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INTRODUZIONE ALL’EBRAISMO – RAV RICCARDO DI SEGNI

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INTRODUZIONE ALL’EBRAISMO – RAV RICCARDO DI SEGNI 

Rabbino capo di Roma

Tra le grandi religioni monoteistiche quella ebraica è la più antica. Il suo contributo alla storia delle religioni e alla evoluzione spirituale dell’umanità è essenziale. Le altre due grandi religioni monoteistiche, Cristianesimo ed Islamismo, che raccolgono centinaia di milioni di fedeli in tutta la terra, nascono dalla matrice ebraica, a cui attribuiscono valore sacro, e dalla quale traggono continua ispirazione negli aspetti fondamentali delle proprie istituzioni religiose. Una lunga storia tormentata e una cronaca, purtroppo ancora attuale, di polemiche e incomprensioni tende a sottolineare soprattutto le diversità che separano questi mondi religiosi; ma in una prospettiva più distaccata queste differenze sono certamente di minore importanza rispetto al complesso dei valori comuni da tutti e tre i gruppi condivisi, e che per unanime riconoscimento hanno il loro fondamento nella religione ebraica.

Il contributo del pensiero ebraico alla fondazione della società moderna non si esaurisce in prospettive strettamente religiose, ma si estende in altri ambiti, come quello civile e politico: l’esigenza di fondare una giusta società, e la tensione ad un rinnovamento « messianico » hanno precise radici nella Bibbia ebraica, e sono state trasmesse con forza e continuamente dagli ebrei sparsi in tutto il mondo. Infine la drammatica evoluzione storica che ha fatto degli ebrei il simbolo dell’uomo perseguitato in quanto diverso, ha rappresentato per le coscienze più nobili il segno distintivo di una condizione di imbarbarimento e di negatività sociale, contro la quale lottare per la liberazione e la dignità umana.
Gli ebrei sono oggi una comunità relativamente piccola dal punto di vista numerico, circa quattordici milioni, secondo stime numeriche che hanno ampie variabili dovute a difficoltà obiettive di valutazione. Secondo le regole interne della tradizione ebraica, ebreo è colui che nasce da madre ebrea, o che si converte all’ebraismo, accettandone la disciplina religiosa. È evidente già in questa definizione che la condizione ebraica non si esaurisce strettamente in una appartenenza religiosa; è piuttosto una appartenenza a una comunità nazionale o etnica che si riconosce in una storia comune; oggi solo una parte degli ebrei si identifica nella religione ebraica, per quanto ne accetti, in gradi molto diversi di partecipazione, le idee fondamentali o i modelli di comportamento prescritti dalla tradizione. La società occidentale è abituata a definizioni precise, a dogmi, alla necessità di inquadramenti dottrinali; la condizione ebraica, che ha remote radici storiche, provenienti da un ambito geografico e culturale molto diverso da quello da questa società, si inserisce con difficoltà nelle moderne categorie classificatorie, mentre al suo interno rifiuta di formulare, tranne che in rarissime eccezioni, principi dogmatici e verità assolute; e questo vale in primo luogo per il problema dell’identità ebraica, almeno per come viene avvertito nella realtà quotidiana degli ebrei.
Gli ebrei di oggi sono gli eredi e i continuatori, fisici e spirituali, di una comunità nazionale e di una esperienza religiosa che ha almeno tre millenni di storia. Parlando di millenni, l’approssimazione è d’obbligo; se da un lato il testo fondamentale dell’ebraismo, la Bibbia, cerca di dare notizie in un certo senso precise sui tempi e sui modi di svilupo di questa esperienza, è da tener presente che esiste una tradizione critica -nata e sviluppata in particolare nel modo protestante tedesco- che mette sistematicamente in discussione la validità delle notizie che l’ebraismo dà delle sue origini, e quindi ne sposta le date e le circostanze, mettendo in dubbio anche concetti finora ritenuti per scontati. Secondo la narrazione biblica l’ebraismo nacque in un’epoca intorno al XIV-XV secolo prima dell’era volgare con Abramo, un nomade pastore originario di Ur dei Caldei, città mesopotamica di controversa identificazione. Abramo arrivò nella terra allora detta di Canaan, dal nome del popolo che l’abitava, e che dieci secoli dopo i Greci avrebbero iniziato a chiamare Palestina, dai Filistei, il popolo che vi si era insediato dal XII secolo nelle sue regioni costiere. Per gli ebrei il nome di questa terra rimarrà a lungo quello di Canaan, per poi divenire, fino ad oggi, la terra d’Israele. Delle origini di Abramo la Bibbia quasi tace, e da qualche traccia del testo non si può escludere una sua condizione elitaria; egli assume la qualifica di ‘ivrì , da cui in lingua italiana ebreo, che trasmetterà ai suoi discendenti. In base ad alcuni documenti archeologici oggi si sa che un nome simile, hapiru, designasse nella società dell’epoca una classe sociale instabile, costituita da fuoriusciti privi di diritti; ma secondo la Bibbia il termine può indicare il discendente di ‘Ever, o colui « che viene dall’altra parte »: parte del fiume, in senso geografico, o in senso metaforico l’altra parte della società, essendo Abramo colui che ha operato una scelta che lo distingue da tutti gli altri. La scelta di Abramo è quella di porsi al servizio fiducioso e rischioso di un unico Dio, abbandonando il culto degli idoli e tutto il suo mondo originario; in compenso Dio gli promette, con un patto vincolante, una discendenza numerosa come le stelle del cielo, il possesso della terra dove si è recato, abbandonando tutti, e una benedizione continua che da lui e dalla sua discendenza si irradierà a tutte le famiglie della terra. La Bibbia poi racconta le vicende della famiglia di Abramo, del figlio Isacco, e del nipote Giacobbe; quindi dei dodici figli di questi, che saranno i capostipiti delle dodici tribù di Israele. Giacobbe con i suoi figli emigrò in Egitto, dove un altro figlio, Giuseppe, era divenuto ministro del Faraone, e così si chiuse l’epoca detta patriarcale. Giacobbe, lottando contro una figura angelica in un episodio pieno di simboli profondi e oscuri, si conquistò un nuovo nome, Israel, « colui che ha lottato con Dio », ed è riuscito a vincere. Da quel momento la comunità sarà definita con il nome, forse più nobile, di « figli di Israele », o semplicemente di Israele. Sempre seguendo il racconto biblico, dopo un breve periodo di benessere egiziano, gli ebrei, che nel frattempo erano cresciuti numericamente fino a diventare un popolo, vennero sottoposti a una dura schiavitù dai Faraoni per un periodo di uno-due secoli, e quindi liberati per intervento di un grande capo, Mosè. Questi condusse il popolo nel lungo cammino tra l’Egitto e la terra promessa, fermandosi alle falde del monte SInai per ricevere la legge divina. Dopo quarant’anni di permanenza nel deserto Mosè morì, e il popolo entrò nella terra promessa, che riuscì a conquistare parzialmente, sotto la guida di Giosuè. Con Giosuè inizia l’epoca detta dei Giudici, capi politici, militari e giudiziari che secondo le necessità contingenti unirono le tribù, o una parte di esse, per contrastare una minaccia esterna. All’unità nazionale si arrivò piuttosto tardivamente con la fondazione della monarchia unificata; il primo re fu Saul, a cui succedette David, di un’altra famiglia, che dette origine a una linea dinastica permanente. Il regno di David è collocato dagli storici all’inizio del primo millennio. La presentazione biblica della più antica storia ebraica è ampiamente e variamente contestata dai critici, che arrivano da un lato a negare qualsiasi realtà storica alle scelte religiose che la tradizione attribuisce ad Abramo e all’epoca patriarcale, dall’altra proseguono negando tutta la storia della schiavitù egiziana, dell’uscita dall’Egitto e della conquista della terra di Canaan; secondo opinioni che attualmente circolano con insistenza tra gli studiosi (e che ovviamente sia i tradizionalisti ma anche i critici meno estremistici non accettano) il popolo ebraico si sarebbe formato originariamente nella terra di Canaan, fondendo genti di varie origini, e inventandosi miticamente l’intera storia patriarcale, della schiavitù e della conquista. L’unica storia vera e verificabile, in questo tipo di approccio, è quella che ha riscontri nei documenti archeologici e storici dei popoli vicini, e ciò è possibile solo con gli inizi del regno.
Dopo la morte del figlio di David, Salomome, il regno unito si divise in due; la parte settentrionale prese il nome di regno d’Israele e la meridionale di regno di Giuda (dal nome della tribù principale che lo costituiva; di qui Giudea, per designare la regione, e anche Giudei per indicare fino ad oggi gli ebrei come i discendenti sopravvissuti di questo regno). Il regno di Israele finì nel 720, per opera degli Assiri, e i suoi abitanti deportati si dispersero senza lasciare probabilmente alcuna traccia; da allora solo il regno di Giuda rappresentò la continuità dell’ebraismo. Anche questo regno viene distrutto, nel 586, dai Babilonesi; i suoi abitanti portati in esilio in Babilonia, tornarono in parte a partire dal 538, con l’editto di Ciro. A Gerusalemme venne edificato un nuovo Tempio, e la Giudea restò sotto il dominio persiano. Tutta l’epoca dei regni, e l’inizio dell’epoca del secondo Tempio, sono contrassegnate da una intensa attività culturale e una produzione spirituale notevole, che culminò nell’azione dei profeti, che espressero al massimo le potenzialità religiose dell’ebraismo biblico. Secondo l’idea tradizionale i libri biblici sono stati scritti nell’epoca dei fatti narrati; secondo la critica sono molto più tardi, ma in ogni caso la scrittura dei libri del Pentateuco e delle opere profetiche avrebbe avuto il suo compimento all’inizio del secondo Tempio.
Nel 332 Alessandro conquistò la regione, che quindi passò sotto il dominio dei Tolomei e poi dei Seleucidi; nel 174 con la rivolta dei Maccabei la Giudea iniziò ad avere una relativa indipendenza, che avrebbe progressivamente perduto con l’arrivo dei Romani. Nel 70 dell’era volgare il Tempio di Gerusalemme venne distrutto da Tito; nel 135 l’ultima rivolta giudaica contro i Romani fu definitivamente domata nella repressione più brutale. Da allora gli ebrei non ebbero più unità statale, e si dispersero progressivamente per il mondo. In verità la Diaspora, la dispersione degli ebrei, era già una realtà nel primo secolo prima dell’era volgare, ma con la distruzione del Tempio e la perdita dell’indipendenza politica ebraica divenne una condizione negativa e inevitabile, senza tutela giuridica e quindi sempre più contrassegnata da discriminazioni, sofferenze e persecuzioni. Con il trionfo politico del cristianesimo, agli inizi del quarto secolo, i rapporti di questo con l’ebraismo, tesi fin dalle origini, si tradussero nella formulazione, sempre più sistematica, di una ideologia oppositoria e quindi di sistemi giuridici di vessazione e avvilimento. Secondo il Cristianesimo il ruolo dell’ebraismo si era esaurito con l’avvento di Gesù, il Messia annunciato dalle scritture bibliche; da allora l’ebraismo non poteva essere altro che una parvenza di sè stesso, al quale tuttalpiù poteva essere riconosciuto il ruolo di testimone inconsapevole della verità del Cristianesimo, e come tale, almeno parzialmente, tollerato in attesa della sua conversione. La civiltà cristiana espresse di conseguenza nei confronti dell’ebraismo una ideologia molto poco tollerante, e nei fatti ciò produsse nel corso dei secoli discriminazioni, espulsioni e massacri. Diverso per molti aspetti fu il rapporto con la religione Islamica, che fu capace di elaborare nei confronti dell’ebraismo un sistema di relativa tolleranza, nel quale pure vi furono espulsioni e massacri, ma in misura relativamente modesta se confrontati con quelli della storia cristiana. In ogni caso la tolleranza musulmana arrivò a tollerare l’ebreo in quanto diverso, di rispettabili origini, ma pur sempre come sottomesso, mai come persona di pari dignità. La lunga storia del rapporto difficile del mondo con gli ebrei culminò in questo secolo con la persecuzione nazista, nel corso della quale sei milioni di ebrei, pari a un terzo del popolo ebraico allora vivente, venne massacrato. A tre anni dalla fine della guerra mondiale, nel 1948 un altro evento decisivo ribaltò la storia ebraica, con la fondazione dello Stato d’Israele, creato per volontà del movimento sionista, che proponeva in forma politica l’antico ideale della raccolta delle Diaspore. Il resto è storia recente di vivissima attualità quotidiana.
Se per la antica teorizzazione cristiana l’ebraismo aveva praticamente cessato di vivere spiritualmente con la nascita di Gesù, la realtà dei fatti è radicalmente diversa. I primi secoli dell’era volgare sono contrassegnati da una produzione culturale, che ha come protagonisti i rabbini, cioè i maestri della tradizione giuridica e spirituale di Israele, che elaborarono e sviluppano un enorme patrimonio morale e giuridico. L’ebraismo stesso cambiò aspetto, per effetto degli avvenimenti di cui era stato vittima. Nell’anno 70 la distruzione, da parte dei Romani, del Santuario di Gerusalemme privò l’ebraismo del centro fisico della sua vita cultuale, nella quale avevano una importanza essenziale i riti sacrificali e l’osservanza di pratiche di purità, e dei quali erano protagonisti e custodi i sacerdoti: tali si è, nell’ebraismo, per nascita, discendendo dalla stirpe sacerdotale di Aron, fratello di Mosè. Nel momento in cui l’ebraismo politico si avviava alla tragedia della sua distruzione si avvertì il rischio che questa rovina potesse trascinare con sè anche il mondo spirituale e religioso dell’ebraismo. Rabban Jochannan ben Zakkai, il capo spirituale della sua generazione, decise di assumersi la responsabilità di venire a patti con i Romani e di salvare il salvabile. Fuggì da Gerusalemme assediata con uno stratagemma: fece annunciare la sua morte e si fece portare fuori dalla città in una bara. Riuscì quindi a parlare con Tito, e gli strappò la concessione di una zona franca nella quale poter insediare il Sinedrio, il massimo tribunale rabbinico, e continuare la trasmissione della cultura ebraica attraverso lo studio e l’insegnamento. Fu così possibile riorganizzare un mondo religioso che doveva trovare la sua nuova identità dopo che alcune sue strutture essenziali, legate al Santuario, erano venute a mancare. Fu questo l’epilogo di una lunga storia di contrapposizioni tra i due poli culturali e religiosi dell’ebraismo, quello sacerdotale e quello rabbinico. Il rabbino, a differenza del sacerdote, non è tale per nascita, ma è un maestro della dottrina religiosa, che è arrivato a questa dignità con lo studio e con la pratica di una condotta esemplare. Con la distruzione del Tempio, finito il ruolo del sacerdozio (in senso pratico, anche se tuttora i sacerdoti nell’ebraismo esistono, senza le funzioni di un tempo), furono i rabbini ad assumere la guida culturale e spirituale dell’ebraismo.
Da questa opera grandiosa, che si compì nel quinto secolo, nacque la letteratura talmudica, che fu la base delle elaborazioni successive. Nei secoli seguenti ogni generazione fu segnata dalla presenza di grandi personalità dello spirito che svilupparono in diversi aspetti le potenzialità religiose dell’ebraismo: dall’aspetto rituale e giuridico a quello filosofico, fino a quello del fervore religioso e all’esperienza mistica. Quest’ultima, dopo essere stata per secoli patrimonio di pochi, nel XVIII secolo in Europa Orientale riuscì a coinvolgere, con il movimento chassidico, grandi masse in espressioni di intensa spiritualità, che ancora oggi ispirano e dirigono la vita religiosa di ampie fascie di comunità ebraiche.
Anche in una evoluzione storica così lunga e articolata è possibile mettere in evidenza alcuni punti essenziali e comuni che rappresentano le basi fondamentali dell’ebraismo. La più importante è l’idea monoteistica. Questa idea apparve nell’antichità come una vera e propria rivoluzione, forse preannunciata da alcune intuizioni presso gli egiziani, ma che solo nella cultura ebraica trovò uno sviluppo fecondo e costante, una fedeltà assoluta, insieme alla determinazione storica a mantenerla e a mantenerla a ogni costo. Il Dio in cui crede Israele è l’unico ritenuto possibile, creatore di tutta la realtà esistente, che non ammette alcuna divisione di ruoli; non esiste aldifuori di Lui alcun altro dio; gli idoli in cui l’uomo pone fiducia non hanno senso, non hanno fondamento. Nulla può esistere senza di Lui, mentre Egli preesiste alla creazione e a ogni realtà. Fin dalle origini l’ebraismo immagina questo Dio come unico non solo nel suo ruolo, ma anche nella sua essenza; e per quanto nella Bibbia si moltiplichino le espressioni antropomorifche, che rappresentano simbolicamente gli interventi divini sulla terra, è chiara la coscienza che la realtà divina non ha nulla a che fare con quella materiale e umana; è infinita, assolutamente spirituale e incorporea, non rappresentabile: ogni immagine che se ne pretenda di fare è una terribile offesa, un tentativo di rapportare alle dimensioni umane un’essenza che per definizione non le appartiene. Ma qui l’idea ebraica sviluppa il suo paradosso essenziale: se da un alto la realtà divina è assolutamente superiore e diversa da quella umana, al punto che non sarà mai possibile arrivare a comprenderla nel suo aspetto più profondo; dall’altra l’ebraismo pretende che questa realtà sia, per quanto imperscrutabile, estremamente vicina all’uomo. In molti sensi differenti, iniziando dall’essenza stessa dell’uomo, che è creato a immagine e somiglianza divina, concetto che si esprime nelle sue qualità intellettuali, nella sua dignità, nella possibilità di scelte morali, nella parola, nelle capacità di dominare la realtà e di trasformarla; quindi nel governo divino della storia, per cui si ammette, anzi si sostiene con forza, l’idea di un intervento continuo da parte di Dio nelle vicende umane. Ciò si esprime in vari modi: nell’insegnamento agli uomini di una strada corretta da seguire, e nell’illuminazione di personalità eccezionali che comunicano agli uomini questi insegnamenti in momenti speciali; poi nella garanzia di un ordine in cui la giustizia e la rettitudine siano conservati. L’ebraismo crede nel concetto della ricompensa e della punizione, e vede in Dio il garante di questo ordine, che privilegia la giustizia. Forti di questa fede, per secoli gli autori ebrei, dal libro di salmi a Giobbe, alla letteratura rabbinica, fino ai pensatori della nostra epoca, hanno cercato di trovare una tormentata risposta al problema della sofferenza del giusto in questo mondo. La questione della ricompensa è stata risolta in vari modi: pensando ad esempio a una realtà successiva e diversa da quella di questo mondo, riservata come premio ai giusti; oppure elaborando una concezione divina come criterio assoluto, stimolo e modello da imitare nella promozione della dignità umana; o evitando di affrontare direttamente il problema, avvertendo la realtà quotidiana, anche nei suoi aspetti negativi, come segno di una volontà che per noi è incomprensibile, ma che è pur sempre giusta. Solo raramente, e forse di più nella nostra epoca, dopo Auschwitz, è stata messa in dubbio la tutela divina sulla storia.
Ma il Dio adorato da Israele non è soltanto, come si è soliti pensare, il terribile garante della giustizia e il tremendo e collerico punitore degli empi. Questa è un’immagine distorta e parziale, che l’ebraismo ha ricevuto dalle polemiche antiebraiche di alcuni circoli cristiani, che hanno voluto delineare una presunta opposizione tra il Dio dell’Antico Testamento, vendicativo e collerico, e quello del Nuovo, fatto di solo amore. In realtà nell’una e nell’altra tradizione Dio è giustizia e amore. Basti leggere per l’Antico Testamento la splendida parabola dell’ultimo capitolo di Giona, in cui Dio insegna che il mondo non si può reggere sulla sola giustizia, e che Dio è un padre misericordioso, che ha pietà per tutte le sue creature. Amore e giustizia sono i prototipi dei due attributi divini con i quali la tradizione rabbinica immagina la presenza, che per la mente umana è apparentemente contradditoria, della realtà divina nella storia, dalla creazione (che fu atto d’amore, perchè sulla sola giustizia il mondo non avrebbe potuto resistere un solo istante), alla vicenda quotidiana.
Secondo la concezione ebraica la volontà divina sulla terra si realizza e si esprime secondo un programma preciso, che è stato consegnato all’uomo. Questo programma ha un nome, è la Torà, l’insegnamento divino, e si identifica inizialmente con la prima parte della Bibbia, il Pentateuco. In questo libro sono narrate e interpretate in chiave religiosa le vicende essenziali che segnano la vocazione del popolo ebraico al servizio divino. Una piccola tribù di pastori seminomadi, diventata popolo e soggetta in schiavitù in Egitto, si immagina come legata ad una missione speciale nei confronti dell’umanità da un vincolo che ha stretto con il Dio di cui i suoi patriarchi hanno cominciato a scoprire l’esistenza. Questo vincolo è il patto, o meglio una serie di patti che Israele strinse con Dio, stabilendo un impegno per tutte le generazioni successive. Da un lato Israele riconosce Dio come il suo Signore, e si impegna a osservarne la volontà, che è quella espressa nei comandi della Torà; dall’altra Dio sceglie Israele come suo popolo, lo considera un reame di sacerdoti, e gli promette, in una terribile sfida storica, il bene e il male che possono nascere da una scelta e da un impegno superiore. L’elezione di Israele non è un dono incondizionato, ma una sfida e una provocazione continua, che comportano un prezzo altissimo. Un insegnamento rabbinico sostiene che Dio ha fatto tre buoni doni ad Israele, ma tutti quanti a prezzo di grandi sofferenze: la Torà, la terra d’Israele, il mondo futuro. Tra le poche consolazioni, è la coscienza di Israele, che anche nelle peggiori circostanze sa che l’impegno divino non è rinunciabile nè soggetto a ripensamenti, e che Dio quindi non potrà mai lasciare il suo popolo e svincolarlo dal suo patto. Israele si considera come « un reame di sacerdoti » rispetto all’umanità, nel senso che si è imposto, come tutti coloro che sono sottoposti a servizi speciali, una disciplina aggiuntiva che gli altri non devono o vogliono avere. Da questi presupposti nasce una dottrina articolata sui rapporti con gli altri popoli e le altre fedi, che ha già notevoli espressioni nei libri profetici della Bibbia e che poi la tradizione rabbinica sviluppa. Vi sono elementi particolaristici, insieme a visioni di respiro universale. L’umanità tutta è chiamata da Dio, e l’elezione di Israele non esclude altre elezioni. Solo che la disciplina imposta ad Israele, che si esprime nei 613 doveri o precetti che sono prescritti dalla Torà, non deve essere necessariamente condivisa da altri. Per tutti i popoli, che vengono chiamati tecnicamente i « noachidi », cioè i discendenti da Noè, sopravvissuto con la sua famiglia al diluvio, c’e ugualmente una strada aperta per un rapporto sacro con Dio e per conseguire la pienezza dei beni e la benedizione che non è esclusiva per Israele, ma di cui Israele si considera solo un annunciatore e un promotore. Ai popoli della terra per arrivare al livello di « giusti » sarà sufficiente il rispetto una normativa essenziale, che nella tradizione rabbinica è stata riassunta in sette principi, che riguardano il rapporto con Dio (rifiuto dell’idolatria e della bestemmia), con gli altri uomini (divieto di omicidio e di furto, costituzione di tribunali) e il rispetto dell’ordine « naturale » (morale sessuale essenziale, rispetto degli animali).
L’ebraismo ha sempre avvertito, fin dalle origini, la tensione tra le realtà oggettiva del momento e il desiderio di vedere realizzate tutte le sue speranze e i suoi ideali. Molti ideali hanno un senso concreto: per quanto riguarda Israele, la fine della suadispersione e della sofferenza in mezzo alle nazioni del mondo, e il ritorno dei dispersi nella terra d’Israele; l’esigenza di una società fondata e dominata dalla giustizia, sia all’interno del popolo d’Israele, sia più in generale nei rapporti tra le nazioni del mondo; la fine delle violenze e degli strumenti di violenze; di qui progressivamente la prospettiva ideale si allarga su immagini escatologiche di redenzione universale e totale. Tutte queste speranze hanno un nome comune, messianesimo, da « messia » che in ebraico indica l’attributo del re, che saprà fondare la società giusta. È importante rilevare che nella Bibbia ebraica, così come nella tradizione successiva, non esiste una formulazione unitaria di queste idee, che convivono anche con molte contraddizioni e opposizioni. Ma l’elemento comune in tanta diversità è la coscienza dell’imperfezione, la costanza della tensione, che segna la vita dell’ebreo con un anelito continuo al rinnovamento.

« L’ALFABETO EBRAICO, PROTOPLASMA DEL CREATO » DI RAV LUCIANO CARO

http://www.keshet.it/rivista/sett-ott-03/pag9.htm

« L’ALFABETO EBRAICO, PROTOPLASMA DEL CREATO » DI RAV LUCIANO CARO

L’ebraico appartiene al ramo nordoccidentale delle lingue semitiche, ramo che comprende il cananaico, l’aramaico e l’ugaritico. Gli studiosi sostengono che l’ebraico fa parte del ceppo cananaico assieme al fenicio e al moabitico. Tutti questi linguaggi derivano dal cosiddetto protosemitico.
Ebraico e aramaico sono i tradizionali veicoli linguistici della cultura rabbinica dei primi secoli dell’era volgare e godono di uno statuto simbolico di eccezionale dignità: per entrambe queste lingue si usa infatti l’alfabeto ebraico, le cui lettere sono, per il mistico, cifra conoscitiva dell’intero cosmo. Essendo l’idioma con cui è scritta la Bibbia, l’ebraico è considerato lingua sacra. Secondo la tradizione, l’ebraico era lingua parlata da tutta l’umanità fino a quando, dopo la costruzione della Torre di Babele, si suddivise in settanta linguaggi.
In quanto strumento adoperato dall’Eterno per creare l’universo, l’ebraico possiede qualità soprannaturali. Addentrarsi nella tradizione segreta dell’ebraismo significa, dunque, in primo luogo prestare ascolto a un pensiero che costruisce sulle lettere il fondamento stesso della conoscenza. Le lettere ebraiche sono depositarie della potenza divina e convogliano nel reale l’impulso della creazione: un legame indissolubile le unisce ai diversi nomi di Dio che con esse sono composti ed è da tale vincolo che esse traggono il loro sovrannaturale vigore. Questa nozione di potenza della lettera riveste, nella tradizione ebraica, un valore assoluto che coinvolge tutti i gradi dell’esperienza umana, sino a scendere nel livello più profondo dell’essere.
L’esistenza di un collegamento tra i diversi livelli della realtà ci introduce in un dominio di carattere magico che non cessa, lungo i secoli, di esercitare la propria attrazione sui mistici ebrei. All’interno di questa struttura simbolica sono possibili vari livelli di lettura e di approfondimento, dalla più astratta riflessione mistica sino alla concreta operatività della magia. Una lettera ebraica può assurgere alla funzione di icona di meditazione, diventando lo spunto per esperienze estatiche, oppure può essere utilizzata nel suo immediato valore pratico, poiché magia e mistica della scrittura sono entrambe espressioni di quel meccanismo di attrazione e repulsione che coinvolge ogni cosa.
L’alfabeto ebraico è certamente parte rilevante della vita quotidiana dell’ebreo. È attraverso l’alfabeto che avviene il primo impatto con molteplici forme di coinvolgimento con la cultura e la tradizione, a partire dal mondo della preghiera e dello studio del testo biblico.
L’alfabeto ebraico (Alef – Bet) è composto di ventidue lettere a cui vanno aggiunte cinque lettere finali. Il carattere quadrato attualmente in uso è diverso dall’antica scrittura ebraica. La tradizione sostiene che Ezra abbia adottato la forma attuale al ritorno dall’esilio babilonese, mentre i caratteri più antichi avevano connotazioni diverse. Non tutti accettano questa opinione giacché la forma delle lettere, in quanto sacra, è considerata originaria.
C’è chi ricava messaggi dall’allitterazione dei nomi di ogni singola lettera e chi, partendo dal fatto che ogni lettera possiede un valore numerico, interpreta ogni parola rilevando il valore dalla somma delle lettere che lo compongono. Si possono così mettere in relazione parole o locuzioni che hanno lo stesso valore numerico (ghematrià). L’energia racchiusa nelle lettere è il legame nascosto della molteplicità dell’esistere e la ragione ultima del divenire. La dottrina ebraica dell’alfabeto rappresenta un vero e proprio progetto di conoscenza, un metodo dinamico per rendere ragione del fluire dell’esperienza e dell’infinito comporsi e scomporsi delle realtà individuali.
L’idea che l’alfabeto sia non solo uno strumento di denominazione ma anche il mezzo per controllare la realtà e intervenire su di essa, testimonia una riflessione linguistica che affonda le radici in un’epoca assai remota. Un gran numero di reperti materiali – provenienti dal bacino del Mediterraneo, da tutta l’area vicino-orientale e persino dalle zone più remote dell’Impero romano – testimonia la straordinaria diffusione dell’uso apotropaico e magico dell’alfabeto a partire dal 2° secolo E.V. Questo orientamento culturale mantenne il proprio vigore fino al 7° secolo E.V., quando il progressivo affievolirsi della tradizione aramaica in Oriente, a seguito della conquista islamica, tolse alla mistica dell’alfabeto un importante sostegno linguistico. Allo stesso modo, vennero a mancare alcuni fondamentali riferimenti teorici a causa dello spegnersi, in Occidente, dell’eredità gnostica ed ermetica, soffocata dalla drastica avversione cristiana. Solo l’esoterismo musulmano e la Cabalà mantennero una fedeltà ininterrotta all’antica speculazione sull’alfabeto.
La pratica di intervenire sul reale mediante il ricorso agli appellativi sacri e a combinazioni di frasi o di singole lettere tratte dalla Scrittura, rappresenta un aspetto rilevante quanto controverso della speculazione ebraica. Già il Talmud babilonese determina con meticolosità i casi in cui è lecito svelare i diversi nomi di Dio. Nel testo biblico non si fa cenno alla denominazione di ogni singola lettera. È nel Talmud che si cerca di attribuire un significato al nome delle lettere, spesso in relazione alla loro forma e all’ordine in cui sono collocate nell’alfabeto. Alla successione delle lettere sono attribuiti significati di valore etico (Shabat 104).
Il Talmud (Menahot 29) attribuisce a Rabbi Akivà (2° secolo E.V.) lo studio della scienza delle lettere, che è il cardine simbolico del pensiero ebraico e trova nell’Alfabeto da lui scritto l’esposizione narrativa forse più compiuta. Questo testo è noto anche come Lettere (Otiot) di Rabbi Akivà e apparve per la prima volta a stampa a Costantinopoli senza data, ma questa edizione viene fatta risalire probabilmente al 1516 o al 1525. Ogni lettera dell’alfabeto è raccontata nei suoi aspetti sonori e formali con grande ricchezza di particolari: l’espediente dell’acrostico, al quale il testo largamente ricorre, consente di ampliare in maniera straordinaria le combinazioni dei versetti della Scrittura, aprendo la prospettiva di inesauribili significati e nessi allusivi, non solo per quanto attiene agli aspetti fonetici, ma soprattutto per la loro valenza metafisica. Rabbi Akivà si soffermò altresì nella disamina dei cosiddetti ornamenti delle lettere dell’alfabeto e formulò osservazioni sul significato delle curve, degli apici e dei singoli elementi attinenti alla forma. Pare che questa scienza abbia tratto origine da una tecnica pedagogica usata per l’insegnamento della scrittura ai bambini.
È stato osservato che l’alfabeto ebraico ha caratteristiche che lo differenziano da tutti gli altri. Infatti, gli alfabeti relativi ai vari linguaggi sono costituiti da una raccolta di segni grafici disposti o casualmente o secondo convenzioni derivanti da considerazioni di comodità o utilità, per cui, al loro interno, sarebbe possibile variare la successione delle singole lettere. La tradizione attribuisce all’alfabeto ebraico un valore non riscontrabile in altre culture. In esso ogni lettera, oltre alla forma grafica e al valore numerico, ha una specifica collocazione. L’Alef – Bet non è tanto una sequela di segni grafici quanto piuttosto rappresentazione della realtà che, ove avvenisse la più lieve variazione della rappresentazione delle lettere, potrebbe modificarsi o alterarsi. Da questa considerazione deriva la normativa per cui, nella scrittura del testo biblico, occorre procedere con particolare cautela.
Ogni variazione nella scrittura di ciascuna lettera, ogni aggiunta o sottrazione di un singolo elemento, può rendere inutilizzabile il testo, in quanto ne deforma il significato. Si legge nel Talmud: « R. Meir raccontava: Quando incontrai R. Yshmael questi mi domandò: ‘Qual è la tua occupazione?’ Risposi: ‘Lo scriba’. E il Maestro: ‘Fai bene attenzione al tuo lavoro che è opera divina. Se tu aggiungessi o togliessi una sola lettera dal testo, potresti causare la distruzione dell’universo’ » (Eruvin 13).
Il Libro dei Proverbi termina con un brano (31,10-31) nel quale viene esaltata la donna virtuosa. Il passo comprende ventidue versi disposti in ordine alfabetico, segno di ordine e di completezza, quasi a sottolineare che la donna, più facilmente dell’uomo, può pervenire ad alti livelli di vicinanza con Dio. È significativo il fatto che, secondo alcuni Maestri, il brano può essere riferito non solo alla donna ma alla Provvidenza, al Sabato o all’anima dell’uomo.
Come si è detto, la prime considerazioni su ogni singola lettera possono derivare da esigenze di carattere pedagogico o mnemonico. Così, per esempio, la lettera alef è collegata al toro (la forma può evocarne le corna) o alla radice allef che ha il significato di insegnare. La seconda lettera dell’alfabeto, bet, esprime il concetto di casa (bait) anche in relazione alla sua forma di struttura chiusa da tre parti; e così via.
Questa tecnica, è stata poi sviluppata in chiave mistica soprattutto nel Sèfer Yetzirà (Libro della Formazione), una delle prime opere mistiche della tradizione del Maasè Bereshit (Opera della Creazione). Si tratta di considerazioni sulla creazione ispirate al primo capitolo della Genesi, in relazione alle modalità con cui la volontà divina ha prodotto l’esistenza del cosmo. Nei sei capitoli del Sèfer Yetzirà, un’opera risalente al 3° secolo, sono descritti i trentadue sentieri della saggezza che sono alla base del mondo. Questi sono costituiti dalle dieci Sefirot e dalla ventidue lettere dell’alfabeto nelle loro diverse combinazioni.
La struttura di ogni singola lettera riflette tre dimensioni: quella dello spazio, quella del tempo e quella dell’anima umana. L’uomo, considerato un microcosmo, possiede poteri creativi che possono essere impiegati utilizzando una appropriata tecnica di combinazioni delle lettere dell’alfabeto. Il pensiero ebraico oscilla continuamente tra la necessità di attenuare le pretese teurgiche di questa pratica e lo straordinario fascino che essa esercita. Come in molte altre tradizioni culturali, le speculazioni sull’occulto si considerano lecite solo quando sono volte a operare il bene e a favorire le creature, non a danneggiarle. Nel novero delle azioni benefiche rientrano naturalmente la protezione dagli influssi negativi di ogni genere (astrali, demoniaci e umani) e i rimedi alle malattie.
L’usanza di curare le infermità attraverso l’invocazione dei nomi divini conoscerà un’ampia diffusione in epoca post-talmudica, durante il Medioevo e, in alcune aree geografiche, fino alla piena età moderna.
I Maestri della mistica ricavano da ogni dettaglio grafico delle lettere ebraiche molteplici significati, giungendo ad attribuire a esse qualità pressoché umane tanto da riconoscere in ogni lettera la proprietà di possedere un corpo, uno spirito, un’anima (Shabat 104). Le lettere dell’alfabeto sono dunque ideogrammi che esprimono le energie primordiali, il protoplasma del creato o, secondo un’altra definizione, i mattoni della costruzione del cosmo, e l’alfabeto è fonte di energie dinamiche e cosmogoniche. Viene anche proposta una rispondenza tra le lettere dell’alfabeto e le articolazioni del corpo umano. Si sostiene che la conoscenza delle diverse modalità con cui si possono combinare le lettere consente l’avvicinamento dell’uomo a Dio, che ha creato appunto il cosmo attraverso la parola e, pertanto, rende l’uomo capace di realizzare a sua volta forme di creazione. La richiesta dell’Eterno ad Adamo di provvedere a dare una denominazione agli animali creati (Genesi 2,19) può essere vista come conferma del ruolo attribuito all’uomo di prendere parte alla creazione per ciò che attiene a elementi collegati con il linguaggio.
L’approfondimento della conoscenza del valore della parola può portare a meglio comprendere il progetto divino della creazione e spingere l’uomo a comportamenti corretti. Di Bezalel, l’artigiano che fu chiamato da Mosè a sovrintendere alla costruzione del Tabernacolo (Mishkhan) nel deserto, si afferma che: « Sapeva disporre le lettere dell’alfabeto con le quali furono creati il cielo e la terra » (Berachot 55). Il Midrash sostiene che la saggezza di Salomone derivava dal fatto che « Conosceva le lettere divine » (Midrash Mishlè). Questa considerazione può essere accostata a quanto detto a proposito di Bezalel. Infatti, il primo era preposto alla costruzione del Mishkhan e il secondo edificò il Santuario di Gerusalemme.
Un’opera più recente, risalente al secolo 18°, sostiene che: « Se le lettere dell’alfabeto si allontanassero e facessero ritorno alla loro sorgente, tutti i cieli tornerebbero al nulla » (Tanya, Shaar Haichud, 1). Un’eco di questa dottrina è riscontrabile nel Talmud: « Diceva Ravà: ‘Se i giusti volessero, potrebbero creare il mondo. Infatti è scritto: « Sono i vostri peccati a tenere separati voi dal vostro Dio » (Isaia 59, 2). Pertanto, senza peccato non vi sarebbe separazione tra uomo e Dio’ » (Sanhedrin 65). Il passo può indicare che l’uomo è in grado di pervenire a elevatissimi livelli, ove sappia liberare le forze spirituali di cui dispone dalle scorie del peccato. Lo stesso passo talmudico aggiunge che Ravà riuscì a creare un essere umano. E, secondo Rashì lo poté fare per mezzo del Sèfer Yetzirà, che indica come ci si possa servire delle ventidue lettere dell’alfabeto per agire sul creato. L’uomo può utilizzare le energie divine se conosce come servirsene e non si contamina con il peccato.
Le lettere dell’alfabeto svolgono un ruolo centrale anche in un altro tema classico dell’immaginario ebraico, cioè nella figura del golem, che si pone come punto di incontro tra magia e misticismo. La tradizione vuole che il Maharal di Praga (Yehuda Liva ben Bezalel, 1525-1609) sia riuscito a dare vita a un umanoide fatto con l’argilla affinché lo servisse, ma che in ben presto mostrò di possedere poteri straordinari, talvolta pericolosi e malefici.
Lo Zòhar rileva che il termine Israel può essere letto come acronimo della locuzione Yesh Shishim Ribò Otiot laTorà (la Torà contiene seicentomila lettere) (Shir Hashirim). Orbene, seicentomila era il numero degli ebrei usciti dall’Egitto che ricevettero la Torà. È come se ognuno di essi fosse collegato a una specifica lettera del testo. Pertanto a ogni ebreo e a ogni lettera è affidato un compito determinato. Tutti assieme vengono a formare un corpo ricco di potenzialità. Si dice che ogni lettera possiede la facoltà di ridare la vita ai morti e sono molte le tradizioni secondo cui, grazie all’uso delle lettere ebraiche, è possibile guarire e riportare in vita i defunti. Questa affermazione trae forse origine dalla tradizione secondo cui le lettere dei testi sacri sono pressoché immortali. Allorché Mosè spezzò le tavole: « Le lettere si dispersero nell’aria » (Pesachin 87). Analogamente, « Se un Sèfer Torà viene bruciato, le lettere volano nell’aria » (Ozar Hamidrashim).
Il pensiero divino si adorna di ventidue lettere celesti. Nella tradizione cabalistica questo pensiero si sviluppa fino a vedere nelle parole della Torà soltanto uno dei possibili modi di aggregazione delle lettere che la compongono. L’atto creativo si esplica nel misterioso susseguirsi delle lettere che formano l’insegnamento (Torà) dato a Israele, mentre le parole rappresentano solo il primo e più esterno livello di lettura.
La Torà è concepita non solo come raccolta ordinata di prescrizioni rituali e di narrazioni storiche, ma anche come un’ininterrotta serie di nomi divini, quasi un unico Nome di inimmaginabile potenza, dal quale trae origine tutto il portento della creazione: nel suono arcano di questo Nome, le lettere trascendono il limite provvisorio delle parole e mostrano intatta tutta la loro forza creativa. Un Sèfer Torà da cui manchi una sola lettera, o anche una parte di questa, è pasul cioè non adatto all’uso. Ove venisse a mancare una lettera nel testo o un singolo individuo venisse meno alla sua funzione, ne verrebbe compromesso l’equilibrio del cosmo.
Lo stesso Maimonide (1135-1204) noto per la sua visione razionalistica dell’ebraismo, scrive: « Nella Torà sono contenute espressioni che paiono irrilevanti, quali: ‘I figli di Cam erano Cush, Mizraim, Put e Canaan’ (Genesi 10,6); ‘La moglie di Hadar era Mehetavel figlia di Matred’ (Genesi 36,39) o ‘Sorella di Tuval Cain era Naamà’ (Genesi 4, 22), assieme ad altre ritenute di importanza fondamentale quali: ‘Io sono l’eterno tuo Dio’ (Esodo 20,2); ‘Ascolta, Israele’ (Deuteronomio 6, 4). In realtà non c’è differenza per quanto attiene all’importanza dei passi: ‘Tutto è parola divina, tutto è insegnamento divino, integro, puro, sacro e veritiero’ » (Commento alla Mishnà Sanhedrin X, 1).
In un contesto diverso, quello liturgico, Haim Josef Adulai (1724-1806), cabalista vissuto a Livorno e noto come Hidà, nel rilevare che nella preghiera è importante pronunciare correttamente le singole parole, sostiene: « La giusta pronuncia della parola promuove spiritualità e muove l’energia delle lettere determinando nuove forme di luce » (Shem Haghedolim). Di un altro cabalista, Yitzhak Luria (1534-1572) noto come l’Arì, si riferisce questo aneddoto: gli fu rivelato che, per quanto le sue preghiere del giorno di Kippur avessero effetti nei mondi superiori, quelle di un altro ebreo risultavano più efficaci e maggiormente gradite a Dio. Dopo molte ricerche, riuscì a trovare quell’uomo ed ebbe la sorpresa di trovarsi di fronte a un semplice contadino. Gli domandò: « Con quali modalità reciti le preghiere? » E questi: « Io sono ignorante e conosco solo le prime dieci lettere dell’alfabeto. Nel giorno di Kippur recito queste lettere dicendo: « Signore del mondo! Prendi queste lettere e provvedi Tu a formare la parole che Ti sono più gradite! ».
Dunque, nel testo biblico, ogni parola al di là del suo significato letterale, ogni lettera e ogni più piccolo dettaglio di questa, possiedono valenze solo intuibili dall’intelletto umano. »Ogni lettera può essere vista come la materializzazione di concetti astratti, come rivestimento di valori metafisici e strumento per rivelare la vera essenza del creato; una molteplicità di significati il cui numero corrisponde alle possibili combinazioni delle ventidue lettere dell’alfabeto » (Shem Tov B. Shem Tov, cabalista spagnolo del secolo 14°).
« Biancore superiore » è l’espressione con la quale gli antichi testi cabalistici designano lo stato antecedente alla creazione, allorché questa esisteva solo nella mente divina. L’espressione è tratta dalla locuzione « La parte scoperta del bianco » di cui si parla relativamente a Giacobbe (Genesi 30, 37). Le lettere dell’alfabeto, generalmente di colore nero (Midrash Shemuel 5), costituiscono l’inizio dell’intervento di Dio sul biancore primordiale. Questo concetto, difficile da spiegare, si è andato sviluppando nella letteratura cabalistica a partire dal Sèfer Yetzirà. Prima della creazione esisteva nel vuoto assoluto una situazione (il biancore) chiamata anche achdut hashavè (l’unicità di ciò che è uniforme), vale a dire che non esisteva nessun elemento dotato di specificità. Si trattava di una situazione primordiale nella quale il cosmo esisteva solo in potenza, in quanto ancora soltanto immaginato nella mente di Dio. Poi è sopravvenuta l’esplosione della luce: la volontà creatrice trasformò in atto quanto era stato solo immaginato. Tutto ciò si è realizzato per mezzo di lettere non ancora di consistenza materiale e chiamate le « forme dell’utero dell’eternità ». Queste hanno dato vita a una Torà primordiale dalla quale sono scaturiti il tempo, il cosmo e la Torà vera e propria. La scrittura ha assunto così aspetti figurativi, acustici ed emozionali caratteristici dell’alfabeto ebraico e solo di questo.
È stato osservato che pressoché tutte le kinot, vale a dire le elegie liturgiche recitate nei giorni di lutto, sono redatte in forma di acrostico alfabetico. Ma, allorché si realizzerà la redenzione dei tempi messianici, questa scaturirà dall’Alef – Bet. Allora l’umanità intera riprenderà a usare la lingua ebraica: tutti gli uomini faranno uso di un unico linguaggio, quello di cui Dio si è servito per creare il mondo.

Rav Luciano Caro, rabbino capo della Comunità Ebraica di Ferrara e delle Romagne.

 

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 22 juillet, 2015 |Pas de commentaires »

GERUSALEMME MISTERO D’ORO

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GERUSALEMME MISTERO D’ORO

Giacoma Limentani

[Tratto da: Jerushalaim «I nostri piedi stanno alle tue porte, Gerusalemme»
Atti del XVII Colloquio ebraico-cristiano di Camaldoli 1996]

Quando il sole a picco l’inonda scolorandola come il fuoco scolora il metallo che arroventa, Gerusalemme appare nitida e chiara: una carta topografica, una città in cui nessuno potrebbe perdersi né tendere agguati, perché tutto non può che accadervi alla luce del sole. Questo sole che l’illumina adempiendovi alla chiarissima e chiarificante funzione di lume, si chiama shemesh, nome che solo la differenza delle vocali distingue da shammash: inserviente. È il sole che serve a distinguere il giorno dalla notte e la luce dalle tenebre. Se però distinguere il giorno dalla notte è espressione che va intesa nel suo senso più piano e letterale, distinguere la luce dalle tenebre implica un modo di sceverare che, quando separa con troppo immediata nettezza, può indurre smarrimento. Perché la troppa luce annienta le sfumature, e ovunque si trovi contrastata da un muro, dalla curva di una strada, da un panno steso a una finestra o sia pure dal volo di un uccello, genera ombre accecanti: contrasti improvvisi come agguati.
Il sole che così ne scandisce i percorsi e fa di Gerusalemme una città in bianco e nero, si chiama chammà da chom, calore. E questo sole è incandescente come il fuoco che imbianca i metalli con cui si forgiano le armi, mentre comunque vengano usate, le armi deturpano ogni candore col fitto nero del lutto. Certo, ben diversi nelle loro finalità sono il gesto che impugna l’arma per l’offesa e quello che la usa per la difesa, ma le parole offesa e difesa non sono che i due opposti poli della parola guerra, e spesso, troppo spesso nel corso dei millenni, sono stati opposti quanto accecanti convincimenti di agire in nome di ragioni odi fedi vissute come uniche e impareggiabili, a scatenare le guerre che hanno imbrattato di lutto Gerusalemme.
Tremendo fu lo scontro intestino, mentre i romani premevano alle porte, fra gli ebrei che avrebbero voluto scendere a patti per risparmiare almeno il tempio dell’Eterno Dio Vivente, e quelli che invece rifiutavano ogni compromesso proprio in nome della sacralità del tempio. Furono questi ultimi a prevalere per soccombere poi sotto l’urto dei soldati di Roma, a loro volta accecati da una concretezza di pensiero che impediva loro di comprendere e tollerare, perché non poteva non avere in superstizioso orrore l’inafferrabile Dio d’Israele. Quel Dio alieno dalle immagini che raffiguravano tutto ciò cui essi erano usi, e quindi loro stessi e il loro mondo, per porli di fronte all’alterità massima: l’assoluta alterità fra divino e umano. E quando infine le fiamme degli incendi accesi dalle torce romane si incunearono nelle canne del grande organo, dalla crollante dimora terrena del Dio invisibile si levò un urlo disumano che assordò insieme sostenitori dei compromessi e paladini dell’intransigenza, conquistati e conquistatori cementando ognuno nella propria assoluta perentorietà.
Altrettanto perentorio fu, circa un millennio più tardi, lo slancio con cui i crociati scalarono le mura della Città Santa, per redimerne l’anima inondandone però le strade di sangue sia musulmano che ebraico: comunque sangue infedele. Perentorio e ispirato a una fede che si voleva contrita, pur non avendo nulla da invidiare alla protervia romana.
Questi assalti, queste distruzioni, questi massacri non furono i primi ne gli ultimi. Altri li avevano preceduti, altri li seguirono, tutti furono portatori delle atrocità secondarie che sempre fanno da scia a lotte intestine, guerre e dominazioni intransigenti. Quasi ad avvertirne il visitatore ignaro della sua storia, la cittadella di Gerusalemme si presenta chiusa in un anello di lapidi d’ogni tempo e fede. Una casa dei morti stringe d’assedio il cuore palpitante della sua vita, e però circolare come circolari sono i cicli della vita stessa, e disseminata di secolari alberi d’olivo, la pianta che come l’anelito alla pace ha fama di non morire mai. E così come i sempreverdi olivi temperano di speranza il rigore delle sue tombe dalle molte fedi, leggende e simboli d’ogni sorta infiorano le cupe realtà della sua storia.
Leggende e simboli indispensabili a comprendere proprio le realtà della storia, anche e forse tanto più proprio quando ne sfalsano l’oggettività. Perché Gerusalemme, la dimora terrena scelta dall’Eterno Dio il cui sigillo è Verità, non ha mai albergato un’unica verità religiosa. Perfino in seno al solo ebraismo le verità religiose di Gerusalemme si intrecciano osi scontrano spiegandosi oppure negandosi a vicenda, e accavallandosi con ideali laici vissuti come religioni con evidenze innegabili e che pure un’altrettanto innegabile incongruità ammanta di mistero.
Non è per esempio incongruo che in una zona di alture geograficamente strutturate come inespugnabili fortezze naturali, la cittadella di Gerusalemme sia stata eretta su una vetta riarsa e lontana anche dalla più vicina polla d’acqua: l’unica vetta della zona che, come Amos Oz nota nel suo Gerusalemme città di specchi, presenta un lato vulnerabilissimo? Non dovrebbe perciò destare meraviglia che a stabilire su questa vetta la capitale del suo regno e quindi a farne per forza di cose la più intima fortezza, sia stato proprio David, il re guerriero che di assedi e battaglie doveva intendersene? E anche volendo ammettere che David se ne sia invaghito al punto di non poter prendere in considerazione nessun’altra altura, come mai ne a quanti hanno occupato dopo di lui il trono di Giuda, ne ai diversi dominatori che li hanno seguiti è venuto in mente di andarsi ad arroccare su un’altra e davvero inespugnabile vetta?
Quando logica politica e necessità strategica li impongono, i trasferimenti di capitale sono prassi consueta nelle storie degli stati. Gerusalemme deve quindi avere esercitato un fascino irresistibile su chiunque, possedendola e pur non sopportando l’idea di perderla, l’ha voluta lì e così nonostante l’arsura strutturale e la fragilità difensiva. Forse perché l’acqua, spesso paragonata alla purezza della fede sincera, deve essere anche premio di valente, continua conquista, bene preziosissimo che non può darsi per scontato? Perché il lato naturalmente arroccato e inespugnabile di Gerusalemme volta le spalle al tramonto, mentre il suo valico naturale è sempre baciato dal primo sole? Perché questi due elementi insieme sembrano star li a dimostrare che il suo possesso va vissuto come testimonianza di un favore divino da ostentare oppure da ambire?
lo non sono una storica e le realtà storico-geografiche cui accenno mi vengono da libri di storia che non riesco a leggere senza gli occhiali di una riflessione intrisa di leggenda ebraica, come pure di poesia d’amore odi fede. Leggere delle rivalità che hanno avvelenato Gerusalemme, delle stragi che l’ hanno insanguinata, dei tesori che fra una guerra e l’altra le sono stati donati e che di guerra in guerra le sono stati sottratti per essere portati in innumerevoli Babilonie a un tempo più forti e più caduche, comunque avide della sua mistica autorevolezza, è per me vedere un flusso d’ oro che da lei si diparte per andare a riverberare la sua essenza nel mondo intero. Perciò, insieme con William Blake, mi viene fatto di cantare: «Ti do il capo di un filo d’oro, / tu avvolgilo, fanne un gomitolo, / ti guiderà alla porta del cielo / che si apre sopra le mura di Gerusalemme». E perciò pensando a quando il cielo si apre per comunicare con la terra, ricordo che stando all’esegesi rabbinica proprio qui, sotto la porta del cielo, nel luogo stesso dove sorgeranno il tempio e l’altare per le offerte, è stato commesso il primo assassinio.
Il cielo si era già aperto per ricevere i sacrifici dei due primi fratelli, ma solo quelli del pastore Abele che aveva immolato le parti grasse e scelte dei più teneri fra i suoi animali, vi aveva trovato accoglienza. Con cupo rancore l’agricoltore Caino si era visto rifiutare la frutta che pure sapeva di avere colta a casaccio, quasi l’ offerta di un dono non meritasse speciale attenzione.
Dio l’aveva ammonito contro gli irriflessivi moti d’ira: «Attento» gli aveva detto lasciando intendere che per ogni essere umano la porta dell’anima deve essere contigua a quella del cielo. «Attento, il peccato è in agguato alla porta, ma tu devi dominarlo». E lo devi in quanto lo puoi.
L ‘episodio illustra due diversi modi d’intendere e praticare i rapporti con la Divinità e testimonia del pessimo carattere di Caino, ma anche se la Scrittura sembra farne l’introduzione all’assassinio che per primo intrise di sangue la terra di Gerusalemme, può anche non essere letto come sua causa diretta. La tradizione rabbinica separa infatti i due episodi dando dell’assassinio una lettura premonitrice delle passioni che faranno di Gerusalemme una fortezza perennemente contesa: le passioni base di ogni umano eccesso.
In Genesi IV ,8 è scritto: «E disse Caino ad Abele suo fratello, e accadde che mentre erano nel campo, Caino si levò contro Abele suo fratello e lo uccise». Il testo non accenna neppure a quel che Caino avrebbe detto, in compenso i rabbini ipotizzano che parlò anche Abele, e drammatizzano il loro dialogo in tre separate versioni. Una attesta che i due fratelli, unici eredi della prima coppia umana, si erano accordati per spartirsi il mondo: a Caino l’agricoltore era toccata la terra e al pastore Abele i beni mobili. Subito però l’avidità di possesso aveva sconvolto le loro menti. «Gli abiti che indossi sono tessuti con la lana dei miei agnelli! Spogliati!» aveva gridato Abele mentre Caino gli ingiungeva: «La terra su cui cammini è mia! Vola!». Siccome Abele non riusciva a volare, erano venuti alle mani con le conseguenze che sappiamo.
In base alla seconda versione Caino e Abele si sarebbero divisi in parti uguali beni mobili e beni immobili, per trarne poi subito motivo di contesa. «Il tempio sorgerà nel mio territorio!» avevano gridato entrambi, chiaramente intendendo: «Saranno la mia religione e le mie leggi a dominare, e tu o chinerai la testa o te la taglierò». Così introducendo nel mondo l’intransigenza religiosa e la prepotenza politica, si erano scagliati uno contro l’altro e Caino aveva ucciso Abele. Secondo la terza versione erano scesi a vie di fatto per via di Eva che era sì la loro madre, ma era anche l’unica donna esistente al momento, e per quanto possa sembrare strano, proprio questa terza versione getta su Gerusalemme e sulle passioni di cui viene fatta oggetto, una luce tanto più illuminante in quanto squisitamente simbolica.
Punto d’attrazione e d’incontro di culture, fedi, ideali tutti assoluti, tutti determinati a presentarsi come l’unico tanto puramente candido da meritare di possederla, troppo spesso la troppo amata Gerusalemme è stata vittima di malintesi amori. Perché malinteso è l’amore che invece di cercare soprattutto il bene dell’oggetto amato, vuole l’oggetto amato solo per sé, a costo di mandarlo distrutto o di avvelenarne il respiro pur di non cederlo né condividerlo con altri. Città con una storia particolarissima che non si lascia leggere come le storie delle altre città, Gerusalemme è stata ed è amata con la passione esclusiva che si dedica a una moglie, a una madre, comunque al fondamento femminile di una maschile storia individuale.
Lo stesso essere stata tante volte eletta a capitale d’una singola fede in un luogo che l’esibisce a ogni sguardo e quindi a ogni brama senza però garantirle l’imprendibilità, l’accosta a quelle mogli che la superbia di mariti gelosi agghinda e ostenta per metterne alla prova la fedeltà, senza però che venga loro garantita quella pace interiore che è l’unico vero baluardo contro ogni cedimento. E come queste mogli, una volta perdute, diventano specchi di rimorsi e rimpianti, ecco la Gerusalemme vedova e madre di figli esiliati, che nelle Lamentazioni piange in gramaglie sulle rovine del proprio passato splendore, infestate ormai da rovi e scorpioni.
La madre che da gestante è tutt’uno col figlio e poi accetta che dal suo corpo si distacchi, che lo nutre con la propria linfa ma per dargli vita autonoma, che sempre perdona e sempre torna ad accogliere, punto focale di esistenza ed essenza, è per l’ebraismo figura concretamente palese eppure inscrutabile in quanto il rapporto madre-figlio è in se stesso mistero. E non è misterioso il rapporto fra Gerusalemme e i suoi figli ebrei?
Se nasce ebreo chi è figlio di madre ebrea, se nel Libro dei Proverbi l’insegnamento di questa madre è chiamato Torà come la base prima di ogni insegnamento ebraico, se sempre nei Proverbi al figlio viene raccomandato di non distaccarsi da questo insegnamento perché da esso dipende la sopravvivenza dell’intero Israele, ebbene, allora, quanta parte della sopravvivenza d’Israele è dovuta alla grande madre Gerusalemme o, meglio, al ricordo di lei? Soprattutto al ricordo, che insieme con 10 studio della Torà per secoli e secoli ha fatto sì che gruppi di esuli dispersi per il mondo e onnai diversi fra loro per la lingua quotidianamente parlata, per gli abiti, per le golosità gastronomiche e perfino per le caratteristiche somatiche, continuassero a sentirsi parte di un’unità chiamata Israele. Un’unità integra che dal giorno dell’esilio una volta all’anno in coro ha continuato ad auspicare: «L ‘anno prossimo a Gerusalemme!».
I ricordi non sono dati storici e mai persistono immutati. perfino quelli individuali tendono a sfumare e a trasformarsi sotto l’incalzare delle esperienze con cui vengono a contatto. Se poi le esperienze li tingono di rimpianto, diventano dignità, dovere. «La destra mi si paralizzi se ti dimentico, Gerusalemme. La lingua mi si incolli al palato se non ti ricorderò, se non porrò Gerusalemme in cima a ogni mia gioia» canta il salmista esiliato a Babilonia. Dalla Toledo d’inizio millennio Jehudà ha-Levi echeggia: «Il mio cuore è in Oriente e io sono al confine d’Occidente. Come trovare sapore nel cibo? Come può il cibo essere dolce per me? Come potrò adempiere ai miei voti… quando Sion è ancora in ceppi di Edom e io sono qui fra gli arabi in catene?».
Certo né il salmista né Jehudà ha-Levi ignorano le tante parole amare scagliate dai profeti all’ indirizzo di Gerusalemme. Essi però di certo non ignorano neppure che nella città di Gerusalemme i profeti hanno di volta in volta additato il contenitore delle malefatte dei suoi governanti, mentre nel sogno messianico che fa da contrappeso a ogni loro rampogna, una futura Gerusalemme redenta è alveo di armoniose fioriture d’amore e concordia universali. Ebbene, per gli ebrei dispersi le profetiche visioni del futuro si fondono alla nostalgia di un passato che il rimpianto aureola di gloria, e che bisogna sforzarsi d’imitare nella speranza di farne rivivere lo splendore.
Ed ecco che in Spagna, in Italia, in Lituania, ovunque insomma gli ebrei si imbattono in governi che consentono loro di coltivare in relativa tranquillità studi e costumi particolari e particolarmente amati, ecco che in ogni città o centro baciato dalla tolleranza dei gentili nascono innumerevoli, nuove, piccole, fervidissime Gerusalemme. Tesori di libri, ricami, oggetti di culto, speculazioni mistiche e costumi gioiosi, canti conviviali, di fede e d’amore scaturiscono dalle radici enfatiche di queste cittadelle del ricordo, per disperdersi però a uno a uno col ciclico estinguersi delle tolleranze dei gentili. E come dalla Gerusalemme in rovina si era sparso per il mondo il flusso dorato del suo ricordo unificante, dallo spegnersi delle tante Piccole Gerusalemme si dipartono fili e fili che avvolgendosi in gomitoli arrivano alla Gerusalemme bianca e nera della storia, per inondarla col sole dei suoi crepuscoli.
È un attimo quello in cui levandosi oppure tramontando il sole l’investe coi suoi raggi obliqui. In quell’attimo Gerusalemme diventa tutta d’oro, quasi si specchiasse nella città gemella che l’attende alla porta del cielo.
Sogno di aspirazioni alla pace ciclicamente frustrate dalle vicissitudini della Gerusalemme terrena, la Gerusalemme celeste ne è il controluce spirituale, l’esempio, l’invito, lo stimolo. Scenderà su di essa e con essa si fonderà, quando la Gerusalemme terrena sarà capace di elevarsi verso il cielo per raggiungerla. Dal cielo intanto, nel breve attimo dei suoi crepuscoli le legge ogni giorno il Cantico dei Cantici perché, come dice lo Zohar, «unendo fra loro tutti i cantici celesti, questo cantico racchiuse in sé tutti i misteri della Legge e della saggezza, come pure tutti gli eventi passati e futuri». E di Legge e saggezza ha bisogno la Gerusalemme terrena, come pure di ricordare, per costantemente indagarlo, il mistero della propria nascita, quando emerse dalle acque dell’inizio, primo lembo di terra e pietra, ombelico del mondo creato da Elohim.
Ma chi, che cosa è Elohim? Elohim è Dio e Elohim è anche il nome con cui si definisce l’aspetto giudicante della Divinità, quello di cui il Signore dell’universo si avvale per mantenere tutto ciò che è di questo mondo. E come fa a mantenerlo? Lo mantiene in virtù del segreto insito nelle lettere di questo Suo nome, che se anagrammate danno: Mi elI eh, cioè a dire: chi, che cosa sono queste cose? Col Suo attributo giudicante, l’attributo del Supremo Giudice, infallibile perché prima di emettere giudizi non solo si interroga, ma consulta l’attributo della misericordia, indispensabile per temperare i giudizi e dare durata a ogni creazione, Dio ha quindi proceduto per gradi dando tempo al tempo.
Come sarebbe: ha proceduto per gradi, e cosa significa: dando tempo al tempo? Significa che essendo il pensiero divino creazione, l’universo divenne realtà creata nel momento stesso in cui Dio pensò di crearlo. Siccome però gli elementi che lo compongono sono diversi e passibili di trovarsi in contrasto fra loro, Dio li mise in atto uno a uno, dopo essersi e averlo interrogato in modo da dare a ognuno il tempo di abituarsi all’altro e, prima ancora, di avvertirne il bisogno e perciò attenderlo come si attende un oggetto d’amore.
Dalle acque dell’abisso, che si aprirono per amor suo, il monte di Gerusalemme emerse per primo, ombelico che lega la terra al cielo, perché le creature impastate con la terra avrebbero avuto bisogno di sentirsi legate al cielo, per trame ispirazione. Quando poi campi e fiumi e mari e foreste avvertirono la necessità di una presenza umana che li governasse, in un crepuscolo fra giorno e notte che fu annuncio dorato dei crepuscoli di Gerusalemme, e con la migliore terra della sua vetta vennero plasmati Adamo ed Eva, il padre e la madre di tutte le creature, i primi sposi della storia del mondo.
«Lekhà dodì licrat callà» cantano gli ebrei nel crepuscolo del venerdì sera: «Vieni, mio diletto, incontro alla sposa». E sposa d’Israele è il Sabato, ultimo giorno della creazione, che andrebbe vissuto come un assaggio dell’era messianica. Vuole però la tradizione che questo canto vada, nell’intenzione, rivolto a Gerusalemme, perché sarà Gerusalemme ad annunciare questa èra quando sul suo monte si poserà la pace. Quando cioè potrà smettere le gramaglie e stringersi al cuore i figli che nell’intimo dei loro cuori si rifaranno a lei, e perciò saranno fra loro concordi pur essendo diversi come le lapidi che inanellano l’ombelico della sua vetta.
Il mistero di Gerusalemme, quel mistero che i suoi crepuscoli da sempre annunciano e che Gerusalemme ancora stenta a rivelare, è il vitale mistero delle preziose alchimie che si realizzano quando più comunità di esseri umani si integrano in umanità senza perciò rinunciare alle proprie specifiche valenze, e così facendo si elevano verso il cielo facendo scendere il cielo sulla terra. Ebbene lì, a mezz’aria, nel punto d’incontro che fa della vita d’ogni giorno un’esistenza tesa oltre la quotidianità, si libra la Gerusalemme d’oro. Ci voleva un poeta per afferrare con una sola mano questi due aspetti estremi della sua valenza. Jehudà Ammichai l’ha fatto ricordandoci:

Ci sono preghiere infisse nelle fessure del muro del pianto
bigliettini di carta ripiegati e l’uno all’altro appiccicati.
Un bigliettino solitario se ne sta invece infilato in una vecchia porta di ferro
seminascosta da un cespuglio di gelsomino:
«Non sono riuscita a venire,
spero che capirai».

Potrebbe averlo scritto la pace, cui l’attimo dell’incontro viene sempre impedito. Potrebbe averlo scritto l’amata del Cantico, che per le strade di Gerusalemme cerca e attende il suo amato, e che vuole a sua volta farsi cercare e attendere da lui. Potrebbe semplicemente averlo scritto una qualsiasi ragazza innamorata. Per sapere chi sia, non c’è che da attenderla così come chiunque sa veramente amare sa anche attendere ciò che più ama, e cioè spianando ogni possibile strada. La Gerusalemme d’oro vive nelle attese dell’anima.

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 20 janvier, 2015 |Pas de commentaires »

TORAH ORALE E LA CATENA DELLA RICEZIONE

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TORAH ORALE E LA CATENA DELLA RICEZIONE

“Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti, i profeti la trasmisero agli uomini della Grande Assemblea” (Avot I,1)

“La Scrittura cresce con chi legge” (Papa Gregorio Magno)

Gli Avot de-Rabbi Natan b1 commentano: “non dalla bocca di un angelo né dalla bocca di un serafino, ma dalla bocca del re dei re, il Santo, benedetto sia”. E sulla parola Torà, rabbi Jona spiega: “sia la Torà che è stata messa per iscritto, sia la Torà che è sulla bocca, perché la Torà è già stata data insieme alle sue interpretazioni”. Usando questa piccola frase, gli autori, numerosi e ignoti, dei Pirqè avot, hanno immediatamente messo in evidenza che la parola di Dio non è solo scrittura ma anche tradizione. Il tema dell’ascolto nella Bibbia rappresenta l’unico e sufficiente modo di essere in rapporto con Dio. Se non possiamo dire di “vedere Dio”, certamente possiamo dire di percepirlo. Quando io ascolto la lettura della Bibbia, mi ritrovo, in un certo senso, nella stessa situazione di Mosè presso il roveto ardente. Sento una voce che mi si presenta e che mi dice che cosa vuole da me. Questo è importantissimo: la Bibbia non è un libro che mi rivela delle verità, se non indirettamente. E’ un libro che mi dice quello che Dio vuole che io faccia. Come si fa, allora, a comprendere la volontà di Dio sperando di non travisarla? E’ possibile in quanto la ricerca si realizza solo in certi contesti e non in altri. La ricerca è quella che costituisce la tradizione, e la tradizione stessa diventa, in fin dei conti, Parola di Dio. Nell’ebraismo la Torà orale – che altro non è che la ricerca dentro la Torà scritta – è Parola di Dio. Si tratta, dunque, di un ascolto che deve inserirsi in quello già iniziato dalle generazioni precedenti. Al detto di Hillel: “Non separarti dalla comunità, non fidarti di te stesso fino al giorno della tua morte” si può accostare anche a quello che recita : “Lo studio solitario conduce alla perdizione”. Non significa che una persona studiando debba avere davanti gente e recitare ad alta voce, ma che è negativo lo studio che non tiene conto degli altri – soprattutto di chi è venuto prima- e che parte da un quaderno bianco. Ma come posso io, qui ed ora, entrare in rapporto vitale con le parole che Dio ha detto sul Sinai e che contengono la sua volontà al punto che essa “non è in cielo”, ossia non è più, se così si può dire, presso Dio, ma presso di noi? Qui entra il fondamentale principio della Torà orale: “Mosè ricevette la Torah dal Sinai e la trasmise a Giosuè, Giosuè agli anziani, gli anziani ai profeti, i profeti la trasmisero agli uomini della Grande Assemblea”. E’ questa la shalshélet ha-qabbalà, la catena di ricezione, che dal Sinai giunge, di maestro in discepolo, fino a me, e trasmette la Torà she-be-‘alpé, la Torà che è sulla bocca. Torà scritta e Torà orale sono due aspetti – non sue Torot – dell’unica rivelazione che, sì, proviene tutta dal Sinai, ma è sempre vivente, parla secondo i bisogni di ogni epoca e di ogni persona, e si sviluppa secondo un movimento dall’implicito all’esplicito. Non è detto che per noi l’importanza primaria sia quella del primo significato che noi scorgiamo nel testo biblico. L’importanza sta anche nei sensi che man mano la comunità e i maestri della comunità trovano. Si tratta dunque di una comunità “spaziale” e “temporale”. Emmanuel Levinas ricorre a un’immagine sovente citata: in Esodo 25,15 si parla della costruzione dell’arca santa del tabernacolo. C’è scritto che le stanghe non devono essere mai tolte. Levinas dà una spiegazione midrashica: “La Legge che porta l’arca è sempre pronta la movimento, non è legata a nessun punto dello spazio e del tempo, ma è trasportabile e pronta al trasporto”. Non per nulla Mosè si era
tanto sdegnato perché mentre stava sul monte il popolo aveva fatto il vitello d’oro, che nonera una divinità, ma un altro trono di Dio: questo vitello era un’immagine statica, non aveva anelli, non aveva le stanghe, era un simbolo che rappresentava staticità, bloccava la parola di Dio al deserto
(o meglio Canaan) Dunque, si dice che nella Torà si trova la parola di Dio. Che significa? Significa che non ci si può sempre trovare di fronte ad una risposta univoca. Di certo la risposta non può essere quella dei fondamentalisti, per i quali ogni parola- almeno del testo originale- è rivelazione immediata di Dio.Occorre cercare dietro gli angoli delle parole per trovare la parola di Dio. Leggere la Bibbia èproprio un “cercare”.

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 4 septembre, 2014 |Pas de commentaires »

LA FECONDITÀ DEL PARADOSSO – (EBRAISMO)

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LA FECONDITÀ DEL PARADOSSO – (EBRAISMO)

di Elena Lea Bartolini | settembre-ottobre 2009

Diceva Rabbi Mendel di Kotzk: «Tre cose convengono a un ebreo: una genuflessione in piedi, un grido silenzioso, una danza immobile». È una modalità tipicamente chassidica – da ricondursi quindi ad una famosa corrente mistica dell’ebraismo che dal 1750 ad oggi continua a trovare seguaci – che esprime con questa singolare affermazione una caratteristica fondamentale del modo di pensare semitico: il paradosso non è insensato, è non è neppure un pensiero estremo sebbene rimandi di fatto a due polarità fra loro contrapposte, in quanto per l’ebreo costituisce un criterio di intelligibilità secondo la logica della creazione. Nel libro della Genesi infatti si attesta che Dio crea separando realtà che tra loro si oppongono: luce e tenebra, terra e acqua, luci per il giorno e luci per la notte, e questo deve servire all’uomo per distinguere i giorni, le settimane, i mesi e le stagioni (cfr. Gen 1,1ss.). Tali contrapposizioni sono pertanto finalizzate alla comprensione: capisco cosa è la luce solo in rapporto alla tenebra, distinguo la terra asciutta solo in rapporto al mare e, paradossalmente, anche il bene in rapporto al male (cfr. Gen 3,1ss.). Per questo anche la tradizione rabbinica preferisce non utilizzare il principio aristotelico di «non contraddizione» ritenendo che il paradosso possa favorire meglio una sana dialettica sempre pronta a riaprire discussioni alla luce di nuove domande.
Ne risulta che, proprio in relazione all’uso della libertà la quale presuppone la convivenza nell’uomo di due istinti fra loro contrapposti, si arrivi ad affermazioni come quella del Baal Shem Tov, il fondatore del chassidismo, che precisa: «Il male è sede del bene. Non esiste il male assoluto», e sulla stessa linea Rabbi Mendel di Kotzk aggiunge: «In ogni cosa ci sono scintille divine. Anche nel peccato e nell’empietà». Sono tutte affermazioni che cercano di evitare qualsiasi pensiero dualista che riconduca il male a una sorta di «anti-Dio», preferendo invece la prospettiva biblica nell’orizzonte della quale il male appartiene a un mistero di sofferenza nel quale anche Dio stesso è coinvolto.
Non a caso la tradizione insegna che è necessario «benedire» sia nel bene che nel male, sia nella gioia che nel dolore, proprio perché tutto proviene dall’unico Signore della storia, e anche questo fa parte della logica del paradosso. Pertanto, come ricorda Rabbi Bunam di Peshischa: «Il vero peccato dell’uomo» non tanto compiere il male – che comunque è da condannare – ma consiste soprattutto nel fatto «che potrebbe tornare a Dio in qualsiasi momento e non lo fa»; inoltre, Rabbi Dov Ber di Mesritsch precisa che «la scintilla più santa si trova al livello più basso. Per questo si dice che i perfettamente giusti non possono arrivare là dove stanno coloro che si pentono».
Si tratta allora di dover per forza scegliere di compiere il male per poter sperimentare il bene? Assolutamente no. Si tratta semmai di imparare a scegliere il bene nella consapevolezza che la «perfezione assoluta» non è di questo mondo, che è possibile sbagliare, e che il peccatore non va condannato ma incoraggiato al pentimento, anche nel caso in cui fosse il nostro peggior nemico. In questo sta il vero amore che, se autentico, sa arrivare fino al paradosso. Ricorda al riguardo Rabbi Israel di Wiznitz: «Amo a tal punto il mio nemico, che anche lui sarà costretto ad amarmi». (I detti dei rabbi citati si trovano in: V. Malka, Così parlavano i chassidim, Paoline, Milano 1996).

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 24 juin, 2014 |Pas de commentaires »

RICERCA DI DIO (IL BAAL SHEM)

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RICERCA DI DIO (IL BAAL SHEM)

(da Wikipedia: Ba’al Shem Tov, Israel ben Eliezer in ebraico …, Yisroel ben Eliezer – meglio noto come Ba’al Shem Tov (Podolia, 1698 – Medžybiž, 1760) è stato un rabbino e mistico polaccomistico religioso. Noto anche con il nome di Besht (acronimo ebraico di Baal Shem Tov), per la sua reputazione di guaritore itinerante, fu il fondatore del movimento ebraico del Chassidismo[2] moderno: l’appellativo Baal Shem Tov significa infatti Maestro del nome di Dio.)

Dio vuole essere cercato, e come potrebbe non voler essere trovato?…l’uomo e il suo mondo sono la sfera di interesse di Dio, che la rivelazione di Dio precede e fonda la conoscenza che l’uomo può avere di Lui… «Dio vuole essere cercato, e come potrebbe non voler essere trovato? Il nipote di R. Baruch, il quale era a sua volta nipote del Baal Shem, giocava una volta a rimpiattino con un altro ragazzo. Egli si nascose e stette lungo tempo là ad attendere, credendo che il compagno lo cercasse e non riuscisse a trovarlo. Ma dopo che ebbe aspettato a lungo, uscì fuori, e non vedendo più quell’altro, capì che costui non l’aveva mai cercato. E corse nella camera del nonno, piangendo e gridando contro il cattivo compagno. Con le lacrime agli occhi R. Baruch disse: “Lo stesso dice anche Dio”». Dio vuole essere cercato, dice questa storiella chassidica. Oggi, altre storie e altre lacrime, sempre ebraiche, pongono in modo differente la questione della ricerca di Dio: sono le storie e le lacrime sgorgate da quell’abisso di male rappresentato da Auschwitz. Scrive Elie Wiesel: «Dio e Auschwitz non vanno insieme. Non accetto e reclamo, esigo una risposta… Dio nel male? In quale male? E Dio nella sofferenza? In quale sofferenza? lo non so. Non ho risposta. Cerco sempre». E accanto ad Auschwitz, prima e dopo, gli altri genocidi, gli altri sterminii, le sofferenze degli innocenti, di milioni di uomini ovunque nel mondo, pongono in modo tragicamente rinnovato la domanda «dov’è Dio?». Nel conflitto con il male che si gioca nella storia Dio sembra soccombere, e nettamente! E tutto questo non può non dare un orientamento particolare al modo di interrogarsi oggi sulla ricerca di Dio, su quel quaerere Deum che è sempre stato uno dei temi più significativi e importanti della spiritualità cristiana. Anzi, tutto questo arriva a porre in radicale questione i termini dell’argomento: quale ricerca? e di quale Dio?

La Scrittura attesta l’indiscutibile priorità della ricerca che Dio fa dell’uomo, afferma che l’uomo e il suo mondo sono la sfera di interesse di Dio, che la rivelazione di Dio precede e fonda la conoscenza che l’uomo può avere di Lui. Ovviamente non si tratta tanto di una priorità cronologica, perché il problema di Dio è inscritto nell’uomo stesso, nelle domande che egli porta su di sé e sul senso della propria vita e del mondo. Pertanto, domanda su Dio e domanda sull’uomo sono naturalmente unite. Le grandi tradizioni religiose hanno sempre affermato l’inscindibilità delle due questioni: non solo i tre monoteismi, ma anche la religione grecoromana, la cui linfa è stata assorbita dalle nostre radici di europei occidentali. L’uomo che si recava al tempio di Apollo a Delfi per consultare l’oracolo si vedeva rimandato a se stesso dall’iscrizione posta sul frontone del tempio: «Conosci te stesso». Riproporre oggi questa tematica implica il rendersi conto della drammaticità assunta da questa doppia domanda: alla figura del filosofo cinico Diogene che in pieno giorno si aggira per le strade di Atene con una lanterna gridando: «Cerco un uomo! », si sovrappone la figura del pazzo nietzschiano che, anch’egli in pieno giorno e munito di lanterna, grida sulla pubblica piazza: «Cerco Dio!», e rivela a chi lo deride che Dio è morto, è stato assassinato dall’uomo, e celebra il funesto evento entrando in una chiesa e intonando un Requiem aeternam Deo. E risponde a chi lo interroga: «Che altro sono ancora le chiese se non le tombe e i monumenti funebri di Dio?». Ma, osservava giustamente M. Foucault, «più che la morte di Dio, ciò che annuncia il pensiero di Nietszche è la morte del suo assassino, cioè dell’uomo». Nell’attuale clima culturale nichilista, di secolarizzazione della secolarizzazione, l’uomo contemporaneo «è non solo senza Dio, ma anche senza l’uomo» (C. Geffré). Egli si muove smarrito nell’assenza di certezze, respira un assurdo caratterizzato non tanto dal non-senso, quanto dall’isolamento degli innumerevoli sensi, dall’assenza di un senso che li orienti, dalla mancanza del senso del senso, come ricordava Lévinas. Sintomatico di questo smarrimento di sé tipico dell’uomo contemporaneo è il tanto conclamato «ritorno di Dio», visibile dietro ai fenomeni di ritorno del sacro, dietro al fiorire di sètte, movimenti sincretistici, aggregazioni varie, dietro al diffondersi di sensibilità e atteggiamenti spirituali in cui Dio è immediatamente trovato, più che cercato, in un divino impersonale, nella fusione con l’Oceano dell’Essere, nell’evasione verso il taumaturgico, nella preghiera ridotta a ingiunzione a Dio affinché soddisfi il bisogno umano. Tutto questo ci dice che oggi ricerca di Dio dev’essere anche ricerca e approfondimento dell’umano, ricerca di ciò che è veramente umano, capacità di ridestare l’umanità là dove è assopita. li Dio rivelato dalle Scritture ebraico-cristiane non ha infatti altri luoghi in cui essere cercato se non la storia e la carne umana, l’umanità. Storia e carne umana che sono anche i due ambiti abitati da Dio nell’incarnazione per andare incontro all’uomo, alla sua ricerca, e consentire così all’uomo di trovarlo. E non dimentichiamo che Dio non lo si possiede nemmeno quando lo si conosce: «Si comprehendis, non est Deus» scrive Agostino; cioè, «se pensi di averlo compreso, non è più Dio». La categoria della ricerca salvaguarda la distanza fra cercatore e Cercato: distanza essenziale perché il Cercato non è oggetto, ma è anch’egli soggetto, anzi è il vero soggetto, in quanto è colui che per primo ha cercato, chiamato, amato, suscitando così, come risposta alla sua iniziative, la ricerca e il desiderio dell’uomo. L’atteggiamento di ricerca implica l’atteggiamento fondamentale dell’umiltà, grazie alla quale soltanto può fondarsi il rapporto con l’altro. Cercare Dio significa deporre le presunzioni di autosufficienza, smettere di pensare di essere i detentori della verità, cessare di considerarsi superiori agli altri. Ricerca di Dio, allora, significa anche cercarlo nell’altro che abbiamo di fronte, confessarlo come non estraneo all’altro.

(L’autore) Enzo Bianchi, Le parole della spiritualità – autore: Enzo Bianchi

Publié dans:EBRAISMO, EBRAISMO - STUDI |on 12 février, 2014 |Pas de commentaires »

UN’ALLEANZA CHE RIMANE IRREVOCABILE – Rabbino David Rosen

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UN’ALLEANZA CHE RIMANE IRREVOCABILE

Intervento del Rabbino David Rosen al Sinodo per il Medio Oriente

Consigliere del Gran Rabbinato di Israele

CITTA’ DEL VATICANO, giovedì, 14 ottobre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo il testo dell’intervento pronunciato questo mercoledì pomeriggio all’Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi dal Rabbino David Rosen, consigliere del Gran Rabbinato di Israele, direttore del « Department for Interreligious Affairs of the American Jewish Committee and Heilbrunn Institute for International Interreligious Understanding ».

* * *

Oggi il rapporto tra la Chiesa cattolica e il popolo ebraico rappresenta una felice trasformazione per i nostri tempi- si può dire senza paralleli storici. Nelle sue parole nella grande sinagoga di Roma lo scorso mese di gennaio, Sua Santità Papa Benedetto XVI ha ricordato l’insegnamento del Concilio Ecumenico Vaticano II come “un punto fermo a cui riferirsi costantemente nell’atteggiamento e nei rapporti con il popolo ebraico, segnando una nuova e significativa tappa”. Naturalmente questa straordinaria trasformazione nel modo in cui il popolo ebraico viene considerato e presentato ha dovuto e deve ancora confrontarsi con l’influenza di secoli, se non di millenni di “insegnamento del disprezzo” nei confronti degli ebrei e dell’ebraismo, che ovviamente non può essere eliminato di punto in bianco e neppure dopo quarantacinque anni. Inevitabilmente l’impatto di questa trasformazione nei rapporti cattolico-ebraici varia considerevolmente da un contesto all’altro, a seconda dell’influenza di fattori sociologici, educativi e perfino politici. Si può dire che l’internazionalizzazione più drastica ha avuto luogo negli Stati Uniti d’America, dove ebrei e cristiani vivono in una società aperta fianco a fianco come minoranze vibranti, sicure di sé e civilmente impegnate. Di conseguenza qui i rapporti hanno raggiunto un livello unico, comprendendo cooperazione e scambi tra le comunità e le loro istituzioni educative; oggi gli Stati Uniti vantano letteralmente dozzine di istituzioni accademiche di studi e relazioni cattolico-ebraiche, mentre nel resto del mondo ne esistono forse tre. In effetti tra le comunità ebraiche degli Stati Uniti è diffusa la percezione della Chiesa cattolica come di una amica autentica con profondi valori e interessi comuni. È mio privilegio essere a capo della rappresentanza internazionale interreligiosa dell’American Jewish Committee (Comitato Ebreo Americano), che è stato e continua a essere la principale organizzazione ebraica per quanto riguarda questa importante e storica trasformazione. Tuttavia esistono molti paesi in cui questi fattori sociali e demografici non esistono. Nella maggior parte dei paesi in cui il cattolicesimo rappresenta la forza sociale dominante, le comunità ebraiche sono piccole, se non del tutto assenti, e i rapporti tra la Chiesa e l’ebraismo spesso sono trascurabili. Confesso di essere rimasto sorpreso di scoprire nel clero cattolico e talvolta anche nella gerarchia di alcuni paesi non solo ignoranza nei confronti dell’ebraismo contemporaneo, ma spesso perfino della Nostra Aetate, il documento del Concilio che ne è scaturito, e di conseguenza degli importanti insegnamenti del Magistero riguardo agli ebrei e all’ebraismo. Mentre, come abbiamo detto, l’esperienza ebraica negli Stati Uniti ha fatto molto per mitigare le impressioni negative del tragico passato, nel mondo ebraico esiste ancora una diffusa ignoranza del cristianesimo – soprattutto quando i contatti con i cristiani di oggi sono sporadici o inesistenti. Nell’unico sistema politico mondiale del mondo in cui gli ebrei sono la maggioranza, lo Stato di Israele, questo problema è ulteriormente aggravato dal contesto politico e sociologico. In Medio Oriente, come nella maggior parte del mondo, le comunità tendono a vivere nei propri ambienti linguistici, culturali e confessionali, e Israele non fa eccezione. Inoltre gli arabi cristiani in Israele sono una minoranza dentro una minoranza – circa 120.000 su una popolazione araba di quasi un milione e mezzo che per la maggior parte è musulmana e che rappresenta forse il venti per cento di tutta la popolazione di Israele ( intorno ai sette milioni e mezzo). È vero che gli israeliani arabi cristiani rappresentano una minoranza religiosa particolarmente affermata sotto molti aspetti. I loro standard socio economici ed educativi sono ben al di sopra della media – le loro scuole registrano i voti migliori agli esami di maturità annuali – molti di loro sono politici ad alto livello e sono stati in grado di attingere ai molti benefici del sistema democratico di cui sono parte integrante. Tuttavia la vita quotidiana della stragrande maggioranza di arabi ed ebrei si svolge in seno ai loro rispettivi contesti. Di conseguenza la maggior parte degli ebrei israeliani non incontrano i cristiani contemporanei; e perfino quando si recano all’estero tendono a considerarli non-ebrei come tali, non cristiani moderni. Di conseguenza fino a poco tempo fa la maggior parte della società israeliana non ha avuto alcun sentore dei profondi cambiamenti nei rapporti tra cattolici ed ebrei. Tuttavia questa situazione ha iniziato a cambiare significativamente nell’ultimo decennio per diversi motivi, di cui due particolarmente importanti. Il primo è rappresentato dall’impatto della visita del compianto Papa Giovanni Paolo II nell’anno 2000, a seguito dello stabilimento dei rapporti diplomatici bilaterali tra Israele e la Santa Sede di sei anni prima. Mentre quest’ultimo fatto era già stato percepito in Israele, è stato il potere delle immagini visive, il cui significato Papa Giovanni Paolo II comprendeva così bene, che ha rivelato chiaramente alla maggior parte della società israeliana la trasformazione che si era operata negli atteggiamenti e negli insegnamenti cristiani riguardo al popolo ebraico con il quale lo stesso Papa ha mantenuto e ha continuato a promuovere mutua amicizia e rispetto. Per Israele vedere il Papa al Muro del Pianto, frammento del Secondo Tempio, stare in piedi in segno di rispetto per la tradizione ebraica e porvi il testo che aveva composto per una liturgia del perdono che aveva avuto luogo due settimane prima qui, a San Pietro, in cui chiedeva il perdono divino per i peccati commessi contro gli ebrei nel corso dei secoli, è stato straordinario e commovente nel suo effetto. Gli ebrei di Israele hanno ancora molta strada da fare per superare un passato negativo, ma non c’è dubbio che da quella storica visita gli atteggiamenti sono cambiati. Essa inoltre ha portato all’importante nuovo cammino verso il dialogo, la comprensione e la collaborazione grazie alla commissione bilaterale del Gran Rabbinato di Israele e la Commissione della Santa Sede per i rapporti religiosi con l’Ebraismo, istituita per iniziativa di Giovanni Paolo II e ampiamente lodata da Papa Benedetto XVI nel corso del suo pellegrinaggio in Terra Santa lo scorso anno, come pure nelle sue parole alla sinagoga di Roma all’inizio di quest’anno. Un altro fattore importante è l’influsso di altri cristiani che hanno raddoppiato l’assetto demografico del cristianesimo in Israele. Mi riferisco innanzitutto ai circa cinquantamila cristiani praticanti che facevano parte del flusso migratorio dall’ex Unione Sovietica verso Israele negli ultimi due decenni. In quanto strettamente legati allo stesso tempo con la società ebraica a motivo di vincoli familiari e culturali, si può dire che essi rappresentino la prima minoranza cristiana che si considera allo stesso tempo parte di una maggioranza ebraica da quando si è formata la comunità cristiana degli albori. Questi cristiani, come le comunità arabo cristiane, sono cittadini israeliani che godono del pieno diritto di cittadinanza e di uguaglianza di fronte alla legge. Tuttavia esiste un terzo importante popolo cristiano in Israele, la cui permanenza legale è talvolta problematica. Si tratta delle molte migliaia di cristiani praticanti su circa un quarto di milione di lavoratori immigrati – dalle Filippine, dall’Europa dell’est, dall’America Latina e dall’Africa sub-Sahariana. La maggior parte di loro sono ospiti del paese legalmente e provvisoriamente. Tuttavia circa la metà di loro sono entrati, o risiedono illegalmente e la loro posizione è precaria dal punto di vista legale. Tuttavia la sostanziale presenza cristiana in mezzo a questa popolazione alimenta una vita religiosa piena di vitalità e rappresenta una significativa terza dimensione della realtà cristiana nell’Israele di oggi. Questi fattori hanno contribuito, fra gli altri, a una crescente familiarità in Israele con il cristianesimo odierno. Inoltre, mentre esistono circa duecento organizzazioni israeliane che promuovono la comprensione e la collaborazione arabo-ebraiche in generale, esistono anche letteralmente dozzine di organismi che promuovono incontri interreligiosi, dialogo e studi, e la presenza cristiana al loro interno è esorbitante e assai significativa. Ciò naturalmente è dovuto sostanzialmente alla presenza di istituzioni cristiane e ai loro presbiteri, alunni, rappresentanti internazionali delle chiese, e così via, che contribuiscono, in modo del tutto sproporzionato rispetto al loro numero, a questi sforzi, soprattutto nel campo dell’istruzione. Inoltre il fatto che nello Stato di Israele i cristiani, come i musulmani, rappresentino una minoranza che vuol essere accettata e compresa dalla maggioranza degli ebrei, è servito da stimolo per l’impegno interreligioso (contrariamente ad altri luoghi, dove spesso accade l’inverso). I cristiani in Israele si trovano naturalmente in una situazione molto diversa di quella delle loro comunità sorelle in Terra Santa, che fanno parte di una società palestinese che lotta per la propria indipendenza, e che vengono inevitabilmente coinvolte tutti i giorni nel conflitto Israelo-palestinese. In effetti l’ubicazione di alcune di queste comunità ai confini tra Israele e la giurisdizione palestinese fa sì che queste spesso debbano sopportare l’affronto delle misure di sicurezza che lo Stato ebraico si sente in obbligo di mantenere al fine di proteggere i propri cittadini dalla continua violenza dall’interno dei territori palestinesi. È giusto e opportuno che questi cristiani palestinesi esprimano il loro disagio e le loro speranze riguardo alla situazione. Tuttavia è rilevante e deplorevole che tali espressioni non siano sempre conformi con la lettera e lo spirito del Magistero riguardo ai rapporti con gli ebrei e l’ebraismo. Ciò sembra riflettersi in un contesto geografico più ampio, dove l’impatto del conflitto Arabo-Israeliano ha rappresentato troppo spesso un disagio per molti cristiani nei confronti della riscoperta da parte della Chiesa delle proprie radici cristiane e talvolta una preferenza per il pregiudizio storico. Tuttavia la difficile situazione dei Palestinesi in generale, e dei Cristiani Palestinesi in particolare, dovrebbe preoccupare profondamente gli Ebrei sia in Israele che nella Diaspora. Per incominciare, proprio l’ebraismo ha mostrato al mondo che ogni persona umana è creata a Immagine Divina; e che di conseguenza, come insegnano i saggi del Talmud, ogni atto irrispettoso nei confronti di un’altra persona è un atto irrispettoso nei confronti del Creatore stesso. Noi abbiamo una responsabilità particolare nei confronti del prossimo che soffre. E tale responsabilità è ancora più grande quando la sofferenza scaturisce da un conflitto cui partecipiamo e in cui, paradossalmente, abbiamo precisamente il dovere morale e religioso di proteggere e difendere noi stessi. Per me personalmente, in quanto Israeliano di Gerusalemme, la penosa situazione in Terra Santa e la sofferenza di tante persone da entrambe le parti dello spartiacque politico è causa di grande dolore, anche se mi rendo perfettamente conto del fatto che essa viene usata ed abusata per fomentare tensioni che vanno ben oltre il contesto geografico del conflitto stesso. Ringrazio Dio per il gran numero di organizzazioni che nella nostra società operano per alleviare quanta più sofferenza possibile in questo difficilissimo contesto. Sono orgoglioso di essere il fondatore di una di queste organizzazioni, “Rabbis for Human Rights” (Rabbini per i Diritti Umani), il cui direttore e i cui membri, proprio in veste di leali cittadini israeliani, continuano a lottare per difendere e promuovere la dignità umana di tutte le persone e in particolare dei più vulnerabili. Naturalmente, sono consapevole delle stragi sulle strade delle nostre città, nel passato recente, e delle persistenti minacce che, nel presente, vengono da coloro che sono apertamente impegnati nella distruzione e nello sterminio di Israele. Tuttavia, dobbiamo sforzarci di fare tutto il possibile per alleviare la durezza delle condizioni, specialmente per coloro che appartengono alle comunità cristiane di Gerusalemme e dintorni. Di fatto, negli ultimi mesi le condizioni sono notevolmente migliorate, per esempio per quel che riguarda la libera circolazione del clero; inoltre, recentemente, sembrano esserci segnali di una crescente comprensione dei bisogni delle comunità cristiane locali da parte delle autorità, malgrado le sfide poste dalla sicurezza. Noi siamo a favore di tutto ciò, nella convinzione che sia assolutamente nell’interesse di tutti. Dunque, la responsabilità ebraica di garantire la fioritura di comunità cristiane in mezzo a noi, in considerazione del fatto che la Terra Santa è la terra in cui nacque il Cristianesimo e dove si trovano i luoghi sacri, viene rafforzata dalla nostra rinnovata e crescente fraternità. Tuttavia, anche andando oltre il nostro particolare rapporto, i Cristiani presenti come minoranza in ambiente ebraico o mussulmano svolgono un ruolo molto speciale nel contesto delle nostre società. La situazione delle minoranze si riflette sempre profondamente sulle condizioni sociali e morali di una società nel suo insieme. Il benessere delle comunità cristiane in Medio Oriente non è altro che una specie di barometro delle condizioni morali dei nostri paesi. Il grado dei diritti civili e religiosi o delle libertà di cui godono i cristiani testimonia lo stato di salute o di malattia delle rispettive società mediorientali. Inoltre, come ho già detto, i Cristiani svolgono un ruolo assai importante nella promozione del dialogo e la collaborazione interreligiosi nel paese. Dunque, vorrei suggerire che proprio questa è la funzione dei Cristiani, ovvero contribuire al superamento del pregiudizio e del malinteso che affliggono la Terra Santa e che, naturalmente, sono sostenuti nel resto della regione. Sebbene non sia giusto aspettarsi che le piccole comunità cristiane locali siano in grado di sopportare da sole tale responsabilità, forse possiamo sperare che, se sostenute in questo dalla loro Chiesa universale e dall’autorità centrale, possano fungere da salutari operatori di pace nella città il cui nome significa pace e che tale significato ha mantenuto per le nostre comunità. La direzione cattolica locale ha già dato un segno di ciò istituendo in anni recenti il Consiglio degli Istituti Religiosi in Terra Santa, che riunisce il Gran Rabbinato di Israele, i tribunali della Sharia e il Ministero degli Affari Religiosi dell’Autorità Palestinese, nonché la direzione cristiana ufficiale in Terra Santa. Tale consiglio non solo facilita la comunicazione fra le diverse autorità religiose, ma è anche impegnato nella lotta ai malintesi, al fanatismo e alll’istigazione, cercando di essere un punto di forza per la riconciliazione e la pace, in modo che due nazioni e tre religioni possano convivere nella stessa terra con dignità, libertà e tranquillità assolute. L’Instrumentum Laboris di questo sinodo speciale per il Medio Oriente cita Papa Benedetto XVI nella sua intervista all’Osservatore Romano, mentre si recava in Terra Santa; dice: “è importante, da una parte avere i dialoghi bilaterali – con gli ebrei e con l’Islam – e poi anche il dialogo trilaterale” (96). Proprio quest’anno, per la prima volta il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso e la Pontificia Commissione per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo ha ospitato insieme al Comitato Ebraico Internazionale per le Consultazioni Interreligiose (IJCIC) e la Fondazione Le Tre Culture, a Siviglia, in Spagna, il nostro primo dialogo trilaterale. È stata per me una gioia particolare, poiché la proposta di ciò venne avanzata quando ero presidente del IJCIC e spero vivamente che sia solo l’inizio di un dialogo trilaterale più esteso, che possa vincere il sospetto, il pregiudizio e i malintesi, in modo che possiamo mettere in luce i valori condivisi dalla famiglia di Abramo per il bene di tutta l’umanità. Mi sembra che la suddetta commissione bilaterale con il Rabbinato di Israele ed il consiglio degli Istituti Religiosi in Terra Santa costituisca in questo senso un’opportunità e una sfida ancor più grandi. L’Instrumentum Laboris ci permette di comprendere meglio la natura dei rapporti dei Cristiani sia con gli Ebrei sia con i Mussulmani. Cita infatti le parole di Papa Benedetto XVI a Colonia, nell’agosto del 2005, quando descrisse le relazioni con l’Islam: “… una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro” (95). In Medio Oriente ciò si può toccare con mano. A seconda che il concetto di dar el Islam sia inteso soltanto in un contesto geografico/culturale o piuttosto teologico, la domanda fondamentale per il futuro delle nostre comunità è se i fratelli mussulmani saranno capaci di considerare la presenza dei cristiani e degli ebrei come parte integrante e pienamente legittimata della regione nel suo insieme. La necessità di affrontare questo problema è veramente “una necessità vitale… da cui… dipende il nostro futuro”. Ciò si ricollega precisamente alla questione che è alla radice del conflitto arabo-israeliano. Coloro che rivendicano l’ “occupazione” come“causa originaria” del conflitto non sono sinceri, nel migliore dei casi. Questo conflitto è in atto da decenni, da molto prima della Guerra dei Sei Giorni del 1967, il cui esito portò Gaza e Cisgiordania sotto il controllo israeliano. L’”occupazione” è infatti una conseguenza del conflitto, la cui “causa originaria” è in realtà se il mondo arabo possa o meno tollerare un sistema di governo sovrano non arabo al suo interno. Tuttavia l’Instrumentum Laboris nel commento alla Dei Verbum descrive il dialogo della Chiesa “con i suoi fratelli maggiori” non solo necessario, ma “essenziale” (87). Proprio durante la visita alla grande sinagoga di questa città, quest’anno il Papa Benedetto XVI ha citato il Catechismo della Chiesa Cattolica (839) “E’ scrutando il suo stesso mistero che la Chiesa, Popolo di Dio della Nuova Alleanza, scopre il proprio profondo legame con gli Ebrei, scelti dal Signore primi fra tutti ad accogliere la sua parola”; aggiunge in seguito: “la fede ebraica è già risposta alla rivelazione di Dio”. Queste parole fanno eco a quelle del suo predecessore, Giovanni Paolo II, che nella sua storica visita alla stesso luogo di adorazione degli ebrei, in questa città nel 1986, dichiarò che la “religione ebraica non è estrinseca, ma in certo qual modo è intrinseca alla nostra religione. Con l’Ebraismo dunque abbiamo un rapporto che non abbiamo con nessun’altra religione”. Inoltre, nell’Esortazione apostolica del 28 giugno 2003, il pontefice descrisse “…il dialogo con l’ebraismo” come “di fondamentale importanza per l’autocoscienza cristiana”, in linea con l’appello del sinodo a “riconoscere le comuni radici che intercorrono tra il cristianesimo e il popolo ebraico, chiamato da Dio a un’alleanza che rimane irrevocabile”. Come ho detto, le realtà politiche in Medio Oriente non sempre facilitano il riconoscere, da parte dei cristiani, e ancor meno a far proprie, queste esortazioni. Tuttavia, prego che il miracolo di ciò cui Giovanni Paolo II si è riferito come “la fioritura di una nuova primavera nei reciproci rapporti” diventi sempre più evidente in Medio Oriente e nel mondo intero. A questo scopo, dedichiamoci sempre più devotamente, attraverso la preghiera e le opere, alla pace e alla dignità per tutti. Preghiamo con le parole di Papa Giovanni Paolo II presso il muro occidentale di Gerusalemme, con cui il pontefice Benedetto XVI ha concluso la presentazione nella grande sinagoga di Roma.“Manda la tua pace in Terra Santa, nel Medio Oriente, in tutta la famiglia umana; muovi i cuori di quanti invocano il tuo nome, perché percorrano umilmente il cammino della giustizia e della compassione”.

Permettemi, come colui che viene a voi dalla città santa e prediletta da noi tutti, di concludere con le parole del salmista: “Ti benedica il Signore da Zion e pssa tu vedere il bene di Gerusalemme tutti i giorni della tua vita!” (Salmo 128:5)

 

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