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http://www.scuolateologicarieti.it/COLLEGAMENTI/Topografia%20della%20fede.%20Spazi%20evocativi.%20La%20montagna.doc
CORSO MONOGRAFICO 2008-2009
NOSTALGIA DELLA SORGENTE
La montagna, Spazio evocativo della fede
p. Mariano Pappalardo
Fra i molti percorsi possibili per affrontare il tema della montagna come luogo evocativo della fede, ho scelto un itinerario semplice e immediato, che spero, però possa rivelarsi anche suggestivo.
Suddivido la mia esposizione in quattro parti:
1. Il Dio dei monti
2. I monti più significativi dell’AT
3. I monti che hanno segnato la vicenda di Gesù
4. Il significato evocativo della montagna come sintesi del vangelo
1.: Il Dio dei monti
Alla maggior parte della gente, uno dei primi aggettivi che viene in mente da associare all’idea di Dio, è la qualifica di « onnipotente ».
Anche molte delle nostre preghiere liturgiche iniziano, quasi con ossessione, dicendo « O Dio onnipotente ed eterno… », retaggio dell’antica liturgia che esclamava « onnipotens aeterne Deus… ».
Sappiamo molto bene quale sia l’effluvio di significato del termine e come esso si sia caricato di una valenza filosofico-teologica che con il tempo è andata sempre più a qualificare il concetto stesso di Dio. Egli proprio per il fatto di essere Dio, è l’essere che può tutto, a cui tutto è possibile, dinnanzi al quale non vi è ostacolo o impedimento di sorta. E’ talmente potente, Dio, che niente e nessuno può resistere alla sua volontà, alla sua parola, alla sua forza, ai suoi progetti. E’ talmente possente che gli basta una parola per creare dal nulla, un moto del cuore per cambiare le sorti del mondo e della storia, un cenno del capo, un semplice voltar lo sguardo per ridurre in polvere ogni essere. I più addentro alle vicende divine sanno che la sua è una onnipotenza d’amore, che il suo amore è sì grande da vincere ogni resistenza, la sua passione per l’uomo è così immensa da indurlo al folle amore della croce.
Pochi tuttavia sanno che il termine onnipotente, tanto presente nella nostra Bibbia, nella nostra liturgia, nel nostro comune sentire di Dio, è la traduzione di una espressione ebraica che suona « El Saddaj ». Questa espressione, da coloro che hanno tradotto la bibbia in lingua greca (i settanta) è stata resa con « pantocrator » che testualmente significa « Signore di tutto », « dominatore di tutto », o forse anche solo « Signore, Dio dell’universo ». La versione latina della scrittura fatta ad opera del grande s. Girolamo, rende i termini « El Saddaj » – « pantocrator » con « onnipotens »: onnipotente.
Una cosa però è essere Signore di tutto, altra cosa è poter tutto ciò che si vuole.
Molti, certo si staranno chiedendo che cosa c’entri questo excursus sul termine onnipotente col nostro tema circa la montagna come luogo evocativo della fede. In effetti sarebbe ben poco congruente, se non fosse per il fatto che il termine ebraico « El Saddaj » che abbiamo ricordato poco fa, si compone di « El » che significa « Signore », « Dio », e « Saddaj » che è un termine che deriva da « sadù » che significa « montagna ». « El Saddaj » dunque è semplicemente « Dio della montagna ».
E’ una espressione che viene utilizzata come nome proprio di Dio. E’ il più antico nome di Dio che la bibbia conosca. Lo troviamo più volte presente soprattutto nella storia dei patriarchi, prima che Dio riveli il suo nome « javhè » a Mosè dal roveto ardente (Es 3,13-14). Il nuovo nome rivelato da Dio non dice che si tratta di un Dio diverso. Javhè infatti si pone in continuità con il Dio dei padri: « Dio parlò a Mosè e gli disse: « Io sono il Signore! Sono apparso ad Abramo, a Isacco, a Giacobbe come Dio onnipotente, ( El Saddaj) ma con il mio nome di Signore non mi sono manifestato a loro. » (Es 6,3).
La storia dei patriarchi è costellata da questo nome di Dio tanto semplice e tanto fascinoso. Per dei pastori nomadi, quale fascino potevano esercitare le alte vette, irraggiungibili, inafferrabili, avvolte spesso da nubi, circondate di mistero. Per loro le cime dei monti doveva sembrare il luogo ideale ove collocare l’abitazione di Dio, di un Dio che dalla montagna mutuava il suo stesso nome « montanaro » che allora come oggi significava uno che abita le alte vette, che vive un’altra dimensione, che vede il mondo, non come tutti, dal basso, ma dall’alto verso il basso, che dunque vive di una logica diversa in quanto vede la realtà da un’altra prospettiva. Uno, il montanaro che è schivo del comune consesso degli uomini, non che disdegni la loro compagnia, ma sembra trovarsi più a suo agio tra i silenzi delle vette, nelle solitudini più estreme. Se i patriarchi biblici, invece di essere pastori erranti, fossero stati filosofi, forse il loro Dio lo avrebbero chiamato « Dio trascendente », « Dio altissimo », « Dio misterioso », ma erano pastori e si contentarono di chiamarlo « montanaro » nome che anche per loro evocava la trascendenza e il mistero di Dio.
« Quando Abram ebbe novantanove anni, il Signore gli apparve e gli disse: « Io sono El Saddaj (Dio onnipotente): cammina davanti a me e sii integro. » (Gn 17,1).
« Allora Isacco chiamò Giacobbe, lo benedisse (dicendo) Ti benedica (El Saddaj) Dio onnipotente, ti renda fecondo e ti moltiplichi, sì che tu divenga una assemblea di popoli ». (Gn 28,1-3).
« Dio apparve un`altra volta a Giacobbe, quando tornava da Paddan-Aram, e lo benedisse. Dio gli disse: »Il tuo nome è Giacobbe. Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele sarà il tuo nome ».
Così lo si chiamò Israele. Dio gli disse: « Io sono (El Saddaj)Dio onnipotente. Sii fecondo e diventa numeroso, popolo e assemblea di popoli verranno da te, re usciranno dai tuoi fianchi ». (Gn 35,9-11)
Come si può ben vedere, nel corso dei secoli, anche a ragione delle traduzioni, che a volte sono anche tradimenti, il Dio « montanaro » è diventato un Dio onnipotente. Non è però di questa trasformazione che dobbiamo occuparci, ma solo del fatto che il Dio della bibbia è il Dio delle vette, cosa che del resto esprimono chiaramente gli Amorrei di ritorno da una sconfitta subita da parte dell’esercito di Israele. Essi dicono al loro re, quasi a scusarsi per la disfatta subita: « »Il loro Dio è un Dio dei monti; per questo ci sono stati superiori; forse se li attaccassimo in pianura, saremmo superiori a loro ». ( 1 Re)
Giusto appunto, il Dio d’Israele è un Dio dei monti e proprio per questo tutta la storia della salvezza si snoda e si dipana da una cima ad un’altra. Gli appuntamenti salienti della storia che Dio intesse con gli uomini, si svolgono sulle vette dei monti.
Se qualcosa in più di questa storia vogliamo comprendere sembra allora utile, come dice il salmista alzare « gli occhi verso i monti », e compiere, anche se in modo furtivo e fugace un giro di perlustrazione tra le vette di biblica memoria.
2.: I monti più significativi del Primo Testamento
Il primo monte che troviamo menzionato nella scrittura sacra è il monte Ararat. Di esso si parla nel libro di Genesi quando si racconta del diluvio universale. Quando si compiono i giorni del diluvio e non piovve più sulla terra, e le acqua che avevano ricoperto tutta la terra cominciarono a ritirarsi, allora, dice il testo sacro: « Nel settimo mese, il diciassette del mese, l`arca si posò sui monti dell`Ararat »(Gn 8,4). Si tratta di una regione montuosa dell’Armenia. Come fa notare Erri De Luca, il primo monte menzionato dalla scrittura lo si raggiunge non salendo, ma scendendo. Questo monte da cui ricomincia la vita sulla terra, da cui riprende la storia dell’uomo e da cui si inaugura un’alleanza ecumenica tra Dio e tutta l’umanità, inizia tutta una storia che vede come protagonisti un Dio della montagna e uomini di fede che, gioco forza, sono chiamati a divenire montanari anch’essi.
Il primo uomo chiamato da Dio, Abramo, è anche il primo uomo a doversi incamminare verso la montagna: « Il Signore disse ad Abram: « Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò…Allora Abram partì, …Arrivarono al paese di Canaan. Il Signore apparve ad Abram e gli disse: « Alla tua discendenza io darò questo paese ». Allora Abram costruì in quel posto un altare al Signore che gli era apparso. Di là passò sulle montagne a oriente di Betel e piantò la tenda, avendo Betel ad occidente e Ai ad oriente. Lì costruì un altare al Signore e invocò il nome del Signore ». (Gn 12, 1ss )
Obbedendo al comando di Dio Abramo si mette in viaggio verso l’ignoto di una terra che solo Dio conosce, quando vi giunge spontaneamente si dirige verso la montagna. Ancora non sa che proprio un monte sarà l’epilogo del cammino di tutta la sua vicenda spirituale e il prologo di una storia che caparbiamente vorrà pervenire alla salvezza: « Dopo queste cose, Dio mise alla prova Abramo e gli disse: « Abramo, Abramo! ». Rispose: « Eccomi! ». Riprese: « Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio che ami, Isacco, và nel territorio di Moria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò » (Gn 22,1-3). L’epilogo della vicenda di Abramo si svolge sulla vetta del monte Moria, sul quale è chiamato ad offrire in olocausto l’unico figlio, il sorriso della sua vita, il suo futuro, la sua speranza, il suo stesso cuore, la sua stessa vita affidata ad un Dio tanto misterioso che sembra smentire d’un tratto le promesse di una vita. Su quel monte Abramo è chiamato a morire alle promesse di Dio per vivere solo per il Dio della promessa. Salendo su quella cima, ad ogni passo Abramo è chiamato a seguire Dio solo perché è Dio e non per le promesse che Egli fa. Ma l’epilogo quel giorno si fa prologo di una nuova e più grande benedizione, di una più duratura e forte alleanza, si fa inizio di una nuova immagine di Dio, che non sarà più il Dio che pretende dagli uomini il dono dei primogeniti, ma il Dio della provvidenza, che provvede lui stesso le vittime per il sacrificio, sostituendo il capro al dono del figlio. Al primogenito di Abramo, Dio, sullo stesso monte (Moria-calvario) sostituirà il suo primogenito, segno massimo della sua provvidenza amorosa nei confronti dell’uomo. « Abramo chiamò quel luogo: « Il Signore provvede », perciò oggi si dice: « Sul monte il Signore provvede »" (Gn 22,14).
Un altro uomo di Dio, Mosè, è stato chiamato a legare la sua vicenda alla montagna. Questa montagna, anche se la sua localizzazione è incerta, sarà particolarmente significativa per il popolo ebraico. Si tratta del Horeb o altrimenti chiamato Sinai. Su questo monte Dio si rivela a Mosè: « Ora Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l`Oreb. L`angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. » (Es. 3,1s). Al monte della sua vocazione, Mosè sarà chiamato a condurre tutto il popolo di Israele, traendolo fuori dalla schiavitù, affinché da questo monte le tribù ricevessero da Dio il dono della Legge e venisse stipulata quell’alleanza che rende popolo quel gruppo impaurito di schiavi fuggiaschi, e ancor più lo rende « popolo di Dio ».
Da questo monte Dio si manifestava « al terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni, lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di tromba: tutto il popolo che era nell`accampamento fu scosso da tremore: « Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono della tromba diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con voce di tuono. Il Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte, e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte ». (Es 19,16-20).
Questo monte, sarà la delizia e la croce del povero Mosè che dovrà più volte salire e scendere dalla vetta di quel monte, quasi a fare da spola tra il popolo e Dio, mediatore tra l’umano e il divino. Ma la frequentazione di quella vetta lo renderà raggiante, e avrà il volto intriso di luce. Frequentare il monte di Dio, frequentare il Dio dei monti, salire le vette, ieri come oggi rende luminosi, figli della luce. Da vero montanaro Mosè morirà solo sulla vetta del monte Nebo: « Poi Mosè salì dalle steppe di Moab sul monte Nebo, cima del Pisga, che è di fronte a Gerico. Il Signore gli mostrò tutto il paese: Gàlaad fino a Dan, tutto Nèftali, il paese di Efraim e di Manàsse, tutto il paese di Giuda fino al Mar Mediterraneo e il Negheb, il distretto della valle di Gerico, città delle palme, fino a Zoar. Il Signore gli disse: « Questo è il paese per il quale io ho giurato ad Abramo, a Isacco e a Giacobbe: Io lo darò alla tua discendenza. Te l`ho fatto vedere con i tuoi occhi, ma tu non vi entrerai! ». Mosè, servo del Signore, morì in quel luogo, nel paese di Moab, secondo l`ordine del Signore » (Dt 34,1-5).
Quanto è struggente questo passo della scrittura: Dio spalanca dinnanzi agli occhi del suo eletto tutta la terra promessa, gli mostra la terra da destra a sinistra, quasi gliela legge, come si legge la scrittura ebraica. Mosè non entrerà nella terrà verso la quale aveva condotto il popolo di Dio. Forse possiamo solo intuire l’anelito, la nostalgia, la gioia e l’amarezza del suo sguardo. E morirà solo, sul monte, con dinnanzi agli occhi la terra e alla spalle Colui che era stato la sua guida per tutta la sua vita. I suoi occhi si chiuderanno con d’innanzi la bellezza della terra della promessa, bellezza effimera dinnanzi alla bellezza di Colui tra le cui braccia si addormenterà per risvegliarsi a contemplarne lo splendore del volto senza veli.
Sul monte Horeb fulcro della vicenda di Mosè, e di tutta l’epopea dell’esodo, un altro uomo di Dio, il profeta Elia, vivrà una delle esperienze più struggenti della sua vita, la rivelazione più dolce, intima e delicata di Dio che l’antica scrittura sacra conosca: il Signore si manifesta non più nel fuoco, nel fumo di una fornace ardente, e nel fragoroso suono della tromba, ma nel « mormorio di un vento leggero » o come dice letteralmente il testo ebraico « nell’impercettibile suono di un ineffabile silenzio ».
Elia, profeta tenace, irruente, zelante tanto da divenire disumanamente violento (sarà proprio lui, su un altro monte, il Carmelo, a sgozzare 500 profeti di Baal), Elia, dicevo perseguitato dalla regina Gezabele che aveva giurato a se stessa che gli avrebbe fatto fare la stessa fine che lui aveva fatto fare ai profeti di Baal, per fuggire e sottrarsi dalla persecuzione si inoltra nel deserto e qui, preso dallo sconforto decide di lasciarsi morire. Dice il sacro testo che, sdraiato all’ombra di un ginepro attende la morte. Un angelo del Signore più volte lo sveglia e lo invita a mangiare perché non è ancora tempo di morire ma tempo di mettersi in cammino verso la sacra montagna: « Con la forza datagli da quel cibo, camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l`Oreb. »Ivi entrò in una caverna per passarvi la notte, quand`ecco il Signore gli disse: « Che fai qui, Elia? ». Egli rispose: « Sono pieno di zelo per il Signore degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi tentano di togliermi la vita ». Gli fu detto: « Esci e fermati sul monte alla presenza del Signore ». Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l`udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all`ingresso della caverna. Ed ecco, sentì una voce che gli diceva: « Che fai qui, Elia? » (1 Re 19, 8-13).
Questa teofania, segna un giro di boa, questa teofania che rinnega e rigetta gli elementi tipici di una teofania, elementi atti a far colpo, a terrorizzare, a catturare l’attenzione, ad imporsi con forza, anticipa nel primo testamento la scelta di Dio che sarà chiara nel secondo testamento, la scelta di un Dio che si spoglia della sua divinità per far propria la logica della debolezza fino alla scandalo della croce. Non ha nulla di divino colui che nei giorni della passione perde anche le sembianze di uomo, senza onore né bellezza, fatto verme e non uomo, (Ps. 22,7) un grumo di sangue da cui si storna lo sguardo.
Con l’ingresso nella terra promessa, con la vicenda di Davide e dei suoi successori un altro monte verrà alla ribalta: il Sion. E’ il nome della collina sulla quale sorgeva la città strappata da Davide ai Gebusei, che sarà chiamata città di Davide. Su di essa sarà costruito il Tempio, e dunque il monte Sion indicherà il tempio stesso, l’intera città di Gerusalemme, la popolazione che la abita. Sion è il luogo che Dio ha fondato, che si è scelto, di cui ha pietà e che riempie di gloria. « Da Sion, splendore di bellezza, Dio rifulge » (Ps. 49,2). Da Sion Dio si rivela, india il suo aiuto e la sua benedizione. Sion sarà il luogo del raduno escatologico di tutti i popoli convocati a salvezza: « Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati. Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli e la coltre che copriva tutte le genti. Eliminerà la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto; la condizione disonorevole del suo popolo farà scomparire da tutto il paese, poiché il Signore ha parlato » (Is. 25,6-8). L’appuntamento è per tutti sulla cima di un monte, converrà abituarsi alle ascese, converrà fin d’ora allenarsi percorrendo almeno spiritualmente gli impervi sentieri di montagna, il banchetto della vita e della gioia, il pranzo della festa senza fine sarà apparecchiato per noi da Dio sulla cima di un monte. Sulla cima di quello stesso monte che, dopo l’esperienza dell’esilio, sarà per Israele il luogo dei propri sogni, delle speranze segretamente alimentate, dell’anelito di ogni giorno e di ogni notte, la città di Dio, città del grande sovrano, città della pace.
3.: I monti che hanno segnato la vicenda di Gesù
Secondo quanto riferisce l’evangelista Luca, la città di Nazaret sarebbe collocata su un monte o su una collina. Infatti narrando dell’inaugurazione del ministero pubblico di Gesù nella sinagoga di Nazaret, dopo che egli riferì a sé le profezie messianiche i nazaretani « All`udire queste cose, (tutti nella sinagoga) furono pieni di sdegno; « si levarono, lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale la loro città era situata, per gettarlo giù dal precipizio »(Lc 4,28s). Al di là del fatto in sé, i lunghi anni della vita nascosta trascorsi da Gesù nel villaggio di Nazaret, posto sulla cima di un monte, spiegano forse la predilezione di Gesù per la montagna. La maggior parte della vita pubblica del profeta Galileo è trascorsa sulle rive del lago, per le vie polverose della Palestina, tra città e villaggi di quella regione. Eppure gli eventi più significativi hanno avuto come cornice i monti.
Su un monte istituisce i dodici: « Salì poi sul monte, chiamò a sé quelli che egli volle ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare e perché avessero il potere di scacciare i demòni. Costituì dunque i Dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro; poi Giacomo di Zebedèo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanèrghes, cioè figli del tuono; e Andrea, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo di Alfeo, Taddeo, Simone il Cananèo e Giuda Iscariota, quello che poi lo tradì » (Mc 3,13-19).
Spesso si ritira tutto solo sul monte a pregare:
« Ordinò poi ai discepoli di salire sulla barca e precederlo sull`altra riva, verso Betsàida, mentre egli avrebbe licenziato la folla. Appena li ebbe congedati, salì sul monte a pregare ». (Mc 6,45-46)
Dalla cima di un monte, proclama la nuova legge, le beatitudini: « Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: « Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli… » (Mt 5, 1ss)
Ancora su un monte (Tabor) alcuni discepoli prescelti da Gesù saranno spettatori di un evento indimenticabile, presagio e promessa della risurrezione: la trasfigurazione.
Dal monte degli ulivi, che è di fronte a Gerusalemme comincia il cammino della sua pasqua che approderà sulla cima del Golgota: « Dette queste cose, Gesù proseguì avanti agli altri salendo verso Gerusalemme. Quando fu vicino a Bètfage e a Betània, presso il monte detto degli Ulivi, inviò due discepoli dicendo: « Andate nel villaggio di fronte; entrando, troverete un puledro legato, sul quale nessuno è mai salito; scioglietelo e portatelo qui ». (Lc 19, 28ss)
Sul monte Calvario (Moria) Gesù concluderà la sua vicenda terrena, sullo stesso monte del sacrificio di Isacco l’unigenito di Abramo, Dio offrirà il suo unigenito in riscatto per molti, e questa volta non sarà risparmiato al Padre di porgere il suo più grande dono d’amore: la vita del Figlio, permettendo al Figlio e a tutti i figli di affidare il proprio spirito nelle mani paterne.
Alla morte di Cristo le rocce si squarciarono, molti morti tornarono in vita e neppure Cristo poté essere tenuto prigioniero dall’abisso della morte e la pietra tombale, diverrà fenditura nella roccia da cui fuoriesce la vita.
Dopo la sua risurrezione Gesù darà appuntamento ai suoi in Galilea su un non meglio precisato monte, che diverrà il monte della missione universale, della bella e gioiosa notizia predicata a tulle le genti: « Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro fissato. Quando lo videro, gli si prostrarono innanzi; alcuni però dubitavano. E Gesù, avvicinatosi, disse loro: « Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,16-20).
Dalla cima di un monte sarà elevato in alto, verso il cielo per fare il suo ingresso trionfante nel regno del Padre suo: « Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. E poiché essi stavano fissando il cielo mentre egli se n`andava, ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: « Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l`avete visto andare in cielo ». Allora ritornarono a Gerusalemme dal monte detto degli Ulivi, che è vicino a Gerusalemme quanto il cammino permesso in un sabato » (At 1,9-12).
Anche Gesù dunque, è stato un assiduo frequentatore della montagna.
Il percorso fatto fin qui, ci induce a porci un domanda: perché la montagna è così presente nella scrittura? E’ davvero un luogo evocativo, oltre ad essere un sito geografico? E’ possibile che sia un luogo del cuore, un luogo interiore, una vocazione?
4.: Il significato evocativo della montagna come sintesi del vangelo
Nel comune sentimento religioso i monti, per il loro innalzarsi verso il cielo appaiono più prossimi alla divinità, dimora visibile del Dio invisibile, la cui maestà è celata dalle nubi. Non meraviglia dunque che la divinità fosse associata alla montagna e spesso ne desumesse il nome. Abbiamo già visto come presso gli ebrei il nome divino più antico fosse El Saddaj (Dio della montagna). Similmente in Egitto il dio Atum è chiamato « colle », mentre la divinità suprema dei sumeri, Enlil, era soprannominato « grande monte ».
Nella Scrittura (sia nell’AT che nel NT), come abbiamo accennato per sommi capi, i monti, sono pietre miliari dello snodarsi di tutta la storia della salvezza. In tutto il testo sacro ogni monte « poggia sopra un suolo di parole ardenti » , e diviene quasi la guglia ove queste parole ricevono spessore, solidità, durata. Come le montagne, quelle parole di fuoco, non passeranno. Come le montagne la fede porta con se un atteggiamento di solidità, di stabilità. Come una roccia chi crede è stabile e sicuro, non vacilla, non teme, l’edificio della sua vita poggia sulle solide fondamenta della fedeltà di Dio, unico baluardo, unica difesa, la sola certezza. Dinnanzi a Lui, alla vista delle sue opere « i monti saltellarono come arieti, e le colline come agnelli di un gregge » (Ps 113,4). Anche i credenti, per la loro fede,
riusciranno spostare le stesse montagne. Nella scrittura sacra neppure la geografia sta ferma, l’unico punto fermo e solo Dio. Dunque seppur abbondantemente utilizzata come luogo simbolico la montagna, dai sacri testi viene spesso relativizzata, quasi demitizzata. Ciò nonostante il loro valore evocativo resta in tutta la sua valenza.
? La montagna evoca qualcosa della realtà di Dio. Innanzitutto la sua stabilità e la sua fedeltà: » Voglio proclamare il nome del Signore – esclama Mosè – Egli è la Roccia: perfetta è l’opera sua…è un Dio fedele e senza malizia, egli è giusto e retto » (Dt 32, 3-4). Il titolo di « roccia » più volte è attribuito a Dio. E’ una metafora a cui fanno ricorso i profeti « Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna » (Is 26,4) e spesso anche i salmi « Vengono meno la mia carne e il mio cuore, ma la roccia del mio cuore è Dio » (Ps. 73,26); « Lui solo è mia roccia e mia salvezza, mia difesa: mai potrò vacillare » (Ps. 62,3). Con tale metafora si vuole indicare la forza e la stabilità di Dio, solo in lui si trova sicurezza. Ecco perché occorre rivolgere lo sguardo verso i monti da dove viene l’aiuto (Cf. Ps 121,1) e guardare « alla roccia da cui siete stati tagliati » (Is 51,1).
Le alte vette rocciose evocano poi la grandezza, l’altezza, l’indisponibilità, il mistero, il fascino, l’immensità, la trascendenza di Dio. Eppure un segreto anelito, fin dall’antichità ha percorso le speranza del popolo di Dio: « se Tu scendessi… ». La religione biblica non è solo religione delle altezze.
Per Gesù, che pur ama le alte vette, la montagna sarà anche l’espressione della tentazione: « Di nuovo il diavolo lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria » (Mt 4,8). Quanto grande poteva essere la seduzione delle altezze, da cui guardare e dominare ogni cosa, da cui godersi la gloria dei regni della terra. Quale fascino poteva esercitare nel cuore di Gesù abbracciare l’idea di un Dio che non si compromette, che non si lascia scalfire da quanto succede in basso, che gode dei privilegi della propria divinità senza doverseli « guadagnare » perché gli vengono offerti su un piatto d’argento dal principe di questo mondo. Il demonio offre a Gesù la sua missione già conclusa, senza affanni, senza croci, senza la fatica di conquistarsi l’amore degli uomini e la loro adorazione.
Quella di Gesù, però, sarà religione dell’abbassamento, della Kenosi, dell’umiliazione di un Dio che abbandona le vette della propria divinità, per rivestirsi della fragilità dello schiavo, per farsi polvere calpestata dagli uomini, Cristo infatti « umiliò se stesso » (Cf. Fil. 2,5-8), decise di scendere in basso, di assumere carne e sangue, fino al giorno in cui dal monte degli ulivi inizierà l’ultima discesa, e questa volta verso gli abissi del dolore, della morte onde donare quella carne e versare quel sangue che aveva assunti e sprofondare fino negli inferi. Nessuno avrebbe mai immaginato « che Dio dalle sue altezze scendesse fino a questo punto, così in basso » .
Il Dio dei monti sceglie di abitare in basso, elegge come sua dimora la città degli uomini, scegliendo di essere il « Dio-con-loro »; con loro crocifisso, per loro risorto, affinché gli uomini potessero risorgere con lui. E una volta risorto ritorna sui monti e qui riceverà l’adorazione dei suoi discepoli che saranno inviati ad ogni creatura, ad ogni nazione (Cf Mt. 28).
E dunque le montagne non perdono la loro valenza evocativa, e non solo per dire qualcosa di Dio.
? Esse raccontano anche qualcosa della realtà dell’uomo.
Dinnanzi alla consistenza delle montagne l’uomo non può che riconoscere la sua friabilità. Immersi in un panorama di alta quota non si può che sentirsi piccoli, piccoli, quasi insignificanti, talmente fragili da sentirsi smarriti. Frequentare la montagna fa toccare con mano ad ogni uomo di essere quasi un intruso in questo pianeta, certo un ospite, mai un padrone o un possidente. Sulle cime non puoi che sentirti accolto da una forza più grande di te che ha il potere di custodirti, o di rigettarti in qualsiasi momento. Cade ogni delirio di onnipotenza quando si è aggrappati ad una roccia con la sola punta delle dita , quando sei sospeso tra cielo e terra, quando ogni passo richiede un calcolo, una scelta, una decisione, e non puoi sbagliare. Frequentare la montagna ti abilita a vedere la realtà da un altro angolo prospettico, guardando dall’alto si comprende quanto del nostro umano affanno e quanto nelle nostre umane vicende ci sia di effimero, di irrisorio, di insignificante; quanto i nostri più grandi costrutti siano come un atomo sulla bilancia; quanto tutto sia relativo, felicemente e fortunatamente relativo. Solo sulle vette ci si rende conto di quanto a valle ci si agiti inutilmente per troppe cose, mentre una sola è la cosa necessaria.
Dimorare sulle cime è scuola di vita evangelica si scopre che la verità di se stessi non può che essere l’umile sentire di sé; si comprende come il cammino della vita richieda prudenza ad ogni passo; si sperimenta come sia necessario essere sempre attenti e vigilare; quanto sia di aiuto guardare in alto, tendere ad una meta; quanto convenga il rispetto per ciò e per chi ti sta accanto; quanto serva l’aiuto degli altri; quanto sia indispensabile una guida esperta; quanto sia pericoloso essere temerari e non affidarsi all’esperienza degli altri; quanto sia controproducente non tenere il passo senza arditezze, ma con costanza e perseveranza. Solo tra le vette ci si rende conto di quanta passione e di quanto amore occorra nutrirsi per affrontare le difficoltà, per non arrendersi al primo intoppo.
Sì la montagna è scuola di vita, è scuola di vangelo, è sintesi e sunto del vangelo stesso. Lassù i valori sono rovesciati, quasi per costituzione. Solo sul monte Gesù ha potuto proclamare felici e beati, i poveri, i perseguitati, gli affamati…solo a partire dalle cime ci è dato di poter cominciare a vedere il mondo sottosopra, con una logica inversa che perverta la perversa logica mondana, per cui nel mondo ci sarebbe posto solo per i furbi e i potenti, e dove avrebbe pieno diritto di cittadinanza solo il ricco e il violento.
Il credente non può che essere un alpinista. Ogni buon alpinista non potrà, prima o poi, che divenire credente.
E però le cime dei monti sono inabitabili, da lì bisogna scendere, occorre rifare pace con la pianura. Neppure sul Tabor è lecito piantar le tende, la vita, la missione risiede a valle. Scendendo però si sa che esiste un punto all’orizzonte verso cui voltarsi, c’è una altura verso cui volgere lo sguardo. E nasce sempre più in cuore la convinzione che « la terra verrà giudicata dai suoi monti » .
Più passa il tempo e più ci rendiamo conto che se il mondo e l’umanità vogliono salvaguardare se stessi necessitano di una logica alternativa, di una logica diversa, quella logica delle beatitudine proclamata da Gesù sul monte. L’anelito segreto e struggente verso un mondo migliore richiede che lo sguardo sia rivolto verso i monti e che i nostri piedi, almeno di tanto in tanto, calchino le vette.
Non ci resta che attendere che si realizzi l’auspicio del salmista che invoca: « le montagne portino pace al popolo e le colline salvezza » (Ps. 72,3). Non risulterà strano credere che proprio dalle rocce possa sgorgare l’acqua spirituale apportatrice di pace e salvezza, quell’acqua che sola è capace di placare la sete di infinto insita nel cuore di ciascun uomo, basta far memoria di quanto affermato dall’apostolo Paolo: « Non voglio che ignoriate fratelli, che i nostri padri (nel deserto)…tutti bevvero la stessa bevanda spirituale: bevevano infatti da una roccia spirituale che li accompagnava, e quella roccia era il Cristo » (1 Cor. 10, 1-4).
A Cristo roccia della nostra salvezza, volgiamo dunque lo sguardo. Da Lui, vero monte di Dio, attendiamo pace e salvezza. Poniamoci sui sentieri del suo cuore, per giungere un giorno dinnanzi al Volto che è l’oggetto, spesso inconfessato, della ricerca di ogni uomo.