta, fece naufragio presso Malta. Si salvarono tutti e il viaggio riprese tre mesi dopo, all’inizio della primavera del 59 (56). Approdarono a Siracusa, poi a Reggio Calabria, a Pozzuoli e giunsero a Roma accolti dai fratelli cristiani. A Roma fu concesso a Paolo di abitare per conto proprio con un soldato di guardia. Trascorse così due anni interi e poté accogliere tutti quelli che venivano a lui. Nella Lettera ai Filippesi dice: «Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del Vangelo, al punto che in tutto il pretorio e dovunque si sa che sono in catene per Cristo» e il comandante dei pretoriani era Afranio Burro. Dobbiamo annoverare tra i visitatori anche Lucio Anneo Seneca, che ha in seguito intrattenuto con Paolo un carteggio in 12 lettere. L’epistolario ne comprende 14, ma due sono sicuramente false. Alcune di queste lettere sono datate con i consoli suffecti e con i consoli ordinari del 61 (58) e del 62 (59).   In Spagna? Infine il martirio- anni 62-70 (59-67) Negli anni seguenti, fino al 70 (67) a cui si fa risalire il martirio per decapitazione, Paolo può essere stato in Spagna (Rm 15,24.28) e forse anche in Dalmazia (Tt 3,12). Durante i viaggi successivi alla prima prigionia a Roma Paolo scrisse la Prima Lettera a Timoteo. 1 Tm 2,5: Gesù Cristo unico mediatore tra Dio e gli uomini. L’uomo Gesù è l’unico che ha storicamente e concretamente messo in comunicazione il mondo degli uomini con Dio Creatore e con il Cielo. Ciò non riguarda precisamente la preghiera, perché Dio accetta l’intercessione di tutti i suoi amici, compresi i nostri defunti. Successivamente scrisse la Lettera a Tito. Tt 3,12: «Quando ti avrò mandato Àrtema o Tìchico, cerca di venire subito da me a Nicòpoli, perché ho deciso di passare l’inverno colà». San Paolo fissa l’appuntamento per l’inverno a Nicopoli, che sembra identificarsi con una città dell’Epiro, l’odierna Albania. La città potrebbe essere stata chiamata così per celebrare la vittoria di Azio; in realtà molte città antiche portavano quel nome, celebrativo di una vittoria, ma in zone così differenti, che quella dell’Epiro sembra la più logica. Questo attesterebbe l’apostolato di san Paolo in Dalmazia, insieme aTito. Intanto Nerone aveva fatto uccidere la madre Agrippina nel 62 (59) e Afranio Burro nel 65 (62). Quindi aveva  iniziato a perseguitare i cristiani nell’anno 67 (64), dopo un incendio di Roma che gli storici latini attribuiscono alla volontà dell’imperatore stesso. Anche Seneca, nel 68 (65), fu costretto a togliersi la vita. Paolo, prigioniero a Roma per la seconda volta, scrisse la Lettera a Filemone. Appena precedente il martirio di san Paolo, nel 70 (67), sarebbe la Seconda Lettera a Timoteo, in cui egli dice: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede. Solo Luca è con me» (2 Tm 4,6-7.11). In quest’ultima lettera, (2 Tm 4,13) Paolo chiede a Timoteo di portargli «i rotoli e soprattutto le « membrànai »». Di che testi si trattava? Non certo dell’Antico Testamento, che Paolo poteva trovare in ogni sinagoga, ma dei Vangeli, già scritti ma non tutti pubblicati, e di sue annotazioni personali. Secondo la tradizione cristiana Paolo morì durante la persecuzione di Nerone, decapitato presso le Aquæ Salviæ. San Girolamo, verso fine IV secolo, precisa che fu decapitato a Roma e fu sepolto lungo la via Ostiense nel 37° anno dopo la passione, nel 14º anno di Nerone, due anni dopo la morte di Seneca. Il 37° anno dopo la passione di Gesù Cristo è da situare nel 70 d.C., mentre il 14° anno di Nerone (considerandolo non intero) dovrebbe essere, secondo il calcolo tradizionale, il 67 d.C. Questo è un ulteriore indizio che conferma la cronologia sopra esposta. Alle Aquæ Salviæ, in seguito fu edificata l’Abbazia delle Tre Fontane, mentre sul luogo del sepolcro è stata costruita la Basilica di San Paolo fuori le mura. Per secoli il sepolcro era stato rimasto nascosto sotto al pavimento della basilica. Lavori archeologici svolti tra il 2002 e il 2006 sotto la guida di Giorgio Filippi lo hanno riportato alla luce. Il 29 giugno 2009, nella cerimonia ecumenica conclusiva dell’anno paolino, papa Benedetto XVI ha annunciato i risultati della prima ricognizione canonica effettuata all’interno del sarcofago di San Paolo. In particolare, il sommo pontefice ha riferito che «Nel sarcofago, che non è mai stato aperto in tanti secoli, è stata praticata una piccolissima perforazione per produrre una speciale sonda mediante la quale sono state rilevate tracce di un prezioso tessuto di lino colorato di porpora, laminato di oro zecchino e di un tessuto di colore azzurro con filamenti di lino. È stata anche rilevata la presenza di grani di incenso rosso e di sostanze proteiche e calcaree. …Piccolissimi frammenti ossei, sottoposti all’esame del carbonio 14 da parte di esperti ignari della loro provenienza, sono risultati appartenere a persona vissuta tra il I e il II secolo. Ciò sembra confermare l’unanime e incontrastata tradizione che si tratti dei resti mortali dell’apostolo Paolo. Tutto questo riempie il nostro animo di profonda emozione».   2 – L’impedimento di Nerone Dio diede a Nerone la facoltà di mettere in subbuglio la nazione ebraica, sconvolgendo l’ordine sociale e l’aspetto stesso della Palestina, e di mettere in contrasto insanabile Ebrei e Cristiani. Gli permise infatti di perseguitare i cristiani e di mettere in disparte Teofilo. Gli permise, con questo, di far perdere quasi del tutto le tracce dell’origine dei Vangeli e dell’Apocalisse, con la conseguenza che il loro stesso significato risultasse sconvolto. Dobbiamo anche notare che l’Islam nacque, cinque secoli e mezzo dopo, in seguito a questo contrasto tra Ebrei e Cristiani e per la presenza di eresie che laceravano la cristianità. In pratica questa religione ha occupato le lacune lasciate da Ebrei e Cristiani nel panorama del Regno di Dio. Nei nostri tempi Maria, con le apparizioni il giorno 13 di sei mesi nel 1917, in particolare l’ultima del 13 ottobre, anniversario dell’inizio dell’impero di Nerone, ci  indica la soluzione per i contrasti. È ora di superare l’impedimento, causato da Nerone e permesso dalla Provvidenza, al Regno di Dio nel mondo. Il Regno di Dio e la Chiesa, che lo rappresenta nel mondo, si distinguono decisamente dai regni del mondo. Ma l’odio o l’indifferenza verso la Chiesa non è un aspetto necessario. All’inizio i discepoli di Gesù «godevano la simpatia di tutto il popolo» (Ap 2,47) e i contrasti sono nati soprattutto sotto Nerone e durano tutt’ora allo stesso modo.   3 – Paolo, Luca, Matteo  È però opportuno notare la criticità di una concezione che vede san Paolo erede del Vangelo di Luca, come qui sosteniamo, mentre tradizionalmente si sostiene la derivazione del vangelo di Luca da san Paolo. La posta in gioco è grande. Noi sosteniamo che il Vangelo di Luca riporta le parole autentiche di Gesù, e da queste san Paolo deduce il superamento della Legge mosaica, mentre l’attuale Vangelo di Matteo è un rifacimento delle parole di Gesù, una variatio, a scopo editoriale, anche se tendenzialmente favorevole a un cristianesimo giudaizzante. Da parte di alcuni si sostiene invece che l’attuale vangelo di Matteo è quello originario, mentre quello di Luca sarebbe una versione filo-romana, priva cioè degli elementi filo-giudaici, dovuta all’influenza di san Paolo. Questi, di iniziativa sua, anche se appoggiata a rivelazioni, avrebbe predicato un cristianesimo filo-romano avulso dalla sua origine giudaica, in opposizione agli apostoli, che, fedeli alle origini giudaiche, sarebbero stati antiromani. Non ci sfugge dunque che una corretta ricostruzione della vicenda di san Paolo non può non avere ripercussioni sulla validità della tesi sulla derivazione del Vangelo di Luca da quello originario di Matteo, in aramaico, e che, se noi riusciamo a dimostrare che gli oppositori di san Paolo (il quale, per noi, si basa sul vangelo di Luca) non sono i giudeo-cristiani (i quali, secondo alcuni, si basano sul vangelo di Matteo) ma gli ebrei che non hanno accettato Gesù Cristo, la potenziale antitesi Luca – Matteo, che viene spesso usata per scardinare il Vangelo, non avrebbe più senso. Ragioniamo un momento sui dati a nostra disposizione. Il Prologo antimarcionita, (sec. II-III) dice: «Luca, un siro di Antiochia, di professione medico, discepolo degli apostoli, più tardi segui Paolo fino alla morte. Servì senza biasimo il Signore, non prese moglie né ebbe figli. Mori all’età di 84 anni in Beozia pieno di Spirito Santo. Essendo già stati scritti i Vangeli di Matteo in Giudea e di Marco in Italia, mosso allo Spirito Santo scrisse questo Vangelo nelle regioni dell’Acaia… ». In realtà si tratta della pubblicazione dei Vangeli, in particolare del Vangelo di Luca, rimasto fino a quel tempo in mano a lui e a Teofilo (nominato in una lettera dell’epistolario Seneca – Paolo), in attesa di un’eventuale possibilità di ripresentare in Senato una legge che riconoscesse Gesù Cristo come un dio, così che fosse lecito venerarlo nell’impero romano. Sosteniamo che il Vangelo di Luca riporta le parole che Gesù ha detto e le azioni che Gesù ha fatto, quali risultavano dalla cronaca aramaica di Matteo e da informazioni acquisite da lui stesso. Sono i « rifacitori » di Matteo, che semmai hanno introdotto nell’attuale Vangelo di Matteo gli elementi tipicamente filo-giudaici che non erano nella parole di Gesù. Che bisogno c’è di immaginare un intervento miracoloso per rendere possibile che Paolo suggerisse a Luca i particolari della vita del Signore, quando possiamo stabilire che Luca era presente a Gerusalemme durante i fatti ed è stato testimone di gran parte di essi? E in seguito, negli Atti degli Apostoli scrive solo avvenimenti che ha potuto seguire direttamente o da vicino. San Paolo, rifacendosi al vangelo di Luca e alle sue visioni, conferma che la missione autentica di Gesù comprende l’offerta della salvezza anche ai pagani (non più mediante la circoncisione, ma mediante il battesimo), e quindi il superamento della Legge mosaica. Non è quindi san Paolo che altera l’insegnamento di Gesù, ma possono essere stati i « rifacitori » di Matteo a non essere stati compresi, in quanto possono aver suggerito agli ebrei, destinatari del Vangelo di Matteo, o meglio, alla parte di essi di tendenza antiromana, l’idea che il superamento della legge mosaica fosse un’invenzione di san Paolo per conciliarsi le simpatie dei Romani, e non un elemento essenziale del messaggio di Gesù. Concretamente san Paolo deve all’evangelista Luca la grandezza della sua missione, per il fatto di essere sempre stato fedele a Gesù Cristo storico. Nei Vangeli ci sono sempre le autentiche parole di Gesù, ma non necessariamente tutte. Lo ammette anche Giovanni nelle due conclusioni del Vangelo che porta il suo nome: « Molti altri segni fece Gesù di fronte ai suoi discepoli, ma non sono scritti in questo libro » e: « Vi sono ancora molte altre cose che Gesù ha compiuto ». E non si esclude che esistano altri insegnamenti di Gesù risorto dati « per apocalisse (= δι’ αποκαλυψεως) » come e avvenuto per san Paolo. Del resto proprio gli apostoli che avevano conosciuto Gesù « secondo la carne » hanno autenticato l’insegnamento di Paolo, che non aveva conosciuto Gesù nel loro stesso modo, ma ciononostante lo hanno considerato equivalente. Che taluni discepoli degli apostoli, senza loro mandato, possano aver contestato a Paolo il titolo di apostolo, in nome di una arbitraria restrizione di questa qualifica a quelli che avevano seguito Gesù nella vita terrena, si evince da alcuni passi delle Lettere. Ma non prova nulla circa una possibile antitesi tra gli apostoli e Paolo. Anzi, autentici apostoli sono anche i cinquecento e più fratelli ai quali è apparso il Risorto, senza che da questa « investitura » siano nati problemi, a quanto sembra, con il gruppo dei Dodici. Se Gesù è Dio, non è illogico pensare che possa aver continuato il suo insegnamento, per mezzo dello Spirito Santo, anche dopo morto. Il che appare francamente inconcepibile, se Gesù fosse stato un rivoluzionario zelota, giustiziato per attività sovversiva antiromana.   4 – Pietro e Paolo   Abbiamo segnalato la possibile collocazione del settennato di Pietro ad Antiochia tra il 37 (35) e il 44 (41), con la conseguenza che l’andata a Roma nel 45 (42) sia stata una breve parentesi dopo questo settennato, sebbene sia importante perché vi fondò la comunità romana, e non abbia relazione con la persecuzione di Erode Agrippa del 47 (44), seguita dalla seconda andata a Roma, probabilmente definitiva anche se intercalata da viaggi come quello a Gerusalemme per il Concilio. 1) la data indicata da Eusebio (42 d.C., 45 secondo il computo corretto) potrebbe corrispondere alla data indicata dagli Atti degli Apostoli (12,17) in cui Pietro, liberato dalla prigionia di Erode Agrippa I, « se ne andò in un altro luogo », in quanto gli Atti non forniscono riferimenti per i pochi avvenimenti raccontati relativamente a questo periodo. 2) Agrippa fu re della Giudea dal 44 (41) al 47 (44). 3) All’anno 45/46 (42/43) risale anche la conversione a una « superstitio externa », che è sicuramente il Cristianesimo, di una donna di famiglia senatoria, Pomponia Grecina (Tacito, Ann. XIII, 32). 4) In seguito a questo primo viaggio a Roma, ricordiamo però che Pietro chiese a Marco di scrivere quello che aveva cominciato a raccontare senza una traccia scritta. Così dovettero tornare a Gerusalemme ambedue, Marco per poter rileggere gli altri tre Vangeli, Pietro per fornire all’evangelista le proprie testimonianze sui fatti. 5) È inoltre improbabile che Pietro, se fosse stato  imprigionato da Agrippa nel 45 (42), sia tornato a Gerusalemme di nuovo mentre Agrippa era vivo. 6) Si deve perciò ritenere che Pietro si sia recato a Roma una prima volta, non testimoniata dagli Atti, nel 45 (42) e una seconda volta nel 47 (44) (At 12,17). 7) Il martirio di Pietro avvenne il 13 ottobre del 67 (64), secondo la ricostruzione dell’archeologa Margherita Guarducci. Riteniamo fondamentale l’esatta cronologia dei soggiorni di Pietro a Gerusalemme (4 anni), ad Antiochia (7 anni) e a Roma (20 anni) per le implicazione sull’esercizio del Primato e sulla collocazione della Sede apostolica contro i sostenitori di un cristianesimo primitivo senza Primato e senza Sede, ma irrimediabilmente diviso tra giacobiti, giovannei, petrini e paolini. Sorprende che nel Nuovo Testamento non venga mai fatto accenno alla presenza di Pietro a Roma e che questa notizia ci pervenga solo da scritti successivi. Nella Prima lettera di Pietro (5,13) troviamo un enigmatico accenno: «Vi saluta la comunità che è stata eletta come voi e dimora in Babilonia; e anche Marco, mio figlio». Non sembra, però, che Pietro avesse bisogno di nascondere Roma sotto il simbolo « Babilonia », perché per 35 anni i Romani si mantennero favorevoli al Cristianesimo. È più probabile che questi saluti da Babilonia, la città orientale dove risiedeva da secoli una comunità ebraica, e da Marco, che era vicino a Pietro, siano stati raccomandati a Pietro separatamente l’uno dall’altro, mentre si trovava, ad esempio, a Gerusalemme per il primo Concilio Ecumenico, e che egli li abbia trasmessi simultaneamente «ai fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadòcia, nell’Asia e nella Bitinia» (1Pt 1,1) «per mezzo di Silvano» (5,12) collaboratore di Paolo. Babilonia non era un simbolo, altrimenti lo doveva essere di Gerusalemme, come risulta dall’Apocalisse. Si può invece notare che Pietro e Paolo si scambiavano liberamente i collaboratori, perciò erano costantemente in contatto tra loro, anche se non lo dicono. È bene inoltre ricordare che San Paolo era continuamente attento all’opera di tutti gli Apostoli. Si informava pure di quello che andavano compiendo i «più di cinquecento fratelli» (1 Cor 15,3) di Gamla. Se non lo teniamo sempre presente, comprendiamo poco l’opera di Paolo stesso. Può essere utile far notare che nella prima comunità romana fondata da Pietro non sembra ci siano stati conflitti sulla circoncisione e sulla reciproca frequentazione tra convertiti dal giudaismo e convertiti dal paganesimo, i quali si riunivano in case di privati (Rm, 16) e rimanevano estranei alla vita della comunità giudaica. Un documento del IV secolo precisa che i Romani «susceperunt fidem Christi, ritu licet iudaico». Ciò ricorda che anche a Roma, all’inizio, la fedeltà a Cristo e alla legge ebraica non erano in conflitto e che non fu certo Paolo, al suo arrivo, a provocare il conflitto, in quanto egli si attenne fedelmente alle parole del Signore risorto: «Coraggio! Come hai testimoniato per me a Gerusalemme, così è necessario che tu mi renda testimonianza anche a Roma”» (At 23, 11).   5 – Ragionamenti sul ritorno di Gesù   Gesù Cristo, nei giorni precedenti la sua passione e morte, pronunciò la profezia sulla distruzione del Tempio, sulla fine di Gerusalemme e sul Regno di Dio, con frasi apocalittiche (Lc 21,5-36). Nelle apparizioni dopo la risurrezione parlò ancora «delle cose del Regno di Dio» (At 1,3) e si può ritenere che abbia continuato a usare espressioni apocalittiche. I discepoli cercarono di interpretarle. Per noi è inevitabile confrontare i diversi testi del Nuovo Testamento per capire a quali conclusioni si era pervenuti nella Chiesa. Erano conclusioni piuttosto concrete, fondate su simboli che Gesù aveva usato. Che cosa si doveva attendere, presto? Sotto l’imperatore successore di Claudio, storicamente Nerone, messo in disparte Teofilo, ci sarebbe stata una grande sofferenza per gli Ebrei, per mettere alla prova tutto il mondo. Sarebbe stata distrutta Gerusalemme, per cui Roma non avrebbe più potuto servirsene per pervertire la vita sociale degli Ebrei. Le Genti avrebbero visto Gesù Cristo tornare sulle nubi del cielo, dopo lo sconvolgimento del « sole », della « luna » e delle « stelle », per regnare mille anni nel mondo. Gli eletti di Cristo, già morti con lui (prima morte), avrebbero partecipato a una prima risurrezione (reale, ma soltanto per gli eletti fedeli a Cristo) per regnare con lui mille anni. In tale periodo il « diavolo », che corrisponde a un gruppo di persone credenti nel Dio di Israele ma non fedeli a Gesù Cristo, sarebbe stato incatenato per mille anni. Dopo mille anni il « diavolo » sarebbe stato lasciato libero di agire per un po’ di tempo. In seguito, mentre Gesù Cristo avrebbe continuato a regnare nel mondo in modo meno evidente, un fuoco dal cielo avrebbe vinto « il diavolo » e l’avrebbe chiuso per sempre nell’abisso e ci sarebbe stato un giudizio universale. La prospettiva successiva era « la nuova città santa Gerusalemme », che sarebbe durata « secoli di secoli ». Non è chiaro se dopo « secoli di secoli » ci sarebbe stata la seconda risurrezione, per tutti, o se questa avrebbe dovuto essere dopo i mille anni. I Vangeli però dicono che Gesù Cristo tornerà alla conclusione dei secoli e allora ci sarà il giudizio finale. Dal nostro punto di vista, venti secoli dopo, possiamo constatare come si sono avverate storicamente alcune profezie del Cristo Re: – distruzione di Gerusalemme nel 73 (70); – persecuzione dei Cristiani fino al 313 (non era prevista in modo distinto); – circa mille anni (313-1303) di prestigio, anche politico, della Chiesa, corrispondente a un autentico regno di Cristo, che ha edificato una civiltà mai vista prima; – nel 1303, il Papa viene umiliato dal re di Francia, Filippo il Bello (Oltraggio o « Schiaffo » di Anagni); il 13 ottobre 1307 (1250° anniversario di Nerone imperatore) arresto dei Templari per ordine dello stesso re di Francia, per impossessarsi dei mezzi che essi impiegavano per le opere della Chiesa contro il male; di conseguenza forte limitazione della presenza attiva e caritativa della Chiesa nella società civile; – da allora, anche oggi, assistiamo all’offensiva del « diavolo » contro i Cristiani; – ora dobbiamo attendere forse, simbolicamente, la « seconda risurrezione », ma certamente la « seconda morte », in Cristo, di coloro che non avevano creduto in lui e, infine, la « nuova città santa Gerusalemme ».   Raffaele Licordari, con la collaborazione di Giovanni Conforti Aggiornato il 15 giugno 2015  

LEGGE E VANGELO: DA GESU’ a PAOLO di Romano Penna

http://www.statusecclesiae.net/it/il-vangelo-che-abbiamo-ricevuto-documenti/firenze-febbraio-2010-relazione-di-romano-penna-legge-e-vangelo-/

LEGGE E VANGELO: DA GESU’ a PAOLO

di Romano Penna

Premetto che il mio è un discorso non speculativo ma di carattere storico-letterario, nel senso che è limitato alle origini cristiane e ai suoi scritti, nella misura in cui là troviamo il DNA della nostra identità, in quella storia e in quei testi che ci documentano la prima presa di coscienza di cosa significa essere cristiani.
Ho parlato di una prima presa di coscienza, al singolare, ma in realtà si dovrebbe usare il plurale, perché lo studio degli inizi conduce inevitabilmente a prendere atto di una dimensione pluralistica, cioè di una varietà di ermeneutiche, che è tipica delle origini e che perciò dovrebbe auspicabilmente essere propria anche del corso storico del cristianesimo1.

1. Grecità e giudaismo.
Il punto di partenza per il mio discorso non può essere altro che il concetto giudaico di legge di Dio, da cui dipende poi il discorso cristiano. Lo stesso sintagma “Legge di Dio”, infatti, si comprende bene solo all’interno del giudaismo e non della grecità, per il semplice motivo che differisce il rispettivo concetto di Dio. In effetti, come scrive un noto studioso dello stoicismo, «l’etica greca deduce la moralità unicamente dalla physis dell’uomo … e fa astrazione da qualsiasi potenza superiore che regoli il suo agire dal di fuori … Uno Zeus che con un suo decalogo crei la moralità sarebbe stato inconcepibile per gli Elleni»2. L’uomo greco, infatti, fonda la moralità nient’altro che nella legge di natura e nel logos/ragione inerente all’uomo.
In Israele abbiamo invece un concetto personalistico di Dio, e di un Dio unico. E, come si sa bene, il monoteismo ebraico nell’antichità, benché soggetto a un certo sviluppo nella sua affermazione, costituì un’eccezione nelle culture del tempo per il modo di rapportarsi a Dio3. Il Sommo Bene di Platone o il Motore Immobile di Aristotele si disinteressano delle vicende storiche dell’uomo, mentre d’altra parte gli storici greci nelle loro opere storiografiche non tirano in ballo gli dèi (a meno che siano poeti come Omero, ma è un’altra cosa). Il Dio d’Israele invece è un Dio che conduce la storia, non tanto dell’umanità (in prima battuta) quanto piuttosto di un popolo specifico, che Egli ritiene suo, e che ha coscienza di appartenere a lui.
A questo popolo il Signore Dio dona una sua legge, da intendersi come livello elevato sui cui camminare per essere alla sua altezza. Certo avete presente il capitolo 20 dell’Esodo, dove si trova redatto il decalogo. Esso comincia così: “Io sono il Signore Dio tuo, che ti trasse dalla terra d’Egitto, dalla casa di schiavitù. Non avrai altro Dio al di fuori di me….. ”. Come si vede, prima della elencazione degli imperativi c’è un indicativo che ricorda l’intervento gratuito e immotivato di Dio in favore del popolo liberato dalla schiavitù.
Appare di qui manifesto che nella coscienza di Israele c’è l’idea, secondo cui all’origine della sua esistenza e della sua identità c’è un atto di grazia di Dio e che la legge perciò, in qualche modo, è ‘seconda’ rispetto alla grazia iniziale, la quale sola è primaria, fondamentale e fondante, concretamente dimostrata da Dio nei confronti del suo popolo. In ogni caso, la legge donata da questo Dio costituisce la griglia, la piattaforma, la cornice e anche il quadro di ciò che questo Dio di Alleanza richiede al suo partner che è Israele.
Ebbene, un’idea del genere non è greca. È vero che un filosofo pagano del I secolo, pressoché contemporaneo di Paolo, lo stoico Epitteto, impiega lo stesso sintagma nómos theoû, “legge di dio”. Ma in Epitteto questa legge non è altro che la legge di natura (cfr. Diatribe 1,29,19): essa consiste nella possibilità e anzi nel dovere dell’uomo di costruire sé stesso sapendo di non dipendere da niente e da nessuno e di mettersi così al servizio degli dèi a prescindere da ogni presunzione ed emozione, da ogni condizionamento esterno che lo potrebbe disturbare. La legge divina, per Epitteto, è questo: “Se vuoi qualcosa di buono, tiralo fuori da te stesso” (ib.1,29,4); è quindi paradossalmente una legge in potere dell’uomo in quanto tale. In un certo senso potremmo dire che l’uomo è legge a sé stesso. Si tratta di un atteggiamento del tutto umanistico, che potremmo qualificare come sapienziale, quello cioè di sapersi rapportare al mondo con totale distacco. Substine et abstine, “sopporta e rinuncia”, è il celebre principio stoico: il mondo non deve disturbarmi, intralciare la mia interiorità personale o semplicemente la mia serenità. Quindi, costruire sé stessi: questa è la legge di dio. Ma il dio di cui parla Epitteto non è certo il Dio del Sinai; è il dio della natura. La legge di cui si parla qui, in sostanza, coincide almeno con una certa interpretazione della legge naturale. E poiché, come scrive Seneca, “non c’è natura senza dio né c’è dio senza natura, ma entrambi sono la stessa cosa” (Sui benefici 4,8,2), va considerata “una innocenza meschina quella di essere virtuosi secondo la legge … infatti le obbligazioni che impongono la pietà, l’umanità, la giustizia, la generosità, la lealtà non stanno scritte sulle tavole ufficiali” (Sull’ira 28,2)!
Quando però il Nuovo Testamento parla della “legge”, in greco nómos, la intende in un senso molto variegato e comunque intende il termine secondo almeno tre accezioni. Già si discute sulla traduzione di questo vocabolo, almeno in rapporto all’originale ebraico, Torà, che di per sé vuol dire “insegnamento, istruzione”. Il fatto è che il vocabolo ebraico è stato reso in greco appunto con nomos, che propriamente vuol dire “delimitazione”, richiamando l’idea del pascolo perimetrato (poiché deriva dal verbo némo, “distribuire, assegnare; pascolare”). Ebbene, ci sono tre concetti di nomos che sono salvaguardati dal Nuovo Testamento in generale e da Paolo in particolare.
Il primo, tipico, consiste nel già accennato significato mosaico del termine: la legge è quella data da Dio a Mosè sul Sinai ed eventualmente specificata poi nella tradizione orale del giudaismo farisaico (questa reca il nome di halakà, dal verbo halak, “camminare”). È a questa legge che di fatto si riferisce sempre Gesù. Essa è ristretta dalla tradizione al Decalogo, ma i suoi comandamenti nel Talmud sono ampliati a un totale di ben 613 precetti (intesi come somma dei giorni dell’anno più il numero delle membra del corpo umano), che riguardano gli aspetti più vari dell’agire umano secondo il pio giudeo.
C’è poi un concetto di conio greco già accennato, inteso non come legge di un Dio personale, ma formulato senza il genitivo come “legge ágrafos”, cioè legge “non scritta”, la quale è equivalente a ciò che un giudeo-ellenista qual è Filone Alessandrino definisce esplicitamene come nómos fýseos, “legge di natura” (Su Giuseppe 29). È quel tipo di norma che già faceva dire ad Antigone che è meglio disobbedire alla legge positiva del re di Tebe, lo zio Creonte, e seppellire invece comunque il fratello, poiché “vi sono delle leggi non scritte” (Sofocle, Antigone 454-455). Questa legge non scritta è, non dico esaltata, ma ammessa da Paolo chiaramente nel capitolo 2 della Lettera ai Romani (versetti 14-15) ed è messa in parallelo con la legge scritta dei Giudei. Cioè: i Giudei saranno giudicati sulla base della legge scritta, mentre i Greci, i gentili, lo saranno sulla base della legge che è scritta nei loro cuori. Quindi anche il cristianesimo ha un concetto positivo di questa legge, e già questo è molto interessante perché si vede che, almeno Paolo, ha lo sguardo aperto anche fuori degli steccati religioso-culturali di provenienza.
C’è però ancora un altro concetto positivo di legge in Paolo, là dove il termine nómos si riferisce semplicemente ad una parte del canone biblico, e precisamente a quello che noi chiamiamo Pentateuco, i Cinque Rotoli, e che sono identificati semplicemente come grafé, cioè “Scrittura”. E la legge come scrittura è assolutamente un punto di riferimento inevitabile e fondamentale. Nella Lettera ai Romani 3,21, in uno stesso versetto, ci sono i due significati di legge, cioè uno positivo ed uno negativo, quando dice che “ora invece indipendentemente dalla legge si è manifestata la giustizia di Dio testimoniata dalla legge e dai profeti”. Qui con il binomio legge-profeti Paolo rimanda al canone delle Sacre Scritture, mentre con la prima ricorrenza scarta il significato di cui ora parleremo, cioè la legge (mosaica ma anche naturale) come criterio di giustificazione.
Ma dicevo del concetto giudaico di “legge di Dio”. ebbene, noi dipendiamo da quel concetto (sia detto per inciso: mi sarebbe piaciuto che il papa Benedetto XVI nella visita alla sinagoga di Roma il 17 gennaio 2010 avesse riconosciuto che il cristianesimo è solo una variante del giudaismo, poiché tra i due non c’è una distinzione simmetrica ma assolutamente asimmetrica: noi siamo figli di Israele più che fratelli minori). All’interno del giudaismo odierno c’è una varietà di significati e di importanza attribuita alla legge: per esempio, il giudaismo riformato americano ammette le donne Rabbino, cosa che il giudaismo ortodosso non fa, poiché, secondo la lettera dell’Antico Testamento e alcuni antichi autori (penso a Giuseppe Flavio e agli antichi rabbini), le donne non sarebbero deputate a svolgere un servizio del genere; eppure c’è un settore del giudaismo contemporaneo che ammette questo fatto.
In ogni caso nel giudaismo ciò che è fondamentale, anche se abbiamo parlato della grazia di Dio che conduce Israele fuori dall’Egitto, ciò che denota Israele è il Fare. Questo lo ha scritto in termini chiarissimi il celebre psicanalista Eric Fromm, ebreo tedesco, nella sua tesi di laurea discussa nel 1922 e che era proprio intitolata La Legge degli ebrei, dove si dichiara apertis verbis: “La legge chiede l’azione e non la fede”4! È dunque il fare che conta, più del credere. In effetti, se voi togliete al giudaismo la legge, gli togliete l’anima, il midollo della spina dorsale. Ecco perché ai nostri fratelli ebrei l’Apostolo Paolo è assolutamente indigesto. Ed è altamente significativo che il rabbino americano, professore universitario, Jacob Neusner (citato per altre cose anche da Benedetto XVI nel suo libro su Gesù di Nazareth), in una sua pubblicazione intitolata A Rabby talks with Jesus dice testualmente che se lui fosse stato tra gli uditori del discorso della montagna, se ne sarebbe tornato deluso a casa sua, al suo villaggio, alla sua famiglia, al suo contesto sociale, perché nelle parole di Gesù c’è una carenza di legge5! Questo è interessantissimo, e io come cristiano paolino sono molto contento che Gesù, a differenza di Mosé, non sia stato un legislatore, perché proprio non lo è!
Certamente il cosiddetto Medio giudaismo o giudaismo del Secondo Tempio, ovvero quello che va grossomodo dal III secolo a.C. fino alla distruzione del tempio di Gerusalemme ad opera dell’imperatore Tito nell’anno 70, e quindi quello contemporaneo di Gesù e di Paolo, con corrisponde esattamente a quello successivo, di impostazione rabbinica, ma è un fenomeno molto sfaccettato. Là ci sono delle correnti in cui la legge è ritenuta una cosa secondaria, come nell’essenismo, e altre correnti come la comunità di Qumran, dove la legge è fondamentale: tuttavia, la comunità di Qumran che, come si legge nel Rotolo della Regola (1QS), si costruisce proprio per studiare e attuare la legge, sorprendentemente precisa che se tu osservi la legge ma non appartieni a questa comunità, non ti serve: come dire che c’è ormai una “comunità della nuova alleanza” (così si autodesignano quelli di Qumran) e se non appartieni a questa comunità, se non fai parte di questo gruppo, di questi’impostazione della vita, la semplice osservanza materiale della legge non serve, non basteranno tutte le acque dei fiumi per purificarti (così in 1QS 2,25-3,7: “Chiunque rifiuti di entrare nel patto di Dio [= nella comunità] … non sarà santificato dai mari o dai fiumi né sarà purificato da tutta l’acqua delle abluzioni”)! Quindi l’appartenenza alla comunità stessa è posta addirittura al di sopra della mera osservanza prassistica della legge.

2. Gesù.
All’interno del complesso fenomeno del giudaismo del secondo Tempio c’è anche un movimento particolare messo in piedi da un certo Gesù di Nazareth, all’inizio un illustre ignoto, uno che quando ritorna al suo paese dopo 30 anni non viene praticamente riconosciuto e i compaesani si stupiscono del suo parlare perché prima non si era mai fatto notare (cfr. Mc 6,1-6). Il fatto resta qualcosa di straordinario! Egli si farà notare solo negli ultimi 3 anni della sua vita, ma nei lunghi decenni precedenti vissuti nel villaggio di Nazareth non aveva mai attirato l’attenzione: questo è sorprendente… Però quando poi si allontanò da casa e iniziò il suo movimento, chiamiamolo così, prese degli atteggiamenti davvero originali, che suscitarono l’interesse di molti.
In ogni caso, arrivare al piano del Gesù storico non è cosa facile. Voi sapete che i testi evangelici sono posteriori di decenni alla vita terrena di Gesù, e quindi si pone sempre il problema di sapere se quella parola o quel gesto che leggiamo in quel dato vangelo come attribuiti a lui, davvero ci riferiscano il pensiero e il volto del Gesù terreno o se invece non siano qualcosa che di aggiunto dalla comunità posteriore. Questo è un problema fondamentale per lo studio delle origini cristiane e della figura di Gesù, per arrivare eventualmente a scindere, a precisare quale sia stata davvero la figura storica di questo Nazareno ricostruibile a monte delle varie interpretazioni che ce ne vengono date nei testi che parlano di lui. Questi testi appunto sono tanti, anche a prescindere da quelli apocrifi. Per il fatto stesso che ne siano stati canonizzati 4 la chiesa si è resa la vita difficile. Per me è stato un atto di estrema onestà intellettuale canonizzarne più di uno, anche se ciò avrebbe semplificato di molto le cose, visto che essi sono spesso in discordia tra di loro (Sant’Agostino, usando un ossimoro, parlava di concordia discors).
A proposito del nostro tema, leggiamo in Matteo che “non passerà uno iota o un solo trattino della legge, senza che tutto sia avvenuto; chi dunque trasgredirà uno solo di questi minimi precetti … sarà considerato minimo nel regno dei cieli” (5,18-19). Può Gesù aver detto una cosa del genere? A parte che queste parole sono scritte nel testo evangelico e quindi ‘fanno testo’, diciamo così, è legittimo chiedersi: ma Gesù può aver detto davvero queste parole? Un motivo di dubbio può consistere nel fatto che le troviamo solo in Matteo, poiché sono assenti tanto in Marco quanto in Luca come in Giovanni. Sicché viene a cadere uno dei criteri usati oggi dalla critica biblica per ricostruire le parole del Gesù storico, ovvero il criterio della molteplice attestazione. In questo caso non c’è la molteplice attestazione, poiché si tratta di parole presenti solo in Matteo. E il vangelo di Matteo, nel cristianesimo antico, è considerato di fatto uno scritto giudeo-cristiano. Matteo e Paolo sono due poli diversi, e non per nulla Ireneo (seconda metà del II secolo) ci dà la notizia che il gruppo giudeo-cristiano degli Ebioniti, quindi di provenienza giudaica o comunque caratterizzati da una ermeneutica giudaizzante dell’evangelo, ritenevano come unico vangelo Matteo, considerando invece Paolo come apostata dalla legge (cfr. Contro le eresie 1,26,2). Questo dato esemplificativo serve, se non altro, per prendere coscienza di quanto sia complesso il cristianesimo delle origini, plurale e sfaccettato. Comunque, per dirla subito tutta, io ritengo che queste parole non siano gesuane, cioè non siano state pronunciate dal Gesù storico, ma esprimano il punto di vista della comunità matteana, che è giudeo-cristiana e che sta a monte di questo scritto ma anche a valle del Gesù storico6. D’altronde, ogni vangelo ha una sua comunità alle proprie spalle, di cui esso è espressione e che diverge in qualche cosa da quella degli altri scritti; la stessa cristologia non è uguale per tutti i vangeli.
Ebbene, da uno sguardo d’insieme sulla figura di Gesù e dalle testimonianze di cui disponiamo, possiamo dedurre che Gesù non critica la legge in linea di principio, come farà almeno in parte Paolo. Egli certo non la critica come grafé, quindi come “Scrittura” (e così neanche Paolo), ma esplicitamente non la critica neppure come principio di prassi, di vita morale o istituzionale (a diversità di Paolo); al lebbroso infatti dice: “Andate a mostrarvi ai sacerdoti” perché così dice la Legge (Mc 1,44). Quindi è certamente vero che Gesù non critica la legge in linea di principio. Tuttavia nella sua pratica di vita si dimostra molto libero nei suoi confronti. Si trova libero nella prassi del sabato, nell’osservanza del sabato, dove preferisce la situazione dell’uomo all’osservanza della norma; abbiamo in Mc 3,1-6 la guarigione in giorno di sabato dell’uomo con la cosiddetta mano secca o rattrappita, ed egli giustifica il proprio intervento col dire che è meglio guarire un uomo che osservare la legge. Questo principio lo si vede ancora di più per quanto riguarda le leggi di purità, che Gesù bellamente sorvola: infatti tocca il lebbroso, tocca il cadavere del figlio della vedova di Nain o della figlia di Giairo, si lascia toccare da una mestruata, che sarebbe fonte di impurità, sta a contatto con un centurione pagano, addirittura vieta a chi decide di seguirlo di seppellire il padre contravvenendo proprio a una norma esplicita. Si vede bene dunque che Gesù è un uomo libero, è libero dalla legge o comunque dalle prescrizioni della legge soprattutto quando questa va ad umiliare l’uomo: questo è il suo criterio7.
Quanto alle specifiche norme di purità è eloquente il principio enunciato in Marco 7,14-23, secondo cui non ciò che entra nell’uomo contamina l’uomo (si vedano tutte le norme alimentari, che vigono tuttora per i nostri fratelli ebrei, per non dire dei musulmani), bensì ciò che esce dall’uomo. E un po’ a commento di questa prassi di Gesù si potrebbe citare Romani 14,14, dove Paolo scrive: “Non c’è nulla di impuro per sé stesso se non solo per chi lo ritiene tale”. Questo è un principio paolino straordinario, che Gesù stesso avrebbe sottoscritto! Quindi il concetto di purità o impurità è soggettivo, ma non ci può essere e non c’è una norma per il cristiano che delimiti da un punto di vista religioso il menù che devi seguire. Ecco, dunque: il Gesù storico doveva essere un uomo libero. Non sviluppo qui la pur necessaria precisazione, secondo cui la sua sottovalutazione della legge era tutta funzionale alla centralità della persona stessa di Gesù, visto che i suoi discepoli erano chiamati non a studiare la Torà insieme a lui (come nelle scuole dei Rabbi) ma semplicemente a condividere la sua vita.

4. Paolo.
Veniamo ora alla posizione di Paolo, che all’interno delle origini cristiane è comunque originale. Infatti, sorprendentemente, il comportamento di Gesù, a ben vedere, non sembra che abbia fatto testo e questo è uno delle questioni più interessanti sul passaggio dalla fase gesuana, cioè del Gesù storico, alla fase della chiesa o delle chiese post pasquali. Quando Pietro in Atti 10 non vuole entrare nella casa del pagano perché si sarebbe contaminato, riceve una visione dal cielo di quadrupedi e animali di ogni sorta che lui non vuole mangiare perché alcuni sono impuri, e allora una voce dal cielo invece gli dice: “Mangia e non chiamare impuro ciò che io ho creato puro” (At 10,28). Insomma, c’è da chiedersi se Pietro c’era o non c’era quando Gesù si è pronunciato in quei termini così liberanti? Come mai ha bisogno di una visione dal cielo? Non bastavano le parole di Gesù? Quindi o Gesù non si è espresso nei termini che noi leggiamo oppure i suoi discepoli più vicini non lo hanno capito.
In effetti, all’interno del cristianesimo delle origini prese corpo quel filone ermeneutico ed ecclesiale che noi oggi chiamiamo “giudeo-cristianesimo”, di cui è esponente massimo Giacomo, fratello del Signore (non uno dei due Giacomo della lista dei Dodici). Questo Giacomo è ampiamente lodato in alcuni testi di stampo giudeo-cristiano (le cosiddette Pseudo-Clementine), in cui è considerato addirittura al di sopra di Pietro e soprattutto contrapposto a Paolo che è identificato con il “nemico” della parabola della zizzania che va a seminare l’erbaccia nel campo del buon grano. Del resto, accennavo poco sopra alla qualifica di Paolo come “apostata” da parte dei giudeo cristiani ebioniti. Avete presente ciò che si legge in Gal 2,11-15 e che successe ad Antiochia di Siria, la città delle prime volte (dove per la prima volta l’annuncio evangelico fu fatto ai pagani, dove per la prima volta i seguaci di Gesù furono detti cristiani, e di dove per la prima volta partì una missione esplicitamente voluta). Proprio lì Paolo aveva speso sé stesso per superare le barriere delle leggi di purità e impurità, che dividevano i cristiani di origine giudaica dai cristiani di origine pagana; nella prassi del mangiare a tavola Pietro in un primo tempo aderisce al principio della commensalità e adotta un comportamento di libertà, ma poi al sopraggiungere di quelli di Giacomo da Gerusalemme (come se fossero del Sant’Uffizio) Pietro fa un voltafaccia e non mangia più con i pagani, sia pure cristiani; egli sovverte in qualche modo quel principio di comunione privo di pregiudizi, che già aveva guidato l’esistenza di Gesù, il quale mangiava liberamente con pubblicani e prostitute. Ecco, Pietro dal punto di vista giudaico appare persino più ‘ortodosso’ di Gesù! Allora è lì che si attiva il rimprovero pubblico di Paolo, e viene fuori almeno questa dualità di atteggiamenti verso la matrice giudaica del cristianesimo. D’altronde, c’è chi ha paragonato le origini cristiane all’arco parlamentare che va da un’estrema destra ad un’estrema sinistra: l’estrema destra sarebbe quella di Giacomo, poi c’è un centro-destra che sarebbe quello di Pietro, poi un centro-sinistra che sarebbe quello di Paolo, ed una sinistra che sarebbe quella del vangelo di Giovanni e della lettera agli Ebrei8. Questo schema potrebbe essere discusso; comunque è certo che alle origini esisteva un ventaglio di ermeneutiche dell’evangelo accompagnato da diverse attuazioni pratiche dell’evangelo stesso.
Ora, diciamo, Paolo è un innovatore, se non altro perché è anteriore al vangelo di Giovanni e anche, penso io, alla lettera agli Ebrei: anche se questi forse fanno ancora un passo avanti, è Paolo che ha innovato per primo nelle origini cristiane. Ed egli è innovatore rispetto non tanto a Gesù quanto ai giudeo-cristiani, come dicevo poco fa. Quando di ritorno dal terzo viaggio missionario Paolo si trova a Gerusalemme e incontra Giacomo, questi lo rimprovera perché “si sente dire che tu vai in giro a predicare contro la legge di Mosè, ma fai vedere che non è vero” e gli consiglia quell’escamotage di pagare lo scioglimento di un voto nel Tempio di Gerusalemme ad alcuni giudeo-ellenisti; questi vengono poi scambiati per dei Gentili introdotti dove essi non potevano entrare, allora vengono aggrediti e poi si tenta una lapidazione contro lo stesso Paolo, ma subentra l’autorità romana occupante che lo sequestra e lo salva (cfr. At 21,17ss).
Quindi la posizione di Paolo si capisce bene se rapportata a quest’altro filone, che noi oggi denominiamo appunto con l’etichetta di giudeo-cristianesimo e che individuiamo come fenomeno a parte solo perché è sorto Paolo che gli si è contrapposto9. Proprio lui fu l’imprevisto nel quadro delle origini cristiane; senza di lui il cristianesimo sarebbe certamente andato avanti su di una linea giudaizzante. Ma, senza voler fare il filosofo della storia, possiamo ben ritenere che poi, come spesso succede, ciò che si butta fuori dalla porta rientra poi dalla finestra…
Per quanto riguarda il rapporto specifico con la legge, sapendo che per Paolo il nómos in prima battuta è essenzialmente la legge mosaica, quella data da Dio stesso (ma in Gal 3,19-20 non è nemmeno chiaro che il datore sia stato proprio Dio!), egli da una parte ammette senz’altro la santità della legge. Come leggiamo in Rom 7, “la legge è buona e santa”, ma egli dice queste parole come mera concessione retorica. Infatti, per conoscere un testo bisogna anche conoscere i suoi destinatari, che ne relativizzano in parte il contenuto; ebbene, i destinatari della Lettera ai Romani sono giudeo-cristiani, poiché la chiesa di Roma era stata fondata prima di Paolo da alcuni cristiani di origine giudaica. Quindi a questi destinatari Paolo concede di ritenere che la legge sia santa, buona, giusta; ma nel contempo egli argomenta chiaramente col dire che essa è tuttavia impotente a giustificare il peccatore davanti a Dio10.
È importante precisare che il concetto paolino di legge è strettamente connesso con un originale concetto di Peccato (con la P maiuscola)11. In Paolo infatti bisogna distinguere due diversi concetti di peccato. L’uno, minoritario, è quello di impronta farisaica e consiste nel considerare il peccato come trasgressione fattuale della legge, come atto trasgressivo di una prescrizione, di un comandamento. Da questo punto di vista si può e si deve parlare al plurale di “peccati”, come leggiamo in 1 Cor 15,3: “Vi ho trasmesso ciò che anch’io ho ricevuto: che Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture”. Ma non per nulla questo testo non è paolino, essendo invece un testo di tradizione che viene citato. Di suo, invece, quando Paolo parla di peccato/hamartía, ne parla al singolare (51 volte su 58 ricorrenze) e gli riconosce tre caratteristiche: l’universalità, in quanto tutti peccano (ma questo lo diceva anche Seneca, quindi non è la cosa più originale: tutti trasgrediscono almeno una legge), la personificazione, perché è fatto soggetto di vari verbi (entra nel mondo, regna, signoreggia, abita addirittura in me, in casa mia [cfr. Rom 7,17: “Non sono io che faccio il male, ma il peccato che abita in me”]), e infine la sua precedenza rispetto alla legge stessa e quindi anche a tutte le sue trasgressioni possibili. Quindi nell’ottica di Paolo c’è una situazione, uno status di peccato in cui gli uomini sono immersi, senza una loro personale responsabilità.
Per uscire da questo invischiamento non basta che un altro muoia per me. Sono piuttosto io che devo morire ad esso. Ebbene, questo Peccato si supera solo con la mia partecipazione alla morte di Cristo: non soltanto ritenendo che la sua morte è valida per me, ma per il fatto che io sono addirittura personalmente morto con lui. A questo proposito il testo paolino fondamentale è Rom 6,1-11. Certo è che una morte subìta da altri per me può valere per i miei peccati, ma qui si tratta di un Peccato che non è mio, poiché mi ci trovo dentro prima di ogni mio peccato. Quindi vengono sovvertite anche tutte le liturgie sacrificali (del giudaismo o altro). Si tratta invece di una concezione originalissima, che porta in primo piano una concezione “mistica” dell’identità cristiana: mistica nel senso di “partecipativa”, poiché comporta un transfer da una signorìa a un’altra12. Si vede bene dunque che il punto di partenza della critica che Paolo fa alla legge non è una riflessione sulla legge stessa o, come si dice con un termine tecnico, non è una toralogia, cioè non è una riflessione sul fatto che la legge possa giustificare o meno e che la natura umana sia debole cosicché nessuno mai riuscirebbe a mettere in pratica tutti i comandamenti. Paolo non parte da una considerazione negativa della legge, anzi lui stesso dice in un testo autobiografico di essere stato “irreprensibile per quanto riguarda l’osservanza della legge” (Fil 3,6). Il punto di partenza della critica paolina alla legge non è nient’altro che la considerazione della decisività di Cristo, è la figura stessa di Gesù Cristo e della sua portata soteriologica: “Tutti hanno peccato, ma sono giustificati gratuitamente per grazia mediante la redenzione che è in Cristo Gesù” (Rom 3,24).
All’inizio quindi della svalutazione della legge non c’è una toralogia, ma c’è la cristologia, c’è una attenta valutazione di ciò che Cristo significa per me e, diciamo pure, per tutti gli uomini. È lui che mette in scacco il valore della legge: “Fine della legge è Cristo” (Rom 10,4)! Di qui si comprende anche l’assioma di Rom 3,28: “Riteniamo quindi che venga giustificato per fede un uomo senza opere di legge”. Nell’originale greco di questa frase, a differenza delle traduzioni, non ci sono articoli così che viene messo in rilievo il valore assoluto dei termini. La mancanza dell’articolo invita a considerare la natura delle cose, più che questo uomo qui o quella legge là. E se Lutero nella sua traduzione tedesca aggiunge l’avverbio “allein”/soltanto, fa un errore di traduzione perché nel testo greco non c’è, ma interpreta esattamente il pensiero del’Apostolo. D’altronde, l’avverbio “soltanto” è tradizionale, essendo già presente nella traduzione del primo commento alla lettera ai Romani di Origene (III secolo) fino almeno a Tommaso d’Aquino, che parla di fides scilicet sola … ac si totum fecisset (= colui che crede in Cristo, per il solo fatto di credere, è !come se avesse fatto tutto” [!], evidenziando ancora di più con il suo costrutto latino il valore insostituibile e persino sufficiente della fede). Infatti, chi regge la comparazione con la figura di Gesù non è certamente Mosè, che anzi in Galati 3 è presentato solo come una parentesi tra la promessa fatta ad Abramo (che risponde alla promessa soltanto mediante la fede) e la venuta di Gesù Cristo a cui ci si rapporta solo mediante la fede (cfr la versione CEI di Gal 2,16: “L’uomo non è giustificato per le opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo”, dove il soltanto nel testo greco non c’è!). Addirittura in Gal 3,23 si paragona la situazione dell’uomo sotto la legge a quella di un carcerato, e in Gal 4,1-2 a quella di un minorenne…!
Dunque il punto di riferimento per Paolo non è Mosè, ma è Abramo, perché questi si rapportò a Dio prima di ogni legge e solo mediante la fede, come si legge in Gen 15,6 che Paolo cita ben due volte (in Gal 3,6 e in Rom 4,3): “Abramo credette e gli fu computato a giustizia”, cioè fu ritenuto giusto da Dio, e giusto vuol dire santo! Abramo aderì alla parola di Dio e la accolse prima di fare qualunque opera (infatti di circoncisone si parla solo in Gen 17 e il sacrificio di Isacco è narrato solo in Gen 22). La legge invece propriamente non va creduta, ma va solo osservata, cioè va messa in pratica, come suggerisce anche il sintagma paolino “le opere della legge”, riferito alle opere che la legge prescrive di fare.
Si potrebbe anche dire che Paolo va oltre Abramo e propone come antonimo di Gesù uno che non è neanche ebreo, ma è semplicemente uomo, il primo uomo: “Adamo”. A lui corrisponde un ultimo Adamo che è Gesù (1Cor 15,45), come dire che Gesù è l’uomo nuovo; non per nulla chi aderisce a Gesù secondo Paolo è una creatura nuova (2Cor 5,17; Gal 6,15). Infatti, se dall’uno è provenuto il Peccato con la condanna, dall’altro proviene soltanto il dono della grazia giustificante (Rom 5,15-16).
In Gal 5,1 c’è poi una frase famosa: “Per la libertà Cristo ci ha liberati”, e nel contesto dell’argomentazione della lettera la libertà di cui si parla qui non è propriamente la libertà dal peccato, ma è piuttosto la libertà dalla legge. In Gal 5,4 Paolo scrive arditamente: “Non avete più nulla a che fare con Cristo voi che cercate la giustificazione nella legge, siete decaduti dalla grazia”! Io mi chiedo quante volte questo concetto venga davvero annunciato, presentato, sottolineato nella predicazione e nella catechesi. Vi confesso che, se l’anno paolino appena celebrato non avesse portato ad appropriarsi di questa tematica, non sarebbe servito a niente; anzi, la stessa indizione di un anno sacerdotale immediatamente successivo lascia supporre che l’anno paolino è servito a ben poco (visto che nelle lettere e nelle chiese paoline non c’è nessun ministero di tipo sacerdotale). Queste constatazioni, se non altro, servono per riconoscere che Paolo è sempre avanti a noi e che in lui c’è sempre qualcosa da esplorare.
A questo punto viene il discorso sull’etica. E a questo proposito, per andare subito al nocciolo delle cose, trovo illuminante una frase di Lutero nel suo commento alla Lettera ai Romani (su 3,20): “Non è facendo le cose giuste che diventiamo giusti, ma se siamo giusti facciamo le cose giuste” (Non enim iusta operando iusti efficimur, sed iusti essendo iusta operamur); egli del resto lo ripete nella sua Lettera sulla libertà cristiana indirizzata a Leone X (§ 36: “Buone, pie opere non fanno mai un uomo buono e pio; ma un buono, pio uomo fa buone, pie opere”)13. Questo è autenticamente Paolo! L’accento fondamentale e primario è posto non sull’agire ma sull’essere (vedi al contrario Eric Fromm citato al’inizio, che peraltro è nientemeno che sulla linea di Aristotele, Etica Nicomachea 1103ab: “Compiendo atti giusti si diventa giusti”, ma non a caso il filosofo sta parlando delle virtù, che è un concetto non paolino!). Quando Paolo definisce i suoi destinatari “santi” (1Cor 1,2; 2Cor 1,1) è perché sono “santificati” in Cristo Gesù.
C’è dunque un ‘essere’ che precede l’‘agire’! E’ quindi assolutamente fondamentale rendersi conto che l’originalità del cristianesimo (se volete diciamo pure del cristianesimo paolino) sta in un atto del tutto pre-morale, quello della fede e quindi della grazia, che è anteriore a ogni nostro impegno etico o comportamentale. Se riduciamo il cristianesimo a moralità, non abbiamo nulla di originale da dire sul mercato delle religioni! Persino il perdono delle offese si trova in Musonio Rufo, che è uno stoico romano contemporaneo di Paolo. Persino la condanna dell’adulterio, della contraccezione e della pederastia, che non si trova esplicita nel Nuovo Testamento, la troviamo invece in un’iscrizione di un culto privato pagano del 100 a.C. rinvenuta in una casa a Philadelphia in Licia (a sud di Efeso)14. Ciò che di originale ha da dire il cristiano è che già prima della morale si gioca la nostra identità. Prima! Com’è il caso del buon ladrone (riportato dal commento di Origene) o il caso di uno che è stato battezzato ma muore subito dopo (riportato dal commento di Tommaso d’Aquino). La grazia di Dio in Gesù Cristo, che io peccatore accolgo in un atto di fede: questo è pre-morale. La morte di Gesù è pre-morale. La mia adesione/partecipazione a/in Lui è assolutamente pre-morale.
Dire pre-morale non vuol dire certo scaricare le responsabilità morali del cristiano. Iusti essendo, iusta operamur, dice Lutero: se siamo giusti noi facciamo le cose giuste. È il principio dell’albero, insomma, che dà i frutti conformi alla propria natura. È quindi sull’albero e sulle sue radici che semmai bisogna agire, non sui frutti che vengono dopo! Certo è per quanto riguarda l’uomo non conta il paragone necessitante della natura, di ciò che avviene nella botanica, perché nell’uomo c’è la libertà. Però a proposito di chi aderisce a Gesù Cristo, Paolo dice addirittura che è “connaturato” (Rom 6,5: sýmfytos) a lui, sicché dovrebbe scaturirne un ethos confacente a questa radice. Ecco perché Paolo dedica ben 11 capitoli della sua Lettera ai Romani per presentare e dettagliare i costitutivi fondanti dell’identità cristiana, e solo tre capitoli (12,1-15,13) alle sue conseguenze etiche. Mi chiedo se per caso non abbiamo invertito i termini nelle nostre prediche, nelle nostre omelie o trattati… Se non altro, ci resta molto lavoro da fare.

1 Cfr. R. Penna, Le prime comunità cristiane. Persone tempi luoghi forme credenze, Carocci, Roma 2010.
2 M. Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, Bompiani, Milano 2005, pag. 272.
3 Cf. A. Lemaire, Naissance du monothéisme. Point de vue d’un historien, Bayard, Paris 2003; J. Assmann, Dio e gli dèi. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, il Mulino, Bologna 2009.
4 Ed. Rusconi, Milano 1993, pag. 27.
5 Traduzione italiana: “Un rabbino parla con Gesù”, San Paolo, Cinisello Balsamo 2007, pagg. 182-193.
6 Cfr. R. Penna, I ritratti originali di Gesù il Cristo. Inizi e sviluppi della cristologia neotestamentaria –I. Gli inizi, Nuova edizione, San Paolo, Cinisello Balsamo 2010, pag. 74, nota 136.
7 Cfr. R. Penna, Op.cit., pagg. 74-86.
8 Così lo studioso americano R.E. Brown con J.P, Meier, Antioch and Rome, New Testament cradles of catholic christianity, Paulist Press, New York 1983, pagg. 2-8 (trad. ital.: Cittadella, Assisi 1987).
9 Cfr. in breve C. Gianotto, Giacomo e il giudeocristianesimo antico, in: G. Filoramo – C. Gianotto (a cura), Verus Israel. Nuove prospettive sul giudeocristianesimo. Atti del Colloquio di Torino, 4-5 novembre 1999, Paideia, Brescia 2001, pagg. 108-119.
10 Cfr. S. Romanello, Una legge buona ma impotente. Analisi retorico-letteraria di Rm 7,7-25 nel suo contesto, Supplementi alla Rivista Biblica 35, EDB, Bologna 1999.
11 Cfr. R. Penna, “Origine e dimensione del peccato secondo Paolo: echi della tradizione enochica”, in: Id., Vangelo e inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, Studi sulla Bibbia e il suo ambiente 6, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001, pagg. 391-418.
12 Si veda in materia il classico studio di E.P. Sanders, Paolo e il giudaismo palestinese. Studio comparativo su modelli di religione, Biblioteca teologica 21, Paideia, Brescia 1986, specialmente le pagg- 634-647.
13 Cfr. rispettivamente: Lezioni sulla lettera ai Romani (1516-1517), a cura di G. Pani, vol. I, Marietti, Genova 1991, pag. 185; La libertà del cristiano (1520), a cura di P. Ricca, Claudiana, Torino 2005, pag. 169.
14 Cfr. R. Penna, “Chiese domestiche e culti privati pagani alle origini del cristianesimo. Un confronto”, in: Id., Vangelo e inculturazione, cit., pagg. 746-770.

IL BIBLISTA ROMANO PENNA: COSÌ L’APOSTOLO «SPIEGA» LA PASSIONE SENZA AVERLA VISTA

http://www.donatocalabrese.it/jesus/dibages3.htm

CON PAOLO SUL CALVARIO DI CHI NON C’ERA

IL BIBLISTA ROMANO PENNA: COSÌ L’APOSTOLO «SPIEGA» LA PASSIONE SENZA AVERLA VISTA

(intervista al docente della Lateranense, autore di un Dizionario sul «gigante della fede», ripercorre con lui l’evento della Pasqua)

«Dietro alle parole sulla Croce come scandalo per i giudei c’è la sua esperienza: quel fatto era tutto ciò che conosceva di Gesù prima della conversione»

Francesco Ognibene

E chi sotto la croce, quel giorno, non c’era? Meditando nella basilica del Santo Sepolcro accanto alla vetta spaccata del Calvario, è impossibile non sentirsi sopraffatti da questa considerazione: io non c’ero ma, pur non avendo visto, ora sono qui, ed è come se il tempo non si fosse spostato dalle tre di quel pomeriggio. Perché è vero che non vedo scorrere il sangue e non sento i colpi che conficcano i chiodi: ma tocco con mano la fede. Il cristiano è testimone di un mistero grande come il Venerdì Santo: non ha visto ma crede, e non solo perché ha « letto » o « ascoltato ». Per muovere qualche passo dentro questo labirinto può affidarsi a san Paolo, che di questa fede è un po’ il prototipo. A guidarci è don Romano Penna, studioso della prima cristianità e professore alla Lateranense, oltre che curatore qualche mese fa dell’edizione italiana dell’imponente Dizionario di Paolo e delle sue lettere (San Paolo, 1886 pagine, 120 mila lire), che tenta di tracciare un profilo di questo gigante della fede e della teologia facendo giustizia di luoghi comuni e tesi stravaganti fioccate negli ultimi tempi.
Colpisce nelle lettere di Paolo trovare essenzialmente due soli episodi della vita di Cristo: la morte e la risurrezione. Cosa significa?
«C’è anzitutto un dato biografico. Stando alle lettere, non è possibile stabilire con certezza quanto ampia e dettagliata fosse la conoscenza che Paolo aveva della vita di Gesù. L’Apostolo non poteva conoscere i Vangeli: le lettere sono state scritte tra il 50 e il 55, il testo di Marco, il primo evangelista a scrivere, è del 70: ritengo inattendibili le datazioni più « alte » proposte sulla base di labilissimi indizi, tipo il frammento di Qumran 7Q5. Ciò premesso, è interessante notare che nelle lettere paoline la morte e la risurrezione non siano descritte ma ripensate nel loro spessore salvifico. Non c’è alcun riferimento a fatti compiuti da Gesù, ma a sue parole. Se però Paolo ha perseguitato la prima comunità cristiana è perché doveva sapere di cosa si trattava e cosa c’era dietro. Là dove dice che la croce di Cristo è « scandalo per i giudei » bisogna intravedere una citazione autobiografica: era lui a essersi scandalizzato prima della conversione. Non aveva conosciuto fisicamente Gesù, ma
sapeva bene chi era e cosa rappresentava».
Qualcuno ne ha dedotto che allora è Paolo il vero fondatore del cristianesimo…
«È una tesi infondata, chi la afferma non coglie la prospettiva paolina: i Vangeli narrano, Paolo è su un piano diverso per quanto non alternativo. Nei Vangeli ci sono i fatti ma non è altrettanto centrale la loro interpretazione in chiave salvifica. Non cadiamo nell’errore del protestantesimo liberale di fine ’800, che si è appiattito sulla vicenda storica riducendo Gesù al livello dei grandi dell’umanità, un’istanza che trasforma il Messia in un maestro da imitare, una linea solo parallela alla vita del
credente. Paolo invece gli fa intersecare l’esistenza concretissima del cristiano, annunciandolo come il Risorto».
Fu subito chiaro che dal Calvario al sepolcro vuoto c’è tutto ciò che basta al credente?
«Sì. Però quel che più conta è che non si tratta di un’intuizione di Paolo ma di un patrimonio dei cristiani delle origini. Al capitolo 15 della prima lettera ai Corinzi l’Apostolo scrive: « Vi ho trasmesso anzitutto quello che ho ricevuto, che Cristo morì per i nostri peccati, e che fu sepolto, e fu risuscitato il terzo giorno ». Dunque un annuncio pre-paolino, fatto proprio e sviluppato da Paolo in modo originale ma già presente nella Chiesa primitiva. Dopo Gesù non viene subito Paolo ma la prima
comunità cristiana. Quel che Paolo approfondisce sono le conseguenze salvifiche della morte in croce».
E non è un modo per sovrapporre una dottrina agli eventi?
«Nient’affatto. Le radici paoline sono giudaiche, e in quella cultura la storicità è fondamentale. Paolo parla di un personaggio con una precisa fisionomia, non di una leggenda. E si rende conto che dal venerdì alla Pasqua si verificano i fatti culminanti, quelli che esprimono maggiormente l’atto di amore di Gesù per l’uomo. In Romani 5,8 si legge che « mentre ancora eravamo peccatori Cristo morì per noi ». È questa dimensione di dedizione totale che Paolo sottolinea, in polemica con il giudeo-cristianesimo: la figura di Cristo infatti emerge con tale forza da rendere chiaro che la salvezza si trova in lui solo, e non nella Torah».
Dal Venerdì Santo alle lettere passano poco più di vent’anni: bastano per una teologia già così compiuta?
«In mezzo c’è la genialità di Paolo. La comunità primitiva aveva fede nel dato del Cristo risorto. La confessione di fede della prima lettera ai Corinzi appare già consolidata e – guarda caso – non si perde in resoconti ma si concentra sull’essenziale: morte e risurrezione. La sintesi paolina è esemplare della fede della prima comunità, che aveva capito tutto: Gesù è morto « per i nostri peccati », e questo
è già un annuncio. Aggiungere poi che è risuscitato il terzo giorno è qualcosa di straordinario, rispetto alla grecità ma anche all’interno di Israele. Il cristiano dunque non spera in un evento generico che va atteso, ma ha la certezza di un fatto già avvenuto».

Gli evangelisti conoscevano le lettere di Paolo?
«No, e secondo me non lo conosceva neppure Luca che proprio a Paolo dedica oltre metà degli Atti. Il motivo? Le lettere erano state scritte a comunità diverse, e solo più tardi verranno raccolte in un corpus che però quando Luca scrive, alla fine degli anni 80, non esiste ancora. Tutt’al più possiamo dire che le lettere forse gli erano note ma lui non le ha volute utilizzare. Illogico? È sbagliato pretendere dagli autori antichi la nostra stessa logica compositiva».

Dalla croce quale fede nasce nel credente che « non ha visto »?
«Quella per il Gesù del quale si vive una presenza: altrimenti lo si ridurrebbe a un Buddha o a un Maometto, morti e basta. Dalla croce alla risurrezione sgorga tutto un concetto di salvezza e di comunità cristiana, perché ci si rapporta a questi eventi non per ricostruirne la memoria archeologica, ma per vivere del « Cristo attuale »: di colui che, pur essendo morto, vive».

Francesco Ognibene

PAOLO E LA CROCE – DI GIOVANNI BISSOLI

http://letterepaoline.net/2009/04/10/paolo-e-la-croce/

PAOLO E LA CROCE

DI GIOVANNI BISSOLI

Riproponiamo il testo di un intervento che Giovanni Bissoli, docente di Giudaismo e Nuovo Testamento, ha tenuto presso il trentaquattresimo Corso di Aggiornamento Biblico-Teologico dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme (25-28 marzo 2008). Il testo originale si può leggere qui (in formato pdf).

Paolo, appena dopo tre giorni che arrivò a Roma, chiamò presso di sé «i più in vista dei Giudei» per presentare loro il suo caso giudiziario e discolparsi dalle accuse. Questi gli risposero: «Noi non abbiamo ricevuto nessuna lettera sul tuo conto dalla Giudea, né alcuno dei fratelli è venuto a riferire o parlar male di te» (At 28,21). Il testo è riportato da Eusebio di Cesarea, che osserva com’era uso delle autorità della madrepatria inviare ai correligionari in tutte le parti del mondo lettere informative mediante dei “legati” o “apostoli” (In Is. 18,1-2).
Anche Saulo era stato inviato alle sinagoghe di Damasco con lettere creditizie contro «i seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati» (At 9,2). Per lo zelo che lo distingueva, prima di essere apostolo di Cristo, fu apostolo giudeo. Uno scritto pseudo-clementino, che può essere preso come un romanzo, lo fa intervenire dopo che Giacomo ha invitato la folla a ricevere il battesimo e lui esorta gli israeliti a non lasciarsi sedurre dai discepoli di un mago. Quando Giacomo gli vuole replicare, incita la folla contro i cristiani e lui stesso se la prende con il fratello del Signore (Rec. I,70).
Saulo aveva studiato alla scuola di Gamaliele: non era un “poliziotto”, ma un esegeta. Come tale combatteva la nuova fede non con la spada, ma con la parola. Quando richiama il suo passato, lo recrimina come un errore, non come un crimine. Per lui giudeo, come poteva essere il Cristo Gesù, giustiziato sul patibolo e per questo «maledetto da Dio» (cf. Dt 21,23: «L’appeso [sul patibolo] è una maledizione di Dio»)? Perciò mediante la sua argomentazione in pubblico e nelle sinagoghe «voleva distruggere la fede» (Gal 1,23; At 9,21), e «devastava la ekklesía» (Gal 1,13).
Anche Giustino conferma che era convinzione dei Giudei del suo tempo che Gesù fosse, in quanto morto sulla croce, «maledetto da Dio» (Dial., 32,1; 89.2; 90,1; 96,1). Quando Paolo scriveva di «Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei» (1Cor 1,23), doveva parlare per esperienza personale. La scala dei valori della cultura contemporanea non pensava differentemente. Ce ne dà un saggio Cicerone, in un suo discorso del 63 a.C.: «Quanto dolorosa è l’ignominia di una sentenza giudiziaria, quanto penosa una multa pecuniaria, quanto misero l’esilio; tuttavia in ogni disgrazia ci resta un aspetto di libertà. Anche se siamo minacciati di morte, moriamo da uomini liberi. Ma il carnefice, la benda sugli occhi e la parola stessa “croce” stia lontana non solo dal corpo, ma anche dal pensiero, dagli occhi e dagli orecchi di un cittadino romano. Perché non soltanto l’accadimento di queste cose o la loro sopportazione, ma la sola eventualità, la prospettiva, la menzione stessa è indegna di un cittadino romano e di un uomo libero» (Pro Rabirio 5,16).
È ben nota una lettera di Plinio il Giovane (legato imperiale di Traiano in Bitinia, 111-113 d.C.), che descrive l’assemblea eucaristica e l’agape cristiana. In questa ricorre la sentenza che ci interessa: la religione cristiana è superstitio prava immodica, che possiamo tradurre: «[è una] credenza smisuratamente stolta», dato che parla di un salvatore crocifisso (Ep. X 96,8).
Questo punto di vista lo conferma anche Paolo: «È piaciuto a Dio salvare i credenti attraverso la stoltezza della predicazione» (1Cor 1,21). «È piaciuto a Dio»: l’espressione indica un atto libero di Dio. Paolo la usa, ricordando la sua esperienza: «Quando è piaciuto a Dio di rivelare suo Figlio attraverso di me» (Gal 1,15). In quel momento cadde il sistema di valori in cui l’ebreo Saulo credeva: «Circonciso l’ottavo giorno, della stirpe di Israele, della tribù di Beniamino, ebreo da Ebrei, fariseo quanto alla legge; quanto a zelo, persecutore della Chiesa; irreprensibile quanto alla giustizia che deriva dall’osservanza della legge. Ma quello che poteva essere per me un guadagno, l’ho considerato una perdita a motivo di Cristo. Anzi, tutto ormai io reputo una perdita di fronte alla sublimità della conoscenza di Gesù Cristo, mio Signore, per il quale ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero come spazzatura, al fine di guadagnare Cristo» (Fil 3,5-8).
L’inno, conservatoci in Fil 2,6-11, ci presenta la cristologia creduta e celebrata fin dai primi anni del cristianesimo: di Gesù Cristo ricorda la natura divina ed eterna nell’uguaglianza con Dio, l’abbassamento nell’assunzione della natura umana, umiliandosi sino alla morte – e morte di croce – e per questo l’esaltazione universale di Gesù Signore “a gloria di Dio Padre”. Ma perché proprio la croce? È il punto più basso cui potesse arrivare, scandalo per il “giudeo”, stoltezza per il “pagano”. Paolo non attenua la durezza del linguaggio.
Abbiamo ricordato l’espressione biblica di Dt 21,23: «L’appeso [sul patibolo] è una maledizione di Dio», cui Paolo si rifà in Gal 3,13. Ne possiamo aggiungere un’altra, non meno forte: «Colui che non conosceva peccato, Dio lo fece (epoíesen) “peccato” in nostro favore» (2Cor 5,21). Parlando del giovenco che serviva per il sacrificio di espiazione, Lv 4,21 in ebraico scrive: hatta’t haqqahal hû, che è reso in greco hamartía synagogês estin: «è “peccato” per l’assemblea». La traduzione italiana semplifica e chiarisce: «è il sacrificio di espiazione per l’assemblea» (traduzione liturgica della CEI). A proposito dell’espiazione, Paolo dice di Cristo: «Dio lo ha prestabilito a servire come strumento di espiazione […] nel suo sangue» (Rm 3,25).
Letterariamente le espressioni sono figure retoriche, metonimie (trasferenza di significato), in cui si prende l’astratto per il concreto o viceversa, perché si tratta sempre di concetti contigui. Ma cosa significano a livello religioso? Mediante la ribellione a Dio la creatura cade sotto il potere del peccato e ha come conseguenza la morte fisica e spirituale (Rm 1,32; 5,12.14; 6,16.21.23). Dio prende sul serio la colpa dell’uomo, altrimenti poteva sembrare che soprassedesse alla colpa (Rm 3,23 s.). Ma croce, sacrificio, espiazione e redenzione non sono atti punitivi, bensì salvifici: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Cor 15,3; cf. 1Gv 2,2; 4,10; 1Pt 3,18: «Cristo è morto per i peccati»; cf. Mc 10,45: «dare la propria vita in riscatto per molti», che fa eco a Is 53,10-12; così nell’istituzione dell’Eucaristia, «sangue… versato per molti»: Mc 14,24).
Nel linguaggio di Paolo: «Ha dato se stesso per i nostri peccati» (Gal 1,4); «mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi» (Rm 5,6); «Uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti» (2Cor 5,14).
Con una bella immagine l’apostolo descrive la situazione che Dio istaura con Cristo crocifisso: «Annullando il documento scritto del nostro debito, le cui conseguenze erano a noi sfavorevoli, egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce» (Col 2,13).
Purtroppo nel nostro tempo accadono spesso dei sequestri di persona a scopo di estorcere soldi alle famiglie facoltose. Nel mondo biblico capitavano casi di schiavitù in occasione di guerra sia a causa di debiti. Chi avrebbe pagato il riscatto? La legge biblica ci dice che toccava al parente più prossimo, chiamato perciò “redentore”. Nell’esodo è Dio, in quanto legato da alleanza con gli antichi padri, che interviene a liberare Israele dalla schiavitù. In seguito il rito dell’agnello pasquale è “memoriale” di questo benefico intervento divino.
Il sangue di Cristo, agnello della nuova Pasqua, toglie tutta l’umanità dalla signoria del peccato per restituirla a Dio: «Con lui siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui siete anche stati insieme risuscitati» (Col 2,12); «È per lui [Dio] che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione» (1Cor 1, 30). Con la croce è tolta la colpa dell’uomo, l’uomo è sottratto al potere del peccato (Rm 6,17s.22): Cristo si è consegnato «per i nostri peccati» in modo da «strapparci da questo mondo perverso» (Gal 1,4).
Una cosa ancora aggiunge Paolo: l’uomo è sottratto alla condanna del giudizio, al potere della morte (Rm 7,5 s.; 1Cor 15,56), ma Cristo è anche la fine della Legge come mezzo di salvezza (Rm 10,4 s.; Gal 2,21; cf. 2,16; 2Cor 3,14): «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge, per riscattare quelli che erano sotto la legge, perché ricevessimo l’adozione a figli» (Gal 4,4-5).
Il fatto che Cristo morì per noi è tale, che Paolo può dire che noi siamo morti con lui (Col 2,20; Gal 2,19; 6,14: con-crocifissi), cioè l’uomo naturale come tale, sottratto al potere del peccato con il battesimo (Rm 6,4-10) e unito alla morte di Cristo, vive ed è “in Cristo” (2Cor 5,14). La risurrezione di Cristo non è solo sigillo che nella croce opera Dio (Rm 8,34), ma lavora anche sui fedeli come giustificazione (Rm 4,25), opera una nuova esistenza per il cristiano (Rm 6,4; Col 2,12) e mira al compimento dell’azione di Dio per ciascuno, alla piena figliolanza (Rm 8,11.17-23; 1Cor 6,14; 15,16.20; 2Cor 4,14 ecc.), altrimenti «la vostra fede è vana e voi siete ancora nei vostri peccati» (1Cor 15,17).
Come avviene questo? La morte in croce di Cristo è avvenuta «una volta per sempre» nel passato. Ma Dio rende efficace questo fatto appena una creatura accetta l’azione di Dio mediante la fede e ratifica la sua adesione interiore mediante il battesimo: «Quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo stati battezzati nella sua morte. Per mezzo del battesimo siamo stati sepolti insieme a lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,3-4). Il cristiano è “nuova creatura” (2Cor 5,17; Gal 6,15).
Per Paolo non c’è che un unico vangelo (Gal 1,6-7): nella croce e nella risurrezione appare l’estremo e definitivo atto d’amore di Dio (Rm 8,32). È opera di amore del Padre che dà a noi il Figlio in croce (Rm 5,8; 8,39), amore del Figlio che si dà per noi (Gal 1,4; 2,20): per questo il vangelo non si può comprendere se non con lo Spirito (1Cor 2,7-10).
Paolo ha sempre considerato la persona e l’opera di Cristo nella prospettiva della croce. Dio non ha tolto i peccatori dalla loro situazione agendo dall’esterno, ma operando dentro la loro situazione. Com’è avvenuto? Ci è facile tenere a mente la frase: «Quando venne la pienezza del tempo, Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Gal 4,4). Ha preso corpo dalla vergine Maria colui che non «conosce peccato», ma assume «il corpo del peccato» (Rm 6,6), «il corpo votato alla morte» (Rm 7,24): «(Dio) mandando il proprio figlio in una carne simile a quella del peccato e in vista del peccato, ha condannato il peccato nella carne» (Rm 8,3).
Noi non potevamo uscire dalla nostra situazione senza speranza, ma il giusto, l’innocente, il Figlio di Dio si è immedesimato con noi e ne ha portato le conseguenze. Cristo in croce si è identificato con noi, perché noi ci identificassimo con lui, cioè diventassimo “giustizia di Dio” (2Cor 5,21b): «Tutto però viene da Dio» (2Cor 5,18). Tutto viene da Dio, tutto è grazia sua. All’apostolo è affidato «il ministero della riconciliazione» (2Cor 5,18).
Paolo scrive allora che la sua sapienza è «Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1Cor 2,2). Non è un vangelo a contenuto ridotto, quasi non voglia parlare del Risorto, al contrario (cf. 1Cor 15). Ma la croce è l’evento decisivo della salvezza, che dà morte alla morte / peccato e nello stesso tempo dà la vita. In altre parole: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita che vivo nella carne io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20).

IL MAESTRO IN SAN PAOLO – PRIMA PARTE di Giovanni Helewa ocd

http://www.stpauls.it/studi/maestro/italiano/helewa/itahel01.htm

IL MAESTRO IN SAN PAOLO

(forse l’ho già messo, ma io stò rileggendo volentieri, ci sono altre due parti)

Atti del Seminario internazionale
su « Gesù, il Maestro »
(Ariccia, 14-24 ottobre 1996)

di Giovanni Helewa ocd

PRIMA PARTE

I. SAN PAOLO MAESTRO E FORMATORE

«…Come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiurandovi, a camminare in maniera degna di quel Dio che vi sta chiamando al suo regno e alla sua gloria» (1Ts 2,11-12).

1. Alcune premesse generali
— Dal vangelo predicato al vangelo spiegato: una catechesi dove si espongono ai credenti le ricchezze della grazia di Cristo, insegnando loro «come camminare in modo di piacere a Dio» (1Ts 4,1).
— «Completare ciò che ancora manca alla vostra fede» (1Ts 3,10). «Essere di aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede» (Fl 1,25). Insieme fede creduta (Rm 10,9) e fede vissuta (Ga 5,6). Un nutrimento indispensabile, sia esso « latte » o « cibo solido » (cf 1Co 3,1-2).
— «Noi parliamo davanti a Dio, in Cristo, e tutto, carissimi, è per la vostra edificazione» (2Co 12,19; cf 4,15). La oikodomé: crescita e consolidamento in Cristo (cf Col 2,6-7; Ef 4,15-16), ossia promozione dell’autenticità battesimale nei singoli e nelle comunità.
— Un’opera di formazione che aiuti i credenti ad avanzare nel cammino di una perfezione sempre da inseguire (Fl 3,12.15-16; 1Ts 4,1.9-10). Il metodo: «poiché siamo collaboratori, vi esortiamo ad accogliere la grazia di Dio in modo che essa non resti vana [in voi]» (2Co 6,1). La durata e lo scopo: «finché Cristo non sia formato in voi» (Ga 4,19; cf 2Co 3,18).
— Dopo l’annunzio del vangelo in mezzo ai pagani, non esiste per Paolo una diakonía più importante di questa: procurare che il vangelo si confermi e prosperi nella esistenza di coloro che hanno creduto in esso. A tale livello, del resto, si situano le Lettere.
— Coinvolgimento personale: tenerezza materna (1Ts 2,7-8; Ga 4,19) e sollecitudine paterna (1Ts 2,11; 1Co 4,14-15; cf 2Co 12,14-15); solidarietà sentita (Fl 2,1-2; 4,1; 1Ts 2,19-20; 3,1.5.7-10; 2Co 11,28-29); parola ed esempio (1Co 11,1; Fl 3,17; 4,9; 2Ts 3,7; cf 1Co 9,1ss); soprattutto il principio: «noi crediamo e perciò parliamo» (2Co 4,13-15; cf 1,3ss).
— Spirito di collaborazione e di servizio: «Noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia, perché nella fede già state» (2Co 1,24; cf 1Ts 2,6). «Quanto a noi, siamo i vostri servitori per amore di Gesù» (2Co 4,5). (torna al sommario)

2. Il ministero paolino della « paraklesis » (1Ts 2,11-12) (torna al sommario)
a) Un carisma ecclesiale specifico (Rm 12,6-8)
— Il criterio è sempre quello della utilità (1Co 12,7), la quale coincide con la edificazione (1Co 14,5.6.12.17.26; cf 8,2; 10,23.33).
— Vengono edificati coloro che già sono «edificio di Dio» (1Co 3,9). Si tratta quindi di «collaborare con Dio» (1Co 3,9; 2Co 6,1), secondo una grazia di Dio stesso (cf 1Co 3,10; 15,10; Rm 12,3.6; 1Pt 4,10-11; ecc.) nella costruzione di un’opera che è tutta di Dio (1Co 3,16-17; 4,1-2) per il bene dei credenti (2Co 1,24; 4,5; 10,8; 13,10; Fl 1,25).
— Il ministero-carisma della profezia: il dono di parlare da credenti (2Co 4,13) ai credenti (1Co 14,22) per loro «edificazione, esortazione e conforto» (1Co 14,3-4.22; cf At 15,32). E questo della profezia sembra essere stato ritenuto il primo dei carismi, dopo quello dell’apostolato (1Co 12,28; 14,1.5.39; Ef 2,20; 3,5; 4,11). (torna al sommario)
b) Il modo: edificare esortando e confortando (1Co 14,3)
— 1Ts 2,11: «Come fa un padre verso i propri figli, abbiamo esortato ciascuno di voi, incoraggiandovi e scongiurandovi…».
— Parakaleîn = esortare. A seconda dei casi: invitare, sollecitare, premere, pregare; oppure: stimolare, confortare, rianimare, incoraggiare, consolare; oppure ancora: avvertire, ammonire, raddrizzare, correggere, riprendere…
— Il linguaggio è quello dell’invito pressante e l’intento è pratico: si esorta ad un modo di vivere, ad un comportamento, ad una disposizione da promuovere ciascuno dentro di sé, a procurarsi certezze interiori, ecc.
— È una catechesi rivolta all’intelligenza e alla volontà, tesa ad illuminare la mente e muovere il cuore. Non è quindi la parola didascalica di un insegnante che si limiti a spiegare concetti ed articolare dottrine; è piuttosto il discorso di un padre che cerca di convincere ed avvincere, dicendo la verità del vangelo con il calore e la partecipazione di chi invita e sollecita ed ammonisce ed incoraggia dei figli a lui molto cari.
— Si presuppone che tale paraklesis voglia anche istruire (cf 1Tm 4,13; 6,2-3; 2Tm 4,2; Tt 1,9); ma è l’istruzione di un maestro che vuole « edificare » i credenti « esortando » e « confortando » (cf 1Co 14,3).
— Esortare non è « comandare » o « prescrivere » (cf Fm 8-10), anche se la paraklesis apostolica non manchi di autorità (2Co 5,20; 1Ts 2,6; 4,1-2; 2Co 13,8.10) e il suo contenuto sia di fatto normativo: «Questa è la volontà di Dio in Cristo Gesù verso di voi» (1Ts 5,18; cf 4,3; Rm 12,2). Tuttavia, ciò che Dio vuole da noi (norma) coincide oggettivamente con ciò che Dio vuole per noi (progetto di grazia); e tale «norma-grazia di Dio in Cristo Gesù», Paolo ritiene di doverla proporre alle coscienze con il linguaggio persuasivo e coinvolgente della esortazione, piuttosto che con il linguaggio alquanto distante del comando… (torna al sommario)
c) Il contenuto: siate ciò che siete; dignità e coerenza
— 1Ts 2,12: [«Abbiamo esortato ciascuno di voi]… a camminare in maniera degna di quel Dio che vi sta chiamando al suo regno e alla sua gloria».
— Peripateîn: camminare, procedere, andare avanti, tesi ad un traguardo di perfezione rivelato e promesso e sperato e desiderato (cf 2Co 5,6-7; Fl 3,12-16). È un «camminare in novità di vita» (Rm 6,4), un «camminare nel Signore Gesù Cristo» (Col 2,6), un «camminare secondo lo Spirito lasciandosi guidare dallo Spirito» (Ga 5,16.18.25).
— Impegno doveroso come in terra d’esilio (2Co 5,6-7) ed insieme religiosità di risposta: alla klesis divina, la quale indirizza verso la patria celeste (cf Fl 3,20; 2Ts 2,14), rispondere con l’impegno di un peripateîn quotidiano e coerente.
— Si noti l’avverbio aksíos = in maniera degna (cf 1Ts 2,12; Fl 1,27; Col 1,10; Ef 4,1). Un richiamo al senso di identità-dignità in Cristo e alla doverosa coerenza che si addice a credenti fatti consapevoli della grandezza e ricchezza della loro chiamata in Cristo, del loro rapporto di grazia verso il Signore, della speranza gloriosa donata loro (cf Fl 3,20; Ef 1,18; Col 1,23.27). Una metodologia caratteristica: i credenti vengono sollecitati ad aprirsi a criteri di nobiltà e di grandezza, rispondendo sempre meglio al Dio che «li sta chiamando al suo regno e alla sua gloria» (1Ts 2,12).
— Un ministero dottrinalmente impegnativo: occorre molta catechesi per far comprendere ai credenti ciò che ormai sono in Cristo Gesù, facendo loro apprezzare ciò che Dio, in Cristo, vuole per loro e da loro. Ed è un ministero volutamente persuasivo: si lascino i credenti illuminare ed avvincere da tanta verità (cf 1Co 2,9ss; Col 1,9; Ef 1,18; Fl 3,8.12) ed onorino la loro dignità nel vivere di ogni giorno.
— Alcuni esempi: 1Ts 4,3-8; 1Co 3,21-23; 6,19-20; Ga 5,1; 5,16-25; Rm 6,13; 12,1-2; 14,7-9; Col 3,1-4; Ef 4,30; 5,1-2; 5,8-9… Prospettiva di fondo: Cristo impresso e Cristo espresso. In altre parole: il Cristo di cui ci si è « rivestiti » nel battesimo (Ga 3,27) diventi effettivamente il « vestito » nuovo di un vivere nuovo (Rm 13,14; Col 3,8-10; 3,12ss; Ef 4,20-24). (torna al sommario)

3. Una formazione fondata sui valori (Rm 12,2; Fl 1,9-11)
— Esortando i credenti a camminare in maniera degna della loro chiamata battesimale, Paolo formatore ha cura di promuovere nelle coscienze questa motivazione primaria: piacere a Dio (1Ts 4,1; 2Co 5,9; Rm 12,1-2; Col 1,10; Ef 5,10) vivendo sempre e facendo tutto «per la gloria di Dio» (1Co 10,31; 6,20; Rm 15,6; cf 1Pt 4,11). È il valore sommamente religioso che l’Apostolo stesso dice d’inseguire sempre (1Ts 2,3-5; Ga 1,10; 2Co 10,17-18; Fl 1,20-21…). È un aderire con la propria intenzione all’intenzione di Dio stesso, il quale tutto ha fatto in Cristo e tutto fa nella grazia del vangelo «a lode della sua gloria» (Fl 2,11; Rm 11,36; 15,16; Ef 1,6.12.14; 2,7; 4,21…). E dato che è Cristo Gesù la gloria-immagine-grazia di Dio (2Co 4,4.6; Col 1,15; 3,10; cf Eb 1,3), voler piacere a Dio significa impegnarsi ad esprimere Cristo e a crescere in Cristo (cf 2Co 3,18), portando ciascuno a compimento la propria santificazione (2Co 7,1).
— «Vi esorto… ad offrire i vostri corpi come un’ostia vivente, santa e gradita a Dio: è questo il culto interiore che deve essere il vostro» (Rm 12,1; cf 1,9; 15,16; Fl 3,3). Si è sollecitati a dare a Dio ciò che è di Dio (cf Rm 11,36), offrendo ciascuno nel vivere quotidiano la propria persona a Colui che si degna di santificarla per Sé (cf 1Co 3,16-17; 6,19-20; 7,23). Dal momento che si è del Signore, si cerchi di vivere per il Signore, come dei servi che sono attenti al volere e alla gloria del loro Signore (Rm 14,7-9; 1Co 3,23).
— Formando i credenti alla scuola dei valori evangelici, Paolo tiene ad esaltare la carità nel dinamismo nuovo dell’esistenza cristiana. «La scienza gonfia, mentre la carità edifica» (1Co 8,2). «Tutto si faccia tra voi nella carità» (1Co 16,14). Quella della carità è «la via migliore di tutte» (1Co 12,31). «La carità non avrà mai fine… Di tutte più grande è la carità» (1Co 13,8.13). «Al di sopra di tutto vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione» (Col 3,14). Il primato insostituibile è della carità (1Co 13,1-3). Infatti, i credenti esprimeranno Cristo e saranno graditi a Dio quali figli suoi allorquando «cammineranno nella carità» (Ef 5,1-2).
— Via maestra dell’autenticità cristiana, quella della carità è percorribile da tutti, e si percorre nella ordinarietà quotidiana (1Co 13,4-7). Il suo spazio normale e congenito è quello della comunità dei fratelli (cf 1Ts 4,9-10; 5,12-14; Ga 5,13-15; 6,1-2; Rm 12,9-16; 14,19; 15,1-7; Fl 2,1-4; Col 3,12-17; Ef 4,1-6; 4,31-32; 5,1-2…). Nella luce della carità viene proposto questo valore formativo: intonarsi alla mente di Dio ed apprezzare la grandezza delle piccole cose; non sono richieste per sé le grandi imprese, ma si è graditi a Dio secondo la misura dell’amore vissuto ed espresso!

 

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