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“Voi siete una lettera di Cristo scritta con lo Spirito del Dio vivente” II Cor 3,3

http://www.battistine.it/Upload/pdf/Don_Francesco_-_Siete_una_lettera_di_Cristo.pdf 
 
“Voi siete una lettera di Cristo scritta con lo Spirito del Dio vivente” II Cor 3,3
 
Nel mondo antico era prassi esibire referenze o lettere di raccomandazioni per accreditare la propria persona e dare lustro alle proprie attività o iniziative. Queste lettere erano necessarie soprattutto per i filosofi, gli insegnanti o i predicatori. Anche l’Apostolo Paolo usava scrivere lettere di raccomandazione in favore dei suoi collaboratori quando li inviava presso le chiese locali. Sembra invece che egli non portasse lettere di questo tipo dopo la sua “conversione”, esponendosi così ad accuse tese a screditare la sua persona e la sua opera. Discutendo con i Corinti, una comunità
difficile e litigiosa, San Paolo chiede loro con humor se per annunciare il Vangelo di Gesù hanno bisogno di una lettera di raccomandazione e lancia questa superba affermazione: “La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini. E’ noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori” (II Lettera ai Corinzi 3, 2-3). Paolo fa cinque affermazioni che caratterizzano la lettera di raccomandazione che sono i Corinti: 1. Essi sono “una lettera di Cristo”. Non si tratta di una lettera “che parla di Cristo”, ma di una lettera “scritta da Cristo” il quale, dunque, ne è l’autore. 2. Paolo ne è stato lo strumento: è stata scritta “mediante il nostro
servizio”. 3. Colui che ha scritto le righe è lo Spirito del Dio vivente e vero.  2 4. La lettera è scritta su “cuori di carne” e non su tavolette di pietra o di cera. 5. E’ una lettera manifesta, pubblica, palpabile, “conosciuta e letta
da tutti gli uomini”. 
 
Noi siamo un pensiero di Dio e portiamo il suo messaggio 
L’Apostolo scrive alla comunità cristiana di Corinto e pertanto attribuisce al suo messaggio un valore comunitario e personale: cioè è lettera di Cristo sia la comunità che il singolo cristiano. Io, la Comunità in cui vivo, la Congregazione delle Battistine siamo “una lettera” scritta da Cristo. Si tratta di qualcosa di grandioso e di spaventoso perché siamo chiamati ad essere libro di coloro che non credono. In altre parole l’annuncio più efficace di Cristo è la mia vita e la vita della mia comunità cristiana. Per cercare di cogliere l’insegnamento di Paolo è importante sapere che cosa l’Apostolo intende quando parla di “lettera scritta su tavole di pietra” e “lettera scritta con lo Spirito del Dio vivente”.
La prima è la legge di Mosè la quale essendo una legge scritta rimane esteriore a chi la doveva osservare. Il cristiano, invece, è mosso da una legge interiore, scritta nei cuori, quella che altrove l’Apostolo definisce la legge dello Spirito che dà la vita in Gesù Cristo e che libera dalla legge del peccato e della morte (Rm. 8, 2). 
 
Lo Spirito Santo ci plasma secondo l’immagine di Cristo 
Nella nuova alleanza Dio non si limita più a comandare all’uomo di fare o non fare, ma fa egli stesso con lui e in lui le cose che egli comanda. La vita cristiana, allora, non è tanto l’adempimento di precetti esterni, l’osservanza di una legge esteriore, ma un assecondare lo Spirito che  3 vive in noi, ci muove, ci guida nell’amore, nella gioia, nella pace. S. Ireneo afferma che “sotto l’azione dello Spirito Santo l’uomo diventa un essere composto di corpo, anima e Spirito Santo”. Pertanto possiamo dire che il cristiano è una persona condotta, guidata, influenzata, mossa dallo Spirito.
Scrive il Card. Martini che “una delle tentazioni più sottili e perfide del Maligno [è ] quella di farci dimenticare la presenza dello Spirito, di farci cadere nella tristezza come se Dio ci avesse abbandonato in un mondo cattivo, contro il quale lottiamo ad armi impari, perché l’indifferenza, l’egoismo e la dimenticanza di Dio hanno a poco a poco il sopravvento (Tre racconti dello Spirito, Centro Ambrosiano). Il Cardinale si chiede poi se questo atteggiamento non sia “un grave peccato contro lo Spirito Santo, che nega in pratica la sua forza e la sua capacità persuasiva, la sua penetrazione come vento e come soffio nei meandri della storia”. 
 
Lo Spirito ci guida nella conoscenza del Vangelo e della volontà di Dio 
Ma come agisce, in concreto, questa legge nuova che è lo Spirito? Agisce attraverso l’amore. Il Veni Creator dice: riempi d’amore i nostri cuori. Solo lo Spirito possiede l’amore e fa sì che tutta la vita umana sia impregnata e governata dall’amore e trasformata in amore. L’amore che ci dona lo Spirito Santo non è da confondersi con il
sentimentalismo o le emozioni o la compassione: è l’amore di Dio e di Cristo che ci viene donato, è lo stesso amore che circola all’interno della Santissima Trinità. La legge dello Spirito crea nel cristiano un dinamismo che lo spinge a
fare tutto ciò che Dio vuole, perché ha fatto propria la volontà di Dio e ama tutto ciò che Dio ama. Il Figlio di Dio, Cristo, è la mano attraverso la quale il Padre ci abbraccia, ci accarezza, ci aiuta, ci dice che ci ama. Il Figlio a sua
volta, toccandoci ci dona lo Spirito. Esso è il dito della destra di Dio e sta ad indicare l’intervento concreto ed immediato di Dio nella mia vita per farmi creatura nuova. Lo Spirito, soprattutto, porta con sé  4 Cristo. E’ il principio trasformante che ci assimila progressivamente a Cristo. Come? Aiutandoci ad interpretare correttamente le sue parole.
Infatti lo Spirito non dice nulla di suo, ma ci aiuta a “ricordare” le parole di Gesù, a comprenderle, ad approfondirle e a viverle. In questo senso egli è Spirito di “sapienza e di scienza”. E’ voce che parla al cuore (Gv. 16,13; Rm. 8,26; Gal. 4,6) e ci dice che tutto quello che Gesù ha detto, quando era in mezzo agli uomini, non è arida dottrina, ma legge di vita. Mi insegna che il Vangelo non è solo né principalmente un testo di studio, ma è codice esistenziale, legge e
segnaletica per una vita nuova, finalizzata all’adorazione al Padre. 
 
Maria… lettera perfetta di Cristo
 La presenza dello Spirito chiede docilità, obbedienza, abbandono. Non è sufficiente ascoltare, non è sufficiente neppure prestare attenzione, ma è necessario l’affidamento a Lui come ha fatto la Vergine Maria. Quando l’anima sarà totalmente abbandonata allo Spirito Santo allora la Parola si incarnerà in lei e avverrà la nostra identificazione con
Cristo. In questa prospettiva, allora, la perfetta lettera di Cristo, la più bella, la pagina più splendente che Dio ha scritto è la Vergine Maria. Lei è il capolavoro di Dio. Nei Messali ed antifonari antichi troviamo delle bellissime lettere miniate, così è Maria. E’ la lettera d’oro, ricercata, curata che nobilita, abbellisce e dà senso a tutta l’umanità. 
 
I Santi realizzano il messaggio di Dio a loro affidato 
Dopo di lei i Santi sono somiglianza di Cristo, coloro nei quali risplende il volto di Gesù, che hanno gli stessi sentimenti di Cristo, e sono riproposizione del messaggio di Cristo. I Santi sono spiegazione viva del Vangelo che la Chiesa, che è comunione dei santi, è chiamata ad annunciare in ogni tempo.  5 Il Concilio Vaticano II ricorda che i santi sono coloro “che hanno seguito fedelmente Cristo”. Attraverso di loro impariamo “la via sicurissima per la quale, tra le mutevoli cose del mondo e secondo lo  stato e la condizione propria di ciascuno, potremo arrivare alla perfetta unione con Cristo, cioè alla santità. Nella vita di quelli che, sebbene partecipi della nostra natura umana, sono più perfettamente
trasformati nell’immagine di Cristo, Dio manifesta agli uomini in una viva luce la sua presenza e il suo volto. In loro è egli stesso che ci parla e ci dà un segno del suo regno verso il quale, avendo intorno a noi un tal nugolo di testimoni e una tale affermazione della verità del Vangelo, siamo potentemente attirati” (LG 50). Nella vita dei santi Cristo si fa di nuovo presente in mezzo a noi perché è lo specchio di Cristo. La sua esistenza è la più efficacia opera di convinzione della bontà della Parola di Dio, della sua verità per l’esistenza gioiosa dell’umanità.
 
Lo Spirito ci dà la forza per annunciare e testimoniare il messaggio 
I Santi non sono figure eccezionali o degli eroi leggendari, ma persone che – poiché si sono resi docili all’azione dello Spirito Santo e si sono abbandonati alla sua forza trasformante – sono diventati nuovi nei pensieri, nuovi nella volontà, nuovi nei desideri e nuovi nei sentimenti. In particolare, chi è ripieno dello Spirito, sperimenta una creatività inattesa e una forza nuova. Una forza quanto mai necessaria oggi, soprattutto per non tradire il messaggio di Cristo o ridurlo, come si dice, ad una forma di buonismo, a buoni sentimenti, a parole che vanno bene per qualsiasi situazione.
A questo proposito vorrei ricordare che S. Ippolito (inizio III sec.) fa presente che gli apostoli hanno tradito Cristo prima della Pentecoste, mentre dopo hanno predicato e testimoniato con fortezza il Cristo. Esiste uno stretto legame tra Spirito e testimonianza. Io sono niente. Davanti al mondo sono un disarmato. E’ lo Spirito che mi dà coraggio,
fortezza, generosità; che mi rende annunciatore e testimone. Rimane quanto mai attuale anche per noi ’ammonimento, quando qualche nostra opera ha successo, a non dimenticare l’origine della  6 nostra “forza”: “Guardati dal dire: è stata la mia forza, il vigore del mio braccio a procurarmi questo potere”. Soprattutto la vita dei santi è tutto un atto di amore. Hanno compiuto tante cose, ma tutto quello che hanno fatto si riassume nel duplice comandamento dell’amore.
 
Essere Santi secondo la propria vocazione 
I santi, prima di diventare tali, erano scrittura comune, scarabocchio, fango, libri sigillati dall’incoerenza, come noi. Come hanno conseguito la pienezza della vocazione cristiana, la santità? La vita spirituale del cristiano è un cammino che è molto differente dal cammino dell’uomo sul piano naturale. Il cammino dell’uomo sul piano naturale si qualifica come una lenta conquista della propria indipendenza ed autonomia. Nella vita spirituale è il contrario. Nasciamo che siamo vecchi a causa del peccato ed il cammino dell’anima è un cammino a ritroso, un cammino cioè che va dalla
vecchiaia alla giovinezza, all’infanzia: “Se non vi convertirete e non diventerete come bambini non entrerete nel Regno dei cieli” (Mt 18, 3). Si tratta di un’esperienza meravigliosa! Invece di invecchiare si ringiovanisce. Si nasce vecchi e si muore bambini. In definitiva il cammino della vita spirituale consiste in una rinuncia progressiva alla propria indipendenza per aderire alla volontà di colui che amiamo: Cristo. Quanto più cresce l’amore per il Signore tanto si
è disposti a rinunciare con gioia alle proprie vedute, ai propri giudizi, alle proprie vie per seguire le vie attraverso le quali il Signore ci conduce. Fino all’abbandono! Proprio come un bambino in braccio a sua madre. E’ questo il cammino dell’anima. Anche se abbiamo i capelli bianchi bisogna ritornare bambini, tra le braccia di Dio. Se Cristo vive, cresce, risplende in noi saremo un “segno chiaro” leggibile di Cristo. Se Cristo, invece, viene messo ai margini
dell’esistenza e dell’apostolato – perché ha prevalso una mentalità mondana, perché sono assecondate mode o atteggiamenti effimeri e mutevoli, perché ci si è mimetizzati con il mondo – saremo un “segno oscuro” con grave pericolo per la nostra vita spirituale e per i fratelli. Il giorno della professione religiosa, per usare parole di Paolo VI,  7
abbiamo detto al Signore: “La mia vita è tua; da te, mio Dio, mi è stata data, a te, o Dio, la restituisco”. 
 
Il Beato Alfonso M. Fusco, lettera chiara e trasparente di Cristo 
La lettera di Cristo per noi è il nostro Fondatore: il beato Alfonso Maria Fusco. Attraverso la sua vita, la sua opera, i suoi scritti, il suo amore per i poveri, la sua attività apostolica… noi vediamo il volto di Cristo. E’ lui che dà concretezza alla nostra sequela di Cristo. Noi, infatti, non seguiamo un Cristo astratto, generico, disincarnato, ma il
Cristo che si rende presente e si rivela in una comunità ben definita: la Chiesa. Ed è all’interno di questa Comunità che vengono generati figli santi, tra i quali il nostro Fondatore. In lui il Signore Gesù ha assunto fattezze concrete e storiche, si è quasi “umanizzato”. Pertanto la nostra conoscenza di Cristo oltre che dalla Chiesa è mediata dal Beato Alfonso Maria Fusco. I Corinti sono diventati lettera di Cristo mediante il servizio apostolico di S. Paolo. Noi
diventiamo “lettera di Cristo” per mezzo del ministero del nostro Fondatore. E’ questo che voleva il nostro Fondatore quando alle Suore ripeteva: “Cosa credete di essere venute a fare nell’Istituto? Forse a formare una famiglia qualsiasi? No! Siete venute a formare una famiglia di Sante. Scopo della vostra vita è santificarvi” 
 
La nostra vocazione è la chiamata alla santità 
Dio ci chiama alla grandezza, alla bellezza dell’ideale della santità: diventare santi per essere rivelazione della presenza di Cristo in mezzo agli uomini. Davanti alle altezze alle quali il Signore ci chiama può nascere in noi sgomento e smarrimento perché ci sentiamo estremamente poveri ed infinitamente lontani. Eppure la nostra  8 povertà e miseria non deve diventare un pretesto per diminuire le esigenze di Dio ed accontentarci di essere delle persone buone.
Il Signore non ci chiede una qualunque bontà ci chiede la santità che è trasparenza di Dio, che è liberazione dall’egoismo, che è rivestimento di Cristo, testimonianza della presenza di lui in mezzo agli uomini. No! la nostra miseria non deve diventare il pretesto per diminuire le esigenze di Dio. Se veramente noi siamo figli di Dio noi possiamo confidare che anche dalla nostra miseria Dio saprà trarre prodigi di santità e di grazia.

Don Francesco Cavina
 

“FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME”: NON CONTRADDITE CON IL VOSTRO AGIRE L’EUCARISTIA CHE CELEBRATE – 1 Cor 11,17-34

http://www.diocesiprato.it/pdf/I%20Corinzi%20Scheda%20XI.pdf

(è un PDF, ho dovuto « stringere » molto il testo, ho avuto qualche difficoltà ad inserirlo nel Blog,  se volte vedere la grafica originale potete andare sul sito)

DIOCESI DI PRATO

UNDICESIMO INCONTRO

“FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME”: NON CONTRADDITE CON IL VOSTRO AGIRE L’EUCARISTIA CHE CELEBRATE -  1 Cor 11,17-34

ACCOGLIENZA E PRESENTAZIONE DELL’INCONTRO
PREGHIERA INIZIALE

Lettore: Dio nostro, Padre della Luce, tu hai inviato nel  mondo la tua Parola,  sapienza uscita dalla tua bocca che ha creato tutto ciò che esiste e ha preso dominio su tutti  i popoli della terra.
 Tu hai voluto che essa prendesse una dimora in Israele e che attraverso Mosé, i  profeti e i salmi manifestasse la tua volontà e parlasse al tuo popolo del Messia Gesù.
 Finalmente, hai voluto che lo stesso tuo Figlio, Parola eterna presso di Te, divenisse  carne e ponesse la sua tenda in mezzo a noi, quale nato da Maria e concepito dallo Spirito  Santo.
Tutti: Manda ora su di noi, ti preghiamo, il tuo Spirito perché ci doni un cuore
capace di ascolto, ci permetta di incontrarlo in queste sante Scritture e generi in ciascuno
di noi il Verbo. Questo tuo Spirito tolga il velo ai nostri occhi, ci conduca a tutta la Verità,
ci dia intelligenza e perseveranza.
 Te lo chiediamo nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. AMEN.
Lettore: San Paolo, apostolo delle Genti:
Tutti: Prega per noi e per la Chiesa di Dio che è in Prato.

LETTURA DELLA PAROLA DI DIO
Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (11,17-34)
17  E mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi per il fatto che le vostre  riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio.  18  Innanzi tutto sento dire  che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo.  19  E` necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli  che sono i veri credenti in mezzo a voi.  20  Quando dunque vi radunate insieme, il  vostro non è più un mangiare la cena del Signore.  21  Ciascuno infatti, quando  partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto  e così uno ha fame, l`altro è  ubriaco.  22 Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare  il disprezzo sulla chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi?  Lodarvi? In questo non vi lodo!  23 Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il  Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane  24 e, dopo aver reso  grazie, lo spezzò e disse: « Questo è il mio corpo,  che è per voi; fate questo in   memoria di me ».  25 Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice,  dicendo: « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta  che ne bevete, in memoria di me ».  26 Ogni volta infatti che mangiate di questo pane  e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga.  27 Perciò chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà  reo del corpo e del sangue del Signore.  28 Ciascuno, pertanto, esamini se stesso e  poi mangi di questo pane e beva di questo calice;  29 perché chi mangia e beve senza  riconoscere il corpo [[del Signore]], mangia e beve la propria condanna.  30 E` per  questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti.  31 Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati;
32 quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non esser  condannati insieme con questo mondo.  33 Perciò, fratelli miei, quando vi radunate  per la cena, aspettatevi gli uni gli altri.
34  E se qualcuno ha fame, mangi a casa,  perché non vi raduniate a vostra condanna.

 SPUNTI PER LA RIFLESSIONE
 Per uno sguardo d’insieme sul contesto della lettera nel quale il brano è inserito, vedi l’INTRODUZIONE, , nel paragrafo Qual’è il contenuto della lettera? alla parte V.  Dopo quanto sviluppato in  11,2-16, Paolo prende in considerazione una seconda forma di abuso che si realizzava durante la celebrazione del culto, questa volta in  riferimento alla Cena del Signore (Eucaristia).  La premessa fondamentale da porre è quella di cercare di inquadrare bene la situazione di cui si sta parlando: a partire da una lettura attenta di questo e di altri testi nel  Nuovo Testamento (vedi soprattutto At 2,42.46; 20,7.11), si comprende come nelle prime comunità cristiane la celebrazione dell’Eucaristia avveniva nella forma di e/o in unione a un pasto vero e proprio. L’abuso stigmatizzato da Paolo riguarda, quindi, un aspetto apparentemente lontano dalla nostra sensibilità: i  corinzi, infatti, tendevano a svilire il significato dell’Eucarestia a tutto vantaggio del pasto conviviale nel quale questa era inserita. Ora, se le circostanze sono così distanti e diverse rispetto ai nostri usi, attualissimo è il significato degli avvenimenti implicati

 Ecco la struttura del passo:
 A  11,17-22: il problematica: il disprezzo del fratello povero
  B  11,23-26: la tradizione, origine dell’Eucarestia
  B’  11,27-32: in risposta a 11,23-26 “comprendere il significato del Corpo”
 A’  11,32-34: in risposta a 11,17-22 “siate accoglienti con i fratelli”

 Ma in che modo avveniva questo abuso? Qui dobbiamo cercare di comprendere gli avvenimenti facendo attenzione alla situazione sociologica della comunità di Corinto: 1. la comunità si riuniva là dove era possibile, e, quindi, principalmente (vedi Rom 16,23) nelle case dei credenti più facoltosi, che in questo modo divenivano i patroni della cena che veniva offerta;
2. le evidenze dell’archeologia mostrano in maniera chiara che nemmeno le case dei ricchi avevano la possibilità di riunire tutta la comunità in un una sola assemblea, 3 per cui i credenti si suddividevano, almeno per alcune parti della riunione, in ambienti diversi della casa; 3. in una società fortemente classista come era quella di Corinto, è naturale pensare che il patrono offrisse il suo pasto conviviale essenzialmente a coloro che  appartenevano alla sua stessa classe sociale; 4. è quindi probabile che la cena conviviale si svolgesse in modo che solo alcuni avessero la possibilità di parteciparvi in maniera completa, mentre altri, soprattutto  i credenti di bassa estrazione sociale, o schiavi, non vi partecipavano direttamente o venivano trattati in maniera ancora peggiore (considerando anche il fatto che schiavi e lavoratori spesso erano costretti ad arrivare solo dopo essersi liberati delle loro incombenze, e, quindi, con notevole ritardo); L’argomentazione di Paolo è abbastanza chiara:
1. il termine centrale è quello di “corpo”, termine che rimanda alla persona di Cristo, ma insieme al pane dell’Eucarestia, che ne è la presenza sacramentale, e alla Chiesa, che ne è la presenza efficace e vivente nel mondo; 2. queste 3 realtà sono indissolubilmente legate, così che ogni abuso nella celebrazione dell’Eucarestia è anche un abuso verso il suo “corpo” che è la Chiesa, e viceversa; 3. per questo l’incapacità dei corinzi di vivere nella condivisione con il fratello più povero la Cena del Signore distrugge l’unità della comunità “corpo” di Cristo e si ripercuote a ritroso sulla Cena stessa che diviene in questo modo non più pegno sacramentale della partecipazione al Regno di Dio, ma elemento di condanna per coloro che lo vivono senza realizzarne in pieno, nel loro comportamento quotidiano, il significato.
11,17-22: il problematica: il disprezzo del fratello povero E mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi per il fatto che le vostre riunioni non si svolgono per il meglio, ma per il peggio. L’argomento sembra interessare davvero molto a Paolo che lo affronta senza preamboli e con piglio deciso e chiaro.  Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi. É importante notare come le divisioni di cui parla qui, sono diverse da quelle che sono  affrontate in  1,10-12. Mentre qui il tema ha un chiaro riferimento sociologico (vedi soprattutto vv.  21-22 e  33-34), nel primo capitolo Paolo parla invece di “partiti” e di “gelosie” (vedi 1,11 e 3,4).
 E in parte lo credo. E` necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi. Questa espressione sembra in aperto contrasto con quanto affermato da Paolo in 1,10-17 contro le divisioni nella comunità. Qui, però, il significato è diverso: non si tratta tanto di divisioni nate dall’eccessiva attenzione alla sapienza umana della propria guida spirituale, ma di una anticipazione della prova
della fede dei credenti che il giorno del Signore porterà con sé. Questa divisione essenziale, allora, tra coloro che hanno assunto con animo sincero e disponibile la fede e coloro che invece l’hanno assunta solo esteriormente, è una divisione in qualche modo   1 Abbiamo a questo proposito una gran quantità di testimonianze di scrittori e poeti antichi che ci indicano  come fosse una realtà del tutto comune riservare nei banchetti un trattamento diverso ai diversi ospiti,  soprattutto in ragione della loro estrazione sociale o delle diverse relazioni che passavano tra loro e il  padrone di casa inevitabile e che si può manifestare già adesso (vedi anche Mt 10,34-37 e 24,9-13).   Quando dunque vi radunate insieme, il vostro non è più un mangiare la cena del Signore. Il comportamento dei corinzi contraddice totalmente il senso della loro memoria del Signore, così da trasformare il gesto in qualcosa di completamente diverso e incompatibile.  Ciascuno infatti, quando partecipa alla cena, prende prima il proprio pasto e così uno ha fame, l`altro è ubriaco. Dall’insieme si comprende che Paolo sta stigmatizzando il  comportamento di quei credenti facoltosi che durante il momento conviviale che  precedeva e accompagnava il momento liturgico della memoria del Signore non invitavano tutti i fratelli a partecipare nello stesso modo (alcuni potevano mangiare delle pietanze più ricche e abbondanti, mentre agli altri erano destinati i cibi meno buoni, o gli scarti, o addirittura assistevano senza essere invitati a partecipare: così, ci raccontano le
fonti antiche, era uso nei banchetti pagani). In questo modo accadeva che per alcuni partecipare alla Cena del Signore fosse l’unico pasto di tutta la serata, mentre per altri diveniva solo un momento all’interno di un ricco banchetto.  Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? O volete gettare il disprezzo sulla  chiesa di Dio e far vergognare chi non ha niente? Che devo dirvi? Lodarvi? In questo non vi lodo! La reazione di Paolo è severa e indignata. Egli ora parla direttamente ai credenti facoltosi che partecipano al banchetto. Probabilmente per costoro un tale comportamento non aveva nessun carattere particolarmente negativo, perché era del tutto conforme alle regole della società nella quale vivevano. Ma Paolo vi scorge una negazione della natura stessa della comunità dei credenti: la Chiesa di Dio, di cui la comunità di Corinto fa parte, è il  nuovo popolo di Dio, nel quale non esistono più distinzioni di sorta, ma dove chiunque ne fa parte è in pienezza figlio di Dio, salvato dal Signore Gesù e depositario dello Spirito Santo. Se si nega con il proprio comportamento questa unità tra i credenti in Cristo sottolineando le distinzioni umane e disprezzando i più poveri e umili, si nega anche il significato e il valore del gesto dell’Eucarestia, che non è altro che la ripresentazione  sacramentale di quell’amore divino che ha distrutto ogni barriera e creato un solo popolo. Non avete forse le vostre case per mangiare e per bere? Questa espressione di Paolo ci può sconcertare: non avrebbe dovuto piuttosto invitare i facoltosi a condividere il loro banchetto con i poveri? In realtà Paolo non intende parlare direttamente del tema della “povertà” e dell’“abuso delle ricchezze”, ma solo indicare una relazione di dipendenza stretta tra l’unità dei credenti nella Chiesa e la  Cena del Signore come ripresentazione  sacramentale di quell’amore divino che ha reso possibile quell’unità. Per cui distruggere l’una, significa rendere invalida e blasfema l’altra. La critica all’iniquità delle strutture sociali, quindi, non è diretta, ma è posta indirettamente alle basi stesse che giustificano una tale iniquità: per la prima volta nella storia entra una nuova realtà religiosa nella quale le distinzioni sociali non solo non hanno alcun valore, ma anzi devono essere del tutto superate, a favore della considerazione di una unità di fondo di tutti i credenti.  11,23-26: la tradizione, origine dell’Eucarestia Paolo riporta adesso il racconto dell’istituzione dell’Eucarestia per ricordare ai corinzi chi celebrano (il Signore Gesù) e qual’è il significato di quello che celebrano (fare memoria del suo gesto di amore) quando si riuniscono insieme, così che essi possano comprendere la contraddizione fragrante del loro comportamento con il gesto che compiono.                                         
La traduzione esplicita un senso di precedenza temporale che il verbo greco originale non sembra avere:
più che “prendere prima”, il verbo significa “prendere con intensità”, quindi “divorare”. 5  Insieme a  7,10 e  9,14, questo è l’unico passo in cui Paolo si riferisce  in maniera diretta alla tradizione proveniente da Gesù; questo ci mostra come l’evangelizzazione di Paolo prevedeva anche l’utilizzo delle tradizioni poi confluite nelle narrazioni evangeliche, anche se le sue lettere non si interessano direttamente di questo materiale, se non in  determinate circostanze. Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso. L’espressione è quasi identica a quella di  15,3: in entrambi i casi Paolo la utilizza per introdurre la  trasmissione di una istruzione religiosa preziosa e da conservare con cura: attraverso gli apostoli questa tradizione è arrivata direttamente dal Signore Gesù fino a Paolo.  Questa è una delle 4 presentazioni del racconto dell’istituzione dell’Eucarestia presenti nel Nuovo Testamento: le altre sono Mc 14,22-25 // Mt 26,26-29 // Lc 22,14-203.   Il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito. Il senso principale del riferimento è quello di collegare in maniera diretta l’evento della Cena con la passione e la morte. Il verbo che noi traduciamo con “tradire” ha soprattutto il significato di “consegnare”. Il fatto, poi, che sia riportato senza soggetto lascia il riferimento volutamente aperto a varie possibilità:
1. allusione al traditore Giuda: anche se Gesù fu ucciso con il supplizio comminato dal potere dei romani sotto la spinta delle autorità giudaiche, nella tradizione cristiana il racconto della passione introduce anche il tradimento di uno dei Dodici: monito a tutti i credenti, perché riconoscano la possibilità di abbandonare il Signore e, allo  stesso tempo, testimonianza preziosa della grandezza del suo amore, capace di continuare a donarsi anche davanti ad un gesto così terribile; 2. allusione alla passione vista come parte del disegno del Padre (la forma passiva sottintenderebbe come agente Dio stesso): il Padre  ha lasciato che il Figlio fosse consegnato nella mani degli uomini peccatori, per mostrare fino a che punto sia capace di arrivare il suo amore;  Prese del pane. Gesù reinterpreta il significato del pane che era presente nella cena (pasquale) ebraica: il pane, simbolo del nutrimento essenziale per la vita dell’uomo, diviene veicolo della potenza di Dio che lo trasforma in strumento per saziare ogni tipo di fame spirituale presente nell’uomo.  Dopo aver reso grazie. Gesù pone il suo gesto sotto il segno dell’offerta a Dio e della consapevolezza di portare a compimento il disegno divino. Lo spezzò. Il gesto dello “spezzare” rimanda insieme alla violenza della morte e all’unità della partecipazione di tutti coloro che  riceveranno un pezzo dell’unico pane (vedi  10,16). La morte di Cristo, dunque, ricostruisce l’unità della famiglia umana e insieme la lega indissolubilmente a colui che l’ha realizzata, il Signore Gesù.  E disse. L’opera di Dio è una unità intrinsecamente connessa di gesti e parole, di gesti che sono spiegati dalle parole e di parole che vengono chiarite dai gesti.  « Questo è il mio corpo”. L’identificazione della propria persona con il pane è un  modo di esprimersi tipicamente semitico, e per noi, forgiati alla luce della cultura greca, sempre un po’ difficile da comprendere fino in fondo. Alla luce di questo sfondo culturale, è chiaro che Gesù e i suoi discepoli abbiano immaginato che un qualche tipo di trasformazione si sarebbe realizzata nel pane stesso: questo è il fondamento della nostra 3  Dal momento che le nostre sono schede per la riflessione e la preghiera, non ci interesseremo dei problemi relativi alla relazione tra le varie versioni, ma leggeremo il testo all’interno del contesto della lettera.  Fede nella presenza reale del Signore nell’Eucarestia. La parola “corpo”, poi, per Gesù non era primariamente un modo per indicare se stesso, quanto rimandare al “corpo” dell’animale presente nei sacrifici della Prima Alleanza: la presenza di Gesù nell’Eucarestia è una presenza qualificata, cioè legata alla sua donazione d’amore per noi. Gesù si offre a noi nel pane non tanto come semplice presenza, ma come manifestazione attuale e viva del suo amore totale.  “Che è per voi”. I termini sono ripresi da Is 53,12. Questo significa che il gesto che  Gesù sta compiendo è da lui inteso come anticipazione profetica di quello che gli accadrà nella morte imminente: questa morte, alla luce del passo di Isaia, deve essere interpretata come una donazione a favore degli uomini. I discepoli ricevendo questo simbolo reale e profetico sono invitati a comprenderne il significato e a riceverne i benefici.  “Fate questo in memoria di me ». Nella tradizione biblica il ricordo e la memoria non  hanno mai un semplice significato di attività intellettuale, ma implicano sempre una componente di partecipazione attiva: “ricordare” significa realizzare qualcosa che mette in contatto un evento del passato con il presente. Riprendendo la tradizione dell’Antico Testamento in riferimento ai gesti della Pasqua, Gesù trasforma il gesto che ha compiuto da gesto profetico che anticipa il significato della sua morte in gesto memoriale che renderà possibile a tutti coloro che lo ripeteranno di ricevere ancora in pienezza gli effetti  di salvezza che la sua morte ha portato in favore di ogni uomo (vedi v. 26).  Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice. Il calice è nella scrittura un simbolo ambivalente:  1) da una parte rimanda all’insieme di tutte realtà negative presenti in una determinata situazione (vedi Is 51,17; Sal 74,9; ma soprattutto Mc 10,38-39; 14, 36 e paralleli);  2) dall’altra esso è il simbolo della gioia e della vita piena (vedi Sal 15,5; 22,5; 115,3).  Per questo il gesto di Gesù assume una ricchezza straordinaria perché rimanda insieme alla capacità di Gesù di donarci la vita e la gioia promesse in pienezza da Dio alla venuta del suo Messia, e anche alla sua capacità di assumere fino in fondo la negatività del mondo nella sua morte per distruggerla e renderla vana.  « Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue”. I termini sono ripresi da Ger 31,31, e Es 24,8: come la Prima Alleanza sul Sinai era stata ratificata dal sangue a sottolineare il legame per la vita che si era costituito tra i due  contraenti, così nel sangue di Gesù si realizza il compimento di quell’alleanza, dove il legame è stretto con un patto inscritto nel
cuore dei credenti ed è guidato dall’assoluta gratuità dell’amore di Dio, capace di prevenire e guarire preventivamente ogni infedeltà. “Fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me ». Fin dall’inizio la  ripresentazione dei gesti di Gesù fu vista dalla comunità come qualcosa da compiere con costante frequenza per poter sempre incontrare la potenza trasformatrice dell’amore di Dio concretizzatosi nel mistero pasquale del Signore Gesù.  Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la  morte del Signore. Ora Paolo spiega perché ha riportato le parole dell’istituzione dell’Eucarestia. Celebrare il rito della “Cena del  Signore” significa non solo ripetere dei gesti e delle parole compiuti un giorno lontano da un certo Gesù, ma cercare di vivere nella propria vita quello che queste parole e questi gesti significano. Con il loro  comportamento i corinzi, infatti, rendono vana la morte di Cristo che pure proclamano nel rito, perché distruggono, nella stessa celebrazione, l’unità dei credenti nella Chiesa che Gesù ha realizzato attraverso la sua morte.  Finché egli venga. Paolo ricorda inoltre ai corinzi che la morte di Cristo non è che l’anticipazione del giudizio di Dio sulla storia: se essi distruggono l’unità della Chiesa, essi distruggono la comunità come reale anticipazione dell’unità definitiva che si realizzerà nel Regno di Dio.  11,27-32: in risposta a 11,23-26 “comprendere il significato del Corpo”   Per comprendere il senso di questi versetti bisogna fare attenzione soprattutto al fatto che al v. 29 “del Signore” è un’aggiunta presente in manoscritti meno affidabili e che modifica il senso del passo in una direzione eucaristica che in realtà non è corretta. vv. 27-29: le parole di Paolo sono decisamente chiare e ci ricordano la responsabilità di ogni cristiano davanti alla proprie scelte.   In modo indegno. Qui il riferimento è a quanto detto in questi versetti: contraddire con l’agire il sacramento che si riceve significa riceverlo in modo non rispondente.   Sarà reo del corpo e del sangue del Signore. La nostra infedeltà ci rende responsabili di quel peccato che è costato al Signore il dono della vita.  Senza riconoscere il corpo [[del Signore]]. Qui “corpo” ha un significato ecclesiale, non eucaristico. Non a caso “del Signore” è posto tra parentesi perché tradotto a partire da un  testo originale non del tutto affidabile: i migliori codici non riportano, infatti, l’inciso. Chi non riconosce, dunque, che la Chiesa è corpo del Signore e non vive con i fratelli in modo conseguente, non può partecipare alla Cena del corpo del Signore senza contraddire radicalmente il gesto che sta compiendo. vv. 30-32: Paolo intravede, con spirito profetico, in alcuni segni del male all’interno della comunità la manifestazione di un giudizio di Dio a proposito del comportamento contraddittorio e infedele dei corinzi. Non si tratta di una punizione definitiva, ma di un ammonimento che deve portare al cambiamento. Certamente il linguaggio e le espressioni usate possono sconcertare il lettore attuale: nessuno di noi è più disposto a vedere un collegamento così diretto e immediato tra “malattia umana” e “punizione dei peccati”. Ora, sicuramente Paolo è condizionato dalla sua cultura giudaica che considerava reciprocamente condizionati “peccato” e “malattia”; ma oltre questo rimane vero anche per noi oggi la considerazione che le scelte dell’uomo condizionano la sua vita anche nei  suoi aspetti fisici.
11,32-34: in risposta a 11,17-22 “siate accoglienti con i fratelli”
Ecco la soluzione pratica di Paolo: accoglienza disponibile e cordiale del fratello (è meglio tradurre “accogliersi” il verbo che la nostra traduzione rende con “aspettarsi”). E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna. Qui Paolo parla ai padroni di casa: se proprio volete partecipare ad un banchetto, organizzatelo in un’altra situazione!

 SPUNTI PER L’ATTUALIZZAZIONE
 Nell’eucaristia noi ricordiamo e celebriamo l’amore totale di Cristo per ogni uomo: per questo tutte le volte che non siamo capaci di vivere questo stesso amore verso il fratello noi contraddiciamo intimamente il significato del sacramento che celebriamo. Qual’è il mio atteggiamento nei confronti dell’eucaristia? Sono consapevole di questa intima unione tra sacramento e vita? E come posso fare in modo che questa unione sia sempre più stretta?  L’eucaristia non è tanto il sacramento della semplice presenza di Gesù, ma il mezzo 8 attraverso il quale il Signore si dona a noi nell’offerta totale di amore del suo mistero pasquale di morte e resurrezione. Come posso corrispondere a questo amore donatomi?  Ogni volta che celebriamo la messa, ripetendo il gesto di Gesù, riceviamo nuovamente da Lui il suo amore totale. Quale deve essere il modo di celebrare l’eucaristia  così che possa sprigionare in tutta la sua forza la potenzialità d’amore in essa contenuta? E come posso evitare che la messa diventi una banale routine?  Le nostre scelte condizionano la nostra vita: il nostro modo di agire plasma pian piano ogni giorno, attraverso le banali scelte quotidiane e le grandi scelte della vita, il nostro essere. Questo deve aiutarci a riconoscere in quello che ci accade non solo la presenza dell’imponderabile (che nella fede chiamiamo Dio e la sua “provvidenza”), ma anche la stretta e chiara conseguenza di quello che abbiamo realizzato giorno per giorno. Sono consapevole di questo? E come posso rileggere questa certezza alla luce della fede?

 SILENZIO DI RIFLESSIONE E APPROFONDIMENTO
 RISONANZE SPONTANEE
 INTENZIONI DI PREGHIERA
Ora, Signore, che il tuo Spirito ci ha parlato e ci ha aiutato a comprendere meglio la tua Parola e ciò che essa chiede alla nostra vita, ti invochiamo perché tu ci sostenga nel difficile compito dell’impegno concreto a servizio  del Vangelo e di una coerente testimonianza davanti agli uomini:
Ascoltaci, o Signore. 
Fa che sappiamo sempre vivere quell’amore che celebriamo nell’eucaristia, ti preghiamo;  Rendici capaci di vivere le nostre celebrazioni secondo il comando del Signore come culmine e fonte di tutto il nostro agire, ti preghiamo;
 Aiutaci a compiere ogni gesto della nostra vita nella serena fiducia di poter ricevere
da te il corrispettivo delle nostre azioni, ti preghiamo;
 intenzioni spontanee
Concludiamo la nostra preghiera con le parole del Signore:
PADRE NOSTRO
 Ti ringraziamo, Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo, a motivo della grazia che ci hai data attraverso questa Parola che ci testimonia il tuo Figlio: in lui siamo stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della scienza, così che nessun dono di grazia più ci manca, mentre aspettiamo la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo.
 Ti preghiamo, confermaci sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro
Gesù Cristo: da te, Padre che sei fedele, siamo stati chiamati alla comunione con il Figlio
tuo Gesù Cristo, Signore nostro. AMEN.

NOI VI ANNUNCIAMO… (At 13,32)

http://www.parrocchiadisancesareo.it/san_paolo.html

(Parrocchia San Giuseppe, San Cesareo, RM)

E  NOI VI ANNUNCIAMO… (At 13,32)

Carissimi catechisti, sabato 4 aprile ci troveremo insieme ai nostri ragazzi, in giro per la città di Roma, in cerca della Basilica di San Paolo fuori le mura per vivere il Giubileo di San Paolo, in quest’anno 2009, accogliendo l’invito che ci ha fatto Papa Benedetto XVI.
La figura di San Paolo è straordinariamente ricca sia per la personalità di quest’uomo, sia per la missione che gli è stata affidata da Gesù, portare la Buona Novella fino ai confini della terra, cioè, predicare ai pagani.
Lo scopo della lettura che vi propongo, non è altro che quello di aiutarci a vivere meglio il nostro giubileo Paolino, conoscendo più a fondo la figura del nostro Santo Apostolo. Quindi, buona lettura e buon giubileo!  
Paolo di Tarso è il missionario, l’evangelizzatore per eccellenza, colui che dopo l’incontro con il Risorto, ha sentito l’urgenza di portare il Cristo e il suo Vangelo a tutti i popoli fino agli estremi confini della terra. Possiamo dire, senza dubbio, che la storia della nostra stessa Europa, non sarebbe la stessa senza i viaggi missionari di Paolo.  
Paolo ricorda più volte nelle sue lettere l’incontro con Cristo che gli ha cambiato la vita, ma non descrive né le circostanze, né dove si trovava.
E’ Luca a fornirci queste informazioni, e non una volta soltanto: per ben tre volte infatti racconta l’evento (Atti 9.22.26); già da sola questa ripetizione mostra l’importanza che tale evento ha nell’ottica di Luca, come fatto davvero decisivo per la corsa della Parola dell’evangelo, da Gerusalemme fino a Roma.  
Oggetto della predicazione di Paolo è essenzialmente la persona stessa di Gesù, morto e risorto per noi.
Più di tutti gli autori del Nuovo Testamento Paolo insiste sull’ebraicità di Gesù e sulla irrevocabilità delle promesse fatte a Israele, ma è soltanto in Cristo che ogni altra cosa, a partire dall’eredità religiosa del giudaismo, acquisisce il colore e la preziosità che essa possiede.

(Lettura biblica: Atti 13,16-39)

Alla luce del brano ascoltato ci chiediamo cosa intendeva Paolo per Vangelo di Gesù Cristo, quando lo annunciava con così grande energia, vitalità e passione?

Per lui il Vangelo era
- dono gratuito del Dio di Abramo, Isacco, Giacobbe;
- la rivelazione sua e del suo amore fedele;
- giustizia in Gesù Cristo, crocifisso e risorto, radice della libertà dal peccato e liberatore dalla morte;
- giustificazione, cioè fondamento di un nuovo rapporto con Dio per mezzo della fede.

Paolo si era reso conto prima di altri, prima ancora dello stesso Pietro, che la radicale gratuità della salvezza, proposta da Cristo nel Vangelo, sta all’origine della sua universalità. Un così grande annuncio di liberazione non poteva essere per uno sparuto numero di persone; la salvezza che nasceva dall’immensa sofferenza della morte del Figlio di Dio non poteva essere per pochi intimi.
Il Vangelo diventa forza di Dio per la salvezza di tutti i credenti, non importa di quale popolo o nazione, non importa se greci o romani, se vicini o lontani. Paolo conosce la potenza di Dio e della Parola del Cristo e come un vaso ricolmo, non può trattenere solo per sé o per pochi amici questa notizia traboccante. Vorrebbe dire il Vangelo a qualunque uomo o donna e sente questo come un peso, una responsabilità. Un’urgenza senza pari che vediamo anche dai suoi scritti: “Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari, verso i dotti come verso gli ignoranti; sono quindi pronto, per quanto sta in me, a predicare il Vangelo anche a voi di Roma”
(Rm1,14- 15).          
Dopo Damasco, Paolo, avrebbe potuto rimanere nella beatitudine di aver conosciuto, incontrato il Cristo, si sarebbe potuto dedicare a vita privata per poter vivere fino alla fine nella preghiera e nella solitudine. Ma ciò che conta è che Paolo non è stato così! O ancora. Dato il grande dono che Dio gli aveva fatto poteva ergersi in un atteggiamento di superbia e di pseudo-santità e sentirsi maestro sopra gli altri. Ma Paolo non fa neanche questo.  
Egli sceglie la condizione di prigioniero del Signore perché, come apostolo di Gesù Cristo, vuole essere libero da tutti. Essere servo per Paolo significa condividere la condizione dei destinatari del vangelo, sia Giudei, osservanti della legge, sia Greci, estranei alle prescrizioni della legge giudaica. Paolo è sicuro e pieno di passione per ciò che predica perché lo ha sperimentato. Sarebbe capace, e in realtà lo è stato, di farsi uccidere per ciò che annunciava.
Il Vangelo di Gesù Cristo, il Crocifisso risuscitato da Dio, fonda anche il suo metodo di comunicazione. Un metodo che può essere definito solidale con la condizione di vita dei destinatari. L’efficacia della comunicazione di Paolo non dipende da un metodo “retorico”.  
Probabilmente come Mosè o Samuele, non era neanche un abilissimo parlatore, un incantatore, tanto che molte volte, come accadde a Efeso, è dovuto andar via di corsa dal grande teatro, prima che lo catturassero, perché ciò per cui la gente lo sentiva non erano le belle parole che tanto ci attraggono oggi, capaci cioè, di accontentare tutti in una sorta di compromesso che non cambia nulla. I suoi dialoghi con gli altri erano improntati e definiti dalla libertà di amare. Paolo aveva ben compreso e vissuto il concetto moderno di inculturazione e lo accompagnava a quello di una verità gioiosa immutabile che nasce dall’amore di Dio. La motivazione di questa scelta deriva dalla prospettiva missionaria: “salvare ad ogni costo qualcuno”.  
Per Paolo aver incontrato il Signore Risorto sulla via di Damasco è stata l’unica grande esperienza religiosa della sua vita, che gli ha cambiato i connotati spirituali. Cambiati in meglio, naturalmente, visto che da quel momento in poi egli ha orientato tutto se stesso alla conoscenza di Colui dal quale era stato conosciuto, alla diffusione di quella “bella notizia” che gli era stata annunciata, alla missione che gli era stata affidata.  
La missione di Paolo non fu qualcosa da fare, ma il suo nuovo modo di essere, l’unico modo per continuare a vivere in modo conforme alla chiamata ricevuta. Sotto questo profilo le sue lettere possono essere considerate quasi come un diario della sua attività missionaria. Se poi le intrecciamo con quello che Luca ci fa conoscere negli Atti (13-28) allora il quadro si completa..  
Missionari, dunque, si diventa non per scelta propria o per una mera iniziativa umana, ma solo ed esclusivamente per volontà di Dio, solo per iniziativa di Colui che, solo per amore nostro, ha creato il mondo e lo vuole ricreare in Cristo Signore, nella potenza dello Spirito Santo.  
Il messaggio di Paolo si sprigiona non solo dalle sue lettere, ma dalla sua persona e dalla sua opera missionaria. Possiamo dire che la sua attualità è innegabile ed evidente.
Paolo ancora oggi non cessa di parlare alle Chiese e alla Chiesa; non cessa di suscitare meraviglia e stupore, non cessa di provocare le coscienze di molte persone.  
Anzitutto ci ricorda che ciò che vale ed è determinante nella vita di un credente è l’incontro personale con Gesù: un incontro più o meno drammatico, più o meno eclatante, ma pur sempre personale, decisivo.
In secondo luogo ci avverte che la missione nella Chiesa manifesterà tutta la sua efficacia solo se ispirata e animata dalla spiritualità del mistero pasquale, cioè vissuta come partecipazione alla passione, morte e resurrezione di Gesù. Proprio come ha fatto lui!
In terzo luogo Paolo, che più volte si qualifica come il “prigioniero di Cristo”, ci ricorda che per vivere il cristianesimo nella sua vera natura, non dobbiamo preoccuparci tanto di ciò che riusciamo a fare da soli o con gli altri, quanto di quello che siamo dinanzi al Signore, prigionieri solo del suo amore.  
In questo anno in cui si celebra il bimillenario paolino, i nostri sentimenti dovrebbero essere gli stessi di Paolo, la nostra energia spirituale dovrebbe venire corroborata dalle sue parole, dalla sua schiettezza e dal suo amore, perché altro non sono che un rimando all’amore stesso che Dio ha per noi e che nella sua misericordia ha voluto manifestare in, con e per Cristo, immagine viva e tangibile del Padre.  
Dobbiamo pur dire che per un cristiano e ancor più per un missionario, misurarsi con la figura e l’opera di Paolo è difficile e faticoso, ci si sente piccoli, insignificanti, di fronte a colui che viene unanimemente riconosciuto non solo come Apostolo delle genti, ma come chi attraverso i suoi viaggi portò il Vangelo di Gesù di Nazareth dalla Palestina, una delle province più periferiche e sperdute, al cuore delle città dell’Asia Minore e della Grecia, per arrivare infine a Roma, capitale dell’impero.  
Una delle cose che colpisce in Paolo è la determinazione delle sue scelte. Determinato come giudeo osservante nel perseguitare la nascente comunità cristiana, ancor più determinato nell’annunciare la Buona Novella di Cristo dopo Damasco.
Proviamo a chiederci: quanto di questa sua determinazione alberga dentro i nostri cuori oggi?  
Un altro aspetto della personalità di san Paolo che balza sotto i nostri occhi, è il suo carattere. Di solito si dice che una persona che ha carattere, ce l’ha pessimo, quello di Paolo doveva essere terribile! Lo scontro con Pietro e i riverberi con questo e quell’altro discepolo ci mostrano un San Paolo che nella franchezza del linguaggio e nel coraggio nell’esporre le proprie idee era un testimone straordinario del fascino che Cristo aveva esercitato su di lui. Quanti di noi possono dire lo stesso? Nonostante il suo carattere forte e deciso seppe trasformare i suoi conflitti in una fonte di spiritualità, arrivando ai suoi interlocutori utilizzando un linguaggio carico di attenzione e tenerezza.
Quanti di noi riescono a fare altrettanto?  
Abituati come siamo ad utilizzare mezzi di trasporto superveloci, non riusciamo più a percepire la straordinaria vitalità di quest’uomo che, a piedi, a cavallo, o su imbarcazioni alquanto malsicure, seppe percorrere nei suoi molteplici viaggi, le vie consolari dell’Impero e muoversi nel mar Mediterraneo come se fosse un lago. Gli itinerari di San Paolo portano dritti nelle grandi città del tempo ed è proprio in queste città: Antiochia, Corinto, Efeso, Atene, ecc. che Paolo si misura con la cultura del suo tempo e a viso aperto propone l’annuncio del Cristo crocifisso: scandalo per i giudei e stoltezza per i pagani!  
Questo suo atteggiamento è ancora patrimonio comune per i cristiani, oppure siamo lentamente scivolati nella tentazione di addolcire o meglio annacquare il messaggio di Gesù così da offuscarne lo splendore originario?  
Un altro aspetto caratteristico di San Paolo rivendicato con forza da lui stesso, è quello in cui Paolo sottolinea il fatto di essere un lavoratore che annuncia il Vangelo, Paolo non era un predicatore itinerante, un estroso cantastorie che si spostava di città in città contando belle storielle, era un uomo chiamato da Cristo a portare il Vangelo nel cuore stesso dei popoli estranei a Israele, e per fare questo egli si guadagnava da vivere svolgendo un lavoro manuale che gli consentiva di non pesare su alcuno.  
Questa sua indipendenza lo metteva nella condizione di essere libero interiormente ed esternamente di fronte a qualsiasi interlocutore.

“Vivo ma ormai non sono più io che vivo; è Cristo che vive in me”;
“Completo nella mia carne quello che manca alla passione di Cristo”;
“Quando mi sento debole allora sono veramente forte”;
“Fede, speranza, amore, il più grande dei tre è l’amore”.

Basterebbero queste poche citazioni tratte dall’immenso epistolario paolino, per capire quanto ancora oggi ognuno di noi deve misurarsi su questi nodi cruciali che interpellano la nostra vita e pongono delle domande inevitabili nel contesto della realtà nella quale siamo inseriti.  
Anche oggi ci sono delle Agorà, delle piazze, nelle quali scendere e dentro le quali misurarsi con la cultura dominante, anche oggi ci sono città sterminate, dove la “Plantatio Ecclesiae” ovvero il germe di una piccola, magari insignificante comunità di gente che vive nel nome di Cristo è seme di un germoglio che darà i suoi frutti proprio come avvenne al tempo di Paolo; occorre crederci, e ancor di più occorre gettare questo seme sui vasti terreni che lo Spirito Santo ci indica continuamente. Affidiamoci all’intercessione di san Paolo per ottenere dal Signore i doni necessari per annunciare con le parole e con la vita che Dio è padre, ci ama da sempre e per questo ha mandato il suo Figlio Gesù Cristo, morto e risorto per la nostra salvezza.

« Noi invece annunciamo Cristo Crocifisso » (1Cor 1, 17-25)

http://www.parrocchiapersiceto.it/parrocchia/eventi/decennale-crocefisso-2011/presentazione/

« Noi invece annunciamo Cristo Crocifisso » (1Cor 1, 17-25)

(Articolo tratto dal numero speciale de « La Voce che chiama » dedicato alla Decennale del Crocefisso )

Alla luce di questa espressione forte di San Paolo ci siamo incamminati verso la Decennale del Crocifisso. E’ una tradizione antica a Persiceto che negli ultimi vent’anni non abbiamo avuto l’occasione di vivere. Ora l’occasione ci si presenta e non ci manca il desiderio di onorarla, nel tentativo di viverla in pienezza, cioè di celebrare i momenti di fede, di arte e di cultura (come leggerete nel programma) senza trascurare la contemplazione del Mistero di Cristo Crocifisso.
Contemplare Gesù crocifisso, per riflettere sulla sapiente stoltezza della croce, come unico criterio possibile del proprio stare nel mondo, facendo affidamento solo sulla potenza di Dio. Contemplare la più autentica e devastante debolezza per lasciarsi abbracciare dalla potenza della vita che sconfigge la morte.
Contemplare Gesù crocifisso per conoscere il vero volto di Dio, e il vero volto dell’uomo. Senza bellezza né splendore, anche se l’arte è eccelsa, mettersi in ginocchio davanti al Crocifisso per adorare la Verità. La Verità non ha né bellezza né splendore, la Verità non tollera attributi. Annunciamo Cristo crocifisso perché non c’è altra verità così eloquente eppure misteriosa. L’unico amore vero, difficilissimo eppure accessibile a tutti.
Noi che siamo abbagliati dalla potenza, attirati dalle infinite risorse della tecnologia, illusi dalle sconfinate possibilità della scienza, eppure sempre più poveri. Sedotti dalla grandezza per tutta la vita ma abbandonati quando ne avremmo più bisogno, quando il sipario si chiude e lo spettacolo della nostra vita ci appare in tutta la sua povertà, una illusione a termine, ecco che allora si rivela la debolezza di Dio come l’unica verità, la sua piccolezza così simile alla nostra da rendere la sua onnipotenza tutta per noi. E’ un gesto di verità adorare un crocifisso perché significa ammettere quanto noi rifiutiamo la debolezza e quanto Dio la faccia sua, è umano rifiutarla, ma divino assumerla. E’ inutile cercare Dio, vano tentare di conoscerlo escludendo la croce: solo essa ci rivela il volto di Dio. E solo alla luce di Cristo Crocifisso si illumina il volto dell’uomo. L’umanità ha bellezza e splendore solo ai piedi della croce, solo sotto lo sguardo di
Dio, di quel cuore trafitto da cui sgorga perdono , misericordia, amore, vita eterna. Solo Gesù Crocifisso dimostra che Dio è onnipotente: non esiste infatti amore più grande, né un Dio più potente nell’amare.
Contemplare il crocifisso è un grande gesto di verità, significa smascherare la nostra debolezza travestita da potenza e rivelare la vera potenza di Dio, cioè la sua grandezza nell’amore, smettendo di attribuirgli i tratti di una potenza che egli non ha mai voluto manifestare. Un Dio che si consegna agli uomini. Lasciare la parola alla croce. Al silenzio che solo rivela la Verità, chi è Lui e chi siamo noi.
Con questi sentimenti e quant’altri ancora il Signore ci vorrà donare in questo decennale ritrovato momento di Grazia, chiediamo la Grazia di saper contemplare Cristo Crocifisso per poi trovare in lui stesso la forza di annunciarlo a chi è Crocifisso dalla vita, ai malati nel corpo e nello spirito, a chi abbiamo vicino e porta grandi croci.
Chiediamo la Grazia di saperci incamminare dietro al Crocifisso sulla via maestra dell’Amore vero, che si adatta all’amato e non pretende, anche quando l’amato, cioè noi con la nostra cultura vuota e mortifera, sa trasformare la croce in un accessorio da stilisti di lusso o poco più.
Al Signore Crocifisso, che avremo la Grazia di celebrare e contemplare in abbondanza in questa Decennale, chiediamo di saperlo contemplare con coraggio, celebrare con fede e annunciare con gioia.
Don Marco Cristofori

Cenni storici su Pozzuoli e lo sbarco di San Paolo

http://www.santamariapozzuoli.it/Paolo.html

(da una Parrocchia)

Cenni storici su Pozzuoli e lo sbarco di San Paolo

Pozzuoli
Emporio della potente Cuma, soltanto con l’arrivo di fuggiaschi di Samo (530 a.c.), che dettero alla località il nome augurale di Dicearchia (giusto governo), fu incrementata la crescita economica e urbanistica della città.
Nel 421 a.c., l’intera zona flegrea cadde sotto il dominio delle popolazioni campane e, nel 338, sotto quello di Roma, che capì l’importanza commerciale e militare del golfo Flegreo solo dopo il tentativo di conquista di Annibale (215 a.c.).
Puteoli, (piccoli pozzi), divenne l’approdo più importante del Mediterraneo, tanto da essere appellata Delus minor e litora mundi hospita.
Le arti del vetro, della ceramica, dei profumi, dei tessuti, dei colori e del ferro trovarono larga diffusione, per la presenza di maestranze locali educate a tradizione fenice, ellenistiche ed egiziane. La città prosperò fino a quando il porto rispose alle esigenze del commercio romano, ma subì un duro colpo con l’apertura di quello di Ostia. Con l’accentuazione del bradisismo discendente, che sommerse le opere portuali, e con la caduta di Roma, Puteoli divenne piccolo centro di pescatori e, nel Medio Evo, i Campi Flegrei furono solamente meta di soggiorni termali. Soltanto dopo l’eruzione del Monte Nuovo (1538), Pozzuoli iniziò una lenta ripresa socio economico-urbanistica, per opera del viceré spagnolo don Pedro Alvarez de Toledo.

Lo Sbarco di san Paolo a Pozzuoli
Il Cristianesimo penetrò a Puteoli, mentre erano ancora in vita i maggiori artefici dell’evangelizzazione dell’Occidente, testimoni diretti della predicazione di Gesù.
La notissima testimonianza degli Atti degli Apostoli è la più nobile ed esaltante:
« Il giorno seguente si levò lo scirocco e così l’indomani arrivammo a Pozzuoli. Qui trovammo alcuni fratelli, i quali ci invitarono a restare con loro una settimana. Partimmo quindi alla volta di Roma »                                                                                                                

Atti degli Apostoli 28, 13-14
Paolo sbarca a Pozzuoli nel 61 d. C. da una nave oneraria di Alessandra. Condotto al carcere da Festo, governatore della Giudea, si era appellato al tribunale di Nerone. Dopo vari scali e un naufragio a Malta, la nave aveva toccato Reggio e si era diretta verso il litorale campano. Entrando nel golfo partenopeo attraverso le Bocche di Capri, Paolo poté ammirare la mole della villa Jovis e delle altre residenze imperiali di Augusto e di Tiberio.
Il molo di Pozzuoli era affollato di curiosi e perditempo: così lo descriveva Seneca a Lucillo.
La nave trasportava assieme alle consuete svariate mercanzie un gruppo di prigionieri. L’Apostolo era atteso da un gruppo di amici, più propriamente “fratelli », i cristiani di Pozzuoli.
Luca non fornisce particolari su quel soggiorno né qualche nome dei fratelli di fede presenti all’incontro, ma si trattenne con i cristiani di Pozzuoli sette giorni, durante i quali li raffermò nella fede e li esortò a resistere al male.
Sul molo del porto di Pozzuoli, sulla parte esterna dell’abside, della Chiesa di Santa Maria delle Grazie, si ammirano due lapidi: una, del 1918, ricorda l’approdo di Paolo di Tarso a Puteoli, con i simboli dell’apostolo, e l’altra la sosta di papa Giovanni Paolo II avvenuta, proprio nei pressi, il 12 novembre 1990. Tra le due epigrafi giganteggia la maiolica di Giuseppe La Mura, raffigurante l’arrivo di san Paolo sul molo puteolano, inaugurata il 29 giugno 1991.
Successivamente, in occasione del Giubileo dell’anno 2000, essendo Vescovo Mons. Silvio Padoin, nell’area sottostante fu posizionato un cippo in pietra con una targa in bronzo sulla quale è riportato il passo degli Atti degli Apostoli che ricorda la venuta di Paolo a Pozzuoli e la sua breve permanenza nella nostra città prima di essere condotto a Roma.

A PAOLO DI TARSO
ANNO 2000

DOPO TRE MESI SALPAMMO (DA MALTA)
SU UNA NAVE DI ALESSANDRIA
CHE AVEVA SVERNATO NELL’ISOLA,
RECANTE L’INSEGNA DEI DIOSCURI.
APPRODAMMO A SIRACUSA.
DOVE RIMANEMMO TRE GIORNI
E DI QUI, COSTEGGIANDO,
GIUNGEMMO A REGGIO.
IL GIORNO SEGUENTE
SI LEVO’ LO SCIROCCO
E COSI’ L’INDOMANI
ARRIVAMMO A POZZUOLI.
QUI TROVAMMO ALCUNI FRATELLI
I QUALI CI INVITARONO A RESTARE
CON LORO UNA SETTIMANA.
PARTIMMO QUINDI
ALLA VOLTA DI ROMA.

(Atti degli Apostoli, 28, 11- 14)

PER VIVERE DA FIGLI DI DIO COME GESÙ FIGLIO UNIGENITO DEL PADRE (Rm 8, 28-30)

dal sito:

http://sancorrado.altervista.org/battesimo.htm

(Parrocchia San Corrado, Siracusa)

PER VIVERE DA FIGLI DI DIO COME GESÙ FIGLIO UNIGENITO DEL PADRE

« Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno.Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto li ha anche predestinati ad essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinati li ha anche chiamati; quelli che ha chiamati li ha anche giustificati; quelli che ha giustificati li ha anche glorificati. » (Rom 8, 28-30)

Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: « Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo,  insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo ». (Vangelo secondo Matteo 28,16-20)
 Nel giorno del battesimo il cristiano, rigenerato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ha ricevuto la grazia, ossia la partecipazione della vita di Cristo, è diventato figlio adottivo di Dio, è stato inserito nella misteriosa realtà del Corpo mistico del Signore, è diventato membro del Cristo totale che è la Chiesa. II battesimo è come la porta che introduce il fedele nella vita cristiana, è l’abilitazione fondamentale e radicale a ricevere tutti gli altri sacramenti per arrivare allo stato di «uomo perfetto, all’altezza di statura della pienezza di Cristo» (Ef 4,13). Infatti, come spiega il Concilio, «il battesimo di per sé è soltanto l’inizio e l’esordio, perché esso tende interamente all’acquisto della pienezza della vita in Cristo» (UR 22; cf CE 2). Per permettere al battesimo di produrre tutto il suo frutto, il cristiano deve adeguare la sua vita alla grazia di adozione, che è la grazia caratteristica e fondamentale di questo sacramento. «Avete ricevuto uno spirito di figli adottivi – attesta S. Paolo – nel quale esclamiamo: « Abba, Padre! » Lo Spirito stesso si unisce al nostro spirito per attestare che siamo figli di Dio» (Rm 8,15-16). Costituito figlio di Dio, il battezzato non può più vivere una vita puramente umana, ma deve conformarsi alla vita dell’unico Figlio: Cristo Signore. L’Apostolo non si stanca di ripetere: «Siete stati sepolti con lui nel battesimo, nel quale anche siete risuscitati… Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù… pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra» (CL 2,12;3,1-2). I pensieri e gli affetti del cristiano devono essere protesi verso i valori eterni, la vita eterna e non devono attardarsi nelle cose di quaggiù. Ogni giorno egli deve progredire in questa via fino a raggiungere «la pienezza della vita in Cristo». II battesimo imprime il carattere di figlio di Dio, che niente – neppure i peccati più gravi che il fedele potesse commettere – potrà distruggere: egli è un «segnato» per tutta l’eternità. Ciò è espresso con molta efficacia nelle formule che accompagnano il rito del battesimo. Nel benedire l’acqua il sacerdote prega: «Vieni con la tua potenza, o Padre, e santifica quest’acqua, perché in essa gli uomini, lavati dal peccato, rinascano a vita nuova di figli. Santifica quest’acqua perché i battezzati nella morte e risurrezione di Cristo siano conformi all’immagine del tuo Figlio». E per assicurare ai nuovi battezzati una vita consona al carattere di figli di Dio e di fratelli di Cristo, la Chiesa ricorda ai genitori e ai padrini la loro responsabilità di educarli nella fede, nell’amore e nell’obbedienza a Dio, secondo lo spirito delle promesse battesimali che a tale scopo vengono rinnovate. Amministrato il sacramento, nel consegnare la simbolica veste bianca, il ministro dice: «Questa veste bianca sia segno della vostra nuova dignità: aiutati dalle parole e dall’esempio dei vostri cari, portatela senza macchia per la vita eterna». Presentando poi il cero acceso, dice ai genitori: «Abbiate cura che i vostri bambini, illuminati da Cristo, vivano sempre come figli della luce; e perseverando nella fede, vadano incontro al Signore che viene» (Nuovo rito del battesimo). Rito e formule esprimono in sintesi quale dovrà essere la condotta dei nuovi figli di Dio; rito e formule dovrebbero essere scolpiti in modo indelebile nella mente e nel cuore di ogni fedele, per essere la norma costante della sua vita. Col passare degli anni, preoccupazioni, doveri, impegni di ogni genere si accumuleranno sulle spalle del cristiano, ma il primo dovere sarà sempre quello di custodire intatto il proprio battesimo. Vane sarebbero le pratiche di pietà, vani l’Eucaristia e gli altri sacramenti, vani l’apostolato, la consacrazione a Dio e lo stesso sacro ministero per chi non si preoccupasse di mantenere integro lo splendore della grazia battesimale e ardente la lampada della fede. Ogni credente deve ravvivare la coscienza dei suoi impegni battesimali, ricordando che al sacro fonte è stato solennemente consacrato tempio della gloria di Dio, dimora dello Spirito Santo, membro del Corpo mistico di Cristo (ivi).
Conservami, te ne supplico, senza macchia il culto della mia fede e fa che, fino all’ultimo mio sospiro, io senta la testimonianza della mia coscienza. Fa che possegga per sempre – io, battezzato nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo – ciò che ho professato nel simbolo della mia rigenerazione: te, nostro Padre; fa che io adori tuo Figlio con te e come te; che io riceva come mio il tuo Spirito Santo che procede da te per il tuo unico Figlio. Veramente ho un testimonio degno di fede per garantire ciò che credo, e cioè colui che disse: « Padre, tutto ciò che è mio è tuo, e tutto ciò che è tuo è mio, Gesù Cristo, mio Signore, che dimora in te, e che, sempre Dio, viene da te ed è vicino a te ed è benedetto nei secoli dei secoli. Amen. (S. ILARIO DI POITIEBS, De Trinitate XII, 57)
NASCERE DA ACQUA E DA SPIRITO
Il santo Battesimo è il fondamento di tutta la vita cristiana, il vestibolo d’ingresso alla vita nello Spirito (« vitae spiritualis ianua »), e la porta che apre l’accesso agli altri sacramenti. Mediante il Battesimo siamo liberati dal peccato e rigenerati come figli di Dio, diventiamo membra di Cristo; siamo incorporati alla Chiesa e resi partecipi della sua missione: « Baptismus est sacramentum regenerationis per aquam in verbo – Il Battesimo può definirsi il sacramento della rigenerazione cristiana mediante l’acqua e la parola ». (CCC 1213)  (Rom 8, 28-30)
 Un giorno un signore andò dal proprio parroco e gli disse: « Non sono convinto di voler battezzare mio figlio; non sarebbe meglio chiedere il suo parere quando sarà grande? ». Il parroco rispose: « Ha chiesto il suo parere prima di dargli la vita del corpo? » « No ». « E perché teme di dargli quella dello spirito? »
Gesù fu piuttosto esigente per quanto riguardava il Battesimo: « In verità ti dico, se uno non nasce da acqua e da Spirito, non può entrare nel regno di Dio » (Gv 3,5). Fu Gesù stesso a chiedere che il Battesimo fosse portato « in tutte le nazioni » (Mt 28,19). E nel Catechismo leggiamo il perché: « Mediante il Battesimo siamo liberati dal peccato e rigenerati come figli di Dio » (CCC 1213) laddove il termine « rigenerati » significa « generati di nuovo ». Si diventa « figli nel Figlio ». Chi è battezzato « rinasce dall’alto » (Gv 3,3), da legno secco diventa legno vivo, innestato nella vite di Cristo che gli infonde la linfa soprannaturale. Il Santo Battesimo modifica l’origine dell’uomo, lo rende originato da Dio. La filosofia continua a chiedersi da dove veniamo, la Fede risponde a questa domanda modificando la provenienza di chi se la pone. Trasforma la natura dell’essere umano, lo divinizza, ne muta in sostanza la connotazione ontologica. E questo avviene così profondamente che l’io non se ne accorge, perché tutto accade a livelli assai più profondi di quelli del pensiero. Anzi, rimangono nel battezzato le conseguenze temporali del peccato, quali le sofferenze, le malattie, la morte, o le fragilità inerenti alla vita come le debolezze del carattere, ed anche un’inclinazione al peccato che la Tradizione chiama concupiscenza (CCC 1264). Ma quest’ultima, lasciata per la prova, non può nuocere quelli che non vi acconsentono o vi si oppongono. Il Santo Battesimo ci viene incontro cancellando la colpa derivata dal peccato originale e restituendo all’anima lo stato di grazia, simboleggiato dalla veste bianca che viene consegnata al battezzato. Anticamente il rito del Battesimo si svolgeva durante la notte di Pasqua, affinché il catecumeno (in genere adulto) potesse far morire l’uomo vecchio immergendolo (baptizein in greco significa immergere) nella morte di Cristo: ci si seppelliva con Lui per poi risorgere con Lui. I tre gradini a scendere di cui era provvisto il bordo della vasca battesimale indicavano i tre giorni della Passione; prima di farli il catecumeno si voltava un’ultima volta verso ovest e rinunciava a Satana sputando verso le tenebre (sacra sputatio); poi si girava (conversione) verso la luce dell’alba, e cioè verso oriente (da orior, sorgere/nascere, ove il Sole è simbolo del Cristo Risorto) e si immergeva integralmente nell’acqua con la sua veste bianca. I battisteri erano di forma ottagonale, a ricordo dell’ottavo giorno (il primo dopo la creazione) ma soprattutto in memoria della Risurrezione, compiutasi « il giorno dopo il sabato », che per gli ebrei era il settimo giorno. Rialzatosi e « rivestitosi di luce », professata col Credo la sua fede, il catecumeno era così diventato un « illuminato ». San Giustino amava chiamare tale lavacro illuminazione « perché coloro che ricevono questo insegnamento [catechetico] vengono illuminati nella mente » (Apologiae, 1,61,12), in quanto hanno ricevuto il Verbo, la « Luce vera che illumina ogni uomo » (Gv 1,9), che li ha resi « figli della luce », « luce » essi stessi (Ef 5,8). Emerge qui il ruolo particolare dello Spirito Santo, di cui il battezzato diviene tabernacolo vivente. L’unzione con il sacro crisma significa appunto il dono dello Spirito Santo, tanto che nelle chiese orientali l’unzione post-battesimale costituisce già sacramento della Cresima, mentre nella liturgia romana questo crisma « annunzia » quella seconda unzione che verrà impartita dal Vescovo a conferma (Confermazione) della prima che viene così portata a compimento (CCC 1242). Questa partecipazione a Cristo (che è unto sacerdote, profeta e re) rende i cristiani Sue membra, « incorporati alla Chiesa e resi partecipi della sua missione ».

I BATTEZZATI SONO MEMBRI DI UN SOLO POPOLO
 1. Il battesimo, come la cresima, non sono semplici fatti personali che interessano solo coloro che ricevendoli vengono generati e perfezionati nella vita cristiana, ma sono avvenimenti ecclesiali che interessano tutta la Chiesa, sia perché si compiono per mezzo del suo ministero, sia perché i sacramenti non uniscono soltanto l’uomo a Dio, ma anche gli uomini tra loro. «Siamo stati battezzati tutti in un solo Spirito per formare un corpo solo» (1 Cr 12, 13 ), il Corpo mistico di Cristo che è la Chiesa. La Chiesa si forma, cresce, si sviluppa proprio mediante i nuovi figli che genera attraverso i sacramenti.
Nostro Signore « inculcando espressamente la necessità della fede e del battesimo ha insieme confermata la necessità della Chiesa, nella quale gli uomini entrano per il battesimo come per una porta » (LG 14 ). Lo stesso sacramento che rende l’uomo figlio di Dio, lo rende membro della Chiesa; e il medesimo sacramento che lo fa cristiano perfetto, lo arruola nella milizia della Chiesa. « Lo Spirito Santo…, allorché nel fonte battesimale, come in un seno, rigenera a nuova vita i credenti in Cristo, li raduna nell’unico popolo di Dio » (AG 15). Ciò non è una realtà accessoria o di secondo piano, ma fa parte dello stesso disegno di Dio per la salvezza dell’umanità, poiché “ Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di essi un popolo, che lo riconoscesse nella verità e fedelmente lo servisse » (LG 9). A tale scopo, fin dall’antichità, Dio aveva scelto il popolo d’Israele che aveva santificato e legato a sé con particolare patto; ma ciò non era che la figura del nuovo popolo messianico che il Signore Gesù avrebbe redento col suo sangue e di cui sarebbe diventato il Capo. Così tutti i battezzati in Cristo costituiscono il popolo da lui salvato: Popolo di Dio, oggetto della sua misericordia (1 Pt 2, 10). Questo privilegio, dovuto appunto alla divina misericordia, deve trovare nel cristiano generosa corrispondenza: « Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo », cui devono corrispondere « col pensiero, con le parole, con le opere » (LG 14 ).
2. Il mistero della salvezza si attua contemporaneamente sul piano verticale in quanto unisce l’uomo a Dio, e sul piano orizzontale in quanto unisce gli uomini fra loro. Per comprenderne profondamente il senso non bisogna dimenticare che la solidarietà umana, per essere cristiana, deve fondarsi essenzialmente in Dio, ossia sull’unione dei singoli a Dio e di tutti in Dio. Non si tratta di formare un popolo unicamente terrestre, ma il Popolo di Dio, santificato dalla sua grazia, retto dal suo Spirito e dalle sue leggi. Esso « ha per condizione la dignità e la libertà dei figli di Dio, nel cuore dei quali dimora lo Spirito Santo come in un tempio. Ha per legge il nuovo precetto di amare come Cristo stesso ci ha amati » (LG 9 ).
Formando un unico popolo, i credenti non possono disinteressarsi gli uni degli altri; il bene e la santificazione del singolo devono essere ordinati al bene e alla santificazione di tutti; l’intensità della vita cristiana, della vita sacramentale di ogni fedele è patrimonio della comunità cristiana. Coltivando l’unione personale con Dio, pregando e ricevendo i sacramenti, il singolo deve farlo con la consapevolezza che mediante tali atti arricchisce e santifica non soltanto se stesso, ma tutto il Popolo di Dio. Questo è un potente stimolo ad aumentare la propria ricettività e disponibilità alla grazia affinché essa si riversi su tutti i fratelli. Né basta fermare qui lo sguardo: vi sono altri uomini da raggiungere.

Publié dans:Lettera ai Romani, PARROCCHIE E MISSIONI |on 15 septembre, 2011 |Pas de commentaires »

“Di gloria in gloria… trasformati dallo Spirito” (2Cor 3,1-12)

dal sito:

http://www.sacrocuoreaigerolomini.it/documenti/trasformati.doc

Laboratorio della fede

don Mario Russo

Paolo

25 maggio 2007

“Di gloria in gloria… trasformati dallo Spirito” (2Cor 3,1-12)

Introduzione
Chiediamoci questa sera, quale aspetto assume il volto di chi si lascia trasformare dallo Spirito?
E quando si conclude questo processo di trasformazione?
Nell’oggi della mia quotidianità… come posso attestare e riconoscere i cambiamenti interiori che il vangelo realizza nell’esistenza, senza lasciarmi vincere dallo scoraggiamento e dalla sofferenza umana?

Restiamo ancora in compagnia della comunità di Corinto e torniamo sulla seconda lettera, raggiungendo la conclusione del capitolo 3, in cui Paolo esprime la propria fiducia nella “metamorfosi” profonda dell’esistenza cristiana.

Lettura 2Cor 3,12-18

La letteratura mondiale conosce tre classici dedicati alla metamorfosi: quelli degli scrittori latini,Apuelio e Ovidio, che nella loro rispettiva opera, le metamorfosi, descrivono i mutamenti universali di corpi in altri corpi, in uomini in divinità e all’inverso, e quello di Franz Kafka, che in la metamorfosi affronta le diverse mutazioni dell’animo umano. Così l’autore praghese introduce la sua opera: “destandosi un mattino dai sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò tramutato, nel suo letto, in un enorme insetto”.
Nel paragrafo di 2Cor che abbiamo ascoltato, Paolo utilizza un verbo che in greco richiama il processo di trasformazione che lo Spirito realizza in noi: “Siamo trasformati (metamorphoumetha) nella stessa immagine…” (2Cor 3,18). La vita nello spirito segue un processo di metamorfosi, ma ben lontani da quelli descritti da Ovidio, Apuelio e Kafka. I credenti non sono trasformati nella divinità sino a confondersi con essa, come è tipico delle religioni misteriche, ma in Cristo che è l’icona vivente di Dio. Così specifica Paolo nei versi successivi: “E’ Dio che disse rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria di Dio sul volto di Cristo” (2Cor 4,6). Se nella creazione l’essere umano è creato a “immagine e somiglianza di Dio” … con la redenzione è destinato ad essere ricreato a “immagine” di Cristo.
Altrettanto diversa è la metamorfosi cristiana da quella Kafkiana: non si verifica in un batter d’occhio, ne assume l’aspetto di un grande insetto, che induce il protagonista alla disperazione… ma è progressiva, interiore e ha come meta la definitiva trasformazione in Cristo.

Cerchiamo allora di cogliere le connotazioni della trasformazione cristiana.
  È una metamorfosi interiore che inizia dal giorno in cui lo Spirito di Dio è stato effuso nei nostri cuori: con il Battesimo. Cristo vive in noi, dice Paolo, perché abbiamo ricevuto il “suo Spirito che grida in noi Abbà, Padre” (cfr. Gal 4,6)… il fatto che noi diciamo con la bocca “Abbà, Padre” (le stesse parole di Gesù durante l’agonia cfr Mc 14,36) si deve alla presenza dello Spirito in noi.
  È una metamorfosi progressiva, anche se si riscontrano momenti di pausa o di regresso… tuttavia Paolo a tale scopo ci esorta: “per questo non ci scoraggiamo, anche se il nostro uomo esteriore si va disfacendo, quello interiore si rinnova di giorno in giorno” (2Cor 4,16).
  È una metamorfosi positiva, giacché  ha  come orizzonte finale la ‘’conformazione all’immagine del figlio di Dio’’ ( cfr. Rm 8,29):una conformazione che appartiene al misterioso disegno che Dio ha progettato sin dalla creazione del mondo.
Dunque lo Spirito realizza in noi una profonda trasformazione della  quale molte volte, non ci rendiamo conto cadendo nell’errore di ritenere che nella vita interiore siamo sempre gli stessi: gli stessi difetti , peccati e  limiti; cambierebbe soltanto l’aspetto del corpo , mentre l’anima resterebbe immutabile e senza trasformazione. Contro una tale visione dualistica, affermiamo che siamo invece in continua e totale trasformazione che partendo dalla nostra interiorità, arriva a toccare anche l’aspetto esteriore. La metafora che bene descrive la trasformazione cristiana è quella del chicco di grano descritta dallo stesso Paolo, per spiegare la resurrezione dei corpi: “Ciò che tu semini non prende vita se prima non muore; e quello che semini non è il corpo che nascerà ma un semplice chicco, di grano per esempio o di altro genere” (1Cor 15, 36-37).
 Come riconoscere allora la metamorfosi che lo Spirito realizza nella vita interiore?

DI GLORIA IN GLORIA
Abbiamo già meditato sul fatto che la vita umana conosce due tipi di trasformazione… lo abbiamo fatto con il laboratorio della fede incentrato sulla lettera ai Galati 5,16-26!
Ci si abbrutisce con le “opere della carne”… ci si abbellisce col “Frutto della Spirito”.
La via della bellezza è espressa nei nostri versi con l’espressione “di gloria in gloria” ossia attraverso una gloria sempre più intensa.
 Nella Sacra Scrittura, la gloria è scelta come il simbolo della presenza di Dio. Un particolare ruolo è svolto da Mosè nella relazione tra il popolo e la gloria divina, che troviamo nelle prime pagine dell’Esodo: parlando della sua vocazione, infatti l’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo ad un roveto…”non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!”… Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio… (Es 3,2-6).
La gloria del Signore suscita due reazioni contrastanti:
  Un’attrazione sempre maggiore;
  Il terrore di trovarsi di fronte alla sua presenza
È fascinosa e terribile la sua gloria!
L’esperienza più intensa di Mosè, della manifestazione della gloria divina è quella che si realizza in occasione del dono della legge (le dieci parole per la tradizione ebraica): allora il suo volto diventa raggiante e gli israeliti non possono fissare il suo volto, al punto che è costretto a usare un velo per non accecarli, sino a quando non si trova alla presenza del Signore e può parlargli faccia a faccia, senza più veli (cfr. Es 34, 29-35). Paolo richiama questo episodio dell’Esodo in 2Cor 3, per esprimere la superiorità del proprio ministero rispetto a quello di Mosè…
Non c’è più bisogno di velo sul volto, perché la gloria di Dio si manifesta prima di tutto sul volto di Cristo, per contagiare quella di quanti credono in lui. Così la gloria o la bellezza sul volto del credente è sempre più intensa, in quanto esprime la trasformazione in atto che si completerà nella partecipazione piena e definitiva della stessa bellezza di Lui, nella resurrezione dai morti.

DA CESARE DI FILIPPO AL TABOR…
Abbiamo iniziato proprio da Cesarea, il laboratorio della fede di quest’anno… allora ci siamo lasciati interrogare dalla domanda “Chi è Gesù per me?” (cfr. Mc 8, 27-30)… ora arriviamo alla seconda tappa di vitale importanza per il nostro cammino di discepolato. È Luca che ci racconta che: “Circa otto giorni dopo questi discorsi, prese con se Pietro, Giacomo e Giovanni e salì sul monte a pregare. E mentre pregava il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco due uomini parlavano con Lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella loro gloria, e parlavano della sua dipartita che avrebbe portato a compimento a Gerusalemme”.
L’episodio ha un grande valore simbolico… ci ricorda che la trasfigurazione del volto di Gesù si realizza prima di tutto su un monte, come quello del Sinai che ha visto la trasfigurazione del volto di Mosè… tuttavia è una trasfigurazione transitoria o passeggera, che , come annota l’evangelista, anticipa quella definitiva della ascensione di Gesù a Gerusalemme, dopo la morte e resurrezione.
Ma è proprio questa transitorietà che spinge Paolo a parlare di trasformazione di gloria in gloria anche per i credenti Cristo.
Un grande teologo russo, della chiesa ortodossa, Paul Evdokimov, osa persino sostenere che quella del Tabor “era la trasfigurazione non del Signore ma degli Apostoli” (P.Evokimov, l’uomo icona di Cristo,Ancora, Milano 1982,p.45).
Il monte, dunque, è il luogo simbolico dell’incontro con la gloria di dio; e chi non osa… non ha il coraggio di restare con Gesù sul monte, non può contemplare alcuna trasfigurazione.
Naturalmente non sto affermando qui, di fare una gita… una escursione in montagna! L’ascesi al monte Tabor, si realizza nella preghiera… soltanto con i sensi della preghiera si realizza e si contempla, la trasfigurazione del volto di Cristo e quello dei credenti.
La presenza di Elia e Mosè sta a significare che tutta la scrittura è irradiata della gloria di Cristo.
Infine, la nube, come segno visibile della presenza di Dio, avvolge i presenti che in essa entrano con paura (cfr. Lc 9,34-35), perché si è posti davanti al fascino terribile della bellezza di Dio.
Non basta allora essere arrivati a Cesarea di Filippo con la professione di fede “Gesù Cristo mio Signore” per ritenere di aver concluso il proprio itinerario di maturazione nella fede… è necessario salire fino al tabor e da li intravedere l’ultima meta della trasfigurazione di Cristo e nostra; quella dl golgota e dell’ascensione, dove la gloria di Cristo diventa permanente e progressiva in noi, fino alla partecipazione della stessa gloria nell’incontro finale con lui. S.Ambrogio nel commento al vangelo di Luca 5,51 così dice:”Non con i passi del corpo, ma con le tue azioni elevate Sali questa montagna. Segui Cristo in modo che tu stesso possa divenire un monte”.

“L’essenziale è invisibile agli occhi” scrive Antoine de Saint-Exupéry nella sua opera le petit prince: è quanto si può affermare di fronte alla trasformazione dell’esistenza cristiana, poiché è soprattutto nella preghiera, nell’ascolto della parola di dio, che si riesce a percepire quanto sta oltre le apparenze: “Noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili, perché le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili invece sono eterne” (2Cor 4,18). Stiamo parlando degli “occhi della fede”, come li definisce S.Giovanni Crisostomo: “Infatti come quelli del corpo possono vedere solo ciò che accade sotto i sensi, così al contrario gli occhi della fede non vedono nulla delle cose visibili, ma vedono le cose invisibili così come se stessero davanti ad essi”. Tuttavia per poter vedere come “anche il nostro uomo esteriore si rinnova di giorno in giorno” (cfr 2Cor 4,16) o “di gloria in gloria” sono necessarie due condizioni che si realizzano nella preghiera
  Bisogna liberarsi dal velo sul volto
  Aver il coraggio di specchiarsi in Gesù cristo che è l’icona vivente della gloria di Dio.
Togliere il velo dal nostro volto significa presentarsi con nudità davanti a Dio, con le virtù e i vizi, i pregi e i difetti che ci accompagnano. Solo così, nell’esercizio del servizio o del ministero per gli altri, diventa verificabile che “la straordinaria grandezza dell’essere cristiano viene dalla potenza di Dio e non da noi” (cfr. 2Cor 4,7b). Fino a quando non avremo il coraggio di presentarci come siamo di fronte allo specchio della vita interiore che riflette il volto di Cristo, continueremo a percepire una visione falsata di noi stessi… non ci sarà spazio per la grazia o per la bellezza della gloria di Dio sul nostro volto

La vita cristiana, molto più di quella umana, è un esilio, durante il quale bisogna attraversare il deserto, raggiungere il mare, salire sulle colline e imparare a scalare le montagne.
Tutto il nostro essere è in trasformazione: una metamorfosi che parte dal di dentro – dove possiamo contemplare la bellezza della gloria di Cristo -, per manifestarsi all’esterno, quando sappiamo porci di fronte ad uno specchio, senza maquillage o trucchi.
Efficace a riguardo, è l’immagine della tenda che è il nostro corpo, la nostra stessa persona: “Sappiamo infatti che quando sarà distrutta la nostra dimora terrena, che è una tenda, riceveremo da Dio una abitazione, una dimora non costruita da mani d’uomo, eterna nei cieli” (2Cor 5,1)… siamo come una tenda di nomadi nel deserto: in cammino verso la patria, la dove soltanto potremo possedere fissa dimora, dove Cristo stesso è per noi dimora, gloria e bellezza senza fine.
Il cantore della bellezza, Agostino di Ippona, scriverà ricordando i momenti decisiva della propria conversione: “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato! Ecco, tu eri dentro di me e io stavo al di fuori: e qui ti cercavo, e deforme quele ero, mi buttavo su tutte queste cose belle che tu hai creato. Tu eri con me, e io non ero con te, tenuto lontano da te proprio da quelle creature che non esisterebbero se non fossero in te. Mi chiamasti, gridasti e vincesti la mia sordità; folgorasti con il tuo splendore e mettesti in fuga la mia cecità;esalasti il tuo profumo, lo aspirai e anelo a te; ti gustai e ora ho fame e sete; mi toccasti e ora brucio dal desiderio di conseguire la tua pace”. (Le confessioni 10,27).
Intanto, poiché dove c’è lo spirito c’è la libertà, lo stesso spirito ci libera, con discrezione, da qualsiasi velo o maschera che tentiamo di porre sul volto per non guardarci allo specchio con nudità e verità e per aiutarci a riconoscere quella trasformazione che egli realizza nella vita interiore, sino a quando sul nostro volto non si rifletterà, in modo definitivo, la gloria del volto di Cristo.
Ogni credente, è un alter Christus, perché porta in se l’immagine di Cristo in una progressione senza limiti, fino a quando non avremo bisogno neppure di specchi, ma lo contempleremo faccia a faccia: “Ora noi vediamo in modo confuso, come in uno specchi; allora invece vedremo faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente come anch’io sono conosciuto” (1Cor 13,12).

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