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2. DIMENSIONE « JAHWISTICA » DELLA SAPIENZA IN ISRAELE

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2. DIMENSIONE « JAHWISTICA » DELLA SAPIENZA IN ISRAELE

A partire dal tempo di Salomone la ricerca sapienziale divenne, in misura crescente, un patrimonio sentito nella tradizione di Israele. Essa veniva coltivata alla corte del re, specialmente in scuole destinate alla formazione dei funzionari e degli scribi [14]. Secondo la testimonianza, storicamente attendibile, di Pro 25,1 la raccolta di Pro 25-29 fu compilata dagli uomini di Ezechia, re di Giuda, che attinsero a prodotti più antichi della loro tradizione. Ugualmente al primo periodo monarchico risale, nella sostanza, la raccolta di Pro 10,1-22,16. Non pochi « detti sapienziali » riflettono la vita delle corte. Si pensi, p.es., ai detti che indicano l’atteggiamento da tenere alla presenza del re (Pro 16,12-15; 19,12; 20,2; 22,11.29 … ) o di personalità (23,1- 3; 25,13.15), dove è fondamentale la padronanza della lingua, la prudenza, la longanimità e la pacatezza. La lettura delle parti più antiche del libro dei Proverbi (specialmente i cc 10,1-22,16; 25-29) mostra inoltre che, nella formazione dei funzionari dello stato, si accordava grande importanza alla sapienza « popolare » che si accoglieva e si tramandava in vista di una formazione completa, anche sotto il profilo esistenziale. Il « sapiente » non è colui che possiede solo la scienza, ma colui che unisce al sapere il giudizio e la coerenza della vita. Di particolare importanza e interesse è la questione relativa al rapporto di questa attività sapienziale con la fede in Jhwh. Essa, come è stato rilevato, non è certo « un ramo dello jahvismo » [15]. La sapienza, ovviamente, non ha origine dalla fede israelitica. Israele, piuttosto, la scopre nel quotidiano della propria esistenza, la sviluppa nel legame con la propria tradizione passata, nei contatti con le culture dei popoli confinanti. Questo asserto, però, non può essere inteso nel senso che l’attività sapienziale e la tradizione della fede fossero due grandezze tra loro autonome e che solo nel periodo postesilico abbia avuto luogo la loro saldatura con la teologizzazione della sapienza. Lo afferma esplicitamente il Von Rad quando, riferendosi a Pro 16,7-12, scrive: « Il semplice fatto che nella sapienza delle sentenze antiche i testi riguardanti un’esperienza di Dio e quelli che riguardano un’esperienza del mondo si mescolino tra di loro… parla assolutamente contro l’idea che vi sia una qualche tensione nell’organo della conoscenza… La sua [di Israele] grandezza consiste forse in questo, nel non aver separato la fede dalla conoscenza: le esperienze del mondo erano sempre per lui esperienze di Dio e le esperienze di Dio esperienze del mondo » [16]. La tradizione sapienziale, dunque, già in questa fase antica del suo sviluppo era « tipicamente israelitica » e, col tempo, lo divenne sempre di più, in quanto « di nuovo. essere dell’uomo, risultante dalla rivelazione di Jahvh, doveva ripercuotersi anche sulla sapienza » [17]. Questa dimensione « tipicamente israelitica », alla quale la ricerca scientifica ha incominciato a prestare maggiore attenzione [18], appare sia dai detti sapienzali che affermano i diritti dei poveri, condannando la loro oppressione (cfr Pro 14,31; 17,5; 19,17; 21,13; 28,25.27), sia dalle sentenze che presentano Jhwh come difensore della giustizia (Pro 17,15). In entrambi i casi, infatti, si delinea una concezione affine a quella che conosciamo dall’attività dei profeti del sec. VIII i quali, a loro volta, si richiamavano alla tradizione dell’alleanza, attualizzandola in tutte le sue esigenze vitali nel nuovo contesto socioeconomico e politico che si era venuto a formare. Si potrebbe dire, con una formula sintetica, che « la sapienza in Israele » si sviluppò sempre come sapienza di Israele. Il movimento deuteronomistico, presentando la figura di Salomone che riceve da Jhwh la sapienza e che la esercita amministrando la giustizia, si pone in una linea di profonda continuità con la tradizione precedente. Al tempo stesso la sua opera mette in luce che la sapienza è connessa con la fedeltà a jhwh nell’osservanza dell’insegnamento e dei comandi contenuti « nel libro dell’Alleanza ». Questo criterio, in base al quale l’autore giudica l’operato storico dei re di Giuda e di Israele, testimonia un momento nuovo nel processo della crescente israelitizzazione della sapienza. Poiché il libro dell’alleanza vale per tutto il popolo, la sapienza non è soltanto prerogativa dei funzionari statali, ma dono divino per ogni israelita. La prospettiva secondo cui il Signore fa ascoltare la sua voce a Israele, per educarlo [19], mostra chiaramente che nell’ascolto della Parola si realizza quella « formazione » che ha costituito da sempre il compito specifico dell’attività sapienziale. Nell’accoglienza esistenziale della divina Parola, nell’attuazione delle « leggi e norme », che ne sono l’espressione storica, Israele vive la propria « sapienza e intelligenza », manifestandole « agli occhi dei popoli » (Dt 4,6). L’immagine di tutte le nazioni che vanno ad ascoltare la sapienza di Salomone (cfr 1 Re 5,9-14) attesta quindi la nuova coscienza che la scuola deuteronomistica ha sviluppato: Israele realizza la propria missione, quale strumento della divina benedizione (cfr Gn 12,1-4a), testimoniando in mezzo ai popoli della terra la propria sapienza. La connessione tra la Parola del Signore e la sapienza se da un lato esplicita un processo di israelitizzazione della sapienza, da sempre presente e operante nel vivo della tradizione, dall’altro segna una tappa la cui importanza difficilmente potrà essere esagerata. Ora la via è aperta a comprendere l’attività sapienziale in rapporto sempre più stretto con la rivelazione e, inversamente, a cogliere nella rivelazione la voce della sapienza, la sua proposta. La prima possibilità si incontra in Pro 1-9 (nella cui luce si procedette alla redazione definitiva dello stesso libro dei Proverbi); la seconda via è stata percorsa dalla redazione finale del Deuteronomio nella quale il « Iibro dell’alleanza » è presentato come la « Torah di Mosè »: il libro della vita che nasce dalla sapienza e che insieme è generatore di sapienza per coloro che lo ascoltano e lo praticano [20]. Il fatto che proprio il complesso dei libri che va da Genesi al Deuteronomio sia indicato, nella tradizione ebraica, con il nome « Torah » significa che la prospettiva della redazione conclusiva del Deuteronomio non rimase solo una concezione isolata, ma, in sintonia con il processo di teologizzazione della sapienza, contribuì in modo determinante a configurare la redazione definitiva del Pentateuco [21]. Esso è l’ »insegnamento » che Mosè ha dato e nel quale di generazione in generazione Israele si lascia « ammaestrare » da Dio per essere il popolo della sua proprietà. L’attività sapienziale, sorta come ricerca di « una comprensione profonda e penetrante del reale » [22] ebbe in Israele uno sviluppo sempre più illuminato dalla fede in Jhwh, Dio dell’esodo e dell’alleanza, e, perciò, Dio dei popoli e della loro storia, Dio del mondo e dei suo divenire, Dio creatore. Con la redazione finale del Deuteronomio, che presenta interessanti punti di contatto con Pro 1-9, e quindi con la formazione dei Pentateuco, la ricerca della sapienza appare essenzialmente connessa con la ricerca del Signore, con l’ascolto della sua voce, con l’accoglienza della sua rivelazione. 1 tempi sono maturi per la personificazione della sapienza.  

ELEZIONE E GELOSIA (SAN PAOLO – CRISTIANESIMO ED EBRAISMO)

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ELEZIONE E GELOSIA (SAN PAOLO – CRISTIANESIMO ED EBRAISMO)

Probabilmente fu l’Assemblea Jamnia che, nell’anno 90, allontanò dalla Sinagoga gli Ebrei che erano diventati discepoli di Cristo. Molto tempo prima, nel 50 o 60 A.D., Paolo di Tarso cercò di suscitare « gelosia » nei suoi fratelli Farisei contro i pagani che invece erano seguaci del Messia. Come egli scrisse ai Romani (11,14) « egli sperava di eccitare quelli della sua razza alla gelosia »
Con i suoi scritti egli ci suggerisce di emulare gli ebrei nella fedeltà alla elezione operata dal Dio vivente. La « gelosia » che Paolo esige non è l’invidia arrogante ed omicida, non si tratta dell’invidia assassina che si impadronì dei figli di Giacobbe nei confronti del loro fratello Giuseppe (Genesi 37), ma la divina gelosia che costituisce l’aspetto ardente della predilezione d’amore. Per l’apostolo Paolo, essa costituisce addirittura la chiave di lettura per la storia, per l’elezione, per il Patto, per la salvezza: « riserbare l’eletto » come « resto » per la « riconciliazione del mondo ». In questo « resto » e nel « mettere da parte » le Scritture, specialmente i Profeti Isaia (11,1; 60,21) e Daniele (11,7) ci rivelano l’azione di Dio del tagliare e prendere un germoglio proveniente dalla santa radice, per riconciliare il mondo e guidarlo dalla morte alla vita (cf. Romani 11,15)
Il duplice significato del termine gelosia nella Bibbia dove si descrive e l’umana presunzione e la premura divina nei confronti dell’uomo, ci induce ad una doppia lettura della Scrittura e ad un doppio comportamento nei confronti della Storia.
Tra gli uomini la gelosia è la parodia dell’amore, che ha lo scopo di legare e, alla fine, allontana. La gelosia di Dio è testimonianza dell’assolutezza nell’amore, di preferenza nella scelta, di intransigenza nella fedeltà, persino qualora si fosse abbandonati. L’umana gelosia vuole distruggere l’oggetto dell’amore; la gelosia di Dio supera la punizione e alla fine ristabilisce la vita eterna.
Quello che accadde tra Ebrei e Cristiani durante i passati 20 secoli è tragedia di umana gelosia che assunse l’aspetto di divina gelosia. Questo fervore geloso, che era troppo umano, assunse diversi aspetti a seconda che le parti in causa fossero Ebrei o Cristiani.
La gelosia Cristiana nei confronti di Israele prese molto rapidamente la forma di una rivendicazione di una eredità: liberandosi semplicemente dell’altro che è così vicino eppure così diverso. La sostituzione di Giacobbe con Esaù – il figlio più giovane con il più vecchio – fu usata come giustificazione. Ma allora cosa dire di Giuseppe, che i suoi fratelli pretendono di assassinare? Essi volevano far sparire il più giovane così da trattenere per sé il privilegio dell’amore del proprio padre. E così chi si identifica in queste figure bibliche?
Parecchie parabole di Gesù trattano dell’eredità e della sua appropriazione. Una di queste storie è particolarmente sinistra. È il caso dell’assassinio del diletto Figlio, il più grande ed unico, giacché il primogenito è per definizione l’unico. Questa parabola (Marco 12, 1-12) si riferisce all’omicidio di questo Figlio ad opera di coloro ai quali era stato chiesto soltanto di prendersi cura della vigna. Il punto è che loro vogliono impadronirsene. A chiunque ascolti questa storia oggi, il suo significato appare sorprendentemente ambivalente, in quanto può essere interpretato come premonitore dell’assassinio di Gesù o di Israele, l’unico Figlio.
I pagani diventati Cristiani ebbero accesso alle Sacre Scritture ed alle celebrazioni ebraiche. Ma l’invidia, atteggiamento troppo umano, li indusse ad escludere ed estromettere gli Ebrei. Nei loro primi tentativi di evangelizzazione, gli apostoli Pietro e Paolo intesero dividere con i pagani la grazia ricevuta dalla gente ebraica. Con la celebrazione dell’adempimento delle promesse del Messia, i primi apostoli generosamente avevano concesso ai pagani di mantenere una diversa condizione (Atti 15, 5-35) insieme con gli Ebrei. Ma il numero e la potenza dei pagani ammessi alla Chiesa del Messia sconvolse l’ordine rovesciato di distribuzione della salvezza. Questo movimento mirava a privare l’esistenza giudaica dei suoi concreti, carnali e storici contenuti, arrivando a considerare la vita della Chiesa fino alla storia più recente, come il compimento ultimo della speranza e della vita ebrea. Così fu sviluppata la teoria della sostituzione.
Quando si parla di Ebrei e non-Ebrei, Paolo ha affermato: « Non esistono Ebrei e Greci, schiavi e liberi, maschi e femmine » (Lettera ai Galati 3,28 – Cf. anche 1Corinzi 12,13). Egli non ignorava l’oneroso tempo storico e l’attesa. Ma in questa abbagliante prospettiva egli annunciava il compimento del disegno di Dio e l’assunzione di tutti alla gloria della benedizione. « Gli Ebrei » e « le Nazioni » sono categorie bibliche. E allora dove sono i Cristiani? L’antica eloquenza distingueva tra Cristiani Ebrei e Cristiani Gentili. Possiamo reperire tracce di ciò nel vecchio mosaico romano di S. Sabina (422-430 A.D.).
Si possono vedere due figure su entrambi i lati della consacrazione: sono anziane donne velate con in mano un libro e sotto, rispettivamente, questa didascalia: « Ecclesia ex circumcisione – la Chiesa della circoncisione » e « Ecclesia ex gentibus – la Chiesa dei gentili ».
La Chiesa della circoncisione sopravvisse come poté. Ma allorché Costantino garantì ai Cristiani una tolleranza che equivaleva ad un riconoscimento della cristianità nella vita dello stato ed il cristianesimo divenne la religione dell’Impero, gli Ebrei furono brutalmente respinti. Questa era una maniera semplicistica e brutale per negare alla redenzione il tempo e il travaglio del parto che essa richiede, tenendo conto del tempo necessario al suo completamento « un’ora o un giorno nessuno lo sa » (Matteo 24,36). La mitologia della sostituzione del popolo Cristiano al posto del popolo Ebreo favorì una segreta, inestinguibile invidia legittimando la captazione dell’eredità d’Israele, di cui possono essere offerti innumerevoli esempi [4]
Questa rivalità tra fratelli costituì una particolare svolta nei rapporti tra Ebrei e Cristiani durante il Medioevo e persino in tempi moderni [5]. I dotti sapevano che le Sacre Scritture furono ricevute dagli ebrei, ed anche la Rivelazione e, persino in maniera più essenziale, la fonte di salvezza. Nell’antichità parecchi teologi cristiani appresero la lingua ebraica in modo da leggere la Bibbia nella sua lingua originale e raccogliere dai rabbini l’insegnamento delle tradizioni più antiche.
Ma contemporaneamente, l’invidia aggiunse agli scontri con gli Ebrei, che non accettavano Gesù come Messia, ulteriori pregiudizi. Questa invidia indusse molti cristiani a partecipare a polemiche appassionate, che alla fine alimentarono l’anti-semitismo, preparando le sue sanguinarie, tragiche manifestazioni con le infami calunnie di assassini rituali come con parecchie altre orribili menzogne che hanno contraddistinto il nostro secolo, come « il protocollo dei savi di Sion » e la letteratura antisemita
Si può dire che molti Ebrei ricambiarono e risposero con uguale ostilità. [6] Quei Cristiani erano solo gentili! Le loro rivendicazioni senza fondamento! Tutto quello che li riguardava e li sfiorava rientrava nella categoria dell’impurità. Comportamento sensato, a quel tempo e nella situazione di esilio in cui si trovavano, sarebbe stato di ignorarli e di rigettarli nello stesso vuoto spirituale degli altri pagani: perché, pensavano gli Ebrei, la cristianità più di ogni altra religione non-ebrea avrebbe diritto a qualche speciale considerazione?
Tutto ciò che peculiarmente rappresentava la fede cristiana poteva solo essere compreso come foriero di violenza e morte, le cui vittime erano gli Ebrei. I relativi simboli non avrebbero potuto più significare in alcun modo misericordia, perdono o amore. Essi erano soltanto orribili disegni che era meglio non guardare, nemmeno degni di essere pensati o menzionati, in quanto presentimenti di morte e di suprema empietà!
Tuttavia questo parallelismo circa gli atteggiamenti spirituali cristiani ed ebrei non potrebbe essere sviluppato oltre, poiché l’equilibrio politico era vistosamente impari. La reciprocità per ciò che attiene la mancanza di comprensione e disprezzo è eloquente. Ciò che è significativo sono le affinità e le contraddizioni che possono essere scorte nel rapporto sia degli Ebrei che dei Cristiani con la storia universale.

IL SILENZIO DI DIO

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IL SILENZIO DI DIO

Riccardo Di Segni, Rabbino Capo di Roma, Direttore del Collegio Rabbinico Italiano

Il tema del silenzio e dell’assenza di Dio davanti alle sofferenze dell’umanità è salito improvvisamente alla ribalta per un motivo quasi casuale, un recente intervento del Papa che lo ha affrontato nel corso di un’omelia. Parlare di quest’argomento ha sorpreso un po’ tutti, sia per la natura del tema, così difficile e speciale, che per la forza con cui è stato trattato. Ma per la sensibilità ebraica non si è trattato di una novità né di una sorpresa.
È un tema importante della teologia biblica che viene costantemente ripreso ed elaborato nel corso della storia e che davanti a fenomeni di particolare gravità, come la Shoà, esplode travolgendo le coscienze. Esaminando le pagine bibliche si può vedere come l’interrogativo sulla presenza divina accompagni la storia ebraica dal momento stesso in cui nasce come popolo. La Bibbia cerca di dare qualche risposta, anche molto precisa a questa domanda terribile, ma la questione evidentemente non è semplice da risolvere per le coscienze turbate.
Il tema trova espressione in una grande metafora antropomorfica, quella del panim, del volto divino. Nel rapporto tra esseri umani guardarsi in faccia è un modo di comunicare, anche se non necessariamente benevolo, mentre volgersi la faccia, rivoltarsi, è segno di chiusura, di interruzione di comunicazione, di rifiuto. Sono pertanto sinonimo di speciale benedizione, simpatia, protezione, benevolenza le espressioni iaer haShem panaw elekha e issà haShem panaw elekha, « che il Signore illumini e volga te il suo volto », che compaiono nella benedizione sacerdotale di Numeri 6:25-26, che quotidianamente ripetiamo nella nostra liturgia.
Al contrario è il celarsi, il nascondersi del volto divino il segno di allontanamento. Leggiamo in proposito un brano fondamentale:
 » La mia ira divamperà contro di lui in quel giorno e li abbandonerò e nasconderò loro il mio volto (letteralmente: mi nasconderò il volto da loro) e diventerà preda di chi vuole divorarlo e lo incontreranno numerose disgrazie e cose cattive e in quel giorno dirà ‘è perché il mio Dio non è in mezzo a me che mi sono capitate queste brutte cose’. Ma Io avrò nascosto il mio volto in quel giorno per tutto il male che aveva fatto, perché si era rivolto ad altri dei ». (Deuteronomio 31:17-18).
In questo brano c’è la prefigurazione dell’evento (l’abbattersi delle sciagure nazionali, il diventare preda dei nemici), la sua rappresentazione teologica (Dio che si nasconde all’uomo), la constatazione umana dell’abbandono (Dio non è in mezzo a me) e l’interpretazione teologica (il volto si nasconde perché l’uomo si è ri-volto altrove).
Che non si vadano a cercare responsabilità divine primarie nel male; questo dipende in primo luogo dall’uomo e dal dono che gli è stato fatto di poter scegliere tra bene e male, tra premio e punizione. E all’uomo viene quindi chiesto di fidarsi e scommettere. Non a caso, in un brano che per molti versi è l’anticipazione di quest’interpretazione del Deuteronomio, la domanda su dove è Dio nasce in un contesto storico preciso: usciti dall’Egitto, dopo tutti i miracoli cui hanno assistito, gli ebrei si trovano nel deserto senza acqua; e allora, immemori e ingrati dei beni precedenti, protestano, fino a minacciare Mosè di lapidazione. Racconta la Bibbia:
« (Mosè) chiamò quel luogo Massà e Merivà (contesa e lite) per la lite dei figli d’Israele e per aver loro messo alla prova il Signore dicendo: ‘se Dio è in mezzo a noi o no’  » (Esodo 17:7).
E subito dopo ecco quello che succede:
« Arrivò Amaleq e combatté con Israele a Refidim » (ibid, v. 18).
Amaleq è il nemico mortale perenne d’Israele, senza pietà per i più deboli. Amaleq arriva e colpisce non in un momento qualsiasi, ma quando Israele non è più capace di avvertire la presenza divina dentro di sé. Dio fugge e si nasconde secondo il Deuteronomio dopo che gli ebrei gli si rivoltano contro; ma la prima fuga -quella che apre il varco al nemico divoratore- avviene nella coscienza degli uomini che diventano sordi e incapaci di avvertire la presenza divina. Prima ancora di un volto che si nasconde c’è l’incapacità umana di vederlo quando c’è. L’importanza di questa storia supera il caso isolato, diventa emblematica. Non a caso nella Torà uno dei comandi più importanti che si riferiscono all’uso della memoria, riguarda proprio la storia di Amaleq: « ricorda cosa ti ha fatto Amaleq » (Deuteronomio 25:17). Ricorda cosa ti ha fatto, ma anche che cosa può averlo provocato.
Il celarsi del Deuteronomio non è isolato, ma lo ritroviamo in tanti altri brani biblici,da Isaia (8:17, 54:8), Ezechiele 39 (23,24,29), ai Salmi (« non nascondermi il tuo volto »: 27:9, 102:3, 143:7; e ancora 13:2, 30:8, 44:25 ecc), espressioni di una angoscia e di una ricerca costante. Di fatto il tema del Dio che si nasconde diventa la costante dell’esperienza successiva, specialmente diasporica. Giocando sulla lingua, la radice satar che indica il celarsi (da cui forse anche il mistero) viene riscontrata dai Maestri nel nome dell’eroina biblica Ester: un nome che in realtà dovrebbe essere collegato a Astarte e Aster-Astro, ma che per i Maestri non indica il fulgore ma il buio. Con una consolazione: perché la regina Ester opera in un periodo storico in cui il Volto non è più visibile e accessibile, e per questo può sempre sorgere qualcuno che decide di distruggere l’intero popolo ebraico; ma anche se la presenza diretta, la visione luminosa del volto non c’è più, la presenza divina, la sua provvidenza, la sua assistenza non mancano mai e al momento giusto intervengono nella storia e liberano.
Per questo motivo consolatorio e di speranza gli ebrei celebrano ancora oggi (e continueranno a farlo anche quando tutte le altre feste saranno abolite), per una volta all’anno, con gioia fisica quasi sfrenata, la festa del Purim, per segnalare che anche in un regime di volto nascosto la protezione non viene mai meno. È sul filo di questa speranza che si gioca un’esperienza drammatica, una domanda con tante risposte sempre insufficienti, una provocazione alla fede che coinvolge quasi quotidianamente la vita di ogni ebreo, che sia religioso o no.
Nel momento in cui lo Stato si accinge a celebrare il Giorno della Memoria, con importanti intenti memoriale ed educativi, lo spirito ebraico partecipa con un ricordo sconsolato e con il peso di una domanda e di una ricerca che ha più di 32 secoli di storia.

SHAVUOT E PENTECOSTE

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SHAVUOT E PENTECOSTE

Ariel Di Porto, su shalom.it di aprile 2003 (note a cura di LnR)

(*) L’anno ebraico è scandito da varie ricorrenze che ricordano gli eventi succedutisi dalla creazione e che ricordano la storia degli ebrei. Le principali feste ebraiche sono legate alle stagioni e ad antiche tradizioni agricole pastorali. Il calendario ebraico comprende cinque feste maggiori di origine biblica.

:: Shavuot e Pentecoste
Il periodo che va da Pesach a Shavuot è caratterizzato dalla mitzwà della sefirath ha-’omer = conta dell’Omer [1] (in questa circostanza dell’orzo), che è basata sulla considerazione che il fondamento dell’esistenza del popolo d’Israele risiede nella Torà. L’uscita dall’Egitto, che viene celebrata attraverso la festa di Pesach, chiamata nella Tefillà zeman cherutenu (tempo della nostra libertà), acquisisce significato solamente in relazione alla ricezione della Torà, che ricordiamo con la festa di Shavuot, zeman matan toratenu (tempo del dono della nostra Torà). [2] Nel libro di Shemot (3,12) troviamo un accenno a tale idea: « Io sarò con te, e la riprova che Io ti ho dato l’incarico, sarà che una volta avvenuta l’uscita del popolo dall’Egitto, questi adorerà il Signore su questo monte ».
L’uscita dall’Egitto, e tutti i miracoli che il Signore ha compiuto per liberare i figli d’Israele, non sono altro che un segno che deve portare al servizio del Signore. D.o mostra ai figli d’Israele lo scopo della redenzione dalla schiavitù egiziana prima ancora di liberarli.
Contiamo i giorni dell’Omer poiché da sola la liberazione dalla schiavitù ha un valore relativo, ed acquisisce veramente senso solamente se sfocia nell’accettazione della Torà, che costituisce il suo scopo reale. Il legame tra Pesach e Shavuot è talmente tanto stretto che la Torà, a differenza delle altre festività, non indica una data specifica per la festa di Shavout, che cade nel cinquantesimo giorno dall’inizio della conta dell’Omer.
Nel linguaggio dei maestri la festa di Shavuot è chiamata ‘atzeret (chiusura), termine che richiama immediatamente Sheminì ‘atzeret, il giorno successivo a quelli di mezza festa di Sukkot. Anche per questa festività la Torà non ci fornisce una data, ma la lega a Sukkot; Shavuot è per Pesach ciò che Sheminì ‘atzeret è per Sukkot, e tutti i giorni dell’Omer sono paragonabili ai giorni di mezza festa di Sukkot. La stessa idea del contare richiede una spiegazione: alcuni hanno sostenuto che si dovevano contare i giorni che vanno da Pesach a Shavuot poiché le persone erano occupate nel lavoro nei campi, e forse non sarebbe arrivata loro notizia dell’imminenza di Shavuot.
Se così fosse, la Torà avrebbe potuto ordinarci di comprarci un calendario e tenerlo con noi, e non sarebbe servito contare. In realtà la conta ha un significato diverso, e mostra la nostra insoddisfazione nei confronti della situazione attuale, ed in generale la precarietà del presente. Il conteggio dei giorni che separano un evento dall’altro è simile a quello dello schiavo che deve essere liberato.
Secondo un’altra bellissima immagine è come se si dicesse ad un carcerato che sarà liberato e sposerà la figlia del re. Il carcerato inizialmente è incredulo, ma quando vede che la prima insperata cosa si avvera, inizia a credere che si verificherà anche la seconda, e conta il tempo che lo separa dalla sua realizzazione. Quando viene detto ai figli di Israele che usciranno dall’Egitto e riceveranno la Torà, non ci credono; quando vedono realizzata la prima cosa, attendono con fervore anche la seconda, contando il tempo che li separa dal suo ottenimento. Troviamo un accenno a ciò proprio nel verso di Shemot citato sopra: la parola ta’avdun (adorerete) ha una nun di troppo. Il valore numerico di questa lettera è proprio 50, quanti sono i giorni che separano l’uscita dall’Egitto dal matan Torà.
Perché dal secondo giorno e non dal primo? Se la conta dell’Omer unisce concettualmente Pesach e Shavuot bisogna spiegare un’altra apparente stranezza: perchè si inizia a contare dal secondo giorno di Pesach e non dal primo? In base ad un principio generale, che a volte s’incontra nella Halachà, non si mescolano delle gioie fra loro.
Il primo giorno di Pesach è legato ad un certo tipo di gioia, quella dell’uscita dall’Egitto, che costituisce una prova « forte » della creazione del mondo da parte di D.o e della provvidenza che esercita nei confronti degli uomini. Avvenimenti come le dieci piaghe, l’apertura del Mar Rosso, la caduta della manna sono eventi che sconvolgono profondamente le leggi naturali. I figli di Israele che hanno assistito all’uscita dall’Egitto sono arrivati ad una fede completa nel Signore (prestò piena fede al Signore e a Mosè suo servo), determinata proprio da tali eventi miracolosi. Questo caposaldo della fede ebraica, che D.o abbia creato il mondo ed eserciti la propria provvidenza sulle creature, non può essere mescolato con nessun’altra cosa. Per questo la conta dell’Omer non inizia dal primo giorno di Pesach, ma dal secondo, che, quando c’era il Bet ha-Miqdash, era caratterizzato da una particolare offerta, chiamata appunto ‘Omer. [3]
Il midrash percepisce dietro quest’offerta un messaggio diverso da quello che ci viene dato dal primo giorno di Pesach, un altro tipo di fede: la mano di D.o è presente anche negli eventi che a noi sembrano perfettamente naturali.
Quando un uomo prepara una qualsiasi pietanza deve compiere diverse operazioni che gli comportano fatica. Se al contrario si tratta di operazioni agricole non è proprio così: anche quando il contadino sta a letto, D.o in qualche modo lavora per lui, facendo splendere il sole, scendere la pioggia, soffiare il vento, ecc.
Attraverso l’offerta dell’Omer gli uomini riconoscono questa « collaborazione » divina, e mostrano di avere una fede basata non solo sugli interventi divini più manifesti, ma anche su quelli apparentemente nascosti.
Nachmanide sostiene persino che un tipo di miracolo sia funzionale all’altro: lo scopo dei miracoli manifesti è mostrare che ci sono miracoli nascosti, ed il fondamento della fede è nei miracoli nascosti.
Nella penultima berachà della ‘amidà (modim anachnu) parliamo dei miracoli che il Signore quotidianamente compie per noi, in ogni momento della giornata. In questo caso non si tratta dei miracoli manifesti, dei quali molti di noi probabilmente non sono stati testimoni, ma di quelli nascosti, che dobbiamo scovare continuamente. Questa continua ricerca del nascosto costituisce una grossa prova per la nostra fede: tante e tante cose ci sussurrano continuamente che tutto quello che ci succede è completamente naturale, tutti gli eventi della nostra vita sembrano essere determinati dal caso, ogni nostro risultato sembra essere solo farina del nostro sacco. Non sempre è così. Basta solamente guardare le cose con un occhio diverso e cercare come si manifesta il continuo intervento di D.o nella natura, nella storia, nella nostra vita.

Shavuot e Pentecoste
Le radici ebraiche del cristianesimo sono riconoscibili anche nella strettissima corrispondenza tra la festa di Pentecoste ebraica (Shavuot), dove si ricorda il dono della Legge, e la Pentecoste cristiana, in cui – cinquanta giorni dopo la Pasqua – celebriamo la discesa dello Spirito Santo sulla Chiesa radunata nel cenacolo. Sì, perché possiamo dire che nella Pentecoste gli apostoli salgono con Maria al piano superiore, come Mosè sale sulle pendici del Sinai; Dio effonde lo Spirito sulla Chiesa, nuova Legge, lo Spirito del Signore Risorto, iscritta nei cuori dei credenti; così Mosè sulla cima del monte riceve le mizwot Adonai, i precetti della Torah. Lo Spirito con i suoi doni porta la Chiesa alla missione ed all’evangelizzazione, la voce di Dio sull’Horeb rinvigorisce la missione del profeta Elia e gli dona quello slancio definitivo contro l’idolatria dei falsi profeti. Mosè parla faccia a faccia con Dio, lo Spirito ci permette di invocare Dio nei nostri cuori con l’appellativo di Abbà, l’affettuoso “Papà” del fanciullo che si rivolge al proprio padre, perché l’incarnazione, passione, morte e risurrezione del nostro Signore, Gesù, ci ha introdotti nella « famiglia » del Padre.
Abramo non merita Eretz Israel fino a che non mette in pratica la mizvà dell’Omer; gli ebrei non entrano nella Terra Promessa se non nel momento in cui sostituiscono l’Omer di Manna con l’Omer del frumento di Eretz Israel. Noi non entriamo nella vita nuova della Risurrezione se non partecipiamo all’Eucaristia, che è il nuovo Pane disceso dal cielo… e se non ci lasciamo purificare e vivificare dal fuoco dello Spirito che ha raggiunto gli Apostoli nel Cenacolo il giorno di Pentecoste. Come gli Ebrei si riconoscono Popolo al momento dell’accoglimento della Torah, così i Cristiani divengono anch’essi Popolo dell’Alleanza e si riconoscono Chiesa proprio a partire da quella Pentecoste che si rinnova per ogni credente.
Anche noi quindi in questo periodo dell’anno contiamo i giorni della nostra gioia, perché «  »il periodo dell’Omer ha delle diverse e ben più profonde implicazioni. Si tratta del periodo che intercorre tra la festa di Pesach e quella che nella Torah si chiama Azeret, ossia conclusione (stupenda l’idea di compimento), che prende poi il nome di Shavuot o Settimane. Tale definizione è però parziale. Sarebbe corretta se la data di Shavuot fosse esplicitamente fissata. In realtà non è così. Il periodo dell’Omer non è un riempitivo per lo spazio che intercorre tra le due feste, ma è piuttosto una scala che piantata sulla festa di Pesach sale fino a Shavuot. La Torah non dà la data di Shavuot, la festa che commemora il dono della Torah perchè essa è subordinata al conteggio dei giorni/scalini che abbiamo effettuato in direzione della Torah.
Ed in effetti il percorso Pesach-Omer-Shavuot è un percorso che serve a rieducare sia sotto l’aspetto materiale sia sotto quello spirituale. Se è vero che gli ebrei erano prossimi ad oltrepassare la cinquantesima definitiva porta dell’impurità allorché Iddio li trasse fuori dall’Egitto, il periodo del conteggio dell’Omer deve far loro risalire queste cinquanta tappe fino a giungere alla Torah. La Torah non si riceve in eredità, ma la si conquista giorno per giorno. La festa del dono della Torah è quindi senza data, accessibile a coloro che quotidianamente contano i propri successi in direzione della Legge. »" [Tratto dalla Parashat Emor]
Così è anche per noi, che viviamo il « già e non ancora » del Regno e, ogni giorno, compiamo un passo verso la Risurrezione definitiva, il « mondo a venire » (‘olam ha-ba), che inizia già in questo mondo, per poi sfociare nella pienezza della gloria futura.
Anche la Pentecoste cristiana è connessa strettamente con la Rivelazione di Dio sul Sinai. La omonima festa ebraica, infatti, ricorda la teofania mosaica di nel roveto che arde senza bruciare. Esattamente come arde senza bruciare lo Spirito Santo, in forma di lingue di fuoco, disceso su Maria e gli Apostoli: lo stesso Spirito che feconda e edifica la Chiesa. Noi vediamo dunque il Sinai come evento storico tipologico dell’effusione dello Spirito dopo l’Ascensione.
Allora è possibile comprendere che la Promessa di Dio rimane immutata nel corso della Storia della Salvezza, perché la Sua Alleanza è irrevocabile: ciò vale tanto per i nostri fratelli ebrei, quanto per noi cristiani che ci diciamo figli della Nuova Alleanza, che non annulla la precedente, ma la porta a compimento.
(M.G.)
______________________
(*) L’anno ebraico è scandito da varie ricorrenze che ricordano gli eventi succedutisi dalla creazione e che ricordano la storia degli ebrei. Le principali feste ebraiche sono legate alle stagioni e ad antiche tradizioni agricole pastorali.
Il calendario ebraico comprende cinque feste maggiori di origine biblica. Le tre feste « del pellegrinaggio » o « feste del raccolto » (Pesach, Shavuot e Sukkoth) associate all’esodo dell’Egitto e le due « feste penitenziali » (Rosh HaShanan e Yom Kippur). Pesach (Pasqua) è la festa più importante del calendario ebraico. Si celebra tra marzo e aprile e ricorda la liberazione dalla schiavitù egiziana. Shavuot (pentecoste) si celebra nel periodo della mietitura, cinquanta giorni dopo la Pasqua. Ricorda il dono della legge (Torah) sul monte Sinai, che trasformò gli schiavi fuggiti dall’Egitto in un vero « popolo ».
Altre occasioni come il Purim sono invece feste minori e non hanno una diretta origine biblica.
Lo scopo di un Yom Tov, cioè di un giorno buono è quello di gioire dei piaceri del mondo dati da Dio e di concentrarsi della preghiera e nello studio.
[1] L’ ‘omer è una unità di misura che, nella toràh e nel talmùd, viene utilizzata per quantità alimentari. Come primo significato indica un manipolo di spighe; come secondo significato indica una quantità di grano o cereali e, indirettamente, la farina che se ne può ricavare. In ogni caso è una misura di volume e non di peso. Tra queste diverse definizioni esiste una certa incoerenza: non tutte le spighe hanno lo stesso numero di chicchi; non tutti i chicchi hanno la stessa grandezza; la stessa quantità di farina può derivare da un diverso numero di spighe e di chicchi (cfr. M.Peàh 6:6). Vale a dire: l’ ‘omer è una unità di misura discontinua; inevitabilmente dalle spighe al grano, dal grano alla farina e dalla farina al pane esistono dei salti qualitativi e quantitativi, tanto sicuri quanto imprevedibili. In altri termini: i passaggi e le trasformazioni da frutto della terra a prodotto agricolo ed a manufatto alimentare contrappongono la qualità e la quantità; il lavoro umano modifica la sostanza e le misure del prodotto naturale; molte spighe immangiabili diventano poco pane mangiabile.
[2] La seconda sera di Pesach, la pasqua ebraica, secondo il dettato della Torah, si doveva fare un’offerta delle primizie del raccolto; offerta che doveva essere ripetuta sette settimane dopo, in relazione alla festa di Shavuot. I grani di orzo del nuovo raccolto, fino a che esisteva il Santuario, non potevano essere consumati se non dopo l’offerta; dopo la distruzione del Santuario è rimasto il precetto di contare i giorni che separano Pesach da Shavuot. Tale periodo si chiama “periodo dell’Omer”. È un periodo che viene considerato di lutto, durante il quale non si celebrano matrimoni. In origine la parola Omer indicava un covone, ma viene inteso come unità di misura.
Il trentatreesimo giorno del periodo viene festeggiato Lag Ba-Omer, una festa allegra, che spezza il lutto. Secondo un’interpretazione segna l’inizio in cui la manna iniziò a cadere nel deserto, secondo altri la fine di una epidemia che aveva colpito i discepoli di Rabbì Akiva o un successo durante la rivolta in epoca romana. A Lag Ba-Omer viene venerata la tomba di Shimon Bar Yochai, a cui fu attribuito lo Zohar, il più importante testo di mistica ebraica.
Il 5 del mese di Iyar, durante il periodo dell’Omer, si celebra la ricorrenza della fondazione dello Stato di Israele, in ebraico Yom Ha’hazmaut. In questo giorno nel 1948 fu firmata la dichiarazione d’Indipendenza. Dopo duemila anni di esilio, si è realizzata l’aspirazione degli ebrei di avere uno Stato proprio. È giorno di festa sia in Israele che nella Diaspora.
[3] Il testo dice semplicemente che all’indomani del primo giorno di Pesach (dal testo indicato come « Sabato ») va eseguito un sacrificio denominato « omer » (misura che equivale a circa 43,2 uova medie di farina di orzo), si devono poi contare sette settimane (49 giorni) ed il cinquantesimo si deve presentare l’offerta di due pani (fatti di farina di grano). Quel giorno è la festa di Shavuot. Fino all’offerta dell’omer è proibito usare il nuovo prodotto di uno dei cinque cereali. Nonostante ciò la prima offerta di farina di grano del nuovo prodotto sono i due pani di Shavuot. Risulta quindi che la seconda delle Tre Feste di pellegrinaggio viene fissata secondo l’offerta di due sacrifici farinacei.
Esiste una differenza sostanziale tra le due offerte: l’omer è un offerta di orzo laddove i due pani di Shavuot sono di grano. Il Talmud (TB Pesachim 3b) asserisce che l’orzo è per eccellenza il cibo degli animali mentre il grano è il cibo dell’uomo. L’offerta dell’omer, appena successiva all’uscita dall’Egitto sembrerebbe quindi legata ad un livello « animale » mentre il grano dei due pani di Shavuot andrebbe legato ad un livello umano.
Ed ecco che la differenza sostanziale tra l’uomo e l’animale è la capacità di parlare (cfr. Targum Onkelos su Genesi II,7). Questa capacità, dibbur in ebraico, è talmente caratteristica dell’uomo che soffre con esso per le sue esperienze. Lo Zoar (Parashat Bo 125b) sostiene che il dibbur, la capacità di parlare, in Egitto si trovava in esilio. In effetti fino a che Israele non raggiunge il Sinai e riceve la Torà Mosè stesso è balbuziente, quasi a testimoniare la precaria condizione della umana capacità di parlare in assoluto. La redenzione del « parlare » avviene quando il Signore dona la Torà ad Israele (il decalogo è preceduto da un verso introduttivo nel quale si dice che D-o « parlò tutte queste parole ») Da lì in poi anche Mosè impara a parlare. Rabbi Izchak sostiene nel Talmud (TB Chulin 89a) che il compito dell’uomo in questo mondo è di imparare ad essere muto. L’unica cosa di cui dovrebbe parlare sono « divrè Torah », parole di Torah.

 

IL SILENZIO DI DIO – RAV RICCARDO DI SEGNI, RABBINO CAPO DI ROMA

http://www.nostreradici.it/silenzio_di_Dio.htm

IL SILENZIO DI DIO

RICCARDO DI SEGNI, RABBINO CAPO DI ROMA, DIRETTORE DEL COLLEGIO RABBINICO ITALIANO

Il tema del silenzio e dell’assenza di Dio davanti alle sofferenze dell’umanità è salito improvvisamente alla ribalta per un motivo quasi casuale, un recente intervento del Papa che lo ha affrontato nel corso di un’omelia.
Parlare di quest’argomento ha sorpreso un po’ tutti, sia per la natura del tema, così difficile e speciale, che per la forza con cui è stato trattato. Ma per la sensibilità ebraica non si è trattato di una novità né di una sorpresa.

Oltre le tenebre, la luce
È un tema importante della teologia biblica che viene costantemente ripreso ed elaborato nel corso della storia e che davanti a fenomeni di particolare gravità, come la Shoà, esplode travolgendo le coscienze. Esaminando le pagine bibliche si può vedere come l’interrogativo sulla presenza divina accompagni la storia ebraica dal momento stesso in cui nasce come popolo. 
La Bibbia cerca di dare qualche risposta, anche molto precisa a questa domanda terribile, ma la questione evidentemente non è semplice da risolvere per le coscienze turbate. Il tema trova espressione in una grande metafora antropomorfica, quella del panim, del volto divino.
Nel rapporto tra esseri umani guardarsi in faccia è un modo di comunicare, anche se non necessariamente benevolo, mentre volgersi la faccia, rivoltarsi, è segno di chiusura, di interruzione, di comunicazione, di rifiuto.
Sono pertanto sinonimo di speciale benedizione, simpatia, protezione, benevolenza le espressioni iaer haShem panaw elekha e issà haShem panaw elekha, « che il Signore illumini e volga te il suo volto », che compaiono nella benedizione sacerdotale di Numeri 6:25-26, che quotidianamente ripetiamo nella nostra liturgia.
Al contrario è il celarsi, il nascondersi del volto divino il segno di allontanamento. Leggiamo in proposito un brano fondamentale:
 » La mia ira divamperà contro di lui in quel giorno e li abbandonerò e nasconderò loro il mio volto (letteralmente: mi nasconderò il volto da loro) e diventerà preda di chi vuole divorarlo e lo incontreranno numerose disgrazie e cose cattive e in quel giorno dirà ‘è perché il mio Dio non è in mezzo a me che mi sono capitate queste brutte cose’. Ma Io avrò nascosto il mio volto in quel giorno per tutto il male che aveva fatto, perché si era rivolto ad altri dei ». (Deuteronomio 31:17-18).
In questo brano c’è la prefigurazione dell’evento (l’abbattersi delle sciagure nazionali, il diventare preda dei nemici), la sua rappresentazione teologica (Dio che si nasconde all’uomo), la constatazione umana dell’abbandono (Dio non è in mezzo a me) e l’interpretazione teologica (il volto si nasconde perché l’uomo si è ri-volto altrove).
Che non si vadano a cercare responsabilità divine primarie nel male; questo dipende in primo luogo dall’uomo e dal dono che gli è stato fatto di poter scegliere tra bene e male, tra premio e punizione. E all’uomo viene quindi chiesto di fidarsi e scommettere.
Non a caso, in un brano che per molti versi è l’anticipazione di quest’interpretazione del Deuteronomio, la domanda su dove è Dio nasce in un contesto storico preciso: usciti dall’Egitto, dopo tutti i miracoli cui hanno assistito, gli ebrei si trovano nel deserto senza acqua; e allora, immemori e ingrati dei beni precedenti, protestano, fino a minacciare Mosè di lapidazione.

Racconta la Bibbia:
« (Mosè) chiamò quel luogo Massà e Merivà (contesa e lite) per la lite dei figli d’Israele e per aver loro messo alla prova il Signore dicendo: ‘se Dio è in mezzo a noi o no’  » (Esodo 17:7).
E subito dopo ecco quello che succede:
« Arrivò Amaleq e combattè con Israele a Refidim » (ibid, v. 18).
Amaleq è il nemico mortale perenne d’Israele, senza pietà per i più deboli. Amaleq arriva e colpisce non in un momento qualsiasi, ma quando Israele non è più capace di avvertire la presenza divina dentro di sé. Dio fugge e si nasconde secondo il Deuteronomio dopo che gli ebrei gli si rivoltano contro; ma la prima fuga – quella che apre il varco al nemico divoratore – avviene nella coscienza degli uomini che diventano sordi e incapaci di avvertire la presenza divina.
Prima ancora di un volto che si nasconde c’è l’incapacità umana di vederlo quando c’è. L’importanza di questa storia supera il caso isolato, diventa emblematica. Non a caso nella Torà uno dei comandi più importanti che si riferiscono all’uso della memoria, riguarda proprio la storia di Amaleq: « ricorda cosa ti ha fatto Amaleq » (Deuteronomio 25:17). Ricorda cosa ti ha fatto, ma anche che cosa può averlo provocato.
Il celarsi del Deuteronomio non è isolato, ma lo ritroviamo in tanti altri brani biblici,da Isaia (8:17, 54:8), Ezechiele 39 (23,24,29), ai Salmi (« non nascondermi il tuo volto »: 27:9, 102:3, 143:7; e ancora 13:2, 30:8, 44:25 ecc), espressioni di una angoscia e di una ricerca costante. Di fatto il tema del Dio che si nasconde diventa la costante dell’esperienza successiva, specialmente diasporica.
Giocando sulla lingua, la radice satar che indica il celarsi (da cui forse anche il mistero) viene riscontrata dai Maestri nel nome dell’eroina biblica Ester: un nome che in realtà dovrebbe essere collegato a Astarte e Aster-Astro, ma che per i Maestri non indica il fulgore ma il buio. Con una consolazione: perché la regina Ester opera in un periodo storico in cui il Volto non è più visibile e accessibile, e per questo può sempre sorgere qualcuno che decide di distruggere l’intero popolo ebraico; ma anche se la presenza diretta, la visione luminosa del volto non c’è più, la presenza divina, la sua provvidenza, la sua assistenza non mancano mai e al momento giusto intervengono nella storia e liberano.
Per questo motivo consolatorio e di speranza gli ebrei celebrano ancora oggi (e continueranno a farlo anche quando tutte le altre feste saranno abolite), per una volta all’anno, con gioia fisica quasi sfrenata, la festa del Purim, per segnalare che anche in un regime di volto nascosto la protezione non viene mai meno. È sul filo di questa speranza che si gioca un’esperienza drammatica, una domanda con tante risposte sempre insufficienti, una provocazione alla fede che coinvolge quasi quotidianamente la vita di ogni ebreo, che sia religioso o no.
Nel momento in cui lo Stato si accinge a celebrare il Giorno della Memoria, con importanti intenti memoriale ed educativi, lo spirito ebraico partecipa con un ricordo sconsolato e con il peso di una domanda e di una ricerca che ha più di 32 secoli di storia.

[Fonte: ucei.it/giornodellamemoria]

LA DANZA NELLA BIBBIA

http://www.nostreradici.it/titoli.htm#top

LA DANZA NELLA BIBBIA

(il titolo l’ho dato io, ma il sito  – ebraico in dialogo con il cristianesimo – lo conosco bene, forse la pagina non si visualizza perfettamente)

Segno di gioia e di gratitudine
  La Danza, nella Bibbia è intesa soprattutto come lode, manifestazione di gioia spirituale ed espressione liturgica. Si danza per festeggiare una vittoria ottenuta con l’intervento divino; per il ritorno di una persona cara, e in occasione di nascite e matrimoni.
  La profetessa Miriam, sorella d’Aronne, esterna la sua esultanza e ringrazia Dio, dopo il passaggio del Mar Rosso, “formando cori di danze” con le altre donne, suonando i timpani e cantando (Cf Es 15,20). Un’altra danza molto famosa è quella che fece Davide, in occasione del trasferimento dell’arca a Gerusalemme.
  Danzando e saltellando agilmente, il re d’Israele manifesta con tutto il suo essere la gioia incontenibile che prova per il singolare avvenimento.
  “Allora Davide andò e trasportò  l’Arca di Dio  dalla casa di  Obed-Edom  nella città  di Davide, con gioia. (…)  Davide danzava con tutte le forze davanti al Signore.  Davide era cinto di un efod Così Davide e tutta la casa d’Israele trasportarono l’arca del Signore con tripudi e a suon di tromba” (2Sam 6,12; 6,14-15).
  Per descrivere l’esultanza del re Davide di fronte all’arca dell’Alleanza, l’autore sacro usa le parole: “gioia” e “con tutte le forze”, rimarcando così il coinvolgimento  totale della persona nel movimento ritmico della danza.

   Simbologia rituale
  Nell’Arca sono custodite le Tavole della Legge date da Dio a Mosè sul Monte Sinai. Danzando davanti all’arca, Davide indossa un costume sacerdotale succinto, una specie di perizoma adatto a compiere i sacrifici: l’efod di lino. Il testo sacro ci fa capire che la nudità del re e la sua danza sono in rapporto con gli “olocausti e i sacrifici di comunione” che egli si appresta ad offrire davanti al Signore.
  Il modo in cui Davide esprime la sua gioia per la  Legge (Torà),  è ritenuto sconveniente dalla figlia di Saul che se ne scandalizza. “Mentre l’Arca del Signore entrava nella città di David,  Mikal,  figlia di Saul, guardò dalla finestra; vedendo il  re Davide  che  saltava  e danzava dinanzi al Signore, lo disprezzò in cuor suo” (2Sam 6,16). Più tardi il re chiarirà alla donna il senso rituale del suo gesto: “L’ho fatto dinanzi al Signore, (…) ho fatto festa davanti al Signore” (2Sam 6,21).
  Gli ebrei di oggi, al termine della festa dei Tabernacoli (Sukkot), celebrano nelle sinagoghe la Simchat Torà – o gioia della Legge – danzando, a saltelli ritmati, con i rotoli della Torà e cantando inni in onore dell’Eterno. La danza è anche in questo caso un gesto liturgico che esprime il rapporto di tutto l’essere con Dio. È un’espressione di gioia e di “festa davanti al Signore”, per il dono della Torà. Ed è ancora con la danza che gli ebrei chassidici [i], dopo le preghiere quotidiane, esternano il loro entusiasmo religioso. 

La Danza in cerchio: hag
 Ai tempi biblici, le processioni danzanti di uomini e donne caratterizzavano le tre grandi feste di pellegrinaggio: Pasqua, Pentecoste e Tabernacoli. Sembra che tali danze ritmate avvenissero in modo circolare, ed è forse per questo motivo che nell’ebraismo, la danza in cerchio è chiamata hag: festa.
 In cerchio si danza intorno ad un luogo sacro, o durante una cerimonia religiosa, esprimendo così il clima gioioso e comunitario della festa. La simbologia della danza in cerchio ci dice che nessuno può ritenersi più importante dell’altro, mentre tutti sono rivolti verso Colui che è al centro della vita di ognuno.

Rito Bizantino: la triplice danza
 Ritroviamo il movimento circolare nella celebrazione del matrimonio cristiano nel Rito bizantino, la cui liturgia prevede una triplice danza in cerchio del sacerdote e degli sposi. Dopo essersi recati presso l’iconostasi, essi girano per tre volte intorno all’altare, mentre si cantano alcuni tropari. 

 Rito Romano
 Col progredire dell’inculturazione, il Rito Romano si va arricchendo di gesti e simboli appartenenti ad altre culture. Sempre più frequentemente, anche grazie al mezzo televisivo, si possono vedere celebrazioni liturgiche in cui la danza, la musica e il canto di altri popoli, trovano uno spazio adeguato.
  “I gesti e gli atteggiamenti dell’assemblea, in quanto segni di comunità e di unità, favoriscono la partecipazione attiva esprimendo e sviluppando l’intenzione e la sensibilità dei partecipanti. Nella cultura di un paese, si sceglieranno gesti e atteggiamenti del corpo che esprimano la situazione dell’uomo davanti a Dio, dando ad essi un significato cristiano, in corrispondenza, se possibile, con i gesti e gli atteggiamenti provenienti dalla Bibbia.
  Presso alcuni popoli, il canto si accompagna istintivamente al battito delle mani, al movimento ritmico del corpo o a movimenti di danza dei partecipanti. Tali forme di espressione corporale possono avere il loro posto nell’azione liturgica di questi popoli, a condizione che esse siano sempre espressione di una vera preghiera comune di adorazione, di lode, di offerta o di supplica e non semplicemente spettacolo”.[ii]

[i] Chassidismo, da Chassid: pio, devoto.  È un movimento ebraico sorto in Europa intorno al 1750. I suoi membri pongono l’accento sulla gioia del cuore e sulla retta intenzione.
[ii] Da: “ La Liturgia romana e l’inculturazione” (III, 41-42) – Istruzione della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, 25 gennaio 1994.

la lezione della misericordia : «È l’altruismo che ci porta a conoscere Dio» (Rav Piattelli)

http://www.nostreradici.it/lectio_misericordiae.htm

(Rav Piattelli è stato mio professore…un bel ricordo!)

Il Rabbino: dal «Padre delle genti»

la lezione della misericordia

«È l’altruismo che ci porta a conoscere Dio»

Abramo Alberto Piattelli*

Rabbino Della Comunità Ebraica Di Roma

Uno dei punti di riferimento più importanti nel dialogo interreligioso tra Chiesa cattolica e Comunità ebraica è costituito dalla centralità nelle due fedi della figura del patriarca Abramo. Senza dubbio ciò è dovuto in primo luogo al fatto che nella Scrittura Abramo viene considerato come padre di una moltitudine di gente, colui cioè che sentì su di sé e sulla propria discendenza il significato di un certo messaggio e la missione di condurre con amore e benevolenza tutte le genti verso la protezione delle ali della divina Provvidenza. Questa propensione al significato universale della figura di Abramo, è messa in evidenza da un’ulteriore considerazione. Secondo il testo biblico, Abramo ebbe tre mogli: Sara, Hagar e Kenturà, da ognuna delle quali ebbe figli. Gli esegeti del Midrash mettono in evidenza l’origine diversa di ciascuna delle mogli: Sara sarebbe discendente di Sem, Hagar, l’egiziana, di Cam, mentre Kenturà di Jafet, da cui discenderebbe la stirpe indoeuropea. Dato che secondo la Bibbia, i figli di Noè costituirebbero i capostipiti del genere umano, Abramo sarebbe, dal punto di vista genealogico, capostipite di una discendenza universale.
Ma per gli ebrei Abramo costituisce innanzi tutto il patriarca del popolo ebraico, colui che lascia la propria patria per poter portare avanti in maniera autonoma e senza influenze spurie l’intuizione di un Dio unico, trascendente e provvidenziale, creatore di ogni realtà. In risposta a questa obbedienza Dio gli promise che da lui sarebbe discesa una nuova nazione, la quale avrebbe recato una qualità spirituale al mondo del tutto speciale. La promessa di Dio ad Abramo appartiene all’intera umanità. Nella Scrittura interviene, però, un patto tra Dio e Abramo, che serve a definire la relazione particolare esistente tra Dio e la sua discendenza. Dio dovrà essere considerato come divinità specifica del popolo ebraico, mentre la discendenza dovrà tenere fede al patto particolare stipulato con Dio. In questa occasione, momento cruciale del futuro popolo d’Israele, la terra d’Israele viene promessa ai discendenti del Patriarca.
Nella figura di Abramo, così come viene presentata nel libro della Genesi, si fondono insieme due valenze: il carattere universale da una parte e quello nazionale dall’altra. Nella teologia ebraica la stretta correlazione tra queste due valenze è la prospettiva fondamentale della storia dell’umanità. Caratteristica della figura di Abramo, è quella di essere, a differenza di Isacco e di Giacobbe, il simbolo della virtù del hesed, dell’amore e dell’altruismo verso il proprio prossimo.
Dall’esame delle storie bibliche riguardanti Abramo, i Maestri ebrei con perspicacia midrashica hanno trovato diversi esempi di hesed da parte di Abramo, che viene intesa addirittura come forma di imitatio Dei. Per esempio la Scrittura racconta che la divinità apparve ad Abramo presso i querceti di Mamrè senza spiegare il motivo di tale apparizione. Rabbi Ammà bar Hanina insegna che Dio apparve ad Abramo allo scopo di fare visita al malato. Da poco, infatti, Abramo si era sottoposto alla circoncisione. Ad un certo punto però, continua la Scrittura, Abramo interruppe la comunione con la divinità per andare incontro a tre viandanti sconosciuti che provenivano dal deserto. Proprio come Dio eseguì un atto di amore nel visitare «il malato» Abramo, così questi interruppe la comunione con Dio e corse, nonostante la sua convalescenza, incontro ai viandanti, per offrire a loro ospitalità. Abramo preferì offrire agli esseri umani un atto di amore piuttosto che riceverne uno da parte di Dio.
La lezione che emerge da questa esegesi midrashica è chiara: la imitatio Dei deve avere l’assoluta precedenza, addirittura sul godimento della rivelazione divina. Insomma l’etica viene prima del misticismo e – come afferma il Talmud – il sentimento di ospitalità ha la precedenza sull’accoglimento della Presenza divina. La vera religiosità trova espressione in atti di benevolenza e di altruismo che costituiscono l’espressione più alta della conoscenza di Dio da parte dell’uomo.
Non soltanto Abramo ha compiuto atti di hesed, ma ha impegnato i suoi discendenti a compiere tali atti, come afferma la Scrittura: «Io lo prediligo affinché raccomandi ai suoi figli ed alla sua progenie a venire, di osservare la via del Signore operando carità e giustizia». Abramo è presentato nella scrittura come il prototipo dell’uomo di fede, tanto che il testo afferma: «Ebbe fede nell’Eterno e questo gli fu ascritto come merito». Tale sentimento trova la sua applicazione più alta nel momento del sacrificio di Isacco, e in tanti altri episodi in cui prevale la sottomissione e la fiducia nel volere dell’Eterno. Ma come va intesa questa fede? «Nell’ebraismo la fede non è altro che la vivente coscienza dell’Eterno, il senso della vicinanza di Dio, della sua rivelazione e della sua potenza creatrice che si manifesta in tutte le cose. È la capacità dell’anima di percepire il permanente nel transitorio, il Segreto del Creato. La parola biblica che indica fede designa l’intima saldezza e l’interiore pace, la forza e la costanza dell’anima umana» (Baeck).
Ma l’Ebraismo non ammette che la fede da sola sia garanzia di salvezza; ad essa vanno accompagnate le opere, le azioni concrete che Dio indica nella sua Legge morale. L’azione deve essere conseguenza della fede, così come affermano i Maestri ebrei «la cosa essenziale non è la teoria, bensì l’azione».

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