http://contemplativesintheworld.blogspot.it/2014/04/lecture-four-calling-of-abraham.html
Archive pour avril, 2016
SAN PAOLO C’INSEGNA A PREGARE CON LO SPIRITO SANTO
http://www.cesnur.org/2012/paolo.htm
SAN PAOLO C’INSEGNA A PREGARE CON LO SPIRITO SANTO
di Massimo Introvigne
Con l’udienza generale del 16 maggio 2012, Benedetto XVI ha iniziato una nuova serie di catechesi della sua «scuola della preghiera» dedicata alle Lettere di san Paolo. Anzitutto, il Papa ha notato «come non sia un caso che le sue Lettere siano introdotte e si chiudano con espressioni di preghiera: all’inizio ringraziamento e lode, e alla fine augurio affinché la grazia di Dio guidi il cammino delle comunità a cui è indirizzato lo scritto». Ma, più in generale, «quella di san Paolo è una preghiera che si manifesta in una grande ricchezza di forme che vanno dal ringraziamento alla benedizione, dalla lode alla richiesta e all’intercessione, dall’inno alla supplica: una varietà di espressioni che dimostra come la preghiera coinvolga e penetri tutte le situazioni della vita, sia quelle personali, sia quelle delle comunità a cui si rivolge». San Paolo propone una vera teologia della preghiera. Il suo primo caposaldo «è che la preghiera non deve essere vista come una semplice opera buona compiuta da noi verso Dio, una nostra azione. È anzitutto un dono, frutto della presenza viva, vivificante del Padre e di Gesù Cristo in noi». Nella Lettera ai Romani leggiamo: «Allo stesso modo anche lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza: non sappiamo infatti come pregare in modo conveniente, ma lo Spirito stesso intercede con gemiti inesprimibili» (8,26). Noi sperimentiamo quotidianamente questa situazione: «Non sappiamo come pregare in modo conveniente». «Vogliamo pregare, ma Dio è lontano, non abbiamo le parole, il linguaggio, per parlare con Dio, neppure il pensiero. Solo possiamo aprirci, mettere il nostro tempo a disposizione di Dio, aspettare che Lui ci aiuti ad entrare nel vero dialogo». La grande novità di san Paolo è la sua consolante spiegazione che «proprio questa mancanza di parole, questa assenza di parole, eppure questo desiderio di entrare in contatto con Dio, è preghiera che lo Spirito Santo non solo capisce, ma porta, interpreta, presso Dio. Proprio questa nostra debolezza diventa, tramite lo Spirito Santo, vera preghiera, vero contatto con Dio. Lo Spirito Santo è quasi l’interprete che fa capire a noi stessi e a Dio che cosa vogliamo dire». Certo, «nella preghiera noi sperimentiamo, più che in altre dimensioni dell’esistenza la nostra debolezza, la nostra povertà, il nostro essere creature, poiché siamo posti di fronte all’onnipotenza e alla trascendenza di Dio». La preghiera è una grande scuola che c’insegna «il senso del nostro limite». Ma Dio non ci abbandona, e ci manda lo Spirito Santo. «Per san Paolo la preghiera è soprattutto l’operare dello Spirito nella nostra umanità, per farsi carico della nostra debolezza e trasformarci da uomini legati alle realtà materiali in uomini spirituali». Nella Prima Lettera ai Corinti infatti leggiamo: «Ora, noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio per conoscere ciò che Dio ci ha donato. Di queste cose noi parliamo, con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in termini spirituali» (2,12-13). La teologia paolina della preghiera subito precisa che la venuta dello Spirito Santo è parte della missione di Gesù Cristo. «Con questa presenza dello Spirito Santo si realizza la nostra unione a Cristo, poiché si tratta dello Spirito del Figlio di Dio, nel quale siamo resi figli. San Paolo parla dello Spirito di Cristo (cfr Rm 8,9), e non solo dello Spirito di Dio. E’ ovvio: se Cristo è il Figlio di Dio, il suo Spirito è anche Spirito di Dio e così se lo Spirito di Dio, Spirito di Cristo, divenne già molto vicino a noi nel Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, lo Spirito di Dio diventa anche spirito umano e ci tocca; possiamo entrare nella comunione dello Spirito». Eccoci dunque di fronte a una teologia che c’introduce al mistero stesso della Trinità: «non solamente Dio Padre si è fatto visibile nell’Incarnazione del Figlio, ma anche lo Spirito di Dio si manifesta nella vita e nell’azione di Gesù, di Gesù Cristo, che ha vissuto, è stato crocifisso, è morto e risorto». San Paolo spiega che «nessuno può dire « Gesù è Signore », se non sotto l’azione dello Spirito Santo» (1Cor 12,3). Ed è sempre lo Spirito che «orienta il nostro cuore verso Gesù Cristo», in modo che «non siamo più noi a vivere, ma Cristo vive in noi» (cfr Gal 2,20). Lo riassume bene sant’Ambrogio (ca. 340-397), di cui il Papa cita questa affermazione: «Chi si inebria dello Spirito è radicato in Cristo». Ma che cosa succede in noi «quando lasciamo operare in noi non lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Cristo come principio interiore di tutto il nostro agire»? Ce lo spiega – in tre passaggi – il medesimo san Paolo. In primo luogo, riusciamo ad «abbandonare e superare ogni forma di paura o di schiavitù, vivendo l’autentica libertà dei figli di Dio». Senza la preghiera «non facciamo il bene che vogliamo, bensì il male che non vogliamo» (cfr Rm 7,19). «E questa è l’espressione dell’alienazione dell’essere umano, della distruzione della nostra libertà, per le circostanze del nostro essere per il peccato originale: vogliamo il bene che non facciamo e facciamo ciò che non vogliamo, il male». Da questa condizione non siamo ultimamente in grado di liberarci da soli. Abbiamo bisogno dello Spirito Santo: «dove c’è lo Spirito del Signore c’è libertà» (2Cor 3,17). Non la libertà impropriamente scambiata per la licenza di fare ciò che si vuole, ma «una libertà autentica, che è libertà dal male e dal peccato per il bene e per la vita, per Dio». La libertà dello Spirito, insegna san Paolo, «non s’identifica mai né con il libertinaggio, né con la possibilità di fare la scelta del male», ma con il «frutto dello Spirito che è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé» (Gal 5,22). «Questa è la vera libertà – commenta il Pontefice –: poter realmente seguire il desiderio del bene, della vera gioia, della comunione con Dio e non essere oppresso dalle circostanze che ci chiedono altre direzioni. Non è tutto. «Una seconda conseguenza che si verifica nella nostra vita quando lasciamo operare in noi lo Spirito di Cristo, è che il rapporto stesso con Dio diventa talmente profondo da non essere intaccato da alcuna realtà o situazione». Non che con la preghiera noi siamo «liberati dalle prove o dalle sofferenze»: ma «possiamo viverle in unione con Cristo, con le sue sofferenze, nella prospettiva di partecipare anche della sua gloria (cfr Rm 8,17)». Nella preghiera «le sofferenze del tempo presente non ostacolano la gloria futura che sarà rivelata in noi» (Rm 8,18). Le sofferenze restano: noi «gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo» (Rm 8, 26) e talora abbiamo perfino l’impressione che Dio non ci ascolti. Ma spesso il modo di ascoltarci di Dio non consiste nel togliere la sofferenza ma nel darci la forza «di viverla e affrontarla con una forza nuova, con la stessa fiducia di Gesù», del quale lo stesso san Paolo scrive nella Lettera agli Ebrei che «nei giorni della sua vita terrena offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo dalla morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7). E la vita di Gesù anche qui si fa lezione per noi. «La risposta di Dio Padre al Figlio, alle sue forti grida e lacrime, non è stata la liberazione dalle sofferenze, dalla croce, dalla morte, ma è stata un esaudimento molto più grande, una risposta molto più profonda; attraverso la croce e la morte, Dio ha risposto con la risurrezione del Figlio, con la nuova vita». C’è infine una terza conseguenza del nostro lasciar agire lo Spirito Santo. «La preghiera del credente si apre anche alle dimensioni dell’umanità e dell’intero creato», entrando in sintonia con quell’«ardente aspettativa della creazione, protesa verso la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8,19). La preghiera ha anche una dimensione collettiva, sociale, perfino politica. San Paolo insegna che «la preghiera, sostenuta dallo Spirito di Cristo che parla nell’intimo di noi stessi, non rimane mai chiusa in se stessa, non è mai solo preghiera per me, ma si apre alla condivisione delle sofferenze del nostro tempo, degli altri». Diventa addirittura «canale di speranza per tutta la creazione», aiuto «per la redenzione del mondo». Ascoltiamo dunque san Paolo, e apriamoci all’azione dello Spirito Santo. «Lo Spirito di Cristo diventa la forza della nostra preghiera « debole », la luce della nostra preghiera « spenta », il fuoco della nostra preghiera « arida », donandoci la vera libertà interiore, insegnandoci a vivere affrontando le prove dell’esistenza, nella certezza di non essere soli, aprendoci agli orizzonti dell’umanità e della creazione « che geme e soffre le doglie del parto »» (Rm 8,22).
LA “MALATTIA” DEL PLATONISMO NEI PADRI (anche Paolo)
http://oodegr.co/italiano/tradizione_index/commentipadri/Platonismopadri1.htm
LA “MALATTIA” DEL PLATONISMO NEI PADRI (anche Paolo)
Il titolo è volutamente provocatorio. Il Platonismo è stato una grande filosofia che ha animato molte persone e ispirato generazioni di studiosi. Non si vuole criticare la dottrina platonica in sé, dunque, ma rivolgersi con un poco d’ironia a coloro che, sostenendo la soggiacenza del pensiero patristico al Platonismo, alla fine lo relegano in quest’ultimo come se ne fosse un’appendice. Oltre che contrario alla realtà dei fatti, questo modo di pensare è molto pericoloso per dei cristiani: il Platonismo e i Padri – non più visti come testimoni di fede ma come quasi prosecutori di una filosofia – verrebbero inevitabilmente relegati al passato, dal momento che il pensiero filosofico odierno è ben distante dal Platonismo. È ovvio che i fondamenti delle dottrine platoniche non sono conciliabili con quelle cristiane. Ritenere che vi siano dei cristiani-platonici significa, quindi, ritenere che il loro Cristianesimo sia in un certo senso “malato” di platonismo, data l’inconciliabilità delle due realtà. Si afferma ciò, nonostante l’esistenza di una certa sicura influenza platonica in qualche autore cristiano (influenza decisamente più evidente e corposa nei seguaci delle correnti ereticali). Per quanto riguarda i Padri in genere, si nota che, pur utilizzando il vocabolario platonico, essi non trasmetterebbero reali dottrine platoniche. I Padri vogliono portare i loro lettori in una direzione totalmente differente da quella dei platonici e il metodo argomentativo da loro adottato non è puramente filosofico ma spirituale. (Sarebbe necessario evidenziare la differenza tra questi due metodi ma, per il momento, la diamo per scontata). Facciamo un rapido ma attento excursus assumendo come termine di paragone per la nostra indagine, un tema antropologico (non si può scegliere simultaneamente altri temi altrimenti saremo obbligati a fare una tesi di laurea cosa che nessuno ci può chiedere!). Il tema di confronto prescelto è il modo di considerare il corpo e l’anima. Questo tema ci permette di delimitare il campo segnalando determinate problematicità e l’eventuale chiara influenza di concetti di ordine platonico. Data la sede siamo obbligati ad essere più sintetici possibile sapendo bene che questo comporta il rischio di una certa sommarietà. CORPO E ANIMA NELLA DOTTRINA PLATONICA Nella dottrina platonica emerge evidente la superiorità dell’anima rispetto al corpo, realtà addirittura da disprezzare dal momento che è una distrazione per l’anima. “E allora quand’è […] che l’anima tocca la verità? Che se mediante il corpo ella tenta qualche indagine, è chiaro che da quello è tratta in inganno. […] E dunque non è nel puro ragionamento, se mai in qualche modo, che si rivela all’anima la verità? – Sì. – E l’anima ragiona appunto con la sua migliore purezza quando non la conturba nessuna di cotali sensazioni, né vista né udito né dolore, e nemmeno piacere; ma tutta sola si raccoglie in se stessa dicendo addio al corpo; e, nulla più partecipando del corpo né avendo contatto con esso, intende con ogni suo sforzo alla verità. – È così. – Non dunque anche in questa ricerca l’anima del filosofo ha in dispregio più di ogni altra cosa il corpo, e fugge da esso, e si sforza anzi di essere tutta sola raccolta in se stessa? – È chiaro” (Fedone, X). Nel Fedone si sviluppa pure la linea del ‘corpo come prigione dell’anima’. Il corpo è la ‘vera prigione’: È dunque compito dell’anima liberarsi dal corpo, come da catene. La morte è lo ‘scioglimento’ dell’anima dalle sue catene. “E quella parola che si ode pronunciare in certi misteri, che noi uomini siamo come in una specie di carcere, e che quindi non possiamo liberarcene da noi medesimi e tanto meno svignarcela” (Fedone, VI). Evidentemente non si può riassumere l’antropologia platonica solo in questi due elementi. Mi pare, però, corretto evidenziare che, in ciò, esistono profonde differenze con la primitiva dottrina cristiana, nonostante si riscontri in essa la presenza di risonanze platoniche (ma anche aristoteliche, stoiche, ecc.). Avremo modo di accennarvi rapidamente. CORPO E ANIMA NEL CRISTIANESIMO PRIMITIVO Nell’epistola ai Romani (7, 24), san Paolo prorompe in un’incredibile domanda che s’imprime negli ascoltatori per la sua particolare forza: “Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?”. L’apostolo aveva appena affermato che con la sua interiorità segue il Vangelo di Cristo ma con il suo corpo la legge del peccato. Sembrerebbe che in quest’espressione esista una profonda parentela, se non un’identità, con quanto affermato nella dottrina platonica: il corpo è un peso, un ostacolo per l’anima! Sembrerebbe che vi sia un concetto duale di uomo, anima e corpo, in cui la prima viene oppressa dal secondo. Nonostante ciò le “somiglianze” non ci devono trarre in inganno. Infatti è celebre il famoso passo in cui san Paolo, predicando la resurrezione del corpo, viene dileggiato e abbandonato dagli uditori pagani (At 17,32). Per il mondo pagano, intriso di platonismo, un corpo che risorge e vive in eterno finisce per essere un’eterna prigione dell’anima! È viva, dunque, la differenza tra l’antropologia del Cristianesimo primitivo (di fatto erede del monismo antropologico semitico dove l’uomo è un’unità di corpo, anima e spirito) e quella pagana. “Paolo ha certamente introdotto una nuova terminologia estranea all’uso tradizionale ebraico ma non ha introdotto alcuna nuova antropologia basata sul dualismo ellenistico. San Paolo non si riferisce mai né alla psyché né al pneyma come ad una facoltà dell’intelligenza umana. La sua antropologia è ebraica, non ellenistica” (G.S. ROMANIDES, Il peccato originale secondo san Paolo).È evidente che per il Cristianesimo primitivo la carne non può essere un male, dal momento che il Figlio di Dio la assume e la strappa alla morte con la sua resurrezione. San Paolo, tuttavia, sa che è indebolita dal momento che in essa vi dimora parassitariamente il peccato (cfr. Rom 7, 17-18), l’inclinazione al male. Ma nel contesto paolino la malattia e la corruzione non riguarda solo la carne ma pure l’anima che non è una realtà sana in se stessa. Cristo giunge per l’una e l’altra portando la sanità nell’uomo intero. Questo è, ancora una volta, un fondamentale elemento di differenza con il mondo pagano. CORPO E ANIMA IN AGOSTINO D’IPPONA Il vescovo d’Ippona, Aurelio Agostino, che così tanto ha influito nel pensiero occidentale nel corso dei secoli, evidentemente confessava con san Paolo la resurrezione della carne. Agostino in un primo tempo conobbe l’eresia dei manichei e un suo capo, il vescovo Fausto, contro il quale scrisse un trattato in difesa del Cristianesimo. È noto che i manichei avessero un’idea molto negativa del corpo considerandolo un male in sé. Essi evitavano accuratamente anche le relazioni sessuali. Agostino combatté i manichei ma la sua idea assai negativa della sessualità finì per allungare un’ombra anche sul senso e il valore del corpo. “Comprendi dunque, se lo puoi, o anima tanto appesantita da un corpo soggetto alla corruzione e aggravata da pensieri terrestri molteplici e vari; comprendi, se lo puoi, che Dio è Verità. È scritto infatti che Dio è luce (1Gv 1,5), non la luce che vedono i nostri occhi, ma quella che vede il cuore, quando sente dire: è la Verità. Non cercare di sapere cos’è la verità, perché immediatamente si interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo, quando ti ho detto: Verità. Resta, se puoi, nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia, quando si dice: Verità. Ma non puoi, tu ricadi in queste cose abituali e terrene. Qual è dunque, ti chiedo, il peso che ti fa ricadere, se non quello delle immondezze che ti hanno fatto contrarre il glutine della passione e gli sviamenti della tua peregrinazione?” (De Trinitate, 8,2). Dal passo citato è evidente che ci sono delle risonanze che riportano alla memoria le credenze platoniche. Quello che si nota in questo passo è l’insistenza sul corpo soggetto alla corruzione per il “glutine della passione?, mentre l’anima non pare essere luogo in cui vi può essere malattia. Essa, addirittura, sarebbe in grado di cogliere subitaneamente il concetto di “verità” ed è oscurata in questa sua capacità solo dai limiti che il corpo, con le sue pulsioni animali, le impone. In un altro passo la spiccata fobia per il sesso di Agostino porta il lettore a concludere che l’aspetto corporeo nell’uomo è una cosa negativa in sé: “Quanto a me, penso che le relazioni sessuali vadano radicalmente evitate. Penso che nulla avvilisca l’uomo quanto le carezze di una donna e i rapporti corporali che fanno parte del matrimonio” (Soliloquia, 1, 10). Le posizioni sul corpo in Agostino che questi due passi fanno intuire, sono mirabilmente sintetizzate nelle seguenti parole: “L’impianto generale della filosofia agostiniana è quello platonico. Agostino stesso dichiara ripetutamente di appartenere alla ‘setta’ (scuola) dei platonici. Questo vale anche per l’antropologia, che rimane sostanzialmente di stampo platonico, anche se con qualche notevole variazione (rapporti tra anima e corpo, dottrina della illuminazione, importanza del fattore volitivo, ecc.). Agostino è contrario a ridurre – come fa Platone – l’uomo all’anima […]. Tuttavia nei confronti del corpo Agostino ha la stessa diffidenza e disprezzo che aveva manifestato Platone […]: ‘E affinché l’anima sia meno ostacolata nell’aderire tutta al tutto della verità, la morte è desiderata come definitiva ricompensa, in quanto fuga totale e liberazione dal corpo’ (De quantitate animæ 33, 76)” (B. MONDIN, L’uomo secondo il disegno di Dio, p. 51-52). È evidente che, nonostante le molte precisazioni cristiane (come, ad esempio, quelle presenti nella polemica contro i platonici in La Città di Dio, XXII, 11), l’antropologia agostiniana alla fine subisce una pesante influenza di ordine platonico dove corpo e anima si contrappongono suggerendo che la salvezza cristiana si realizza solo con la fuga dell’anima dal corpo. Questo elemento si ripercuoterà portando ad un certo disprezzo della carne, cosa che caratterizzerà ogni ambiente cristiano che acriticamente si legherà al pensiero del vescovo ipponate esaltandone alcuni aspetti decisamente critici. CORPO E ANIMA IN DIONIGI L’AREOPAGITA La visione dell’uomo che anima Dionigi è quella di un uomo totalmente trasfigurato (corpo e anima), “deificato”, termine che Agostino non usa mai. Per Dionigi questa visione teologica non è teoria, speculazione filosofica astratta o plagio da autori pagani. Per questo egli ammonisce severamente: “Perciò coloro che temerariamente rivelano gli insegnamenti divini prima di avervi conformato la propria condotta e la propria vita, sono empi e completamente estranei alla santa legislazione” (DIONIGI AREOPAGITA , La Gerarchia ecclesiastica, III, 14). In questo senso, è interessante osservare come Massimo il Confessore descriva Dionigi: “Come uno specchio non offuscato da alcuna macchia di passioni, [le parole di Dionigi] avevano la forza di comprendere e di esporre chiaramente ciò che gli uditori non potevano neppure percepire”. (MASSIMO IL CONFESSORE, Mistagogia, Proemio). Questo dimostra che le osservazioni di Dionigi attorno all’uomo e alla sua deificazione non sono il frutto di un’ardita operazione intellettuale, di un ingegnoso “incastro” tra Cristianesimo e Platonismo ma nascono prima di tutto da una percezione di tipo interiore, da un dono divino. Quello che sta al centro dell’opera di Dionigi, seppure vi siano risonanze di tipo platonico, è la realtà della Grazia che cambia la visione e i ragionamenti sull’uomo. In altri termini Dionigi non osserva l’uomo con gli occhiali dell’ideologia platonica ma dal pinnacolo della contemplazione divina. Questo aspetto per uno studioso di oggi può passare completamente inosservato ed è per questo che l’unica conclusione alla quale egli può giungere è quella di ritenere il lavoro di Dionigi un incontro più o meno riuscito tra concetti cristiani e concetti platonici.
Tuttavia, se si pone sul banco di prova la definizione di Dionigi come platonico, osservando i suoi scritti da un semplice punto di vista tematico, i “conti” non tornano.
Infatti, secondo la filosofia ellenistica, l’anima è illuminata dalla gnosi, con la quale è rimandata al suo stato originario. L’anima non necessita assolutamente di un rinnovamento ontologico o di una trasfigurazione operata da un Dio incarnato, né è necessario superare uno stato di “peccato”. Nella mentalità degli antichi filosofi ellenisti Dio e il “nuovo uomo” si raggiungevano tramite la gnosi, la conoscenza e la contemplazione intellettuale. Viceversa, nell’insegnamento cristiano Dio non è mai essenzialmente raggiungibile dall’intelletto e la rivelazione spirituale oltrepassa ogni capacità di conoscenza umana. Se non si ha presente questi fondamenti, è facile equivocare ritenendo che il Cristianesimo patristico a cui Dionigi appartiene, soggiace a categorie platoniche. Ma possiamo anche fare una verifica diversa interrogando direttamente un autore cristiano dei primi secoli cristiani. Avremo una risposta inequivocabile. Giustino, il quale sempre per una pessima semplificazione viene denominato “il primo cristiano platonico”, confessa: “Decisi di entrare in contatto anche con i platonici, i quali godevano di grande fama. Eccomi dunque a frequentare assiduamente un uomo assennato, giunto da poco nella mia città, che eccelleva tra i platonici, e ogni giorno facevo progressi notevolissimi. Mi affascinava la conoscenza delle realtà incorporee e la contemplazione delle Idee eccitava la mia mente. Ben presto dunque ritenni di essere divenuto un saggio e coltivavo la sciocca speranza di giungere alla immediata visione di Dio. Perché questo è lo scopo della filosofia di Platone” (GIUSTINO, Dialogo con Trifone, II, 6, 91). La differenza sui fondamenti è evidente ed è proprio quella ad opporre Giustino ai Platonici. Anche per Dionigi possiamo trarre le medesime conclusioni: per quanto usi un linguaggio affine al mondo platonico, non aderisce al Platonismo ma al Cristianesimo. Per questo non lo si può definire “platonico”. D’altronde, la sua antropologia lo dimostra chiaramente, seppure non sia trattata in modo sistematico e si possa rinvenire qua e là all’interno delle sue opere. Un concetto di anima santa e di corpo puro non è assolutamente propria al platonismo eppure è fermamente confessata da Dionigi: “Le anime sante che in questa vita potevano lasciarsi andare all’inclinazione verso il peggio, nella resurrezione avranno uno stato divinissimo e immutabile; d’altra parte, i corpi puri che hanno la stessa condizione e le stesse vicissitudini delle anime sante, che sono stati arruolati insieme e insieme hanno combattuto in divine fatiche, riceveranno la propria risurrezione nella stabilità immutabile delle anime riguardo alla vita divina. Infatti, i corpi, dopo essersi uniti alle sante anime con le quali erano uniti durante questa vita, resi come membra di Cristo, riceveranno una quiete divina, incorruttibile, immortale e beata” (DIONIGI AREOPAGITA, Gerarchia Ecclesiastica, 1. 552D-B). Che Dionigi sia assolutamente contro coloro che, come pure gli gnostici, partono da una concezione negativa della materia, lo si nota qualche riga oltre: “Altri, poi, attribuiscono alle anime la possibilità di congiungersi con altri corpi [non materiali], commettendo ingiustizia, io credo, per quanto sta in loro, verso i corpi che hanno sofferto con le loro divine anime e rifiutando empiamente le sacre ricompense ai corpi che sono giunti al termine delle corse divinissime” (Ib., 556C). In questi significavi passi Dionigi qualifica l’anima con il termine di “santa”, “divina” e il corpo con quello di “puro”. A monte di queste qualificazioni sta evidentemente la dottrina cristiana per la quale né il corpo né l’anima sono santi in sé ma vengono resi santi e puri dalla purificazione, illuminazione e divinizzazione per Grazia. Questo concetto di “redenzione totale” operata da Dio, redenzione dell’anima e del corpo, è chiara in Dionigi: “Se infatti il defunto nell’anima e nel corpo ha passato una vita cara a Dio, il suo corpo meriterà di essere associato agli onori dell’anima santa con cui ha diviso il combattimento e i santi sudori. Allora la divina giustizia dà in dono all’anima, insieme con il proprio corpo, un riposo adeguato ad esso, in quanto compagno e compartecipe della vita santa o di quella contraria. Perciò la legge divina dà in dono ad entrambi la partecipazione tearchica alle cose sante: all’anima nella pura contemplazione e nella scienza dei misteri, al corpo simbolicamente nell’unguento divinissimo e nei simboli molto sacri della santa comunione, santificando tutto l’uomo e santamente operando tutta la sua salvezza, e annunciando che la sua risurrezione sarà perfettissima con le purificazioni totali” (Ib. III, 565B-C). Se si soppesano attentamente questi passi antropologici non v’è possibilità alcuna di ritenerli “platonici”, né di ritenere platonico il suo autore. Tra le opere dionisiane, quella su “I nomi divini” può parere la più “platonica”. Ma anche qui Dionigi tiene conto della rivelazione ricevuta dalla Chiesa, la quale si presenta notevolmente diversa dal pensiero dei neoplatonici suoi interlocutori. Per quanto riguarda il nostro tema, Dionigi tiene conto della realtà dell’Incarnazione, cioè del fatto che il Figlio di Dio si è unito personalmente, per sempre, ad una sostanza umana completa divenendo realmente uomo (Cfr. ID., Sui nomi divini, II, 10). Si è sempre sottolineato che nel Platonismo le realtà invisibili sono più elevate e importanti di quelle visibili, dal momento che viene posto un evidente dualismo nella spiegazione di tutta la realtà compresa quella umana. Ci chiediamo sinceramente se questa è pure l’idea di Dionigi. Notiamo che, invece, a Dionigi sta a cuore mostrare che Dio, posto al di sopra di tutto, non coincide con la semplice immaterialità in modo da poterla contrapporre alla materialità. Lo Spirito, per Dionigi, “sta al di sopra di ogni immaterialità e divinizzazione che si possa pensare” (Ib., II, 8). Così la vera distinzione non si ha tra “spiritualità” e “materialità”, tra “anima” e “corpo” ma tra quella che poi verrà definita come “realtà increata” (Dio) e “realtà creata” (il mondo spirituale e materiale).
CONCLUSIONE Agostino e Dionigi non sono rimasti lettera morta. Le loro impostazioni antropologiche hanno influito, seppur in modo diversificato, nel pensiero e nel cammino delle Chiese. Agostino, che si muove da un pensiero piuttosto pessimistico della natura umana e del corpo in particolare, sarà un autore al quale Tommaso d’Acquino ricorrerà molto spesso. Tommaso, a sua volta, è stato per secoli il riferimento principale della teologia latina e, in parte, lo è anche oggi. La Chiesa latina non mancherà di soffermarsi sul pessimismo antropologico agostiniano finendo a volte a illustrare una visione cupa della sessualità e del corpo. Non si può dimenticare che, per una consuetudine popolare spiritualista non ancora morta, la Salvezza operata da Cristo è stata spesso trattata come una questione di “salvezza dell’anima”, non di salvezza totale: “salvatevi l’anima”, ripetevano i predicatori fino a qualche tempo fa. In questo contesto il corpo pare evidentemente secondario e non si può non ravvedere in ciò un chiaro influsso antropologico agostiniano. Il pessimismo antropologico non mancherà d’impressionare l’animo tormentato e sensibile del monaco agostinano Lutero il quale perverrà a conclusioni ancor più estreme. Sul versante opposto, quello del Cristianesimo orientale, la dottrina spirituale di Dionigi sarà ripresa da Massimo il Confessore ma, prima di lui, quest’impostazione caratterizzerà anche autori come Gregorio di Nissa. Questa dottrina spirituale non trascura la realtà del corpo dal momento che conformemente alla Rivelazione cristiana, Cristo assume un corpo, risorge con un corpo, ascende al cielo con un corpo. Perciò l’appartenenza del corpo all’essenza dell’uomo e alla persona stessa fu fortemente sottolineata nei primi secoli dai Padri contro lo gnosticismo e, nuovamente, nel IV e V secolo contro l’origenismo e le differenti forme con il quale il platonismo si ripresentava (tra cui il neoplatonismo). Fu infine riaffermata nel XIV secolo nel quadro della difesa della spiritualità esicasta che accordava al corpo un posto fondamentale. Come Dionigi, i Padri greci sono stati definiti “platonici”. Dal poco che è stato accennato si comprende che tale aggettivo fa torto alla realtà dei fatti. D’altra parte secondo lo studioso greco Cavarnos: “[I Padri] non avrebbero avuto alcuna obiezione ad essere chiamati semplicemente ‘filosofi’, a chiamare il Cristianesimo ‘filosofia’, ‘divina filosofia’ e a caratterizzare serie riflessioni su alcuni problemi o argomenti, come quelli da essi affrontati, con il termine ‘filosofare’. Ma nessuno di loro ha chiamato se stesso o qualche altro cristiano predecessore, dal quale avevano imparato, ‘platonico’, ‘aristotelico’, ‘cristiano platonico’ o ‘cristiano aristotelico’. Simili caratterizzazioni erano per loro impensabili” (C. CAVARNOS, The Hellenic-Christian Philosophical Tradition, p. 17). Da questo quadro bisogna invece estrapolare come un caso a parte e singolare Agostino, dal momento che egli non è mai riuscito a superare completamente le posizioni dualistiche assimilate nel suo periodo pre-cristiano e il suo singolare disprezzo per la corporeità. Sulla base di ciò alcuni hanno coerentemente concluso che “così l’Occidente ricevette come cristiano un insegnamento che era in realtà pagano in molti dei suoi aspetti” (A. KALOMIROS, Il fiume di fuoco). Chiaranz Pietro
PADRI DEL DESERTO – GIOVANNI NANO (339-409)
https://combonianum.org/liturgia-liturgy/quaresima-lent/40-giorni-con-i-padri-del-deserto/
PADRI DEL DESERTO – GIOVANNI NANO (339-409)
«Ma chi è questo padre Giovanni, che con la sua umiltà fa pendere dal suo dito mignolo tutta Scete?». È la migliore presentazione di questo grande «piccolo» Giovanni. Giovanni era nato verso il 339 a Bahnasa e giunto a Scete verso il 356-57. La figura di Giovanni, come emerge dai detti, è veramente grande e splendida di tante virtù, ma alcune si distinguono in modo particolare: l’umiltà, la disponibilità al prossimo e l’immersione continua in Dio. Dopo la sua morte fece sentire la sua presenza con molti miracoli.
26. L’albero del frutto dell’obbedienza Raccontavano del padre Giovanni Nano che, ritiratosi a Scete presso un anziano della Tebaide, visse nel deserto. Il suo padre, preso un legno secco, lo piantò e gli disse di innaffiarlo ogni giorno con un secchio d’acqua, finché non desse frutto. L’acqua era tanto lontana che doveva partire alla sera per essere di ritorno al mattino. Dopo tre anni il legno cominciò a vivere e a dare frutti. L’anziano li colse e li portò ai fratelli radunati insieme, dicendo: «Prendete, mangiate il frutto dell’obbedienza».
27. Giovanni è divenuto un angelo Raccontavano che il padre Giovanni Nano disse un giorno al suo fratello maggiore: «Vorrei essere libero da ogni preoccupazione come lo sono gli angeli, che non fanno nessun lavoro, ma adorano Dio incessantemente». Si tolse quindi il mantello e se ne andò nel deserto. Trascorsa una settimana, ritornò dal fratello e bussò alla porta. Questi, prima di aprirgli, gli chiese: «Chi sei?». Disse: «Sono io, Giovanni, tuo fratello!». Ma l’altro replicò: «Giovanni è divenuto un angelo, non è più tra gli uomini». Giovanni supplicava: «Sono io». Ma il fratello non gli aprì e lo lasciò tribolare fino al mattino. Infine lo fece entrare e gli disse: «Sei un uomo, devi ancora lavorare per vivere». Allora si prostrò e disse: «Perdonami».
28. La beatitudine del servizio e dell’essere servito Accadde che un giorno gli anziani mangiavano insieme, e vi era con loro anche il padre Giovanni. Si alzò a porgere l’acqua un presbitero molto ragguardevole, e nessuno volle accettarla da lui tranne Giovanni Nano. Si stupirono e gli dissero: «Come mai tu che sei il più giovane di tutti hai osato farti servire dal presbitero?». Disse: «Quando io mi alzo per porgere la brocca, mi rallegro se tutti accettano, per averne merito. Per questo ho accettato da lui, per procurargli il merito, perché non si rattristi se tutti rifiutano». Si stupirono a queste parole e furono edificati dal suo discernimento.
29. Una mente concentrata Una volta dei fratelli si recarono dal padre Giovanni Nano per metterlo alla prova, poiché non permetteva alla sua mente di vagare né parlava di alcuna cosa di questo mondo. Gli dicono: «Ringraziamo Dio, perché quest’anno è piovuto molto, le palme hanno bevuto e mettono rami e i fratelli trovano il loro lavoro». Il padre Giovanni dice loro: «Così lo Spirito Santo: quando scende nel cuore degli uomini, essi si rinnovano e mettono rami nel timore di Dio».
30. Lotta e umiltà Il padre Poemen raccontava che il padre Giovanni Nano aveva pregato Dio e furono allontanate da lui le passioni e fu liberato da ogni sollecitudine. Si recò allora da un anziano e gli disse: «Mi trovo nella quiete, e non devo sostenere nessuna lotta». Gli disse il vecchio: «Va’ e prega Dio perché sopraggiunga su di te la lotta e tu ne tragga quella contrizione ed umiltà che avevi prima. È attraverso la lotta che l’anima progredisce». L’altro pregò Dio per questo e, quando giunse la lotta, non pregò più perché la allontanasse da lui. Chiedeva invece: «Dammi, Signore, pazienza nei combattimenti».
31. Il carico leggero e quello pesante Il padre Giovanni disse: «Se lasciamo il carico leggero, cioè l’accusa di noi stessi, ci carichiamo di quello pesante, cioè la giustificazione di noi stessi».
32. Chi si umilia sarà esaltato Il padre Giovanni Nano raccontò di un santo anziano, che si era recluso in cella e che godeva di grande fama e onore in città. Gli fu rivelato: «Uno dei santi sta per morire; suvvia, va’ a salutarlo prima che spiri». Rifletté tra sé: «Se esco di giorno, la gente mi rincorrerà, mi faranno grande festa e in questo non potrò trovare riposo. Me ne andrò quindi di sera tardi, al buio, e sfuggirò a tutti». Ma quando uscì di sera dalla sua cella, con l’intenzione di rimanere nascosto a tutti, ecco che due angeli furono inviati da Dio con lampade a illuminargli il cammino. Così tutta la città accorse, vedendo il fulgore. E quanto più aveva cercato di sottrarsi alla gloria, tanto più fu glorificato. In ciò si realizza la parola: Chi si umilia sarà esaltato (Mt 23, 12).
33. Costruire una casa dall’alto Il padre Giovanni Nano disse: «Non è possibile costruire una casa dall’alto verso il basso, ma dalle fondamenta verso l’alto». Gli chiesero: «Che significa questa parola?». Disse loro: «Il fondamento è il prossimo, che tu devi guadagnare. Questo è il primo dovere dal quale dipendono tutti i comandi di Cristo» (Cf. Mt 22, 40).
34. Il giardino dei santi Diceva il padre Poemen che il padre Giovanni aveva detto che i santi assomigliano a un giardino di alberi che danno frutti differenti ma sono abbeverati da un’unica acqua. Altra infatti è l’opera di un santo, altra quella di un altro, ma è un solo Spirito che agisce in tutti loro.
OMELIA DI PAOLO VI SOLENNITÀ DEI SS. APOSTOLI PIETRO E PAOLO – GIOVEDÌ, 29 GIUGNO 1978
http://w2.vatican.va/content/paul-vi/it/homilies/1978/documents/hf_p-vi_hom_19780629.html
XV ANNIVERSARIO DELL’INCORONAZIONE DEL PAPA
OMELIA DI PAOLO VI SOLENNITÀ DEI SS. APOSTOLI PIETRO E PAOLO – GIOVEDÌ, 29 GIUGNO 1978
Venerati Fratelli e Figli carissimi,
Le immagini dei Santi Apostoli Pietro e Paolo occupano, oggi più che mai, il nostro spirito durante la celebrazione di questo rito. Non solo perché ci sono riportate, come di consueto, dal volgere dell’anno liturgico, ma anche per il particolare significato che riveste per noi questo xv anniversario della nostra elezione al Sommo Pontificato, quando, dopo il compimento dell’80° genetliaco, il corso naturale della nostra vita volge al tramonto.
Pietro e Paolo: «le grandi e giuste colonne» (S. CLEMENTE ROMANI, I, 5, 2) della Chiesa romana e della Chiesa universale! I testi della Liturgia della parola, or ora ascoltati, ce li presentano sotto un aspetto che suscita in noi profonda impressione : ecco Pietro, che rinnova nei secoli la grande confessione di Cesarea di Filippo; ecco Paolo, che dalla cattività romana lascia a Timoteo il testamento più alto della sua missione. Guardando a loro, noi gettiamo uno sguardo complessivo su quello che è stato il periodo durante il quale il Signore ci ha affidato la sua Chiesa; e, benché ci consideriamo l’ultimo e indegno successore di Pietro, ci sentiamo a questa soglia estrema confortati e sorretti dalla coscienza di aver instancabilmente ripetuto davanti alla Chiesa e al mondo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Matth. 16, 16); anche noi, come Paolo, sentiamo di poter dire: «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede» (2 Tim. 4, 7).
I. TUTELA DELLA FEDE
Il nostro ufficio è quello stesso di Pietro, al quale Cristo ha affidato il mandato di confermare i fratelli (Cfr. Luc. 22, 32): è l’ufficio di servire la verità della fede, e questa verità offrire a quanti la cercano, secondo una stupenda espressione di San Pier Crisologo: «Beatus Petrus, qui in propria sede et vivit et praesidet, praestat quaerentibus fidei veritatem» (S. PETRI CEIRYSOLOGI Ep. ad Etrtichen, inter Ep. S. Leonis Magni XXV, 2: PL 54, 743-744). Infatti la fede è «più preziosa dell’oro» (1 Tim. 6, 13), dice San Pietro; non basta riceverla, ma bisogna conservarla anche in mezzo alle difficoltà («per ignem probatur» -1 Petr. 1, 7 ). Della fede gli Apostoli sono stati predicatori anche nella persecuzione, sigillando la loro testimonianza con la morte, a imitazione del loro Maestro e Signore che, secondo la bella formula di San Paolo «testimonium reddidit sub Pontio Pilato bonam confessionem» (Ibid.). Ora, la fede non è il risultato dell’umana speculazione (Cfr. 2 Petr. 1, 16), ma il «deposito» ricevuto dagli Apostoli, i quali lo hanno accolto da Cristo che essi hanno «visto, contemplato e ascoltato» (1 Io. 1, l-3). Questa è la fede della Chiesa, la fede apostolica. L’insegnamento ricevuto da Cristo si mantiene intatto nella Chiesa per la presenza in essa dello Spirito Santo e per la speciale missione affidata a Pietro, per il quale Cristo ha pregato : «Ego rogavi pro te ut non deficiat fides tua» (Luc. 22, 32) e al Collegio degli Apostoli in comunione con lui: «qui vos audit me audit» (Ibid. 10, 16). La funzione di Pietro si perpetua nei suoi successori, tanto che i Vescovi del Concilio di Calcedonia poterono dire dopo aver ascoltato la lettera loro mandata da Papa Leone: «Pietro ha parlato per bocca di Leone» (Cfr. H. GRISAR, Roma alla fine del tempo antico, I, 359). E il nucleo di questa fede è Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, confessato così da Pietro: «Tu es Christus, Filius Dei vivi» (Matth. 16, 16).
Ecco, Fratelli e Figli, l’intento instancabile, vigile, assillante che ci ha mossi in questi quindici anni di pontificato. «Fidem servavi»! possiamo dire oggi, con la umile e ferma coscienza di non aver mai tradito «il santo vero» (A. MANZONI). Ci sia consentito ricordare, a conferma di questa convinzione, e a conforto del nostro spirito che continuamente si prepara all’incontro col giusto Giudice (2 Tim. 4, 8), alcuni documenti salienti del pontificato, che hanno voluto segnare le tappe di questo nostro sofferto ministero di amore e di servizio alla fede e alla disciplina: tra le encicliche e le esortazioni pontificie, la «Ecclesiam Suam» (9 augusti 1964: AAS 56 (1964) 609.659), che, all’alba del pontificato, tracciava le linee di azione della Chiesa in se stessa e nel suo dialogo col mondo dei fratelli cristiani separati, dei non-cristiani, dei non-credenti; la «Mysterium Fidei» sulla dottrina eucaristica (3 septembris 1965: AAS 57 (1965) 753.774); la «Sacerdotalis Caelibatus» (24 iunii 1967: AAS 59 (1967) 657.697) sul dono totale di sé che distingue il carisma e l’ufficio presbiterale; la «Evangelica Testificatio» (29 iunii 1971: AAS 63 (1971) 497-526) sulla testimonianza che oggi la vita religiosa, in perfetta sequela di Cristo, è chiamata a dare davanti al mondo; la «Paterna cum Benevolentia» (8 decembris 1974: AAS 67 (1975) 5-23), alla vigilia dell’Anno Santo, sulla riconciliazione all’interno della Chiesa; la «Gaudente in Domino» (9 maii 1975: AAS 67 (1975) 289-322) sulla ricchezza zampillante e trasformatrice della gioia cristiana; e, infine la «Evangelii Nuntiandi» (8 decembris 1975: AAS 68 (1976) 5-76), che ha voluto tracciare il panorama esaltante e molteplice dell’azione evangelizzatrice della Chiesa, oggi.
Ma soprattutto non vogliamo dimenticare quella nostra «Professione di fede» che, proprio dieci anni fa, il 30 giugno del 1968, noi solennemente pronunciammo in nome e a impegno di tutta la Chiesa come «Credo del Popolo di Dio» (PAOLO PP. VI, Credo del Popolo di Dio: AAS 60 (1968) 436-445), per ricordare, per riaffermare, per ribadire i punti capitali della fede della Chiesa stessa, proclamata dai più importanti Concili Ecumenici, in un momento in cui facili sperimentalismi dottrinali sembravano scuotere la certezza di tanti sacerdoti e fedeli, e richiedevano un ritorno alle sorgenti. Grazie al Signore, molti pericoli si sono attenuati; ma davanti alle difficoltà che ancor oggi la Chiesa deve affrontare sul piano sia dottrinale che disciplinare, noi ci richiamiamo ancora energicamente a quella sommaria professione di fede, che consideriamo un atto importante del nostro magistero pontificale, perché solo nella fedeltà all’insegnamento di Cristo e della Chiesa, trasmessoci dai Padri, possiamo avere quella forza di conquista e quella luce di intelligenza e d’anima che proviene dal possesso maturo e consapevole della divina verità. E vogliamo altresì rivolgere un appello, accorato ma fermo, a quanti impegnano se stessi e trascinano gli altri, con la parola, con gli scritti, con il comportamento, sulle vie delle opinioni personali e poi su quelle dell’eresia e dello scisma, disorientando le coscienze dei singoli, e la comunità intera, la quale dev’essere anzitutto koinonia nell’adesione alla verità della Parola di Dio, per verificare e garantire la koinonia nell’unico Pane e nell’unico Calice. Li avvertiamo paternamente: si guardino dal turbare ulteriormente la Chiesa; è giunto il momento della verità, e occorre che ciascuno conosca le proprie responsabilità di fronte a decisioni che debbono salvaguardare la fede, tesoro comune che il Cristo, il quale è Petra, è Roccia, ha affidato a Pietro, Vicarius Petrae, Vicario della Roccia, come lo chiama San Bonaventura (S. BONAVENTURAE Quaest. disp. de per/. evang., q. 4, a. 3; ed. Quaracchi, V, 1891, p. 195).
II. DIFESA DELLA VITA UMANA
In questo impegno offerto e sofferto di magistero a servizio e a difesa della verità, noi consideriamo imprescindibile la difesa della vita umana. Il Concilio Vaticano secondo ha ricordato con parole gravissime che «Dio padrone della Vita, ha affidato agli uomini l’altissima missione di proteggere la vita»! (Gaudium et Spes, 51) E noi, che riteniamo nostra precisa consegna l’assoluta fedeltà agli insegnamenti del Concilio medesimo, abbiamo fatto programma del nostro pontificato la difesa della vita, in tutte le forme in cui essa può esser minacciata, turbata o addirittura soppressa.
Rammentiamo anche qui i punti più significativi che attestano questo nostro intento.
a) Abbiamo anzitutto sottolineato il dovere di favorire la promozione tecnico-materiale dei popoli in via di sviluppo, con la enciclica «Populorum Progressio» (26 martii 1967: AAS 59 (1967) 257-299)
b) Ma la difesa della vita deve cominciare dalle sorgenti stesse della umana esistenza. È stato questo un grave e chiaro insegnamento del Concilio, il quale, nella Costituzione pastorale «Gaudium et Spes», ammoniva che «la vita, una volta concepita, dev’essere protetta con la massima cura; e l’aborto come l’infanticidio sono abominevoli delitti» (Gaudium et Spes, 51). Non abbiamo fatto altro che raccogliere questa consegna, quando, dieci anni fa, promanammo l’Enciclica «Humanae Vitae» (25 iulii 1968: AAS 60 (1968) 481-503): ispirato all’intangibile insegnamento biblico ed evangelico, che convalida le norme della legge naturale e i dettami insopprimibili della coscienza sul rispetto della vita, la cui trasmissione è affidata alla paternità e alla maternità responsabili, quel documento è diventato oggi di nuova e più urgente attualità per i vulnera inferti da pubbliche legislazioni alla santità indissolubile del vincolo matrimoniale e alla intangibilità della vita umana fin dal seno materno.
c) Di qui le ripetute affermazioni della dottrina della Chiesa cattolica sulla dolorosa realtà e sui penosissimi effetti del divorzio e dell’aborto, contenute nel nostro magistero ordinario come in particolari atti della competente Congregazione. Noi le abbiamo espresse, mossi unicamente dalla suprema responsabilità di maestro e di pastore universale, e per il bene del genere umano!
d) Ma siamo stati indotti altresì dall’amore alla gioventù che sale, fidente in un più sereno avvenire, gioiosamente protesa verso la propria auto-realizzazione, ma non di rado delusa e scoraggiata dalla mancanza di un’adeguata risposta da parte della società degli adulti. La gioventù è la prima a soffrire degli sconvolgimenti della famiglia e della vita morale. Essa è il patrimonio più ricco da difendere e avvalorare. Perciò noi guardiamo ai giovani: sono essi il domani della comunità civile, il domani della Chiesa.
Venerati Fratelli e Figli carissimi!
Vi abbiamo aperto il nostro cuore, in un panorama sia pur rapido dei punti salienti del nostro Magistero pontificale in ordine alla vita umana, perché un grido profondo salga dai nostri cuori verso il Redentore; davanti ai pericoli che abbiamo delineato, come di fronte a dolorose defezioni di carattere ecclesiale o sociale, noi, come Pietro, ci sentiamo spinti ad andare a Lui, come a unica salvezza, e a gridargli: «Domine, ad quem ibimus? verba vitae aeternae habes» (Io. 6, 68). Solo Lui è la verità, solo Lui è la nostra forza, solo Lui la nostra salvezza. Da lui confortati, proseguiremo insieme il nostro cammino. Ma oggi, in questo anniversario, noi vi chiediamo anche di ringraziarlo con noi, per l’aiuto onnipotente con cui ci ha finora fortificati, sicché possiamo dire, come Pietro, «nunc scio vere quia misit Deus angelum suum»( Act. 12, 11) Sì, il Signore ci ha assistiti: noi lo ringraziamo e lodiamo; e chiediamo a voi di lodarlo con noi e per noi, per l’intercessione dei Patroni di questa «Roma nobilis» e di tutta la Chiesa, su di essi fondata. O Santi Pietro e Paolo, che avete portato nel mondo il nome di Cristo, e a Lui avete dato l’estrema testimonianza dell’amore e del sangue, proteggete ancora e sempre questa Chiesa, per la quale avete vissuto e sofferto; conservatela nella verità e nella pace; accrescete in tutti i suoi figli la fedeltà inconcussa alla Parola di Dio, la santità della vita eucaristica e sacramentale, l’unità serena nella fede, la concordia nella carità vicendevole, la costruttiva obbedienza ai Pastori; che essa, la santa Chiesa, continui a essere nel mondo il segno vivo, gioioso e operante del disegno redentivo di Dio e della sua alleanza con gli uomini. Così essa vi prega con la trepida voce dell’umile attuale Vicario di Cristo, che a voi, o Santi Pietro e Paolo, ha guardato come a modelli e ispiratori; e così custoditela, questa Chiesa benedetta, con la vostra intercessione, ora e sempre, fino all’incontro definitivo e beatificante col Signore che viene.
Amen, amen.