In missione con san Paolo

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In missione con san Paolo

Si chiude il 29 giugno l’anno dedicato all’Apostolo delle genti. In queste pagine una riflessione sulla sua eredità per chi è impegnato nell’annuncio del Vangelo al mondo di oggi

Davide Magni S.I.
 
San Paolo apostolo (1975), olio su tavola di Mario Venzo, artista gesuita (1900-1989)
Fra i molti stimoli che l’Anno paolino ha offerto alla Chiesa, uno tra i più significativi è stato l’invito a riflettere sull’atteggiamento che i cristiani devono avere nella relazione con le varie religioni. Al termine dell’anno dedicato al bimillenario della nascita del santo vorremmo riproporre questo stimolo attraverso la proposta di un «esercizio missiologico» per incontrare il Paolo missionario e «missionologo».
Oggi tendiamo a dare per scontato che, poiché ogni religione presenta differenze e particolarità specifiche, il cristiano si debba riferire a ciascuna di esse in maniera differenziata. In realtà, il primo a rendersi conto di questo, e a maturare tale modalità di approccio, fu proprio san Paolo. Egli, partendo dall’esperienza di Cristo che aveva segnato la sua vita e la sua visione del mondo, legge le realtà che incontra ed elabora una riflessione teologica. Questa teologia non è una costruzione astratta, non preesiste alla sua attività missionaria, viceversa ne è il ripensamento. Egli è anzitutto un missionario e poi un teologo.
Uno degli studiosi che hanno riflettuto in maniera particolare sulle forme del dialogo e della missione nell’Apostolo delle genti è stato Pietro Rossano (1923-1991), teologo, responsabile del Segretariato per i non credenti (l’attuale Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso) e rettore dell’Università Lateranense. Rossano spiega bene come, fin dalla prima generazione cristiana, si sia manifestata una pluralità e varietà di espressioni. Dovunque arriva, il messaggio cristiano ha la capacità di innestarsi sul patrimonio spirituale preesistente: questo perché i valori religiosi e umani presenti in ogni popolo vengono assunti, liberati ed elevati in Cristo. Rossano identifica così cinque differenti modelli di evangelizzazione sperimentati da Paolo: agli ebrei della sinagoga di Antiochia di Pisidia (At 13,15-41); ai seguaci del politeismo cosmico di Listra (At 14,1-18); ai filosofi stoici ed epicurei di Atene (At 17,18-31); agli gnostici dell’Asia minore (Efesini e Colossesi) e ai culti politeisti di Corinto (1Cor 10,19-22). Un buon esercizio potrebbe consistere anzitutto nella lettura dei brani appena citati.
Rimanendo ai suggerimenti bibliografici, raccomandiamo un altro teologo prematuramente scomparso, il sudafricano David Bosch (1929-1992). Nel suo testo fondamentale, La trasformazione della missione. Mutamento di paradigma in missiologia (Queriniana, Brescia 2000), traccia una sintesi della missione in Paolo di grande limpidezza e acume. Estrapoliamo qui solo due aspetti di questa stimolante lettura che Bosch propone sulla teologia e la prassi missionaria di Paolo: le «motivazioni» e lo «scopo» della sua missione.

LE MOTIVAZIONI DI PAOLO

Nel più profondo della motivazione missionaria di Paolo c’è l’esperienza che egli ha fatto dell’amore di Dio in Cristo Gesù. Se va fino alle estremità della terra è perché è stato conquistato da Lui: «Il Figlio di Dio che mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal 2,20). L’amore di Dio costituisce il vero movente della missione: «Avendo conosciuto (…) cerchiamo di convincere gli uomini» (5,11); «l’amore di Cristo ci spinge» (5,14).
Se, dunque, Paolo proclama il Vangelo a tutti, non è in primo luogo perché vuole salvare chi è perduto o perché ne sente l’obbligo. Il motivo di fondo è che ha coscienza che gli è stato fatto un privilegio: «ha ricevuto la grazia di essere apostolo» (Rm 1,5; 15,15). Privilegio, grazia, riconoscenza sono i concetti che Paolo usa quando parla del suo compito missionario. La coscienza di sapersi debitore si traduce immediatamente in un sentimento di riconoscenza. È facendosi missionario presso i giudei e i pagani, che Paolo esprime la sua riconoscenza per l’amore di Dio manifestato in Cristo. Un amore che «ci ha riconciliati con Dio mentre ancora gli eravamo nemici» (Rm 5,10): è questo amore incredibile e senza misura che Paolo e le sue comunità hanno scoperto e raccontano.
San Paolo ha una preoccupazione che lo spinge. Fuori di Cristo l’umanità perde assolutamente ogni speranza, è votata alla perdizione (1Cor 1,18; 2Cor 2,15). Essa ha un bisogno urgente di salvezza (Ef 2,12). Per tale ragione, deve essere proclamato a tutti che «Gesù ci libera dalla collera che viene». Si sente ambasciatore di Cristo: «In nome di Dio, ve ne supplichiamo, lasciatevi riconciliare con Dio» (2Cor 5,20). Tuttavia la sua grande motivazione non è predicare questa «collera che viene», ma il messaggio positivo: la salvezza che viene attraverso Cristo e il trionfo imminente di Dio. Il Vangelo è una buona notizia, rivolta a gente che ha peccato volontariamente, che è senza scuse e che merita il giudizio di Dio (Rm 1,20-25), ma a cui Dio, nella sua bontà, offre la possibilità di pentirsi (Rm 2,4). La salvezza, per Paolo, è l’esperienza di una liberazione immeritata, grazie all’incontro con il Dio unico, Padre di Gesù Cristo. Paolo ha la missione di condurre gli uomini alla salvezza in Cristo. Ma il suo obiettivo finale non è centrato sull’uomo: è preparare il mondo in vista della gloria di Dio che viene (1Tess 1,9) e per il giorno in cui tutto l’universo lo loderà, nella comunione piena di vita con lui.
Secondo Bosch, per cogliere come Paolo sentiva la responsabilità missionaria è utile richiamare quanto egli scrive a proposito del comportamento dei credenti verso «quelli di fuori»: devono anzitutto prendere coscienza di costituire una comunità di natura speciale, differente. Egli definisce i cristiani «scelti», «amati», «santi» (cioè, «messi da parte per»), conosciuti da Dio. Inoltre, ricorda continuamente che la testimonianza verso «quelli di fuori» esige una condotta esemplare: una condotta di rispetto (1Tess 4,11) e di amore concreto verso tutti (1Tess 3,12), una condotta che non solo attiri stima e ammirazione, ma addirittura inviti a entrare nella comunità.
In altre parole, la caratteristica delle prime comunità cristiane è il comportamento missionario. Esso si esprime non tanto con un’attività missionaria specifica, quanto con lo stile di vita «attrattivo» delle piccole comunità in cui le relazioni umane sono trasformate. Sono relazioni reciproche di attenzione, solidarietà, ospitalità, intense e ricche di emotività, di integrazione sociale tra ricchi e poveri: esse mostrano l’opera di riconciliazione realizzata da Cristo; sono «un segno precursore» dell’alba del mondo nuovo.

LO SCOPO DELLA MISSIONE

Sulla base di queste ragioni che lo spingono, qual è dunque il fine dell’andare alle genti? Nelle prime righe della Lettera ai Romani, Paolo riassume l’obiettivo del suo apostolato. È stato «scelto per annunciare il Vangelo» e incaricato di proclamare che Dio ha effettuato la riconciliazione del mondo con Lui e anche fra di noi. Per questo percorre tutta l’area mediterranea. Dove arriva, fonda Chiese: saranno, spera, manifestazioni della nuova creazione, capaci di resistere alle potenze di questo mondo.
La missione di Paolo si fonda non su promesse incerte, ma su un dato di fatto: la salvezza è già offerta da Dio all’umanità. In retrospettiva, cioè alla luce dell’esperienza dell’amore senza condizioni di Dio, Paolo ha immaginato come sarebbe stata la sua vita senza Cristo: egli ha potuto rendersi conto del terribile abisso in cui sarebbe caduto.
Tuttavia, quando confessa di essere stato salvato grazie a Cristo, non pronuncia un verdetto su quelli che non credono. Paolo non si sofferma sulla sorte dei non credenti, preferisce insistere sulla liberazione che è già stata data. Ha fatto l’esperienza del Vangelo, dell’amore senza condizioni: il suo scopo, lo scopo della sua missione, è di proclamare la salvezza compiuta da Dio. Il suo Vangelo è un messaggio positivo.

EDUCAZIONE AL DISCERNIMENTO

Dicevamo all’inizio che questa «lettura spirituale» dei testi di Paolo diventa un esercizio missiologico. L’anno scorso papa Benedetto XVI ha ricordato ai gesuiti riuniti per la 35ª Congregazione generale che la loro missione si articola in quattro dimensioni: servizio della fede, promozione della giustizia, inculturazione del Vangelo, dialogo interreligioso. Questo, però, vale per tutti i cristiani. San Paolo è il modello di riferimento, o paradigma, fondamentale.
L’Apostolo ci aiuta a riflettere sull’obiettivo e le motivazioni della missione che noi abbiamo. Si tratta di un’educazione al discernimento delle modalità dell’annuncio del Vangelo nell’attuale contesto delle religioni e delle culture. La Chiesa, ricordava mons. Rossano, consapevole dei limiti e delle imperfezioni che hanno offuscato nella storia l’efficacia della sua testimonianza, si sforza di presentare il messaggio evangelico in tutta la sua pienezza e nella sua potenza liberatrice. Per essere il più vicino possibile allo spirito di Cristo e alle esigenze dell’uomo contemporaneo, essa si trova sempre impegnata in un rinnovamento interiore.
Se il Concilio Vaticano II ha rappresentato il massimo sforzo compiuto dalla Chiesa nei tempi moderni per rendersi più adatta a svolgere la missione che Cristo le ha affidato per tutti gli uomini, l’anno paolino ha senza dubbio reso evidenti alcuni bisogni e desideri. Ad esempio il bisogno di ritrovare la piena unità con i cristiani separati dell’Oriente e dell’Occidente, il desiderio di avere uno sguardo d’amore e fiducia verso i non cristiani, per i quali la Chiesa sa di dover essere come il lievito e il sale.
Pochi mesi prima dell’apertura dell’anno paolino, il 3 dicembre 2007, la Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione, pubblicata dalla Congregazione per la dottrina della fede, ha sollecitato i cristiani a una riflessione non scontata. La Nota induce a prendere consapevolezza di dove ci smarriamo nel nostro andare alle genti. Allo stesso tempo suggerisce che cosa possiamo migliorare, correggere, cambiare e ulteriormente fare nel nostro modo di annunciare (cioè vivere) il Vangelo. La Nota parla innanzitutto delle implicazioni antropologiche dell’evangelizzazione: è la dimensione del servizio, della carità vissuta nell’impegno per la giustizia e la pace, la salvaguardia del creato. Proseguendo, espone le implicazioni ecclesiologiche: ciò richiama la Chiesa a essere luogo di comunione, ovvero a porsi come segno e strumento di riconciliazione fra i popoli e le culture; la comunità è luogo accogliente e riconciliante, attraente perché ci si sente amati e rispettati nella carità. Infine, richiama la dimensione ecumenica dell’evangelizzazione: c’è bisogno della testimonianza dei cristiani adulti nella vita secondo lo Spirito, pronti al dialogo e alla condivisione di doni che promuovono una più profonda conversione a Cristo; l’incontro tra le fedi, insomma.
Dall’incontro con san Paolo e raccogliendo le sollecitazioni della Nota possiamo capire che a nulla o a poco servono l’irrigidimento delle strutture ecclesiali o i discorsi sulla pastorale di tipo tattico-strategico, se si dimentica che il centro ispiratore di ogni azione è Gesù Cristo. Priva di grandi risorse umane, la Chiesa sa che deve contare unicamente sulla presenza di Cristo, il quale prima di congedarsi visibilmente dagli apostoli ha assicurato loro: «Ecco io sarò con voi fino alla fine dei secoli».

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